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Lisbona. Qualche appunto sconclusionato

Maria Lisboa
Fa la pescivendola, usa scarpe basse,
si muove come se un po’ brilla.
Nel cesto, la caravella;
nel cuore, la fregata.

Al posto dei corvi, sullo scialle
si posano gabbiani.
Quando il vento la porta al ballo,
danza al ballo con il mare.

È di conchiglie il vestito;
sono alghe i capelli;
e nelle vene, come un rimorso,
il rombo del motore di un peschereccio.

Vende sogni e mareggiate,
preannuncia tempeste.
Il suo nome, Maria.
Il cognome, Lisboa.
David Mourão-Ferreira
La prima qualità che colpisce – diretto, agli occhi – il visitatore, è la luce del sole, bianchissima, che in pieno giorno si riflette a meridione sulla foce del Tago. Cammini per il Chiado, rivolgi lo sguardo al fiume (che è come un preannuncio di mare) e la luce ti inonda, motteggiando un miracolo; annulla i colori degli azulejos in un’istantanea chiarissima, sovraesposta. Non si tratta di un nitore toscano, di quelli che rendono più chiari i colori, più razionali gli spazi; si tratta di un lucore atlantico che abbaglia, confonde la vista. Perché Lisbona non è già più una città mediterranea. È una città limite, appesa all’estremo del vecchio continente, con un piede sull’ultimo sperone di roccia lusitano, e l’altro già immerso nell’oceano.
Si sarebbe portati quasi a crederci, al mito che la vuole fondata da Ulisse durante le sue errabonde navigazioni mediterranee; da Ulyssippo a Lisbona, l’etimo è breve. Mi immagino l’Ulisse dantesco approdare al sicuro, nel golfo protetto dalle acque grigio-verdi del Tago: giusto il tempo di fondare un’estrema città, prima di lanciarsi nella folle traversata della virtute e dell’ubrica canoscenza.
Alla periferia della vita europea, schiacciata dal regno di Castiglia per terra, e da quello d’Aragona per mare, Lisbona ha logicamente cercato uno sbocco nell’ignoto. Fino alla fine del medioevo è stata una città scalo, una tappa di collegamento tra i commerci baltici e quelli mediterranei. È chiaro dunque come, a fronte di una geografia estrema e isolante, per crescere e slegarsi dalla dipendenza di altre città, Lisbona abbia dovuto trovare nuove rotte, uscire da se stessa, dalla casa rassicurante del Mediterraneo. La caravella, strumento principe di questa sfida, è frutto del genio portoghese; e non stupisce trovare tra i signori leggendari di questo paese un Enrico soprannominato “il navigatore” (1394-1460).
C’è un racconto di Saramago che meglio di un intero saggio storico definisce questo spirito di sfida, questo sbilanciamento verso il non-conosciuto costitutivo della nazione portoghese. Semplice e profondo come le parabole del vangelo, O conto da ilha desconocida (1997) incarna, in un uomo senza nome, la storia di un intero popolo.

E tu perché vuoi una barca, si può sapere, fu ciò che di fatto chiese il re (…), Per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta, rispose l’uomo, Che isola sconosciuta, chiese il re, camuffando il riso, come se avesse davanti a sé un pazzo fatto e finito, di quelli che hanno la mania delle navigazioni (…) L’isola sconosciuta, ripeté l’uomo, Frottole, non esistono più isole sconosciute, Chi ti ha detto, re, che non esistono più isole sconosciute, Sono tutte nelle mappe, Sulle mappe ci sono solo quelle conosciute, E che isola sconosciuta è questa che vuoi andare a cercare, Se te lo potessi dire, allora non sarebbe sconosciuta, Hai sentito qualcuno parlare di questa isola, chiese il re, adesso più serio, Nessuno, In questo caso, perché continui a dire che esiste, Semplicemente perché è impossibile che non esista un’isola sconosciuta.

Dall’altura del Castello di São Jorge, al tramonto, la città prende una forma più chiara. Si distinguono meglio aree e discontinuità: subito sotto al castello si stende il reticolo razionalista della Baixa, ascisse e ordinate che caratterizzano il vecchio cuore commerciale della città, il quartiere dei tristi contabili di Pessoa, oggi sciupato dal turismo. A Occidente, quasi alla stessa altezza del castello, si intravedono le strade eleganti del Chiado, gli edifici parigini rivestiti dall’azzurro-bianco degli azulejos, i negozi e il passeggio; più oltre il Bairro Alto, con le case umili e basse, meta di studenti sfaccendati, quartiere notturno.
Poco lontano dal Tago, a Oriente, il disordinato affastellarsi dell’Alfama, il quartiere popolare un tempo arabo, l’unico sopravvissuto autentico del terremoto del 1755. In basso, le forme tozze della Cattedrale Sé, i tram gialli scalatori con la lingua fuori dalla fatica; attorno un groviglio di strade nostalgiche e sporche, risuonanti fado a buon mercato che via via s’ingentiliscono, inerpicandosi sul monte, fino a lasciare spazio ai magnifici miradouros della Graça, la zona più bella della città.

Lisbona come città estrema, dunque; quasi condannata al viaggio, all’esplorazione, al pionierismo. Mi chiedo quanto abbiano influito questi caratteri nella definizione del sentimento nazionale, scolpito dai versi di Pessoa, di Camões, dalle melodie struggenti e dolorose del fado e dalla voce potente di Amalia Rodrigues. Sentimento riassunto nella parola saudade: il rimorso per la terra lasciata alle spalle, il sentimento gravoso dell’addio, sia per chi va, sia per chi resta. La sospensione dell’esistenza nel viaggio, nell’attesa del ritorno.
Il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona è conosciuto al grande pubblico soprattutto per ospitare un capolavoro ipnotico dell’arte occidentale, ovvero il trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio di Hieronymus Bosch (1501). Si tratta un sabba inquietante, esseri mostruosi tipici della pittura dell’olandese, tanto più fantasiosa quanto più realistica, che già Foucault aveva assurto a esempio della mentalità tardo medievale, secondo la quale tutto è immagine di tutto: la natura è uno specchio infinito di simpatie e similitudini, nella quale le cose non hanno ancora parole definite per isolarle dal resto, e l’analogia ripetuta permette che “tutte le figure del mondo possano essere accostate”. Ed è così che oggetti diversi, che gli animali più disparati si aggrumano in forme impossibili – eppure possibili, poiché tratte dalla realtà. Una realtà disordinata ma non insensata, e per questo ancora più disturbante. Qui vediamo un uccello con gambe umane pattinare su un laghetto ghiacciato; là una fragola gigante si fa tenda per contenere mostri di ossa che suonano la lira; in cielo, una caravella volante è, a ben vedere, fusa nel corpo di un mostro pisciforme.
Jeroen_Bosch_(ca._1450-1516)_-_De_verzoeking_van_de_heilige_Antonius_(ca.1500)_-_Lissabon_Museu_Nacional_de_Arte_Antiga_19-10-2010_16-21-31
Ma c’è un’altra sala, meno conosciuta ma altrettanto interessante, che ospita esempi unici di una corrente artistica giapponese chiamata Nanban.
A metà del 1500 gli esploratori e i mercanti portoghesi, ripetendo a livello mondiale lo schema che era già stato collaudato da veneziani e genovesi per il Mediterraneo, fatto di basi commerciali e rapporti coloniali, si erano estesi in territori che andavano dal Brasile all’India, dall’Angola a Timor Est. Era l’impero portoghese.
Nel 1543 (annus mirabilis), per la prima volta, gli occidentali mettono piede in Giappone. Vengono chiamati Nanban, ovvero “i barbari del Sud”, venuti per commerci e per diffondere il verbo cristiano (non li sopporteranno per molto: un secolo dopo, i giapponesi opteranno per un isolamento totale, alla facciazza dei gesuiti). La vista di questi uomini bizzarri, delle loro barche, dei loro vestiti, del loro modo di parlare e comportarsi, ha influenzato gli artisti giapponesi, tanto quanto la vista della loro arte influenzerà la nostra pittura nel 1800.
Vedere i byōbu nanban conservati nel Museu Nacional è un esercizio di relativismo culturale inappagabile: la chiarezza narrativa di quelle immagini è spiazzante. In questi magnifici paraventi decorati, il tipo occidentale è visto attraverso gli occhi orientali: le teorie di Said vengono confermate, a contrario, dalle immagini delle caravelle portoghesi, panciute e gremite di equipaggio scimmiesco appeso al sartiame – eppure adornate di bandiere di stile palesemente orientale; dai ritratti dei mercanti portoghesi, baffuti e sicuri di sé nei loro pantaloni enormi, coi loro cani al guinzaglio, scortati dai servi neri porta-ombrello – eppure anch’essi insigniti di inequivocabili occhi a mandorla.
NanbanCarrack
Namban-08
Eccoli passeggiare per le strade di una città giapponese senza nome, recanti merci mai viste, scimmie, libri, armi da fuoco, tabacco, Cristo – i ritratti dei preti, in particolare, sono curiosissimi: figure nere in disparte, leggermente inquietanti – e già si possono vedere la madre e il figlio giapponesi, fermi sulla soglia di casa, scambiarsi uno sguardo d’intesa, tra il divertito e l’imbarazzato.
Si arriva a Cabo da Roca prendendo un autobus da Cascais. Ad ogni curva si riapre all’orizzonte l’oceano, come se il continente avesse deciso di finire all’improvviso, per tacito accordo, arrestandosi lungo una linea di trincea a strapiombo contro l’acqua. C’è un vento costante che non lascia crescere nulla, se non rossastre piante grasse; un vento che rintrona nelle orecchie e, in basso, gonfia schiuma contro scogli colossali. L’oceano, dall’alto, sembra respirare lentissimo; permea l’aria di un brontolio ininterrotto. Non un animale, non una speranza di vita tra queste scogliere. Cabo da Roca è il punto più occidentale del continente europeo.

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