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Perché “Un Uomo” della Fallaci è ancora attuale

«Ascoltami, cacasentenze! Chi non ha coglioni si rifugia sempre sotto l’ombrello dei motivi ideologici! Chi non ha fede si nasconde sempre dietro il paravento del raziocinio!»

(O. Fallaci, Un uomo)

Parole che appartengono ad Alexandros Panagulis, protagonista del romanzo di Oriana Fallaci, urlate di rimando all’ennesimo rifiuto, all’ennesimo diniego di fronte alla richiesta che caratterizzò la sua intera esistenza: l’azione. Capacità critica e azione. Azione, soprattutto, portata avanti in prima persona, iniziata con il mancato attentato a Georgios Papadopulos, il 13 agosto 1968, e terminata il Primo maggio 1976, quando la Primavera, soprannome della sua verde automobile, andò a schiantarsi contro il garage Texaco a causa di più tamponamenti provocati da altre due auto – incidente tutt’oggi dichiarato misterioso solamente dalle perizie greche.

Due attentati, dunque, a segnare quella che per molti, se non tutti, viene considerata una vita da eroe, rivoluzionario, anarchico sottomesso dagli eventi e dall’indifferenza, ma mai vinto o piegato alla rassegnazione. La prima parte del libro si snoda tra il filo troppo corto delle due bombe destinate al tiranno, alla cattura e all’interrogatorio portato avanti dall’Esa, la Sezione Investigativa Speciale della polizia militare, durante il quale Alekos fu sottoposto a infinite torture, fisiche e psicologiche, al fine di farlo confessare – ma dovettero cedere loro, non parlò mai – sino alla sua carcerazione, durata cinque anni, di cui gli ultimi tre in una cripta, una cella sotterranea con tanto di cipresso all’uscio, costruita conseguentemente ai suoi numerosi tentativi di evasione.

In questa prima parte la scrittura magistrale ed estremamente minuziosa della Fallaci assorbe il lettore, identifica gli ideali del pubblico con la lotta di Panagulis, con il costante bisogno di difendere la Libertà e di ricostituire la Democrazia nella Grecia degli ultimi anni Sessanta. Una lotta, in realtà, universale, trascendente i secoli e le nazionalità, che inizia con la prima famosa testimonianza di Socrate – sicuramente però non la più antica – una necessità radicata nell’uomo, quella libertà tanto cercata nelle poesie.

 

 

Dalla seconda parte del romanzo, la narrazione della straordinarietà del protagonista viene affiancata dalla sua umanità e quotidianità: è il momento dell’incontro tra Alexandros e Oriana, tra le loro passioni, tra due solitudini che, incontrandosi, si riconoscono. La Fallaci, inviata ad Atene per intervistarlo, entra nella vita di Panagulis nel 1973 e sino alla sua morte gli resterà a fianco:

«Io non voglio una donna con cui essere felice. Il mondo è pieno di donne con cui si può essere felici […] voglio una compagna. Una compagna che mi sia compagno, amico, complice, fratello. Sono un uomo in lotta. Lo sarò sempre».

L’ordinarietà dell’uomo, compagno di vita di Oriana, si fa largo tra le righe delle pagine, e ora di Alekos vengono narrate le avventure istrioniche, le sue violenze e i suoi eccessi, i sogni premonitori – sempre disseminati da pesci, simbolo di malaugurio –  e le sue passioni soprattutto, tra cui quella irrefrenabile per la tecnologia, allora rappresentata principalmente dal telefono, mezzo con il quale si teneva in contatto con il mondo. Dolcissima è la descrizione di lui che, insistentemente, le chiede quando andrà a fare l’inviata in Giappone, solo per poterla chiamare: là, purtroppo, non conosce ancora nessuno.

Le bizze da poeta, dunque, vengono descritte. Poeta e non eroe, così la Fallaci lo ricorderà sempre nelle numerose interviste che le fecero dopo la morte di lui, dichiarando che il suo eroismo era solo una diretta conseguenza del suo essere poeta.

Panagulis non era un agitatore di folle. Possedeva sì una tenace determinazione, ma di fronte alle distese di persone che incontrò durante i suoi comizi per la campagna elettorale, che lo vide poi entrare a pelo in Parlamento, fu introverso e poco incisivo. La sua natura era quella di un poeta ribelle,

 un individuo senza seguaci: non trascina le masse in piazza, però le prepara. Anche se non combina nulla di immediato e di pratico, egli muove le acque dello stagno che tace. […] Perfino una frase interrotta, un’impresa fallita, diventa un seme destinato a fiorire.

L’obiettivo di Un uomo è il proseguimento di questo scopo: lo smuovere delle acque, azione resa immortale dalla letteratura, resa indelebile come solo un’opera letteraria può fare. Per questo le critiche portate avanti dalla madre di Panagulis sul romanzo non furono e non sono accettabili; alla Fallaci non interessò mai creare una biografia, si limitò a riportare tramite inchiostro l’incisività di un uomo che dedicò la sua vita alla democrazia. Alekos si mosse per noi, Oriana scrisse per noi. Nel tentativo di poter smuovere negli anni a venire le coscienze dei più, in modo tale che, se la natura non ci concede le forze per poterci ribellare, almeno ci servano le sue parole a emergere dall’indifferenza.

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Francesca Gabbiadini

Nata in valle bergamasca nell’inverno del 1989, sin da piccola mi piace frugare nei cassetti. Laureata presso la Facoltà di Lettere della Statale di Milano, capisco dopo numerosi tentavi professionali, tra i quali spicca per importanza l’esperienza all’Ufficio Stampa della Longanesi, come la mia curiosità si traduca in scrittura giornalistica, strada che mi consente di comprendere il mondo, sviscerarlo attraverso indagini e ricomporlo tramite articolo all’insegna di un giornalismo pulito, libero e dedito alla verità come ai suoi lettori. Così nasce l’indipendente Pequod, il 21 maggio del 2013, e da allora non ho altra vita sociale. Nella rivista, oltre ad essere fondatrice e direttrice, mi occupo di inchieste, reportage di viaggio e fotoreportage, contribuendo inoltre alla sezione Internazionale. Dopo una tesi in giornalismo sulla Romania di Ceauşescu, continuo a non poter distogliere lo sguardo da questo Paese e dal suo ignorato popolo latino.

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