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Intervista al Movimento per la decrescita felice, la critica al sistema economico tra Pil, coriandoli e Arlecchino

Coriandoli, maschere e carri: Carnevale sta arrivando! La dissolutezza, padrona vera della festa, potrà agire incontrastata, sovvertendo ordini sociali e rapporti di supremazia. Tutto viene capovolto, destabilizzato attraverso un’orgia di colore, perché questa festa è così; nasce per sovvertire e sublimare, centrifuga i ruoli e mischia le carte tra chi è servo e chi è servitore. Ne è un esempio la storia della celebre maschera orobica di Arlecchino, che con il suo comportamento furbesco e truffaldino prova a farsi beffe del padrone per il quale lavora, arrivando talvolta ad umiliarlo. È il caso del padrone diventato cieco, deriso a sua insaputa e vessato da “servili” fendenti di bastone utili a condurlo come una bestia da soma.

Soffermandoci su questa maschera, importante protagonista della Commedia dell’arte italiana dal XVI secolo, non possiamo fare altro che annotare il suo ruolo di sberleffo colorato della società borghese, classe sociale dominante di allora.

 

Come Arlecchino ieri, oggi un’associazione, il Movimento per la decrescita felice, si diverte a smontare e sovvertire il pensiero dominante contemporaneo, discostandosi dalla logica del successo misurato con il PIL; anzi, ritenendo che ad ogni aumento del PIL si possa riscontrare una proporzionale diminuzione della qualità della vita. Qualità, questa, ritrovata e valorizzata con il ritorno alla campagna. Come? Insegnando ai giovani le tecniche di recupero delle pratiche tradizionali, adoperate dai nonni nelle campagne d’Italia e oggi utili per affrontare la crisi economica e l’oscura emergenza ecologica planetaria. E qui troviamo l’ennesima similitudine con Arlecchino, o meglio, con il suo avo medioevale, Hellequin, personaggio proveniente dalle fredde e cupe lande nordiche (la trasposizione contemporanea, vien da sé, va alle sconfinate aree urbanizzate), e successivamente migrato verso latitudini meridionali, dove si sarebbe sovrapposto ai riti di estrazione agricola legati al culto della fecondità vegetale.

 

Ma ora proviamo a capire quali sono gli obbiettivi, il pensiero e gli strumenti del Movimento per la decrescita felice; ne parliamo con Jean-Louis Aillon, presidente dell’associazione.

Buongiorno presidente.

Buongiorno Mirko. Siamo coetanei, perciò diamoci del tu, ti va?

Certo! Allora, anzitutto parlami della visione del Movimento per la decrescita felice.

L’associazione si fonda su un pensiero che è anche una filosofia di vita, un progetto non solo sociale ma anche politico, spirituale, che si sviluppa attorno a un concetto: “si vive meglio consumando meno”. Attraverso un percorso di decrescita, o meglio, di rinuncia alla fede cieca della crescita come unico scenario percorribile dall’umanità.

Quali sono le azioni concrete per attuare tale rivoluzione culturale?

Sono azioni quotidiane connesse tra loro: sicuramente lo sviluppo della tecnologia non fine a se stesso, ma funzionale all’aumento dell’efficienza energetica; successivamente un progetto politico pronto a cogliere il cambiamento, dove per “progetto politico” s’intende non di un sistema partitico, ma di una gestione attenta della polis, sganciata dalla logica del profitto a tutti i costi. L’economia deve tornare uno strumento dell’uomo e non viceversa.

Una politica fatta di gesti quotidiani: in che senso?

Una gestione della polis che provi a diffondere un diverso paradigma culturale. Facciamo qualche esempio: per noi bere l’acqua in borraccia è un gesto politico, fare un orto in città è un gesto politico, andare in bicicletta è un gesto politico… insomma, comunicare alla gente che c’è un modo più credibile e più sostenibile per vivere.

E il legislatore?

Se ci sarà qualcuno in grado di fare delle leggi in questa direzione, ben venga. Noi vogliamo assumere il ruolo di ispiratori, ci piacerebbe che qualcuno, all’interno dello scacchiere politico, cogliesse il nostro input culturale. Perché oggigiorno è chiaro che sia la destra che la sinistra non si discostano dalla ricetta della crescita, dalla stessa errata visione: c’è bisogno di introdurre nuove idee, nuovi valori in politica.

Jean-Louis, svaghiamoci un po’, andiamo al cinema o a teatro…

A questo proposito, bisogna dire che c’è tutta una produzione cinematografica che è funzionale al mantenimento del sistema predominante di valori.

Cioè?

Parlo del mainstream, della grande produzione hollywoodiana di massa. I valori vincenti e predominanti restano sempre il successo, il lavoro, un costante atteggiamento di dominio verso la natura, l’edonismo del consumo. A noi piacerebbe decolonizzare l’immaginario, proponendo una visione diversa, dove colui che risparmia non sia visto come un taccagno ma come una persona sobria, portatrice di un modello positivo, utile al benessere di tutti. Dove vivere senza sprechi possa essere una condotta vincente. L’arte è importante perché, se ben orientata, può incanalare messaggi e valori che potrebbero stravolgere questo mondo arrivando con immediatezza all’emotività delle persone.

 

Mi segnali qualche esempio di produzione “virtuosa”, fuori dagli schemi consolidati?

Penso a uno spettacolo teatrale molto bello proposto dalla compagnia Papalagi, composta da operatori e pazienti psichiatrici, organizzato dall’Usl di Lucca. È uno spettacolo incentrato sui racconti di un capo-comunità delle iole Samoa che fa ritorno alla sua tribù, che riporta tutto quello che l’Europa gli ha lasciato come viaggiatore, come testimone distaccato del nostro mondo.

Insomma, un’arte portatrice di valori condivisi nuovi o semplicemente rivisitati, come l’importanza dell’agricoltura e l’impegno dei giovani.

Sì, infatti il primo passo verso il cambiamento è l’evoluzione dell’immaginario collettivo, che in passato ha reso poco appetibile il contesto agricolo, il lavoro in campagna. Una mia amica insegnate raccontava che a Salerno un bambino veniva segnalato come “anomalo”, “problematico” perché riferiva di amare la terra. Non è necessario che facciamo tutti i contadini, chi non vuole potrà continuare a fare altro, ma la rivoluzione culturale dovrà portare a vedere il contadino come un mestiere nobile e ad arricchirlo con una formazione universitaria in grado di porre questa attività come un tassello per un futuro diverso.

Dunque il ritorno alla campagna può rappresentare un palliativo alla disoccupazione giovanile?

Sì, assolutamente. Se fatto con la testa, attraverso un percorso accademico professionalizzante, in realtà associative utili allo sviluppo della biodiversità e dell’eccellenza del territorio, secondo i metodi della permacultura.

Parlando di ritorno all’agricoltura, un cenno al  vegetarianesimo è d’obbligo…

Noi del movimento abbiamo un approccio assolutamente libero, rimane però la consapevolezza che sia la scelta più sostenibile. Lo dice un carnivoro che però si impegna a limitare fortemente il proprio consumo di carne.

E poi ci sarebbe il tema Expo, la neocolonizzazione chiamata eco-sostenibilità, la questione dei Paesi emergenti… Insomma, c’è materiale per scrivere un altro pezzo sulla rivoluzione del Carnevale, o forse su una vera e propria rivoluzione culturale, se è vero che oggigiorno la cultura dominante può essere ben sintetizzata da una massima del filosofo polacco Zygmunt Bauman: «Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo».

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Mirko Pizzocri

Ho 32 anni e arrivo dall’estrema provincia di Milano, insomma dalla campagna alla city, per necessità, lavoro e studio, ma forse un pochino anche per piacere. Sono laureato in Giurisprudenza, e manco a dirlo da grande vorrei fare l’avvocato. Intanto mi diletto e diverto tra sport praticati, lettura e viaggi. Ultimamente, frequentando la ciurma di Pequod, ho anche preso gusto a scrivere...

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