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Kunta Kinte l’eroe della multiculturalità

Fin dai suoi esordi, nel 1976, Roots, Radici, l’opera in cui l’afroamericano Alex Haley ha trasposto la storia di un ramo del proprio albero genealogico, ha riscosso un indiscutibile successo di pubblico.

Cadeva il bicentenario degli Stati Uniti d’America e il presidente Gerald Ford riconosceva l’estensione della negro history week a black history month, dedicando così il mese di Febbraio alla memoria della diaspora africana, ma soprattutto inserendo nelle scuole con studenti a maggioranza afroamericana lo studio della storia africana. Qualche mese dopo, successore di Ford era eletto Jimmy Carter, primo governatore originario del sud dopo la Guerra Civile, poi Nobel per la Pace (2002).

Edito da Doubleday nell’Agosto 1976 con il titolo Roots, A Saga of an American Family, l’opera di Haley è diventata best seller in America nel giro di pochi mesi, rimasta in testa alle classifiche per anni e tradotta in più di quaranta lingue, procurando al suo autore un premio Pulitzer nel 1977. Nello stesso anno della premiazione, la ABC acquista i diritti dell’opera per realizzare una miniserie in otto puntate, che ha anch’essa successo straordinario in tutto il mondo, cui farà seguito due soli anni dopo, nel 1979, il sequel Radici, le nuove generazioni, ideato da Marlon Brando. Quest’anno, in occasione del quarantesimo anniversario dall’uscita del libro, la History Channel ha trasmesso un remake in chiave realistica della miniserie del 1977. La risposta del pubblico è stata ancora una volta straordinariamente positiva; ma cosa rende così coinvolgente la storia di questa famiglia?

Significativo è il sottotitolo dell’opera: Haley narra infatti la saga di una famiglia americana, appartenente quindi in primis agli Stati Uniti d’America, un paese di formazione nuova e multietnica. Scorrendo l’albero genealogico dell’autore, partendo dal basso si pronunciano del resto suoni in tutto e per tutto propri della cultura americana: dai genitori Bertha e Simon Haley, ai nonni Cynthia e Will Palmer, ai bisnonni Irene e Tom Murray, fino ai trisavoli George e Matilda Lea.

La vita di George Lea può esser presa a simbolo della democraticità dell’american dream: nato dallo stupro del padrone bianco di cui porta il cognome sulla bella serva Kizzy, George sviluppa incredibili abilità nell’addestramento dei polli da combattimento, osserva gli spostamenti di denaro alle scommesse e sfrutta la possibilità di entrare in questa realtà, diventando famoso con il nome di Chicken George. La stessa educazione è data al figlio Tom che, dimostratosi inadatto alla vita tra i polli, svela un’innata attitudine all’attività di fabbro, che George ha l’acume di assecondare. Padre e figlio attraversano la Guerra Civile Americana, passando dalla condizione di schiavi a quella di uomini liberi.

Una ricostruzione storica dettagliata, quella di Haley sul ramo materno della propria famiglia, che impiega dodici anni di ricerche. Se infatti i documenti di compravendita e nascita degli schiavi già in America sono relativamente facili da reperire, più difficile è risalire alla discendenza africana. Celeberrimo è il nome del quintisavo di Haley: nel racconto Kizzy è la figlia di Kunta Kinte, nato libero e rapito in Gambia nel 1750. Attestata nel libro stesso come vera dall’autore, questa parentela si è rivelata da subito essere una finzione letteraria, peraltro plagiata da Courlander The African di Harold. Nondimeno il nome dell’avo conserva il suo valore storico: con altissima probabilità, tra le centinaia di schiavi partiti dall’isola di Juffure, al largo delle coste gambiane, nel 1750, avremmo potuto trovare un giovane mandinka dal nome Kunta Kinte, rapito dai bianchi nella foresta e venduto in America come schiavo.

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Kunta Kinte Island o James Island (Gambia). Situata a 30km dalla foce del fiume Gambia, nei pressi del villaggio Juffure, fu insediata nel 1600 dal Ducato baltico di Curlandia, divenne inglese prima e francese poi. Sfruttata fin dalla sua scoperta per fine commerciali, vennero da qui imbarcate centinaia di schiavi neri.

Quello di Kunta Kinte è un nome dal valore, più che storico, simbolico e questo si deve anzitutto al successo riscosso dal libro. L’opera di Haley non si apre infatti in America, le prime righe dell’opera ci introducono nel villaggio africano di Juffure, presentando la famiglia di Omoro e Binta Kinte, raccolta attorno un nuovo nato. Ci accolgono i profumi e i suoni dei pestelli battuti nelle cucine e il richiamo alla preghiera del muezzin che intona: «Allahu Akbar! Dio è grande!»; mentre il padre del neonato si ritira a pensare il nome, che pronuncerà a otto giorni dalla nascita, sussurrandolo prima tre volte all’orecchio del bimbo, poi della madre, poi dell’arafang preposto a comunicarlo al villaggio, quando il padre lo solleverà per mostrarlo: Kunta Kinte, come il nonno sacerdote che aveva salvato il villaggio dalla carestia.

Rituali e parentela, radici appunto, che anche dopo esser stato rapito, Kunta ripeterà oralmente alla figlia, insieme a poche parole in lingua mandinga, e che si tramanderanno di generazione in generazione. Kunta infatti non si rassegna mai alla propria condizione di schiavo: non accetta il nome Toby impostogli dal padrone e dà alla figlia un nome africano; tenta più volte la fuga, subendo anche un’amputazione; rifiuta la religione cristiana dei bianchi, ancorato alla propria cultura. La forza di questo romanzo è stata soprattutto il riaffermare l’identità etnica di un popolo che si trovava sradicato dalla propria terra, la necessità di conoscere le proprie origini per conoscere la propria identità.

Behold di Patrick Morelli,1990, King Center Atlanta, Ga. Nell’opera lo sculture ha voluto rappresentare Kunta Kinte che solleva la figlia Kizzy nel rituale africano di attribuzione del nome durante il quale il padre pronuncia le parole: «Behold the only thing greater than yourself!» [«Guarda l’unica cosa più grande di te!»]
Behold di Patrick Morelli,1990, King Center Atlanta, Ga.
Nell’opera lo sculture ha voluto rappresentare Kunta Kinte che solleva la figlia Kizzy nel rituale africano di attribuzione del nome durante il quale il padre pronuncia le parole: «Behold the only thing greater than yourself!» [«Guarda l’unica cosa più grande di te!»]

Questo richiamo ancestrale ha ricevuto risposta, in primo luogo, in terra americana, dove il pubblico tanto afroamericano quanto appartenente ad altre etnie si è lasciato coinvolgere da questa ridefinizione del concetto di “libertà”, non solo in termini fisici, ma anche e soprattutto mentali, culturali e identitari. Un significato di questo valore che è universale e sempiterno, sempre da difendersi e sempre pericolosamente fragile: il diritto d’espressione delle culture, di valori e principi differenti, nell’ottica di una comunicazione transculturale.

In secondo luogo, soprattutto grazie alla produzione cinematografica, il suo eco è risuonato oltreoceano, nell’Africa in cui l’albero di Haley aveva le sue radici, in quella terra che mai ha dimenticato la ferita inferta alle tribù e alle famiglie che dal ‘500 ai primi del ‘900 si sono visti strappare i figli dai toubab, gli uomini bianchi. Un amico senegalese ricorda così la prima riproduzione in sala di Roots a Dakar: «Hanno dovuto fermare la proiezione a metà perché le persone erano troppo agitate, urlavano e lanciavano cose. Non potevamo sopportare di vedere cosa era stato fatto ai nostri padri e fratelli. Lo sapevamo, ma vederlo era insopportabile».

The Kunta Kinte – Alex Haley Memorial, Ed Dwight, Annapolis 1999. La scultura rappresenta Haley nell’atto di leggere un libro a tre bambini di differente estrazione etnica; è stata poi aggiunta una placca in bronzo che riporta gli atti originali dell’arrivo di Kunta Kinte in America.
The Kunta Kinte – Alex Haley Memorial, Ed Dwight, Annapolis 1999.
La scultura rappresenta Haley nell’atto di leggere un libro a tre bambini di differente estrazione etnica; è stata poi aggiunta una placca in bronzo che riporta gli atti originali dell’arrivo di Kunta Kinte in America.

In copertina: LeVar Burton interpreta Kunta Kinte in un fotogramma di “Roots” del 1977 (ABC)

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.

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