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Parigi un anno dopo: guardare in faccia una strage

Cette planète fait encore un bruit douloureux” – questo pianeta fa ancora un rumore doloroso. E’ passato un anno da quando scrivevo queste righe a Parigi. In quei giorni il piccolo e freddoloso appartamento di Montmartre mi offriva rifugio più che mai mentre cercavo di nascondere ai miei occhi il volto straziato di Parigi, che perdeva sangue, colpita a morte da sei attacchi terroristici in una sola notte. Un volto che non avevo mai visto. Non è molto semplice fare mente locale su quanto accaduto: riportare qui vicino, su di un foglio davanti a me, una realtà che ho volutamente tenuto lontana chilometri e mesi, sepolta dal trascorrere dei giorni.
Non sono i bilanci che voglio fare, né fingere di raccontarvi come l’opinione pubblica avesse reagito allora e come lo fa adesso. Tuttavia, occorre essere onesti quando si trattano questi argomenti. Occorre avere il tatto di un medico, di chi con la freddezza e la professionalità della scienza sa di avere a che fare comunque con una materia calda e imperfetta, l’uomo, e con corpi fatti di carne, di ossa, di emozioni e paure. Occorre essere onesti. Fino ad oggi avevo sempre pensato che quel bacino di dolore e follia che è stato un anno fa Parigi non mi appartenesse, non fosse mio o non mi avesse mai sfiorato. Invece lo ha fatto e mi ha ferito. Ecco quindi cosa troverete nelle prossime righe: la storia di una ferita.

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La chiamano resilienza, la capacità degli uomini di saper reagire in maniera positiva ad eventi traumatici, di saper rispondere a esperienze stressanti. La chiamano così in psicologia. Ma questo termine nasce in un altro ambito, quello della tecnologia dei materiali, in cui indica la capacità di assorbire un urto senza rompersi. Come abbiamo detto però, gli uomini non sono oggetti e la loro materia è imperfetta, fatta di carne, di ossa e pure di emozioni. Gli urti magari non li spezzano, ma non possono non lasciare tracce sui loro corpi e ferite nelle loro anime. Gli uomini sono fragili e si frantumano, piano piano, di nascosto.
Ricordo la mattina dopo gli attentati. Era come quando da piccoli si passa la notte ad ascoltare nascosti e impauriti sotto le coperte il temporale che impazza ed imperversa fuori. La mattina però, quando si allunga incerti il naso fuori dal letto fino alla finestra, pronti a vedere esterrefatti ciò che resta della follia devastatrice notturna, tutto è calmo e tranquillo. Anche io con questo spirito scrutavo Parigi dalle tende bianche del mio salotto. Ricordo un’arzilla combriccola di anziani che faceva jogging, ricordo le signore che compravano la baguette e qualcuno persino al bar a fare colazione. Assurdo. Era stato solo un brutto sogno? Era stato tutto il frutto di un’allucinazione?
No, adesso lo so. C’è voluto un anno per avere le idee più chiare. Era solo iniziata la medicazione della ferita, quando ci si mette nell’ordine delle idee che il dolore c’è stato, quando si piangono i morti ma con la lapide pronta a coprire quello che è già un passato, quando la consapevolezza di essere vivi e sopravvissuti è giustamente più forte del dolore per i morti, anche se non lo si ammette, quando i punti sulla ferita tirano e fanno male ma si sa che oramai l’operazione è conclusa e da lì in avanti non si potrà che stare meglio. Tutto bene. Tutto questo è necessario per andare avanti, per darsi una prima spinta, per non affogare.

Il memoriale per le vittime degli attentati a place de la République a Parigi, il 16 novembre 2015. (Christopher Furlong/Getty Images/Internazionale)
Il memoriale per le vittime degli attentati a place de la République a Parigi, il 16 novembre 2015. (Christopher Furlong/Getty Images/Internazionale)

Alcune ferite, però, sono in profondità e non si rimarginano. Nelle viscere della nostra massa imperfetta, tenute a debita distanza, continuano a pulsare, a fare male. Ma il tempo passa scandito dai giorni, dai mesi e poi capita inevitabilmente che scocchi un anno. Un primo sigillo dal quale non ci si può sottrarre, non un giorno qualsiasi, non un metro più in là lontano dal disastro. Un anno a ricordare, un anno a riportare in superficie quella frattura. La verità è come il sole e la ferita che a lei si espone brucia e fa male. Non ci si può sottrarre al tempo, soprattutto quando questo ci chiama con le sue scadenze. E se non si può far finta di nulla allora io ripeto: che questo ci serva per essere onesti. C’è una frattura. Siamo tutti ammaccati. Tutti noi un anno fa abbiamo avuto un terribile incidente, ci hanno inferto una ferita. No, noi non siamo resilienti o, se lo siamo, lo siamo solo in minima parte. Cos’è Parigi un anno dopo? E’ il Bataclan che riapre con un concerto di Sting, perché dove rinasce la musica, rinasce la vita. Sono le commemorazioni per la città per dire e dirci che questo non deve accadere più, non può accadere più. E’ tutto vero. Ma un anno dopo, tutto questo è soprattutto sentire un dolore forte che non si pensava potesse presentarsi più. E’ soprattutto rendersi conto che il rumore doloroso del mondo non è a Parigi e non è fuori di noi, bensì è nelle viscere della nostra naturale e comprensibile imperfezione e ad esso non ci si può sottrarre.

 

Fotografia in copertina di Mstyslav Chernov  (CC-BY SA 4.0 via Wikimedia Commons).

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Andrea Turchi

Mi chiamo Andrea Turchi ed ho 25 anni. Provengo da Firenze, dove mi sono laureato in Lettere Moderne ed attualmente studio Editoria presso l’Università Statale di Milano. Pequod per me è non solo un’occasione di crescita ma qualcosa di più: Pequod è una lente per osservare il mondo, un mezzo per suggerirvi una prospettiva diversa, una famiglia della quale faccio parte da più di 1 anno. Mi occupo soprattutto di attualità e cultura e spero che apprezzerete i miei articoli.

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