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Drammaturgia della luce: lighting design

Per lo spettacolo dal vivo la luce era un fattore esclusivamente legato alla necessità visiva degli agenti sul palcoscenico. Perché ultimo nella gerarchia delle esigenze o nelle preoccupazioni delle piccole produzioni, capita che non ci sia cultura rispetto alle sue potenzialità: la luce è un codice ancora ingiustamente sottovalutato. Due giovani esperienze che arrivano da due percorsi (e due Paesi) diversi, ma paralleli: Zia Holly e Veronica Monti.

Zia. «L’illuminazione era responsabilità dell’elettricista del teatro, che controllava manualmente gli interruttori con regolazione d’intensità dalle quinte». Sono le tecnologie sempre più sofisticate le responsabili dello sviluppo del campo professionale del lighting design che «è diventato sempre più accessibile e creativo». Laureata in Drama and Theatre Studies al Trinity College di Dublino, dove è nata, Zia ha seguito un programma di studio in cui alla teoria era affiancata una corposa parte pratica in materia di recitazione, direzione, gestione tecnica. Contemporaneamente, ha frequentato l’associazione drammatica universitaria e scoperto la passione per l’illuminotecnica, che al tempo condividono in pochissimi: praticando, ha avuto «tante opportunità di fare e sperimentare». Dopo la laurea ha partecipato ad un programma di formazione con la Rough Magic, dove oltre a ricevere supporto per i suoi progetti assisteva le produzioni della compagnia. Due anni «d’ispirazione e motivazione. Abbiamo fatto viaggi di ricerca a Londra, Parigi e Berlino, a vedere produzioni teatrali internazionali; ho potuto lavorare con l’English National Opera».

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La condivisione

«La progettazione inizia parlando – continua Zia – di solito i registi hanno un concept. Discutono a grandi linee la loro idea sul pezzo e poi mi chiedono di leggere la sceneggiatura, oppure se hanno già elaborato un’idea sono io che partecipo ad un workshop. Poi parliamo ancora a proposito delle mie idee e degli elementi chiave del disegno luci che entrambi vogliamo portare alla produzione». È importante il concerto dei codici, lavorare insieme, in sintonia; anzi, «è la cosa più importante. Si lavora insieme allo stesso “prodotto” finale. Senza collaborazione non si può ottenere un lavoro coeso. In più è stressante, un lavoro sensibile al tempo che non paga bene come dovrebbe. Godere del processo creativo e lavorare bene con gli altri è la parte vitale del lavoro a teatro». E aggiunge: «le persone che non lavorano bene con gli altri finiscono velocemente nelle liste nere. La mia mission è servire ogni singola produzione al massimo. Aiutare a raccontare le storie che attraversano le produzioni nella maniera più vera, vibrante e accattivante, che crei una relazione vera con lo spettatore».

Veronica. Attrice per passione, verso una laurea in Filosofia. Fa anche la maschera al Teatro Fraschini di Pavia e chiede se c’è altro che può fare. L’elettricista andrà in pensione di lì a breve: «Vuoi andare in palco?». Veronica ha iniziato a lavorare con Franco, chiamando i fari “barattoli”, pensando a trapanare i muri, creando le linee per i dimmer. «Si tende a pensare alla luce come ad una questione di scelta artistica mentre la parte tecnica è fondamentale: sapere che cosa si può fare avendo una precisa idea di quello che si ha a disposizione è la condizione base di ogni progettazione». Nutre la sua passione per le compagnie indipendenti, i piccoli festival, che lavorano con «poco materiale e pochi soldi, tantissime idee e l’impossibilità di realizzarle: le ascoltavo tutte e poi facevo di tutto per avvicinare il risultato a quello che volevano». Iniziando poi ad accettare lavori più grandi, a volte con una dose di incoscienza che porta a notti di studio sulla programmazione dei banchi luce. Il resto poi vien da sé e un po’ s’improvvisa. Per amore o per forza è un festival di compagnie giovanili organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo, una grande palestra per le nuove produzioni alla quale Veronica attribuisce alcune tra le grandi soddisfazioni del suo lavoro. Le necessità si mettono in ordine: «Cosa abbiamo, come ci arrangiamo, vediamo se funziona. Cos’è che resta, diceva Grotowski, se tu togli tutto dal teatro? Resta il rapporto dell’attore con lo spettatore». Nell’economia, per le luci rimane un “fai tu” e sta alla sua creatività con qualche linea guida. «Anche per questo motivo avevamo organizzato un corso di tecnica per i ragazzi del festival: perché tutti si rendessero conto dell’importanza della luce come elemento drammaturgico».

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Il progetto e l’imprevisto

Veronica non ha mai progettato sulla carta prima, ma spesso mette tutto sulla carta dopo: «così so esattamente cosa abbiamo fatto e come, e lo do alla compagnia, nel caso vogliano replicare lo spettacolo». È reduce di una tre giorni con la compagnia dell’Elfo per lo splendido Sogno di una notte di mezza estate. «Facevamo la scena del bosco: luce notturna, atmosfera fiabesca, pubblico innamorato; pensavo però a quanta poca libertà rispetto a quello che deve succedere nel testo. Per il mio lavoro trovo più stimolante la danza contemporanea, che ha potenzialità creativa differente; è più libera, la coreografia osa di più con la luce». L’esperienza migliore? Uno spettacolo di Saburo Teshigawara. «Ha utilizzato degli spin: macchine anni ’70, luci come fari di un’auto legate ad un motore che le fa girare. Le scenografie erano delle quinte fisse ad arco, nere. Gli effetti luce li creavamo entrando sul palco, in nero, sui bui, per posizionarli, e poi iniziavano a girare a velocità diverse. Da fuori, l’effetto era stupefacente: lo spettacolo parlava della città e il risultato era evocativo, creavano delle suggestioni non esteticamente preordinate». Veronica, in dieci anni, ha lavorato a produzioni di ogni tipo – concerti di piazza e dirette televisive, come X Factor, dove «la progettualità serve, è fondamentale. Il progetto sulla carta deve esserci, sono delle macchine da guerra e non puoi permetterti di perdere tempo. Sono le esigenze economiche del settore. Con la lirica non puoi più avere il teatro oltre le quattro settimane: nell’ultima tournée mi son trovata a programmare le luci durante le prove dei cantanti». L’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Rispetto al futuro, la prende con filosofia: «Per ora è inutile avere delle ambizioni: il settore si sta formando, per il light design stanno creando solo adesso dei corsi di laurea. Ma per investire in questo lavoro andrei all’estero».

In copertina: una scena da The Lion in Winter, di cui Zia Holly è stata lighting designer.

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Carla Vulpiani

Classe 1989, sono nata nel bel mezzo della Riviera Adriatica, ma da 8 anni vivo e lavoro a Milano. Sono laureata in Beni Culturali – Storia e critica del cinema presso l’Università degli Studi e poi ho conseguito il Diploma Professionale in cinema documentario (CIN) presso la Civica scuola di Cinema. Dal maggio 2011 sono parte dell’ufficio programma di Milano Film Festival, del quale, dal 2016, sono incaricata anche della Direzione Artistica oltre che del Coordinamento del programma. Nell’aprile del 2012 ho co-fondato, con 55 persone, l’associazione di promozione sociale ceCINEpas, della quale dall’aprile del 2013 sono parte del consiglio direttivo in qualità di Vice Presidente. Sono anche Marketing Manager per la startup FilmFactory, collaboro con riviste e magazine online occupandomi di critica cinematografica e nel frattempo lavoro come consulente di programmazione freelance per diversi eventi a Milano. Fanatica della fruizione cinematografica, rigorosamente in lingua originale, sono contro ogni pratica di doppiaggio e viaggio quasi esclusivamente per film festival così che di ogni città che ho visitato il ricordo più vivido che ho è una sala cinematografica. Soprattutto il cinema d’animazione occupa un ruolo centrale nella mia vita. Ogni tanto capita che mi trovi dietro la videocamera. I can’t stop myself. Peace, love and please LSD.

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