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I messaggi nascosti nei colori dei tessuti africani

Sbarcare sul continente africano significa anzitutto lasciarsi avvolgere da un tripudio di stimolazioni sensoriali: primo solleticato è l’olfatto, invaso di un’aria pregna di spezie, gas di scarico, incensi e sudore umano misto a profumi dolci; segue l’udito, come martellato da un accavallarsi di idiomi diversi, di suoni nuovi pronunciati da labbra carnose; infine la vista, che s’apre su orizzonti privi di confini, ma ricolmi di colori che il sole caldo accende in tonalità sempre più vivaci.

Quei colori restano impressi nelle iridi, grazie alle movenze sinuose che le donne africane nascondono tra le fantasie dei loro pagne e ai gesti ampi delle braccia con cui gli uomini agitano il boubou, sullo sfondo di un cielo d’una limpidezza unica, che incontra una terra asciutta e ramata.

Inevitabile è innamorarsi del wax (o ankara), tessuto per antonomasia attribuito dagli europei alla popolazione africana, che nasconde una storia molto più complessa: le sue origini risalgono infatti all’isola di Java, in Indonesia, dove nell’Ottocento i coloni olandesi inviarono un esercito composto in maggioranza di guerrieri ghanesi; affascinati dalla tecnica a noi nota come batik, tipica delle regioni indonesiane e consistente nel ricoprire di cera (wax, appunto, in olandese) le parti di tessuto che di volta in volta si sceglie di non tingere, i soldati la importarono in patria, dove ben si adattava all’uso che le popolazioni africane facevano degli indumenti. Un abito in wax non è infatti solo una copertura del corpo, ma un messaggio che chi lo indossa sceglie di trasmettere; ogni colore ricalca uno stato d’animo, che abbinato alle forme di volta in volta impresse sulla stoffa, comunica un contenuto specifico: così, ad esempio, un abito molto colorato con motivi a spighe di mais può simboleggiare ricchezza e abbondanza oppure le difficoltà della vita matrimoniale; il motivo della chioccia coi pulcini sottolinea il ruolo della madre nella coesione domestica; gli uccelli in volo sono invece di buon auspicio per chi si mette in viaggio. Nella loro capacità comunicativa risiede il successo di queste stoffe, diffuse in tutto il continente africano, spesso con varianti locali nelle tecniche di tintura: in Sud Africa, ad esempio, è popolare lo shweshwe, tessuto di cotone stampato a rullo; sulla costa orientale gli abiti tradizionali (kanga o kitenge), composti da due drappi di stoffa quadrata, sono spesso in bark, un tipo di tessuto stampato in cui sono inserite frasi e aforismi, per lo più in lingua swahili; dall’altra parte del continente, in Benin, è invece possibile ammirare l’abomey apliqué, una tecnica che permette stampe floreali e faunistiche in colori sgargianti.

Esempi di wax o ankara

Ben prima dell’invasione coloniale, si attestano nell’Africa subsahariana tecniche di confezionamento dei tessuti, che prevedevano l’imprimitura del colore tramite immersione nei pigmenti colorati, previa la copertura delle parti che si voleva lasciare intonse. A spopolare sono i toni del blu e dell’azzurro, che prendono forma nei cosiddetti indigo clothes, diffusi soprattutto negli stati centrali; due etnie, dislocate per lo più in Nigeria, spiccano nella produzione di questi tessuti: gli Igbo realizzano gli ukara, stoffe decorate con simboli rituali detti nsibidi; gli Yoruba applicano invece una tecnica simile al wax per ottenere i tessuti adire, in cotone o raffia con stampe geometriche. Forme simili e simili simbologie si ripetono in numerosissime stoffe della tradizione africana più ancestrale; in tutto il continente, infatti, materiali economici e resistenti come la canapa o la raffia, sono intrecciati e tinti con terra e argilla, per realizzare arazzi e vestiti pesanti vivacizzati dal variegato sfumare di marroni, dal nero ebano all’ocra sabbioso, passando per il rosso ramato.

Maestri indiscussi di questa tecnica di tintura sono i membri dell’etnia Bakuba, discendenti di un antichissimo impero dell’ Africa centrale, nell’attuale Congo; le donne di questo popolo producono i tessuti kuba, decorati con forme geometriche ripetute, spesso non progettate, ma spezzate da variazioni sul tema date dall’ispirazione del momento. La personalizzazione dei tessuti è fondamentale tanto per chi li indossa quanto per il produttore, ma la maggior parte dei segni impressi su stoffa ha un significato simbolico decodificabile in gran parte del continente; per questo motivo tanto i colori, quanto le texture di alcuni indumenti si ritrovano pressoché invariati in stati tra loro molto distanti. Simile nell’aspetto, nei materiali e nei disegni delle stoffe kuba, è ad esempio il bogolan (letteralmente: “vestito di terra”) prodotto dall’etnia Bambara, insediata sulla costa occidentale e originaria del Mali; a sud, in Botswana, si possono invece ammirare i tessuti mashamba stampati dalle donne WaYeyi, discendenti dell’etnia Bantu.

Una donna vestita con uno shuka maasai mostra un kanga dal Kenya, recante la scritta in swahili “Mama ni malkia hakuna atakae mfikia”, letteralmente “La mamma è una regina che nessuno può eguagliare”

 

Altrettanto antica in Africa è la tradizione della tessitura, come attestato dai reperti trovati in tutto il continente; interessante è il preservarsi di alcune tecniche di tornitura e intreccio nel corso di secoli e imperi: il tessuto kente, ad esempio, è prodotto dall’etnia Akan almeno dai tempi dell’impero Ashanti e della sua sostituzione all’impero del Ghana, caduto nel 1200. Il kente si ottiene dall’intreccio simmetrico di fili di cotone, le cui colorazioni vivaci ancora una volta trasmettono un messaggio o un augurio: il marrone, colore della terra, simboleggia ad esempio la salute; il giallo regale richiama fertilità e bellezza; il blu è segno di pace e armonia. La tecnica degli Akan è stata assimilata anche nei paesi limitrofi a quelli di insediamento dell’etnia, in cui si trovano tessuti in tutto somiglianti al kente: molto diffusi sono djerma e hausa, prodotti in Niger; gli Yoruba della Nigeria lavorano la stoffa aso oke; mentre in Mali l’etnia Fulani produce i khasa blankets, in cui i fili colorati sono sovrapposti a una base bianca, e i monocromatici dogon.

Simili a quest’ultimi sono i filati etiopi, tra cui spiccano gabior gabi, tessuto pesante usato per abiti e coperte, e natella, una stoffa leggera simile alla garza, decorata con bordi colorati. Sulla stessa costa, tra gli altopiani di Kenya e Tanzania, il popolo Maasai ha ereditato dai soldati inglesi la tradizione di avvolgersi nei kilt, coperte in cotone rosso, blu e nero, che qui sono filati e tessuti artigianalmente e prendono il nome di shuka.
Nel profondo sud del continente africano, infine, i discendenti dell’etnia Bantu ancora cardano le fibre dei baobab e le intrecciano nei tessuti gudza, diffusi soprattutto in Zimbabwe; mentre nel vicino Oodi Village, in Botswana, l’abilità artigianale delle donne sul telaio è tale che sulle loro stoffe è possibile ammirare splendidi ricami, lavorati direttamente nella trama del tessuto.

A sinistra sullo sfondo: un bogolan dal Mali; al centro e in basso a destra: due filati senegalesi; in alto a destra: una natella dall’Etiopia

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.

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