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Ti affido la mia vita: il rapporto medico – paziente

Fidarsi di qualcuno non è quasi mai un processo semplice e istantaneo: nella maggior parte dei casi ci vogliono parecchio tempo ed intesa per lasciarsi andare ed affidarsi, gradualmente, a una persona. Come reagiremmo quindi se ad un tratto ci trovassimo a non avere scelta, se la fiducia diventasse improvvisamente un bisogno immediato ed essenziale verso la persona da cui dipende, letteralmente, la nostra sopravvivenza? Persona che a malapena conosciamo, ma che sta per operarci?

Ogni anno sono circa 230 milioni le persone che, in tutto il mondo, vengono sottoposte a interventi chirurgici e si trovano perciò, senza volerlo, nella condizione di dover riporre la loro fiducia interamente nelle mani di un medico per poter guarire. E si parla di fiducia cieca, considerando le varie implicazioni post-operatorie che spesso si verificano. Tra tutti questi pazienti, 4 milioni di essi sono italiani. Emanuela, 24 anni, dottoranda, anche se ora non vive più in Italia, è stata una di loro quando, qualche anno fa, ha dovuto subire un trapianto. Perciò le abbiamo fatto qualche domanda sul suo rapporto di fiducia con il medico a cui si è affidata.

 

Raccontaci il tuo rapporto con il medico in cui hai riposto la tua fiducia: in che situazione ti trovavi, come l’hai conosciuto, per quanto tempo hai avuto a che fare con lui?

Ho conosciuto il medico in cui ho riposto la mia fiducia 8 anni fa, quasi 9, perché mi era stata diagnosticata una forma leucemica. Il tipo di rapporto? Beh, data l’età che avevo all’epoca, non è stato il classico rapporto medico-paziente che si stabilisce tra adulti, ma è stato sicuramente più informale. Nonostante il mio problema di salute credo che i toni fossero comunque abbastanza rilassati. Tuttora ho a che fare con lui, in maniera sporadica perché ho una visita di controllo una volta all’anno, ma per 4-5 anni il rapporto è stato più frequente e lo vedevo tutti i giorni. Era come se ci vedessimo solo perché dovevamo discutere di questa storia. Io in un certo senso mi interessavo poco della situazione in termini medici, perché era più grande di me e non potevo gestirla.

Quali sentimenti hai provato?

Inizialmente non ho provato paura perché, ripeto, era una cosa più grande di me ed ero più che altro incosciente. Quando ero in ospedale e dovevo fare il trapianto, invece, sì che sentivo il dolore, e tra me e me dicevo “ok, è una brutta malattia, fa male, ho paura!”. In parte ho provato rassegnazione, perché dovevo restare in camera sterile ed ero sottoposta a regole ferree. D’altra parte però avevo molta voglia di uscire da lì e quindi non potevo permettermi di rassegnarmi del tutto. La vera paura comunque è venuta dopo il trapianto, perché è quello il momento dove subentrano tutti quei meccanismi che non puoi controllare e pensi “sono fragile, da un momento all’altro potrei stare male o morire, non riesco a controllare la mia vita”. Il mio medico, tuttavia, ha avuto la capacità di darmi la fiducia necessaria ad affrontare la malattia e anche le sue conseguenze.

Quando hai realizzato che ti stavi affidando completamente ad un’altra persona, come ti sei sentita? Spaventata?

Sì, sicuramente, anche perché nel momento in cui stai male non hai il controllo del tuo corpo e quindi speri che il medico sappia cosa fare e ti ci affidi. In questo caso, a maggior ragione non avevo capacità di scelta.

 

Ma il fatto di fidarti totalmente non ti lega un po’ a una persona?

Il tempo di legare con un medico è spesso ristretto, ma nel mio caso tra diagnosi e trapianto erano passati due anni e quindi abbiamo avuto modo di instaurare un rapporto. Essendo lui un tipo molto alla mano, rilassato, tranquillo e scherzoso, è stato abbastanza facile: lavora in pediatria, quindi deve cercare di essere così. Il suo tipo di approccio mi ha facilitato la cosa, anche se forse in un ambiente diverso sarebbe stato più distaccato: l’età del paziente probabilmente condiziona un po’ il medico. Ad esempio, ora, alle visite di controllo, con un occhio più critico e adulto mi accorgo che soffre come medico, non so se perché lavora in pediatria o in generale. Secondo me è bravo nel rapporto medico-paziente, perché riesce a interagire sia con i genitori del bambino malato sia col bambino stesso, ma non in maniera puerile: tratta i più piccoli come dovrebbero essere trattati. È dolce e sa dare conforto anche ai genitori.

 

Quindi gli sei grata, in un certo senso gli vuoi bene?

Quando vado a fare il controllo, anche se sono in day hospital vado sempre a trovarlo, lui ride e scherza con me e mi dice sempre: “Ah, mai sei ancora qua?”. Gli voglio un bene dell’anima, oggi come allora, forse adesso anche di più, perché sono meno una “paziente” e riesco a guardarlo con occhi diversi. Capisco quando sta male o è a disagio, c’è una sorta di empatia. So quando scherzare e quando contenermi, perché magari ha appena dato una brutta notizia a qualcuno. Vorrei anche consolarlo, ma non so come fare, perché, per quanto ci sia una sorta di amicizia, sento che non posso, è pur sempre il mio medico. Quindi sì, si crea anche un rapporto di amicizia col medico, oltre che di fiducia. Certo, non il livello di intimità che hai con i tuoi grandi amici, ma i toni possono essere rilassati e confidenziali.

Se dopo quest’esperienza dovessi spiegare che cos’è la fiducia, come la descriveresti?

In generale mi sono sempre fidata molto delle persone, anche se so di avere un carattere difficile. Questa esperienza ha cambiato un po’ il mio rapporto con la fiducia, perché mi fido e mi lascio andare con più facilità. Descrivere la fiducia? Beh, penso che sia l’affidarsi completamente a un’altra persona senza che questa ti chieda niente in cambio, probabilmente. Aspettarsi comunque di avere il 100% da questa persona, nonostante a volte si resti delusi. Questo magari accade solo perché ci sono diversi parametri che determinano un 100% e non sono uguali per tutti. Ne vale sempre la pena, però: qualcosa si impara, qualcosa si ottiene. Nel mio caso sono stata molto fortunata.

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