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Cavie umane ieri e oggi: i volontari, gli inconsapevoli e gli ingannati

Tra gli orrori che si sono consumati nei lager nazisti, gli abusi della sperimentazione scientifica su cavie umane non si discosta per obiettivi e risultati dalla “soluzione finale”: due operazioni nate dalla volontà di affermare la supremazia della razza ariana e destinate a condurre milioni di persone alla morte. Tra queste, i deportati chiusi in camere di decompressione, per testare quanto si potesse sopravvivere ad alta quota senza pressurizzazione; quelli nutriti solo con acqua salata o quelli cui furono asportati ossa e arti, abbandonati a una rapida morte per infezione.

Questa aberrante combinazione di darwinismo sociale e teorie eugenetiche trovò terreno fertile anche prima dell’avvento dei fascismi e non solo nel Reich hitleriano, come confermano le pratiche di sterilizzazione su soggetti accuratamente selezionati negli Stati Uniti e negli evoluti Paesi scandinavi, seguiti da Canada, Francia e Giappone. Ma soprattutto, la storia delle sperimentazioni pericolose e spesso segrete si è protratta ben oltre il secondo conflitto mondiale, dalle ricerche sugli effetti della radioattività a est e a ovest della cortina di ferro fino ai test di farmaci dei giorni nostri, nonostante l’approvazione del Codice di Norimberga e della Dichiarazione di Helsinki, documenti fondamentali per la tutela dei diritti dei soggetti sperimentali.

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«Se la storia della sperimentazione clinica sull’uomo può insegnarci qualcosa, dalle sanguinose pratiche di vivisezione del millennio appena concluso fino al Tuskegee Study sulla sifilide, è che il peso dei possibili abusi tende a ricadere su quelli tra noi che sono più poveri e socialmente più deboli». Così scriveva nel 2007 la giornalista Sonia Shah nel suo libro-inchiesta Cacciatori di corpi, ricordandoci che i progressi della ricerca medica, di cui beneficiamo tutti, sono spesso il risultato di innumerevoli test condotti su centinaia di esseri umani che non ne traggono alcun vantaggio o addirittura ne rimangono danneggiati. Qualche decennio fa erano i malati psichiatrici e ospedalieri, i detenuti e gli immigrati, perfino le donne incinte e i bambini; oggi sono persone povere e bisognose di cure dei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”, ma anche i volontari dei Paesi europei, attirati più dai facili guadagni che dalla voglia di contribuire al progresso scientifico.

La morte recente di uno dei partecipanti alla sperimentazione di un farmaco promossa dal laboratorio francese Biotrial ha riacceso i riflettori sui numerosi volontari che si prestano ai trials clinici per i medicinali sperimentali. Si tratta di casi piuttosto rari (uno degli ultimi circa dieci anni fa, il ricovero in terapia intensiva delle sei “cavie” che avevano assunto un antileucemico a Londra), che le case farmaceutiche cercano di scongiurare attraverso opportune precauzioni; anzitutto criteri di selezione rigorosi, la sottoscrizione del “consenso informato” e il limite di partecipazione a un test ogni tre mesi. Inoltre nel Canton Ticino è stato istituito un registro dei volontari sani, di cui il 90% sono italiani di Milano, Varese e Como.

La vicina Svizzera attira molti giovani come Lorenzo, 34enne romano che un anno fa raccontava a Il Giornale la sua storia di «sperimentatore»: laureato in giurisprudenza ma disoccupato, preferisce passare qualche settimana in altri Stati europei piuttosto che cercare lavori poco remunerativi. Certo dev’essere difficile vivere nell’Italia della crisi se si possono avere un compenso giornaliero di 200 € circa e un check-up gratuito, ma i Comitati etici avvertono di non sottovalutare gli effetti collaterali e non illudersi di fare di questa attività un lavoro continuativo. È dello stesso avviso l’Università di Trento, che gestisce il gruppo Facebook “Bacheca Esperimenti” per “reclutare” nuovi soggetti per test di natura psicologica e cognitiva.

Talvolta la decisione di sottoporsi a test per la ricerca farmacologica sembra essere presa un po’ troppo alla leggera, ma quest’impressione diffusa rimane spesso taciuta: dal business della sperimentazione scientifica traggono vantaggi reciproci i volontari e le case farmaceutiche, interessate a superare velocemente le quattro fasi che permettono infine di introdurre il nuovo prodotto sul mercato.

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Tempi rapidi e costi molto contenuti, questo sembra spingere le aziende leader dell’industria farmaceutica in Sud America, Africa e Asia, dove sono state condotte sperimentazioni caratterizzate da gravissime carenze etiche che non sarebbero state tollerate nelle sedi occidentali. Tra gli ultimi scandali quello svelato da un’inchiesta del quotidiano inglese The Independent: nel 2011, in diversi villaggi dell’India avevano partecipato ad almeno 1.600 test clinici per conto di colossi come Pfizer, Merck e AstraZeneca più di 150mila persone, perlopiù analfabete e povere, del tutto inconsapevoli di essere cavie di sperimentazioni cliniche. Di queste, tra il 2007 e il 2010 almeno 1.730 sono morte perché già malate (e non curate) o proprio a seguito dei test effettuati.

Il rischio che la delocalizzazione degli esperimenti scientifici si trasformi in una nuova forma di “colonizzazione” è già realtà, come osserva il Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento La sperimentazione farmacologica nei paesi in via di sviluppo (2011), perché in Paesi in condizioni socio-economiche svantaggiate «il concetto di ricerca tende ad essere confuso con la cura e l’assistenza medica». È impossibile, in questi casi, parlare di “volontari”: spesso i soggetti si sottopongono alla sperimentazione di nuovi farmaci per ricevere pasti gratuiti, senza alcuna consapevolezza delle funzioni di un vaccino o del loro stesso ruolo in una ricerca scientifica. Una consapevolezza che non manca agli enti promotori e ai governi dei Paesi occidentali, costantemente  richiamati al rispetto dei diritti umani, di tutti gli esseri umani e a rinnovare le proprie procedure, in direzione di una nuova etica per la bioetica.

Secondo il CNB, il “gap” culturale tra Paesi ricchi e Paesi a basso reddito potrebbe essere colmato elaborando nuove forme di comunicazione attente non solo ai cavilli formali, ma anche all’effettiva comprensione da parte dei soggetti coinvolti; una sorta di mediazione culturale che riduca lo squilibrio culturale tra tradizione occidentale e usanze locali, avvicinando il mondo della medicina alla società.

Probabilmente ne deriverebbero grandi benefici anche per le “cavie” dei Paesi più ricchi, dove il “consenso informato e volontario” si è ridotto a una pratica burocratica che protegge le parti a livello legale, ma che chiarisce ben poco dei rischi delle sperimentazioni. Di certo allontanerebbe il rischio di uno sfruttamento più o meno celato dei «più deboli» economicamente, che si trovino a Nord o a Sud del globo.

Cavie Umane, Svizzera in Canton Ticino ad Arzo, presso la Cross Research vengono sperimentati nuovi farmaci su volontari,

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Alice Laspina

Nata nella bergamasca da famiglia siciliana, scopro che il teatro, lo studio e la scrittura non sono che piacevoli “artifici” per scoprire e raccontare qualcosa di più “vero” sulla vita e la società, sugli altri e se stessi. Dopo il liceo artistico mi laureo in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo e sempre girovagando tra nord e sud Italia, tra spettacoli e laboratori teatrali, mi sono laureata in Lettere Moderne con una tesi di analisi linguistica sul reportage di guerra odierno. Mi unisco alla ciurma di Pequod nel 2013 e attualmente sono responsabile della sezione Cultura, non senza qualche incursione tra temi di attualità e politica.

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