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Costruire se stessi. Riflessioni sulle reti sociali a partire da Foucault

Facciamoci tentare da un’analogia. Lasciamo che siano i due termini accostati a chiarirsi l’uno con l’altro: da un lato la riflessione filosofica di Foucault, dall’altro le reti sociali e le comunità digitali. Cerchiamo di capire come il primo termine spieghi il secondo e, viceversa, come il secondo verifichi il primo. La posta in gioco filosofica è la costituzione del soggetto.

Foucault ha dedicato tutta la sua vita allo studio della genealogia del soggetto. Ha smascherato il falso protagonismo della nozione di “soggetto” rivelandoci come esso sia sempre un risultato, un divenuto e mai un punto di partenza, con buona pace degli esistenzialisti e degli umanisti. In principio non è il soggetto, ma il potere che lo plasma, che lo forma; sotto una maschera che portiamo per essere accettati dalla società e che, d’altro canto, la società ci impone di portare, non vi è nulla se non un “in fieri”.Il compito dello storico della soggettività è quindi quello di studiare archeologicamente i modi di costituzione del soggetto, siano essi imposti dall’esterno o auto-diretti. La riflessione di Foucault si snoda proprio attorno a questi temi.

Già ne La storia della follia nell’età classica (1961) si cerca di capire come il soggetto moderno abbia marcato il discrimine tra sé e il diverso, tra saggezza e follia, e di come questo gesto di reclusione abbia in fondo contribuito alla costituzione della normalità stessa. La ragione si è costituita a partire da una s-ragione, dalla déraison, attraverso una violenza fatta ai danni di chi, per convenzione storica, si è giudicato diverso. Il soggetto razionale illuminato si è potuto costituire, per Foucault, solo pagando un duro prezzo: il silenzio forzato della follia all’interno della zona d’ombra degli istituti per alienati mentali.

La forza assoggettante, ovvero la forza che impone, che istituisce e che costituisce in ultima analisi il soggetto socialmente accettabile, ha molteplici forme: dalla forza bruta che materialmente rinchiude, al sapere dello psichiatra che epistemologicamente in-forma la malattia mentale. In quest’ultimo caso, il dispositivo assoggettante non sarà la clinica, la prigione, ma il sapere che giustifica la clinica, il sapere che dà il potere di imprigionare.

Ne Le parole e le cose (1966), lo studio di Foucault si concentra attorno ai dispositivi discorsivi, alle teorie e alle scienze che hanno storicamente determinato il corso della costituzione del soggetto. Ogni epoca storica è caratterizzata dalla sua episteme, ovvero un retroterra pre-discorsivo, pre-scientifico che condiziona non solo la possibilità ma anche la struttura della scienza stessa.

Semplificando la tesi di Foucault, si è passati da una episteme del Medesimo, che ha segnato il corso del Rinascimento fino a circa la metà del secolo 17, a una episteme del Diverso, che ha condizionato l’avvento dell’epoca che definiamo moderna, segnata da nuove scienze quali la biologia, l’economia e la grammatica generale. Solo grazie e all’interno di questi nuovi dispositivi discorsivi è comparso il soggetto inteso come lo intendiamo oggi: “Prima della fine del 1700 (…) non esisteva la coscienza epistemologica dell’uomo in quanto tale”. Foucault chiosa il suo controverso saggio scrivendo:

L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima.

 

È a partire dagli anni ’80, forse risentendo del riflusso internazionale, politico e sociale, che la riflessione filosofica di Foucault cambia temi e linguaggio. Si passa dalla archeologia dei poteri assoggettanti alla storia delle tecniche di soggettivazione. L’obiettivo e l’attenzione critica risalgono dagli autori della modernità europea all’antichità classica: Foucault riscopre un soggetto tanto eterodiretto quanto, in un certo limite, capace di auto-formarsi.

Studiando gli esercizi mentali e spirituali delle scuole filosofiche ellenistiche (stoici, epicurei e cinici in primo luogo), si scopre un nuovo modo di intendere il soggetto: ancora una volta, non un punto di partenza ma un punto d’arrivo, un’obiettivo da conseguire a prezzo di faticose meditazioni, di lunghi studi filosofici guidati da un maestro di vita. Un soggetto non immediato, ma che si costituisce attraverso una ferrea disciplina dedicata alla cura di sé (epimeleia heautou, secondo la dizione antica).

L’obiettivo di queste scuole era appunto quello di riappropriarsi di sé stessi, meditando su se stessi per diventare autentici e autosufficienti: in sintesi, di formare un soggetto autentico, ovvero filosofico, capace di controllare le proprie passioni, e di privarsi del superfluo, a partire da un soggetto inautentico, ovvero quotidiano, perso nelle piccinerie della vita comune ed eterodiretto.

L’emergenza del soggetto avviene dunque per l’ultimo Foucault all’incrocio di due diversi poteri: un primo potere, quello della società, dei dispositivi esterni che determinano la formazione di un soggetto accettabile; un secondo potere che è quello del discorso filosofico, della pratica spirituale regolata e autonoma, volta alla produzione di un soggetto autentico, capace di agire “bene”, autosufficiente. Un potere esterno, il dispositivo, e un potere interno, diretto su noi stessi da noi stessi – l’enkrateia, come la chiamavano gli stoici.

Questo intreccio di poteri è quantomai attivo e presente anche nella formazione di un soggetto che ancora non esisteva al tempo di Foucault, ma che sta diventando importante quanto il soggetto “tradizionale” e materiale: il “soggetto digitale”. In verità si parla più spesso di “identità digitale”, formula che si può preferire a “soggetto digitale”, ma che non cambia la sostanza dell’argomentazione: come per il soggetto, anche l’identità è una nozione convenzionale, un artificio costituito tanto da poteri esterni quanto auto-prodotto; mai totalmente libero, né totalmente assoggettato.

Non siamo infatti liberi come soggetti digitali, checché se ne possa pensare. La rete non ci rende affatto liberi, né pensanti, come qualche apologo del web sembrerebbe indicarci. Tanto è vero che non siamo nemmeno liberi di non partecipare: ciò, più che un rifiuto sterile, significherebbe abdicare alla propria soggettività digitale, lasciarla alla mercé delle rete, non tanto sopprimerla.

La rete sociale non dà quindi libertà infinita: pone regole più o meno codificate proprio come la società materiale: dirette per quanto riguarda il comportamento del singolo “nodo”; e indirette, formando comportamenti e incoraggiando abitudini. In ogni rete sociale abbiamo norme e codici di comportamento che, se trasgrediti, portano al “blocco” del soggetto digitale, ovvero all’esclusione forzosa dalla società stessa.

Ciò che materialmente viene definito “manicomio” o “istituto penitenziario”, assume digitalmente la forma del blocco della propria soggettività digitale – o, in altre parole del sequestro coatto della propria identità. Prendiamo come esempio il caso di Facebook (non dissimile dalle norme di comportamento di Google+).

Addirittura le modalità e le cause dell’arresto ricordano quelle materiali: si va dalla violenza pura e semplice contro altri soggetti, all’autolesionismo (automutilazione, disturbo alimentare, uso di droghe pesanti); da atti di intimidazione e disturbo a scopo commerciale alla segnalazione (e al limite col blocco) per pubblicazione di materiali offensivi, che vanno dall’incitamento, all’odio razziale, fino alla pornografia. Interessante anche notare come non siano permessi, almeno in linea di principio, “falsi” soggetti: sono accettate solamente identità reali, in una rigida quanto utopica corrispondenza tra realtà e virtualità.

Così come il folle era denunciato all’autorità pubblica, che provvedeva a rinchiuderlo lontano dagli sguardi disturbati e dai cuori dolenti della comunità, la rete ripropone la stessa logica delatoria tipica delle società moderne, così ben delineata da Foucault: chiunque può “segnalare” altri soggetti digitali all’autorità competente, con potere assoluto di decisione circa il blocco del soggetto incriminato, sia stata trasgredita o meno una norma di comportamento del tutto convenzionale, sempre in nome della sicurezza della comunità.

Le reti sociali verificano, in ambito digitale, i meccanismi assoggettanti che Foucault ha descritto a livello materiale, e li ripetono su due livelli: internamente, ovvero tra i membri della stessa comunità digitale, in quanto i soggetti vengono dis-posti e “disciplinati” da parte di un potere più alto; ed esternamente, nella vita materiale, poiché possedere una soggettività digitale è diventato ormai requisito necessario per non restare esclusi da alcuni diritti (informazione e partecipazione sociale in primis).

Ma non è tutto qui: occorre anche analizzare l’aspetto autonomo della formazione del soggetto digitale. Le reti digitali sono una formidabile palestra di “cura di sé”, certamente non filosoficamente intesa; una “palestra di comunicazione”, si potrebbe chiamare. Il soggetto digitale, sebbene nei limiti di una normatività convenzionale, è libero di formarsi come meglio crede; può decidere cosa far vedere di sé e cosa no; può reinventarsi, seppur virtualmente.

Vediamo come il fenomeno delle reti sociali ripeta in chiave moderna la cura sui tipica delle culture ellenistiche, con un’unica, grande, differenza. Se per il soggetto ellenistico si trattava di costituirsi in un Sé autentico, di arrivare all’autarchia, all’atarassia – in breve, si trattava di formare un soggetto che trovava in sé il proprio centro – oggi si tratta piuttosto di costruire un soggetto digitale appetibile e “comunicativamente competitivo”, che trova negli altri il proprio centro, la propria ragione costitutiva.

L’enkrateia, il potere del soggetto diretto su se stesso, è nella maggior parte dei casi indirizzata al fine di costruire un’identità digitale che corrisponda al desiderio della comunità. Attraverso le reti sociali non costruiamo noi stessi, quelli che davvero siamo; non si tratta di un esercizio di autenticità – a pensarci bene, un nodo, seppur autentico, continua ad aver senso solo all’interno di una rete.

Si tratta piuttosto della costituzione di un soggetto che risponda al meglio ai requisiti della rete stessa: comunicativo, veloce, recettivo, collegato, adatto alla vita “in comune” tipica del mondo digitale; antitetico al modello ellenistico di “ritorno a se stessi”, immerso com’è nel paradigma dell’apertura totale, della trasparenza.

Si è cercato di far parlare l’analogia, notando come nelle reti sociali si ripetano i meccanismi di soggettivazione e assoggettamento descritti da Foucault: in primo luogo, per far parte di una rete sociale, occorre rispettare dei modelli comportamentali, accettando un potere che contribuisce alla formazione del soggetto digitale; in secondo luogo, quella parte di potere “privato” che possiamo esercitare su noi stessi viene per lo più impiegato nella formazione di un soggetto digitale che risponda alle richieste della comunità.

E soprattutto, l’esempio digitale conferma, quasi fosse una lente d’ingrandimento, quanto sostenuto da Foucault per il mondo materiale: non esiste nessun soggetto a priori, ma sempre e solo una costruzione in fieri, che possiamo solo parzialmente condurre da noi stessi. L’uomo (digitale) è un’invenzione recente.

Come tutti i francesi, a Foucault piaceva scandalizzare. Le sue posizioni divennero celebri in tutta Europa; divenne un maître à penser per i movimenti studenteschi, un alleato prezioso della contestazione, dedito alla denuncia dei poteri assoggettanti, delle violenze di un potere che non è pericoloso solo perché capace di annichilire il soggetto, quanto piuttosto di formarlo. Ma questa è storia nota.

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