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Dall’11 settembre alle stragi di Parigi: il volto del terrorismo jihadista

È il pomeriggio del 13 novembre 2015. Due commando si preparano ad attaccare lo Stade de Franceil teatro Bataclan e un bistrot all’aperto, mentre un terzo gruppo è in attesa in un residence ad Alfortville, a pochi chilometri da Parigi. Il primo attacco, durante una partita di calcio, distoglie l’attenzione, il secondo assorbe i soccorsi e le forze di sicurezza tramite una serie di raid, mentre il terzo, quello del Bataclan, provoca una carneficina: 130 morti e 60 feriti, l’aggressione più cruenta in Francia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per la prima volta i nemici non sono dichiarati, non sono giornalisti satirici, musulmani apostati o infedeli. Il massacro è indiscriminato e i responsabili sono tutti francesi, di origine algerina. Poche ore dopo, il Presidente statunitense Obama condannerà “un attacco non solo contro Parigi, ma contro tutta l’umanità”, mentre Hollande annunciava lo stato di emergenza sul territorio francese, il tutto prima che l’ISIS rivendicasse gli attentati con un video su Youtube.

La domanda che sorse spontanea fu “Siamo in guerra?” e poco dopo risuonò l’eco di quella War on Terror, la guerra globale al terrorismo, proclamata dal Presidente Bush dopo l’11 settembre 2001. Da allora il terrorismo ha costretto l’Occidente alla contraddizione: siamo in guerra, ma non siamo in guerra. I confini tradizionali del conflitto vengono meno e si crea una sorta di zona grigia che attrae dentro di sé i concetti di pace e di guerra per restituirli deformati. È l’inizio di una nuova era che, per usare le parole del filosofo Heidegger, potremmo definire “Guerra Totale”. Un conflitto in cui non ci sono vincitori o vinti, perché l’intero globo è diventato guerra e la pace non ha più spazio per esistere.

Raduno spontaneo di cittadini davanti al ristorante Le Carillon, uno dei luoghi degli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi (Fonte: Citron / CC BY-SA 3.0)

La risposta al terrorismo islamista ha portato l’Occidente, dopo l’11 settembre, a rispondere alla minaccia jihadista con gli strumenti bellici del secolo precedente, fatti di invasioni militari, bombardamenti indiscriminati e raid delle forze speciali. Ma a poco a poco la paura e l’insicurezza hanno prevalso, tanto da far introdurre strumenti nuovi. Tra questi l’USA Patrioct Act del 2001, che ha permesso alle agenzie di intelligence americane di spiare chiunque ritenessero un pericolo per la nazione tramite intercettazioni a tappeto senza nessun controllo giurisdizionale, o l’USA Military Order del novembre 2001, con il quale si autorizzava la detenzione, al di fuori delle garanzie costituzionali e della Convenzione di Ginevra del 1949 sul diritto dei prigionieri di guerra, di qualunque soggetto non americano (classificato come combattente nemico illegale) che fosse dichiarato pericoloso per la sicurezza nazionale. Ma non solo. La paura ha portato una sorta di regressione sociale, permettendo la reintroduzione della tortura come strumento di lotta al terrorismo. Dopo che l’illuminismo l’aveva condannata come pratica aberrante e la Convenzione ONU del 1987 l’aveva espunta dal panorama giuridico mondiale, ecco che la guerra al terrore la ripresenta come una necessità. Gli orrori delle prigioni di Abu Ghraib e Guantanamo, per non parlare delle decine di siti segreti di tortura della CIA sparsi per il pianeta, raccontano come la smania di combattere il terrorismo abbia portato a cancellare il senso stesso di umanità che avrebbe dovuto differenziare i jihadisti da noi. E lì sta la vera vittoria del terrorismo: aver ridotto la democrazia ad uno stato di emergenza perenne, in cui le libertà civili ed i diritti umani devono cedere il passo alla sicurezza.

Osama Bin Laden, leader di Al Qaeda, esultò in un video dicendo: “Ecco l’America, piena di paura dal sua confine settentrionale a quello meridionale”. Era il 7 ottobre 2001 e gli USA invadevano l’Afghanistan dei Talebani. Ora Bin Laden non c’è più, è stato sostituito dallo Stato Islamico, ma la sostanza non è cambiata. Negli anni, l’uccisione di civili inermi durante i raid americani e le atrocità commesse nelle carceri segrete sono stati i migliori strumenti dati al terrorismo per fomentare l’odio e spingere i proseliti al martirio e alla Guerra Santa. Se la democrazia, rispondendo al terrorismo che viola le norme, le viola a sua volta, finisce per negare sé stessa, autodistruggendosi. I terroristi hanno usato la Francia, culla delle libertà civili, come paradigma di un mondo che considera le stesse irrinunciabili e hanno voluto colpire loro per colpire il mondo occidentale nel suo insieme. Questo vuol dire che, per battere il terrorismo, non bisogna agire solo sul piano militare, ma anche su quello culturale e, soprattutto, rimanere nel recinto della legalità. Solo affermando la legge e gli strumenti del costituzionalismo moderno occidentale, solo usando i diritti umani come scudo contro la barbarie, la democrazia potrà uscire dal buio spazzando via quella zona grigia che alimenta e legittima la ferocia del terrorismo. Ed è questo che ci auguriamo: il ritorno della pace così tanto agognata.

 

In copertina: le Torri Gemelle a New York prima dell’attentato dell’11 settembre 2001.

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