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Davanti e dietro le sbarre: intervista doppia

Giovanni ha lavorato per circa 35 anni nella Casa Circondariale di Bergamo come Sovrintendente Capo: «Un ruolo, diciamo, non di sorveglianza – ha spiegato a Pequod – ma a stretto contatto con i detenuti».

Serge ha trascorso in cella alcuni anni della sua vita, in seguito a tre diversi processi per reati minori, seguiti da soggiorni in Case Circondariali di diverse città italiane, da Bergamo a Roma.

Hanno entrambi risposto ad alcune domande di Pequod sulla vita all’interno delle carceri.

Com’è una giornata tipo?

Serge: «Le giornate si assomigliano tutte. La mattina passa la colazione (caffè e latte); non aspetta chi dorme, ma chi ha la propria spesa non è obbligato ad alzarsi. Ci si sveglia con calma, ci si lava senza fretta; tutta la giornata trascorre in poco spazio con i due compagni che ti sono capitati: è importantissimo riuscire a stabilire una buona convivenza! Anche per l’amministrazione è importante che si vada d’accordo, perciò c’è un modulo sempre a disposizione per segnalare se c’è “incompatibilità caratteriale” e chiedere uno spostamento. Dalla cella si esce un paio di volte al giorno, durante le quali si può scegliere se andare in cortile o in palestra (tanto l’aria fresca quanto lo sport sono fondamentali dentro!). In cella c’è la televisione, si possono leggere libri e giornali, giocare a carte, cucinare; ci si deve tenere attivi per non impazzire.».

Com’è stato il tuo rapporto con le guardie carcerarie/con i detenuti?

Serge: «Io non ho mai avuto problemi con le guardie: ho sempre rispettato le regole contenute nel grosso manuale che ti danno quando entri. E loro, come tutti, sono persone: ci sono quelli che quasi non parlano e altri che chiacchierano con chi vive nelle celle, condividono momenti con loro. Ho visto una guardia che aveva legato tanto con un ragazzo, che si fermava nella sua cella a giocare a carte dopo il turno. Certo, ci sono molti casi di infami: persone che legano con le guardie per fare soffiate e avere in cambio dei favori. Ma tante volte si parla del più e del meno».

Giovanni: «Il mio rapporto con i detenuti è stato abbastanza buono: non ho mai avuto grossi problemi; solo alcuni momenti di tensione che capitano in tutti i posti dove ci sono, diciamo, “antagonisti”».

Un aneddoto sul legame più forte che hai creato nella comunità-carcere?

Giovanni: «Se si parla di legami forti nei confronti degli ospiti non ne ho, ma posso dire che essendo una grande comunità ci sono dei momenti che ti avvicinano di più verso alcune persone: alcuni si trovano, per un motivo o per l’altro, trasportati in un carcere e hanno bisogno di qualcuno che possa dar loro qualche parola di conforto».

Serge: «Il legame più stretto è stato con un giovane compagno di cella a Roma. Aveva una famiglia adottiva che gli portava sempre cibo e soldi; lui faceva dei piccoli traffici, che sarebbero proibiti: scambiava due pacchetti di sigarette con mezzo litro di vino, che amava ed era razionato. Eravamo molto legati, per me era come un fratellino. Per un po’ ci siamo sentiti una volta fuori, ma la madre ha preferito che tagliassimo i legami; l’ho capita e non ho insistito: spero anch’io che suo figlio abbia cambiato strada!».

La cella di un carcere (Pixabay, Licenza CC0 1.0)

Cosa pensi della mancanza di spazio e di privacy in carcere?

Giovanni: «Il problema degli spazi ridotti a causa del sovraffollamento delle carceri è quello che dà più fastidio sia ai detenuti, sia a noi che dobbiamo sorvegliarli: a volte in pochi metri quadrati sono costretti a stare in tre o quattro persone. Ovviamente spesso emergono problemi di convivenza, d’igiene e di privacy, che diventano anche per il personale di sorveglianza motivi di disagio».

Serge: «Gli spazi personali in cella non esistono, tutto è condiviso; fondamentali sono i compagni di cella. Ricordo, ad esempio, un periodo trascorso con un insegnante di liceo e un avvocato civilista: il primo era una persona molto educata e andavamo d’accordo; l’altro era arrogante e pretenzioso. Aveva molti soldi, perciò voleva che i suoi compagni lo servissero come domestiche e quando si lavava, lasciava acqua in tutto il piccolissimo bagno e stracci bagnati ovunque. Non è facile convivere con chi non rispetta gli altri e i loro spazi.

Le guardie, poi, possono sempre controllare tutto. La “perquisa” è sempre di mattina prestissimo: iniziano dal tuo corpo, ancora mezzo addormentato, e con i guanti frugano dappertutto; poi il letto e il resto della cella, dove entrano anche i cani. Tante volte è perché ci sono state soffiate, ma ogni tanto sono fatte a random».

I disagi più grossi e le maggiori difficoltà incontrate nel corso della tua esperienza?

Serge: «La difficoltà più grossa sta nell’accettare la situazione. I primi giorni non capisci dove sei, cosa ti sta succedendo, poi pian piano ti rendi conto che sei in gabbia, che di lì non esci. Non devi cadere in depressione, ma accettare il fatto di vivere in una realtà nuova, completamente diversa da quella cui sei abituato: devi creare nuovi legami e nuove abitudini, in attesa di essere di nuovo libero, ma senza pensare sempre al “fuori”».

Giovanni: «Diciamo che grossi disagi a Bergamo non ne ho incontrati, una volta superata la difficoltà di riuscire a integrarsi. Agli inizi della carriera, però, ho prestato servizio in alcune carceri, dove fortunatamente sono rimasto per poco tempo, come a Udine durante il terremoto del 1976, oppure a Torino durante una rivolta dei detenuti. Ma in sostanza era qualcosa che avevo scelto io e non mi lamentavo».

Quanta utilità vedi nel sistema carcerario, qual è la sua funzione?

Giovanni: «Il carcere, per il mio modo di vedere, ha una funzione molto importante: dovrebbe “Vigilando Redimere”, come diceva il motto degli ex Agenti di Custodia. Per merito o colpa delle nuove leggi, il carcere è diventato sì luogo dove non succedono quasi più rivolte, ma è anche pensato come qualcosa di sopportabile. Io credo che si dovrebbe condannare a pene meno lunghe, ma più difficili e senza i tanti privilegi che si hanno adesso; forse ci sarebbero meno persone che delinquono. Se penso che abbia un’utilità in questo stato, io dico di sì! Altrimenti ci sarebbe un’anarchia totale. L’unica pecca è forse proprio quello che dicevo prima: pene a volte troppo lunghe e anche lunghi i tempi per arrivare a una pena definitiva».

Serge: «Il carcere è un’esperienza forte, ovvio! Perciò ti segna e ti cambia, ma non si può mai sapere se in meglio o in peggio. Io posso dirti che il carcere mi ha cambiato, che dopo esser stato dentro sono cambiate le cose per me importanti, ma ho sbagliato ancora molto, anche perché una volta uscito non avevo nulla da cui ripartire. Ogni carcere poi ha la sua gestione, decisa dal direttore e molto autonoma: ci sono posti dove ti è data davvero la possibilità di migliorare, altri dove si è lasciati a se stessi ed è già difficile arrivare alla fine della giornata».

Su richiesta degli intervistati i nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

Interviste scritte e condotte da Sara Alberti e Sara Ferrari.

In copertina: un corridoio della prigione di Ushuaia (Argentina), ora un museo.

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