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Il mio coming out – prima parte

In occasione del festival Orlando di Bergamo, dedicato all’identità di genere, e della “Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia” del 17 maggio, Pequod ha chiesto a diversi ragazzi e ragazze di raccontare le loro esperienze di coming out e cosa hanno significato per loro. Di seguito riportiamo i loro racconti, editati e ridotti per ragioni di spazio e di chiarezza.

Andrea, 28 anni, Nembro (BG)

Ho parlato apertamente della mia omosessualità per la prima volta a 14 anni con la mia migliore amica, compagna di classe al primo anno di liceo artistico. Dopo di lei progressivamente tutti hanno saputo di me, non c’era più nessun tabù. Amici e famiglia, genitori inclusi, mi avevano accettato serenamente e non aveva più senso omettere ciò che era parte di me. Il mio coming out è stato una scelta dettata dalla necessità di condurre una vita alla luce del sole, lontano da paure e paranoie, da bugie, sotterfugi e omissioni. Vivere onestamente con sé stessi è un’esperienza esclusivamente positiva: non potrei accettare di vivere diversamente.  

Foto di Lorenzo – Tutti i diritti riservati.

Lorenzo, 28 anni, Ranica (BG)

Il mio coming out è stato a 22-23 anni, con la psicologa che vedevo da alcune settimane. Reprimere la mia sessualità mi aveva reso una persona infelice e profondamente insicura. Ho iniziato a soffrire di attacchi d’ansia regolarmente e senza motivo apparente, al punto che rinunciavo a partire per un viaggio o ad uscire con gli amici. La situazione era diventata insostenibile e questo mi ha spinto a iniziare il percorso di psicoterapia che poi mi ha portato a fare coming out. Da quel momento la mia vita è stata rivoluzionata in senso positivo. Ne ho parlato con tutte le persone a me più vicine, per me era fondamentale che sapessero chi ero, è stata un’esigenza quasi fisica. Inoltre, da bambino e adolescente evitavo situazioni o comportamenti che vengono comunemente associati all’omosessualità, cercavo di reprimere atteggiamenti considerati femminili che mi avrebbero fatto additare come “frocio”, il classico epiteto per denigrare chi come me non si comportava “da maschio”. Sicuramente il mio coming out è stato rallentato dall’aver interiorizzato questa omofobia “silenziosa” senza che ne fossi davvero consapevole. Fare coming out mi ha consentito di iniziare a vivere la mia sessualità ma anche di accettare il mio corpo ed esprimere in modo più libero la mia personalità, quindi per me è stato un po’ come ricominciare a vivere.

Arthur, 27 anni – Tutti i diritti riservati.

Arthur, 27 anni, Pavia, brasiliano di origine

Ho parlato per la prima volta del mio orientamento sessuale a 17 anni con i miei genitori mentre eravamo in vacanza. Si è trattato più che altro di dire quello che già sapevano, in quanto fin da piccolo avevo atteggiamenti effeminati. Se mio padre ha reagito in maniera assolutamente serena e tranquilla, mia madre all’epoca ci è rimasta un po’ male. Devo dire che la sua reazione mi ha sorpreso. Ha sempre avuto più amici gay che eterosessuali, quindi credevo che l’avrebbe presa piuttosto alla leggera. Dopo di loro l’ho detto ai miei amici, che non hanno avuto alcun problema ad accettarlo, anzi, mi hanno rispettato ancora più di prima. Ognuno deve fare coming out in base ai suoi tempi, non bisogna spronare qualcuno a dichiararsi se non si sente pronto, ma farlo è una liberazione.

Adele, 27 anni, Bergamo

Il mio primo coming out è stato con un’amica a 15 anni. E’ successo un po’ all’improvviso, senza pensarci. Chiacchieravamo del più e del meno e mi è venuto naturale confidarmi con lei. Sul momento l’ho vissuto come una liberazione e la mia amica mi ha convinta a parlarne con mia madre la sera stessa. All’epoca pensavo che fosse la cosa giusta da fare, ora se tornassi indietro forse non agirei tanto d’impulso… La reazione di mia madre mi ha lasciata completamente spiazzata. Fin da subito non ha accettato la cosa; l’ha minimizzata, dicendomi che era solo una fase e che col tempo avrei capito e sarei cambiata, e mi ha criticata, dicendo che era qualcosa “che faceva schifo”. Mi ha inoltre espressamente chiesto di non dirlo ad altri. Lavorando in ambito scolastico temeva il giudizio del suo ambiente, non voleva che si venisse a sapere. La sua reazione è stata traumatica per me e ha portato a quasi dieci anni di silenzio in famiglia. Mi ha profondamente ferita, soprattutto all’inizio, e i primi anni sono stati duri. Poi però è sopraggiunta una forte voglia di ribellione e di rivincita e ho iniziato a dirlo a tutti, per dimostrare che io non dovevo vergognarmi proprio di niente. Non è stato facile, ma dopo averlo detto a mia madre non mi sono più nascosta, avevo capito chi ero, non ho represso più nulla. Credo che lei non l’abbia ancora accettato e probabilmente non lo farà mai, ma col tempo abbiamo ripreso i rapporti e ora le cose tra noi sono migliorate. Se dovessi dare un consiglio a dei genitori su come reagire in caso il loro figlio faccia coming out con loro, direi loro soprattutto di non giudicarlo, di non dire frasi che lo possano ferire, perché se le porterà dentro per tutta la vita.

Francesca (a destra) con la sua ragazza Anna (a sinistra) – Tutti i diritti riservati

Francesca D’Onghia, 20 anni, Valbrembo (BG)

Ho fatto coming out per la prima volta all’età di 14 anni circa, con mia madre. Stavo già con la mia attuale ragazza allora, ma ero troppo giovane per vivere in modo sano la relazione. Ero abituata a tenermi tutto dentro e a piangere in silenzio, avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno o non sarei riuscita a sopportare la situazione ancora a lungo, perciò ho deciso di parlarne a mia madre. All’inizio ero in grande imbarazzo, perché fin da piccola mi ero accorta di provare attrazione per le ragazze, ma non riuscivo ad accettarlo: era troppo strano, ero troppo strana. Mia madre invece mi ha fatto subito sentire a mio agio, calmando le mie paranoie e lasciandomi sfogare. Ricordo quella sera come una sera di lacrime, sì, ma la annovero tra le più soddisfacenti della mia vita. Da allora sempre più persone sono venute a conoscenza della mia relazione e ormai credo che tutti siano consapevoli del mio orientamento sessuale. Non provo vergogna, ma orgoglio, orgoglio di essere finalmente ciò che voglio, ovunque e con chiunque. Questo è il consiglio che darei a un adolescente che non ha ancora fatto coming out: non bisogna fingere di essere quello che non si è solo per adattarsi alle aspettative degli altri. Gli amici che non ci comprendono e non ci accettano forse non sono poi così amici. La famiglia che spera che il figlio non sia gay è forse la stessa che pensa che la sua vita gli appartenga. Tutti noi siamo figli, amici, nipoti e fratelli, ma non apparteniamo a nessuno, se non a noi stessi. Nessuno può influenzare la nostra vita al punto da costringerci ad interpretare un ruolo che non ci appartiene.

 

Su richiesta di alcuni intervistati, alcuni nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

Interviste di Sara Alberti, Francesca Gabbiadini, Amir Saleh.

In copertina: due ragazzi si baciano davanti alla chiesa battista di Wesboro (ph. Karen Bleier/AFP/Getty)

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Lucia Ghezzi

Classe ’89, nata in un paesino di una valle bergamasca, fin da piccola sento il bisogno di attraversare i confini, percependoli allo stesso tempo come limite e sfida. Nel corso di 5 anni di liceo linguistico sviluppo una curiosa ossessione verso i Paesi dal passato/presente comunista, cercando di capire cosa fosse andato storto. Questo e la mia costante spinta verso “l’altro” mi portano prima a studiare cinese all’Università Ca’ Foscari a Venezia e poi direttamente in Cina, a Pechino e Shanghai. Qui passerò in tutto due anni intensi e appassionanti, fatti di lunghi viaggi in treni sovraffollati, chiacchierate con i taxisti, smog proibitivo e impieghi bizzarri. Tornata in patria per lavoro, Pequod è per me l’occasione di continuare a raccontare e a vivere la Cina e trovare nuovi confini da attraversare. Sono attualmente responsabile della sezione di Attualità, ma scrivo anche per Internazionale.

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