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Al carcere di Bollate… si cucina!

Sono quasi le 18 quando entriamo nel ristorante InGalera. Alcuni redattori di Pequod ed io ci siamo addentrati tra le pentole e i fornelli del carcere più stellato d’Italia, al penitenziario di Bollate in provincia di Milano, per raccontare la storia di questa attività e dei suoi protagonisti. Iniziamo dunque a curiosare in cucina…

Appena varcata la soglia, un profumo di timo e rosmarino ci avvolge: Mirko, il secondo chef, sta tritando con maestria gli ingredienti che poi andranno ad aromatizzare il pane. Esperto di secondi piatti, Mirko racconta delle prelibatezze di carne e pesce che è solito preparare, forte della sua esperienza in cucina iniziata nel 1982. Per stasera verrà servito un timballo di agnello al ginepro, con crema di broccolo e pane: «Il nostro menù è stagionale e segue le differenti disponibilità del mercato». A gestire i fornelli di InGalera ci sono 4 chef e un pasticciere, i quali studiano e provano assieme varie ricette, sebbene la decisione finale spetti all’Executive Chef del ristorante.

Davide è diventato Executive Chef nell’ottobre 2016, dopo aver ottenuto la facoltà di poter lavorare grazie all’Articolo 21 dell’ordinamento penitenziario che permette ai detenuti o agli internati di poter svolgere attività lavorative all’esterno del carcere. «Mi occupo della creazione del menù, faccio la spesa e scelgo i fornitori», racconta Davide: «Quando sono subentrato in autunno, ho voluto portare il mio gusto in cucina, scegliendo ricette che trasmettessero cosa significhi per me cucinare. La mia idea di cucina è una cucina semplice, bella e fatta con passione. La semplicità sta negli elementi, come l’acqua, la bellezza nella presentazione, la passione sta nel fatto che nella mia cucina sono coinvolti i cinque sensi». La passione Davide l’ha dimostrata anche in cella, dove senza strumenti a disposizione ha comunque studiato per non perdere l’allenamento. Nella cucina di InGalera non ci sono tecnologie, è tutta chimica: «Quello che prima, fuori, sapevo fare con la tecnologia, ora lo rifaccio con le mani». Il pasticciere Federico non permette a Davide di proseguire oltre, posando in tavola un esempio pratico di ciò che InGalera può offrire, ossia un piatto che ci farà posare le penne per impugnare i cucchiaini…

Questa è la cheesecake del ristorante! Nell’ampolla di ghiaccio, il vostro cucchiaino incontrerà la purea di kiwi e formaggio fuso da contornare con la base di torta sgretolata ai piedi dell’ampolla, da favorire con un ribes o un kiwi. Una torta tutta da assemblare e assaporare. «La passione per la cucina me l’ha tramessa mio nonno, cuoco professionista – ci confessa Federico – Sin da subito sono rimasto affascinato dal potere del cibo: capitava a volte di sedersi a tavola arrabbiati o frustrati, ma appena il piatto veniva posato di fronte agli ospiti, le persone si rilassavano per godersi la pietanza. Poi, si poteva ritornare alle proprie faccende, ma lo si faceva sempre con tranquillità, dopo la soddisfazione di un bel pasto».

Al ristorante InGalera, collaborano sia cittadini liberi che gli ospiti del carcere di Bollate detenuti, per la maggior parte non a digiuno né dell’arte culinaria né di attività nell’ambito della ristorazione. Il ristorante, aperto dal settembre 2015, nasce per offrire ai carcerati regolarmente assunti la possibilità di riappropriarsi o apprendere la cultura del lavoro. Silvia Polleri, Responsabile della cooperativa “abc La Sapienza in Tavola” e del ristorante, ci spiega come l’idea di aprire un’attività di questo tipo, a Bollate, sia nata «da un’esigenza espressa dai detenuti, dopo anni passati a lavorare nel servizio catering». InGalera è il primo ristorante della storia italiana a essere aperto all’interno di un carcere e sin da subito il penitenziario ha colto l’immensa potenzialità: «In carcere – prosegue Silvia – finiscono coloro che hanno trasgredito le regole e non a caso nei ristoranti si dice “Brigata di sala” e “Brigata di cucina”. È un terminologia ripresa dalla marina e adattata alla ristorazione per sottolineare le ferree regole che necessariamente bisogna seguire».

Per mangiare InGalera bisogna prenotare poiché il locale, curato e spazioso, non sempre riesce ad accogliere tutti coloro che desiderano assaggiare questa cucina. Di conseguenza, ci dirigiamo al nostro tavolo, saggiamente prenotato, e attendiamo che ci raggiunga l’orario di cena. Per ingannare il tempo, fumiamo una sigaretta con il maître Massimo, professionista decennale del settore: «Lavoro in questo ristorante e non in altri per l’esperienza in sé. A volte è difficile interfacciarsi con i colleghi detenuti; alcuni ragazzi vogliono sfruttare semplicemente l’occasione per non stare in cella, altri invece mettono cuore e anima per imparare un mestiere poiché non tutti sono entrati qui con esperienze professionali alle spalle. Il mio lavoro è anche quello di riconoscere questo impegno e incoraggiare i ragazzi». Tuttavia, il confine che separa l’esterno dall’interno di un carcere non è né netto e né definito, ma sottile e varcabile da chiunque: «Spesso arrivano clienti attirati dai pregiudizi che girano attorno alla figura del galeotto. Quello che però la gente non capisce, tante volte, è che non è così difficile finire in un penitenziario. Tutti coloro che non si immaginano di finire in carcere, prima di giudicare per partito preso, dovrebbero realizzare come chiunque possa commettere un errore che lo porti dentro». Un preconcetto che si dovrebbe destrutturare soprattutto nel momento in cui un detenuto ha scontato la pena e ritorna cittadino libero: «Io sono libero da giugno 2016, ma continuo a lavorare qui perché non riesco a trovare lavoro all’esterno. Lo sconto della pena pare non essere abbastanza per il reintegro nella società», mi racconta Mirko.

Arrivano i primi clienti, il menù ci viene consegnato. Non sappiamo scegliere, perciò ci affidiamo a Davide con il menù degustazione che qui voglio riportarvi sotto forma di fotografia. Buon appetito!

Ştefan, ragazzo rumeno di 23 anni, serve come cameriere InGalera da luglio 2016. Si trova molto bene, anche se ogni tanto «è dura». Non posso fare a meno di chiedergli dei suoi clienti: sono educati? Hanno mai rimandato un piatto indietro? «Sono molto variegati e può succedere, come in tutti i ristoranti. Altre volte, invece, capita che insistano sul perché io sia finito in carcere». La vulcanica Silvia, impegnata come responsabile non solo del ristorante ma anche (e soprattutto) dei “suoi ragazzi”, si avvicina e cercando di sussurrare dichiara: «Qui i camerieri sono troppo educati, fosse per me risponderei “Ma fatti i cavoli tuoi!”». Lo Chef Davide invece, senza batter ciglio, ha deciso di percorrere una strada più pacata: «Io di solito rispondo che ho avvelenato un cliente».

Il momento del caffè. Forse l’attimo più intenso della serata: Davide e Federico ci raccontano come tutti i piatti degustati fino ad ora siano frutto di una cucina di alto livello e della loro professionalità. Per il caffè, però, vorrebbero offrirci qualcosa di loro, un assaggio della loro vita quotidiana e accoglierci come ci accoglierebbero in cella, nei momenti liberi: «In cella abbiamo un fornello, una tazza di plastica e un mestolino di legno. Quando ci incontriamo prepariamo il caffè alla napoletana, con una scorza di limone nella moka. La tazza serve invece per montare lo zucchero e creare la crema del caffè… prego, questi siamo noi».

InGalera

Via Cristina Belgioioso, 120

20157 Milano

Tel. 02 91577985 Cell. 334 3081189

www.ingalera.it

ristoranteingalerabollate@gmail.com

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Francesca Gabbiadini

Nata in valle bergamasca nell’inverno del 1989, sin da piccola mi piace frugare nei cassetti. Laureata presso la Facoltà di Lettere della Statale di Milano, capisco dopo numerosi tentavi professionali, tra i quali spicca per importanza l’esperienza all’Ufficio Stampa della Longanesi, come la mia curiosità si traduca in scrittura giornalistica, strada che mi consente di comprendere il mondo, sviscerarlo attraverso indagini e ricomporlo tramite articolo all’insegna di un giornalismo pulito, libero e dedito alla verità come ai suoi lettori. Così nasce l’indipendente Pequod, il 21 maggio del 2013, e da allora non ho altra vita sociale. Nella rivista, oltre ad essere fondatrice e direttrice, mi occupo di inchieste, reportage di viaggio e fotoreportage, contribuendo inoltre alla sezione Internazionale. Dopo una tesi in giornalismo sulla Romania di Ceauşescu, continuo a non poter distogliere lo sguardo da questo Paese e dal suo ignorato popolo latino.

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