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Combattere la noia è l’arte del pendolare

Quest’anno riprendo l’università. Ed inesorabile riprende la mia vita da pendolare.

Abitando in un paesino alle pendici di quella che si definisce alta valle e dovendo raggiungere la grande metropoli capoluogo lombardo, la scelta di spostarsi con i mezzi pubblici rappresenta una sfida che vuole una certa preparazione: si tratta complessivamente di un viaggio quotidiano di 8 ore, divise tra andata e ritorno; impegnarle è praticamente un lavoro per cui è bene organizzarsi.

Negli anni ho ormai fatto mia l’arte del pendolare, attitudine del “fuorisedemanontroppo”, prigioniero di un limbo dove non si è degni d’un appartamento, la patente di guida diventa inutilizzabile e le proprie gambe non bastano più. Quantomeno pensavo di averla fatta mia! Ma c’è sempre un giorno in cui l’automatismo delle nostre azioni fallisce; quel giorno, nella vita del pendolare si apre uno spazio per il più temuto nemico: la noia.

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Arrivando alla fermata dell’autobus quando ancora non ha finito di ritirarsi il buio della notte e solo grazie al passaggio di alcuni magnanimi lavoratori su turni, è difficile trovare la forza per abbattersi di fronte all’evidenza che l’iPod (estratto da una borsa sovraccaricata, dopo infinitesimali istanti di ricerche quasi geologiche, in virtù del ritardo dei mezzi) ha la batteria scarica. Poco male: è troppo presto per agitarsi, ma anche per tenere gli occhi aperti; l’arrivo del bus è accolto da me e dai pochi miei compagni d’attesa come fossimo a fine giornata, all’ora del meritato riposo. Finalmente si dorme!

Il risveglio è un vero e proprio trauma: ancora non è giorno e noi a occhi chiusi, come bestiame al pascolo, ci seguiamo dall’autobus al tram. Inizio a svegliarmi quel tanto per aver la forza di stupirmi ancora una volta del fatto che, fossimo tra fine ‘800 e inizio ‘900, non dovrei darmi la pena né di svegliarmi per attraversare a piedi la strada e cambiar mezzo né tantomeno di calcolare i minuti di ritardo che l’autista dell’autobus non potrà evitare sulla strada provinciale. Prima dell’era del petrolio, due tram attraversavano le valli bergamasche per raggiungere il capoluogo provinciale; così come altre infrastrutture italiane, sono state dismesse negli anni ‘50 per far spazio ad automobili e cemento ed ora le si vorrebbe indietro.

Affronto il troncone di ferrovia ricostruito nel 2009 tentando invano di riprender sonno e fissando invidiosamente gli altri passeggeri: quasi tutti assorti nella musica che passa dagli auricolari, molti a occhi chiusi, qualcuno concentrato sul telefono, probabilmente in qualche social network. Mi preparo per la prossima ora di treno, cercando nella borsa un libro da leggere, ma ancora una volta la fortuna non mi assiste: sul mio comodino sono rimasti sia il romanzo che cercavo sia il libro di testo che sto studiando. Ho con me solo testi da riconsegnare e appunti già ripassati.

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Per il resto del tragitto, la mia unica attrazione sono gli altri viaggiatori.

Quasi tutti dispongono di un mezzo tecnologico, la maggior parte di uno smartphone, alcuni di un portatile; sprovvista di un telefono munito di connessione internet, a quest’ora del mattino mi sento esclusa dal mondo, che sembra essersi spostato nella dimensione virtuale. Tento di spiare gli schermi attorno a me: Candy Crush Saga regna sovrano; mi tornano alla mente i Polly Pocket e i Mini Pony dei viaggi per il mare con mamma nei primi anni ’90: i colori e le forme sono ancora gli stessi, rimasti immutati nel passare del tempo e delle evoluzioni tecnologiche. Al tempo, i genitori compravano i Tamagotchi, i primi diari elettronici, i Gameboy per i figli; oggi genitori e figli stringono alleanze, si regalano frutta, si scambiano vite in forma virtuale.

Ancora stretto il legame tra tecnologia e informazione: le notizie fioccano tra i pixel, s’ingrandiscono sotto i polpastrelli. Qualcuno ancora sfoglia i giornali, per lo più approfittando pigramente dei fogli lasciati agli ingressi delle stazioni, ma la maggior parte dei pendolari si affida alla rete e velocemente scorre da un contenuto all’altro.

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Ultima tappa: metropolitana milanese.

La capitale dell’industria non delude e mi regala immagini di pura attualità: uomini e donne in carriera si tuffano nei treni avvolti da cuffie insonorizzanti, discutendo dentro microfoni invisibili, gesticolando su multitouch screen, sfogliando pagine letterarie su opachi kindle.

Stretto tra loro, un giovane universitario si mantiene perfettamente in equilibrio al centro del corridoio, stringendo tra le mani un libro su cui spicca il sigillo della biblioteca. Questa è la vera arte del pendolare.

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.

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