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Fotografie noiose: perché scattiamo immagini tutte uguali

“We’re exposed to an overload of images nowadays (…) By printing all the images uploaded in a 24-hour period, I visualise the feeling of drowning in representations of other peoples’ experiences.”

Kessels su “24 hrs in photos”

L’artista Erik Kessels nel 2012 ha scaricato, stampato ed esposto nelle sale del Foam tutte le fotografie che in ventiquattr’ore venivano caricate su Flickr: erano circa un milione, e hanno riempito le stanze con enormi cumuli di piccole stampe.

La quantità di immagini esistenti al giorno d’oggi è incalcolabile e la sua crescita, a causa della facilità con cui oggi ognuno di noi può scattare fotografie, è esponenziale: ma quante di queste immagini sono rilevanti?

Con un archivio di queste dimensioni e in continua espansione, la ripetitività di stili e soggetti è inevitabile, e anche quando si pensa di star scattando una fotografia artistica, giusto perché non si sta inquadrando il gruppo di amici in vacanza e si prova ad aggiungere qualche filtro allo scatto, nella gran parte dei casi si sta costruendo un’immagine simile a mille altre.

Il nostro immaginario è ormai saturo di inquadrature e soggetti che per questo diventano modelli per le nostre fotografie: è l’occhio che si abitua a certi tipi di composizione, e così, inconsapevolmente, produciamo immagini ripetitive, simili tra loro, immagini noiose.

Non è un fenomeno nuovo: i cliché in fotografia cambiano con il gusto del tempo, ed è questo il motivo per cui ci ritroviamo con vecchi album pieni di fiori e tramonti sul mare e lo smartphone intasato da gatti e colazioni al bar.

Il tempo (passato in coda) è denaro

Poco l’uomo teme quanto l’annoiarsi, la morte soltanto contro l’agguato della noia nell’attesa. Miriadi di passatempi furono creati per combattere l’inerzia malinconica, l’invincibile monotona insoddisfazione: sale d’attesa brulicanti di gladiatori di Candy Crush, sprovveduti sfogliatori di riviste di design e l’antiquato chino sul Nokia a cercare asilo in Snake Xenzia.

Parzialmente conosciamo come salvarci dal fastidio ma, fulminea, una spia s’accende: sei all’ufficio postale, biglietto n° 58, 32 lampeggiante sul tabellone, due sportelli aperti su cinque; gli occhi si aprono sulla consapevolezza assopita del tempo risicato che ci spetta sulla terra. Sconforto intollerabile! indecenza!

Siamo nel gennaio 2014 a Milano in coda per pagamento bollettini. Un idea sboccia, la luce irradia dalla figura del salvatore. Giovanni Cafaro da Salerno, 43 anni, laureato, da poco trovatosi senza lavoro ne inventa uno senza precedenti: la tua coda allo sportello da oggi la prende lui! 10 euro l’ora (con ricevuta) e si farà carico d’ogni tua noiosa faccenda burocratica e commissione (va anche al supermercato a farti la spesa).

Si apposta nelle zone centrali di Milano distribuendo volantini informativi della sua nuova vocazione: passano pochi giorni e i primi curiosi lo contattano. I curiosi diventano clienti e ora Giovanni può vantare la nomea di primo codista d’Italia.

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La richiesta del suo servizio aumenta e la voce dell’impiego futuristico spande in tutta la penisola. Inevitabile il proliferare dei seguaci attratti dal modello del Nostro che da così inizio a corsi di formazione per codesti via Skype: «Con i miei corsi ho formato e certificato oltre 100 codisti in tutta Italia. Alcuni sono ora assunti come dipendenti in aziende con il contratto nazionale del codista da me creato mentre altri esercitano come liberi professionisti. Ho un sito internet dove ognuno può trovare informazioni riguardo l’iscrizione ai corsi». Le aziende richiedono questa figura, i privati pure. Giovanni è risorto con le sue mani.

Lo contatto qualche giorno fa e la sua risposta è celere, disponibile:«La mia giornata è piena, un lavoro full time oserei dire. Il mattino lo dedico alle code negli uffici pubblici e nel pomeriggio ritiro e consegno pratiche burocratiche. Le richieste sono in aumento e cerco di soddisfare le esigenze di una vasta varietà di clientela: dalle aziende ai privati, dai commercianti agli anziani e disabili. Succede spesso che mi vengano affidate somme di denaro per versamenti: le persone si fidano della mia professionalità e ne vado fiero».

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Ho chiesto a Giovanni come vive le attese, facendo risparmiare le noie ai clienti, di quale filosofia professionale si avvale questo supereroe che lotta contro la noia degli uffici: «è  raro che la noia mi prenda durante il lavoro; La mia non è una coda “passiva”: solitamente nel mentre lavoro al pc oppure aggiorno i contatti di lavoro e l’agenda settimanale. Se vuoi prendere questa strada è necessario affinare la calma e la pazienza. Le ore che passi aspettando il tuo turno sono da considerare lavoro, non più una perdita di tempo!»

Giovanni, come accennato prima, ha un sito dove potete contattarlo. Se non volete più logorarvi stomaco e nervi in smisurate processioni fategli un colpo. Anche solo per avere il tempo di trovare un altro modo d’annoiarsi. Inconsciamente.

Combattere la noia è l’arte del pendolare

Quest’anno riprendo l’università. Ed inesorabile riprende la mia vita da pendolare.

Abitando in un paesino alle pendici di quella che si definisce alta valle e dovendo raggiungere la grande metropoli capoluogo lombardo, la scelta di spostarsi con i mezzi pubblici rappresenta una sfida che vuole una certa preparazione: si tratta complessivamente di un viaggio quotidiano di 8 ore, divise tra andata e ritorno; impegnarle è praticamente un lavoro per cui è bene organizzarsi.

Negli anni ho ormai fatto mia l’arte del pendolare, attitudine del “fuorisedemanontroppo”, prigioniero di un limbo dove non si è degni d’un appartamento, la patente di guida diventa inutilizzabile e le proprie gambe non bastano più. Quantomeno pensavo di averla fatta mia! Ma c’è sempre un giorno in cui l’automatismo delle nostre azioni fallisce; quel giorno, nella vita del pendolare si apre uno spazio per il più temuto nemico: la noia.

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Arrivando alla fermata dell’autobus quando ancora non ha finito di ritirarsi il buio della notte e solo grazie al passaggio di alcuni magnanimi lavoratori su turni, è difficile trovare la forza per abbattersi di fronte all’evidenza che l’iPod (estratto da una borsa sovraccaricata, dopo infinitesimali istanti di ricerche quasi geologiche, in virtù del ritardo dei mezzi) ha la batteria scarica. Poco male: è troppo presto per agitarsi, ma anche per tenere gli occhi aperti; l’arrivo del bus è accolto da me e dai pochi miei compagni d’attesa come fossimo a fine giornata, all’ora del meritato riposo. Finalmente si dorme!

Il risveglio è un vero e proprio trauma: ancora non è giorno e noi a occhi chiusi, come bestiame al pascolo, ci seguiamo dall’autobus al tram. Inizio a svegliarmi quel tanto per aver la forza di stupirmi ancora una volta del fatto che, fossimo tra fine ‘800 e inizio ‘900, non dovrei darmi la pena né di svegliarmi per attraversare a piedi la strada e cambiar mezzo né tantomeno di calcolare i minuti di ritardo che l’autista dell’autobus non potrà evitare sulla strada provinciale. Prima dell’era del petrolio, due tram attraversavano le valli bergamasche per raggiungere il capoluogo provinciale; così come altre infrastrutture italiane, sono state dismesse negli anni ‘50 per far spazio ad automobili e cemento ed ora le si vorrebbe indietro.

Affronto il troncone di ferrovia ricostruito nel 2009 tentando invano di riprender sonno e fissando invidiosamente gli altri passeggeri: quasi tutti assorti nella musica che passa dagli auricolari, molti a occhi chiusi, qualcuno concentrato sul telefono, probabilmente in qualche social network. Mi preparo per la prossima ora di treno, cercando nella borsa un libro da leggere, ma ancora una volta la fortuna non mi assiste: sul mio comodino sono rimasti sia il romanzo che cercavo sia il libro di testo che sto studiando. Ho con me solo testi da riconsegnare e appunti già ripassati.

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Per il resto del tragitto, la mia unica attrazione sono gli altri viaggiatori.

Quasi tutti dispongono di un mezzo tecnologico, la maggior parte di uno smartphone, alcuni di un portatile; sprovvista di un telefono munito di connessione internet, a quest’ora del mattino mi sento esclusa dal mondo, che sembra essersi spostato nella dimensione virtuale. Tento di spiare gli schermi attorno a me: Candy Crush Saga regna sovrano; mi tornano alla mente i Polly Pocket e i Mini Pony dei viaggi per il mare con mamma nei primi anni ’90: i colori e le forme sono ancora gli stessi, rimasti immutati nel passare del tempo e delle evoluzioni tecnologiche. Al tempo, i genitori compravano i Tamagotchi, i primi diari elettronici, i Gameboy per i figli; oggi genitori e figli stringono alleanze, si regalano frutta, si scambiano vite in forma virtuale.

Ancora stretto il legame tra tecnologia e informazione: le notizie fioccano tra i pixel, s’ingrandiscono sotto i polpastrelli. Qualcuno ancora sfoglia i giornali, per lo più approfittando pigramente dei fogli lasciati agli ingressi delle stazioni, ma la maggior parte dei pendolari si affida alla rete e velocemente scorre da un contenuto all’altro.

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Ultima tappa: metropolitana milanese.

La capitale dell’industria non delude e mi regala immagini di pura attualità: uomini e donne in carriera si tuffano nei treni avvolti da cuffie insonorizzanti, discutendo dentro microfoni invisibili, gesticolando su multitouch screen, sfogliando pagine letterarie su opachi kindle.

Stretto tra loro, un giovane universitario si mantiene perfettamente in equilibrio al centro del corridoio, stringendo tra le mani un libro su cui spicca il sigillo della biblioteca. Questa è la vera arte del pendolare.

Ma quando finisce?

«Ma quando finisce?»: penso che sia capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di averlo pensato durante la visita a una mostra o a un museo.
L’esperienza più o meno positiva può dipendere da diversi fattori: innanzitutto gli oggetti esposti – si può essere di fronte a dei celebrati capolavori ma se questi non sono in grado di entusiasmarci, o addirittura di suscitare il minimo interesse, la visita può risultare solo una perdita di tempo.
In secondo luogo l’allestimento: il saper scegliere le modalità di esposizione, dalla sede (in particolare per le mostre) al posizionamento delle opere, fino ai dettagli minori come il colore delle pareti o l’illuminazione, è una componente essenziale per la buona riuscita di una visita.
Altri elementi riguardano fattori che esulano dalle scelte dello staff artistico o dall’architettura che ospita le opere; pensiamo alle guide non sempre coinvolgenti: prestare attenzione a una persona che ha un timbro di voce monotono e noioso non fa altro che aumentare il desiderio che il tempo trascorra il più rapidamente possibile.

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Dietro ad una mostra, o alla scelta delle disposizione delle sale di un museo c’è, in teoria, un intento scientifico, vale a dire la volontà di approfondire una tematica attraverso uno studio meticoloso da cui nasce un percorso pensato appositamente a tale scopo. In teoria, appunto, perché spesso lo scopo scientifico viene meno quando vengono organizzate le cosiddette mostre “blockbuster”, eventi in cui il protagonista è il grande artista in grado di richiamare folle numerose e far guadagnare l’ente organizzatore, mentre le opere sembrano scivolare in secondo piano.
Tradire il punto di vista più razionale e intellettuale ha però i suoi vantaggi: tutti possono godere delle meraviglie esposte, soprattutto perché le conoscono già e, da improvvisati ciceroni, possono deliziare amici e parenti con notizie, a volte, piuttosto discutibili.
Questo tipo di esposizioni offrono anche divertenti soluzioni, come la criticata/apprezzata camera da letto allestita alla mostra dedicata a Dalì al Palazzo Reale di Milano, dove un ambiente è stato allestito con mobili ispirati agli elementi onirici caratteristici dell’immaginario del pittore in modo da formare un volto.

Percorsi su più piani, locandine originali che colorano le pareti, maxischermi e comode poltrone rosse: benvenuti al Museo Nazionale del Cinema di Torino!

Il principale ostacolo al pieno godimento di una mostra o di un museo, tuttavia, resta la mancata comprensione di ciò che si sta guardando: trovarsi di fronte ad un’opera d’arte e non avere la minima idea di che cosa rappresenti è sicuramente fonte di sconforto; a volte nemmeno le targhette esplicative con nome dell’artista e titolo servono a migliorare il nostro stato d’animo.
In uno dei luoghi di trasmissione di cultura per eccellenza, non apprendere rappresenta un fallimento, anzitutto degli organizzatori: è necessario stimolare l’attenzione di un pubblico non composto dai soli addetti ai lavori, ai quali basterebbe la nuda opera, senza bisogno di tanti fronzoli, per lasciarsi coinvolgere alla scoperta di significati profondi e dal mondo interiore dell’artista, ma di soggetti che vanno catturati da percorsi interattivi in cui non si è solamente spettatori, dall’adolescente annoiato in gita scolastica alla famiglia al completo, dai bambini più curiosi ai visitatori più attempati.

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È il caso del Museo delle Scienze Naturali di Valencia, noto anche per l’avveniristica architettura, da attraversare in lungo e in largo con grande libertà d’azione (qui Toccare è sempre permesso, in controtendenza alla maggior parte delle strutture museali); tornando a casa nostra, non dimentichiamo le scenografie suggestive e divertenti del Museo Nazionale del Cinema di Torino o l’innovativo festival Uovokids che anima il Museo Nazionale della Scienza e Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano, un omaggio alla creatività dei bambini, tra laboratori pratici e percorsi artistici all’insegna dell’interazione.

Il piccolo pubblico stupito di Uovokids.

In copertina:Salvador Dalì, Viso di Mae West come appartamento.

If it’s boring just say it (in your own language)

Every language in the world has plenty of words for expressing feelings or emotions, but one sensation in particular has no shortage of idiomatic expressions to be described with – boredom. Pequod drew a list of colorful and typical expressions from all over the world and noticed some interesting patterns emerged. For example, death seems ubiquitous in Eastern European countries boredom-related expressions, while in the more passionate romance languages references to human genitals abound. Chinese stands right in the middle with both expressions referring to death and to testicles. In addition, the Middle Kingdom draws from his rich cuisine to offer a fascinating figure of speech that involves soy sauce.

The sensual Mediterranean

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“Sexist language #1” “What a big pussy”

The stereotype says that people from the South are usually more open, fun and exuberant. That’s probably why when it comes to boredom they often refer to their genitals. In Italy the idea of the Latin macho seems to be influential, as bored people cry out che palle, meaning “what testicles” when they’re bored. Their French cousins share the same feeling with the similar expression ça me casse le couilles (“this is breaking my balls”). Interestingly Spanish language is more women-focused in this case and involves female genitals in the colorful expression ¡que coñazo! (“what a big pussy”). Well, to be fair and not to reduce Mediterranean people only to sex-obsessed individuals, we’d need to add another saying which is connected to the other great passion of Southern European countries – food. Que rallada is what you say when something is particularly boring and comes from “pan rallado” (grated crumbs) that Spanish use to make delicious fried pescado or croquetas.

In the same context Basque language constitutes an exception. Probably because of their nationalist and independent nature, Basque people don’t agree with Spanish sexism or food addiction, claiming nazkatuta nago (“I’m disgusted”) when they’re bored.

Depressing Eastern Europe

"How is it going there at the dača?" "Deadly boredom, my dear. I'm bored"
“How is it going there at the dača?” “Deadly boredom, my dear. I’m bored”

No sex nor food. Eastern European people want to die when they’re bored. In Romanian they say m-am plictisit de mor’ literally “I’m so bored I’m dying”, while Russians talk about skuka smertnaya (“deadly boredom”). We might suggest them a less irreversible solution to boredom: in Romania they may use a glass (or bottle) of Palinka, while vodka may help Russians finding boring less boring.

Shit, ass and similar

"As boring as ass"
“As boring as ass”

It may be hard to imagine that the ancient and noble Hebrew alphabet, rich in history and evocative meaning, would express vulgar terms such as “ass”. But what do we know? When a person is bored in Hebrew language would say mesha’amem tachat (“as boring as ass”). At least we must recognize the diplomacy of the term “ass”, including both men and women.

An inclusive attitude is shared by Dutch young generations, who instead of using the yet diffused expression dat is kut, where kut indicates the female genitals (but also means “shit”), tend to prefer dat zuigt, a literal translation of the English that sucks.

Drunk Chinese

Sleeping man, Beijing 2011
Sleeping man, Beijing 2011

Here’s Pequod’s number one bored people: the Chinese! No matter how technology is diffused in the country or how much they work to keep their economy the leading one in the world: they still get bored a lot. That’s why we found plenty of expressions to indicate boredom, some of them recalling those used in other languages. For instance Wuliao sile means “bored to death” and xian de danteng can be translated as “to be so bored that one’s eggs (testicles) hurt”. But it’s he jiangyou yao jiufeng – xian de that wins this boring competition. It literally means “getting crazy-drunk by drinking soy sauce” and can be explained by the fact that “drinking soy sauce” in Chinese stands for having nothing to do, so getting drunk with soy sauce means have absolutely nothing to do and be bored.

By Lucia Ghezzi, Margherita Ravelli

Noie mortali

La crudeltà nella quale si è consumata la tragedia di Luca Varani ha lasciato tutti nello sgomento: quello che più colpisce non è tanto l’efferata violenza degli eventi romani, quanto la mancanza di un movente ammessa da Marco Prato e Manuel Foffo, assassini di Luca per gioco: “per vedere che effetto faceva”.

Se l’evidente stato di alterazione provocato da alcool, droghe e psicofarmaci non basta a spiegare, il cupo senso di angoscia è amplificato dall’eco di una parola, un sentimento emerso in relazione al delitto: la noia. Ancora una volta l’essere umano ci stupisce in negativo. Un sentimento di insoddisfazione, fastidio e tristezza derivante dalla mancanza di sentirsi occupati, sfocia in un premeditato desiderio di far male a qualcuno, non importa chi. Come è possibile?

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La noia è stata oggetto di riflessione di illustri personaggi storici: dai latini ad Albert Camus, passando per Heidegger e Schopenhauer; correnti, filosofi, artisti e poeti hanno inevitabilmente dovuto farci i conti; «Amaro e noia la vita, altro mai nulla», scriveva Leopardi in A se stesso. E se c’è chi è riuscito a nobilitarla associandola alla malinconia o al pieno riposo, la maggior parte non ha potuto non collegarla ad un acuto sentimento doloroso, un’inquietudine dello spirito che non trova pace in nessun luogo, rintracciandone le cause nella vacuità dell’esistenza umana.

Ma mentre, forse, in passato, l’infinita vanità del tutto aveva forse la conseguenza di un eccessivo ripiegamento meditativo su se stessi, oggi l’estremizzazione di ogni esperienza, la trasgressione e il proliferare di modelli vuoti hanno prodotto meccanismi perversi e fame di desideri lontani da una percezione normale della realtà.

Tutti abbiamo sperimentato quant’è spiacevole sentirsi annoiati, non provare interesse per quello che si sta facendo, vuoi per routine, vuoi per avversione rispetto alle nostre inclinazioni – non a caso il sostantivo noia è associato spesso a parole come mortale, profonda, ingannare, combattere, tutti indizi di qualcosa da scacciare e rifuggire ad ogni costo.

Accantonando la noia che scaturisce da uno stato depressivo, è interessante osservare come il sentirsi annoiati possa essere la spia che ci avverte della necessità di cambiare una situazione interiore scomoda. La natura umana ci spinge a crescere ed emergere, ma va da sé che quando le cose intorno a noi non ci soddisfano e non troviamo il bandolo della matassa càpiti di perdere la capacità di lasciarsi emozionare e coinvolgere dal quotidiano.

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L’incapacità di porsi degli scopi produce una condizione nella quale la nostra mente precipita in un senso di vuoto e d’impotenza. La tecnologia ci ha poi abituato ad impiegare il tempo libero in maniera passiva, davanti a pc, televisione e cellulare, smarrendo in parte quella sana propensione all’azione. Si arriva così alla disperata ricerca di stimoli più forti per liberarsi dalla monotonia e conferire una carica d’eccezionalità al nostro vissuto.

I rapporti sociali fanno il resto: assecondando le aspettative altrui e situazioni contrarie alla nostra morale si rimane impantanati in scelte non in armonia con i nostri bisogni reali.

Con Marco Prato e Manuel Foffo siamo probabilmente di fronte a due personalità fragili e ancora alla ricerca della loro vera identità. Trentenni rimasti intrappolati in un labirinto emotivo, affettivo e sociale che li ha resi incapaci di distinguere fra i propri desideri e quelli degli altri. Un percorso di crescita mai completato che li ha condotti a non avere limiti e a non porseli.

L’epoca in cui viviamo ci offre opportunità che fino a qualche tempo fa sembravano inimmaginabili: situazioni che saturano le nostre giornate, continui pretesti e occasioni che permetterebbero cambiamenti radicali, idee che sfidano le fantasie più allenate; nonostante questo ci scopriamo demotivati, privi di interessi e quindi annoiati.

Le tante fonti di distrazione, anziché arricchirci, sembrano disperdere le nostre energie fomentando indolenza ed apatia, portandoci alla ricerca di qualcosa che dia sollievo, che renda il tempo più sopportabile. Ma una volta sperimentata l’esperienza limite anche questa prima o poi perde il carattere di novità.

Sogniamo un cambiamento radicale, vogliamo capire chi si è veramente, ma a rendere noioso ciò che ci circonda è la lente deformante sul nostro naso.

Senza droga probabilmente l’omicidio non sarebbe avvenuto, ma ad essere alterata, lo scorso 4 marzo, non era la percezione di Marco e Manuel in balia di coca e crystal meth, ma lo sguardo distorto attraverso cui guardavano alle loro vite.

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
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