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Saldare in fabbrica. Una mattinata tipo di Fabio dalla Minifaber

Oggi è il Primo Maggio. Oggi è la festa dei lavoratori.

Nata per celebrare le rivendicazioni e le passate vittorie sindacali, nonché i traguardi raggiunti dai lavoratori a livello economico e sociale, quale significato possiede questa data in una società caratterizzata dal precariato? Il lavoro fisso sembra oggidì una lontana e utopica speranza, mentre la realtà circostante si concretizza sempre di più in voucher, prestazioni occasionali, soldi in nero, sfruttamento (senza formazione) travestito da stage e tirocini… Che significato possiede oggi il Primo Maggio? È mero sinonimo del concerto in Piazza San Giovanni in Laterano? E soprattutto, cosa sappiamo oggi dei giovani operai?

La risposta a tali quesiti è (si spera) negli scatti di questo fotoreportage, dedicato al 24enne Fabio Bergamelli, giovane operaio presso l’azienda Minifaber da ben sei anni. «Sì, ho cominciato presto, ma la verità è che non mi pesa lavorare. Ciò che faccio mi piace e il tempo vola per davvero», mi spiega Fabio. L’azienda bergamasca Minifaber è specializzata nella lavorazione a freddo delle lamiere e nella progettazione e costruzione di stampi. All’interno del ciclo di produzione Fabio è saldatore, smerigliatore e lucidatore.

Quando sono andata a trovarlo, abbiamo smerigliato le vaschette per il gelato, facendo attenzione a quando nel metallo sono presenti spazi d’aria: allora non va bene, bisogna perciò fermarsi e fare una saldatura. Tra uno scatto e una spiegazione, osservo i giovani volti di chi lavora in fabbrica. Con il progressivo cambio generazionale dei suoi vertici, la Minifaber è oggi sensibile alle politiche di inserimento e formazione giovani: il 15% dei suoi dipendenti ha difatti meno di 30 anni e circa il 10% meno di 20, grazie anche alla collaborazione formativa e professionale con l’istituto tecnico ITIS  Paleocapa di Bergamo.

Brennero 2016: una lotta partigiana contro la chiusura dei confini

«Essere partigiano vuol dire fare delle scelte, prendere una parte. Chi ha fatto il partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale poteva decidere se imboscarsi, arruolarsi o fuggire; c’è invece chi ha scelto di combattere. Se ci pensi, i ragazzi partigiani di vent’anni erano nati e vissuti durante il fascismo, per loro c’era sempre stato il fascismo, non c’era nient’altro e non avevano esperienze di un’alternativa. Eppure in quel momento han scelto di combattere per un’alternativa».

Queste le parole di Claudio, un ragazzo del centro sociale autogestito Pacì Paciana di Bergamo. In questa settimana dedicata a coloro che hanno lottato e che lottano per un’idea di stato civile, vi racconterò di Claudio e degli altri ragazzi del centro che hanno preso parte alla manifestazione del 3 aprile scorso al Brennero.

Mobilize aganinst the borders of Fortress Europe è una manifestazione nata all’interno di due campagne parallele: Over the Fortress e No Borders. Il primo è un movimento specifico, partito dalla Germania e che ha inglobato i centri sociali del nord est e successivamente, per la questione di Idomeni, anche quelli delle Marche, poiché uniti da un’area politica comune; la manifestazione del Brennero rappresentava proprio un passaggio di questa campagna.

«Inizialmente fu un movimento che si occupava di accompagnare i profughi siriani in Slovenia o in Austria», mi spiega Claudio, «i quali venivano “caricati” in macchine e furgoni, secondo l’idea e il principio fondamentale che la mobilità è un diritto inviolabile, così come è garantito per le merci». Al Brennero hanno vietato le manifestazioni del 24 aprile e del 7 maggio per motivi di ordine pubblico «La verità è che non si può chiudere il valico di frontiera: chiudere il valico di frontiera significa non far passare le merci. Le persone non hanno il diritto di passare, le merci si?».

Una manifestazione ad alto valore simbolico quella del Brennero. Lo sfondamento di una chiusura di confine già annunciato non era l’obiettivo dei manifestanti: «Al Brennero siamo andati per una questione di “potenza” intrinseca a quella giornata e di validità del percorso politico: come Pacì Paciana siamo sempre stati indipendenti dalle aree politiche dei centri sociali italiani e ci muoviamo semplicemente sulle cose in cui riconosciamo una validità, una valenza politica importante».

Partecipare e prendere parte a quella giornata ha significato portare alla luce il fatto che, ad oggi, nella nostra società esiste un gruppo di persone che si spostano tra un confine e l’altro. Quello che è accaduto al Brennero è stato un gesto simbolico e «la dimostrazione di una volontà di costruire qualcosa che a lungo termine potesse arrivare, se non al superamento dei confini, almeno a una critica dei confini stessi», chiosa Claudio.

Questo movimento pare avrà seguito, tanto che i ragazzi del Pacì Paciana continuano a rimanere in contatto con gli altri centri sociali coinvolti. Sarà un’iniziativa che probabilmente vedrà un’esplosione durante il periodo estivo, soprattutto per capire se sarà possibile fare qualcosa di più efficace e che possa lasciare un seguito forte.

Ho infine chiesto a Claudio cosa significhi per lui essere partigiano oggi: «La grande indifferenza su questi argomenti mi fa spingere in prima persona: quello che sento è di essere in dovere di fare qualcosa, con la parzialità dell’azione simbolica, dell’azione e dello scendere in strada. Il rimanere fermo non la considero come una possibilità Ci tocca decidere se provare ad agire, con elevate probabilità di fallimento, oppure di scegliere di ignorare e rimanere nell’inazione: la passività è intollerabile».

Fotografie di Francesca Gabbiadini

Giovanni Marzona, staffettista partigiano per la conquista della libertà

Venerdì 22 Aprile 2016, mi aggiro per la sala del CSA Baraonda, dove aspetto d’ascoltare Giovanni Marzona (classe 1928 e ufficialmente partigiano dal 1943) riportare la sua esperienza nella conferenza di apertura dell’iniziativa Partigiani In Ogni Quartiere; lo osservo muoversi in quest’ambiente che ci si aspetta dovrebbe cozzare per anacronismo con un uomo della sua età, invece mi sorprendono la sua disinvoltura nel parlare ai ragazzi e la spontaneità della prima frase che gli sento pronunciare e che resterà nei miei pensieri per il resto della serata: «Non sono nato partigiano».

È nato bambino, il signor Marzona, e con i sogni di un bambino: giocare, cantare, esprimersi; ma in un’epoca in cui parlare non era ancora un diritto inalienabile. Figlio di un antifascista, Giovanni Marzona conobbe presto le difficoltà dovute all’essere considerato diverso e quindi escluso in una società in cui il cameratismo era un diktat; ricorda l’invidia per le baionette dei coetanei che sfilavano per la domenica fascista e il desiderio di partecipare alla lezione di educazione fisica, riservata ai figli degli iscritti al partito. Fa sorridere l’auditorio, raccontando della sospensione ricevuta per aver cantato lo Stelutis Alpins alla richiesta del rettore di ripetere l’Inno d’Italia (aspettandosi l’Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista), e intona:

«Se tu vens cassù ta’ cretis
là che lôr mi àn soterât,
al è un splaz plen di stelutis;
dal miò sanc l’è stât bagnât.»

Le ingiustizie subite hanno fatto di lui un partigiano, lo hanno spinto a mettersi in cammino. Incontrati i primi partigiani, nascosti sulle montagne friulane alle pendici delle quali era cresciuto, ha sentito sua fin da subito la lotta di questi uomini e presto ha deciso di seguirli. Con un sorriso ricorda che alla domanda del Comandante di diventare membro della Brigata Osoppo, come poi avverrà, il primo pensiero di Giovanni è stato: “Dovrei chiedere se posso alla mamma”.

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25 Aprile 1945 – Giovanni Marzona Alfa – Brigata Osoppo

Il viaggio del signor Marzona non è di quelli che portano lontano da casa, ma di quelli che fanno crescere.

Dal 1943 fino alla liberazione del Friuli Venezia Giulia nel 1946, sotto le vesti di Alfa (nome in codice ereditato da un combattente recentemente caduto) ha camminato tra i boschi montani e corso lungo i pendii di tutta la regione, per mantenere le comunicazioni tra le brigate dislocate in tutto il territorio.

Ricorda da un lato, le difficoltà della vita quotidiana all’interno delle compagnie: piccoli gruppi, così da esser poco identificabili, sprovvisti di cibo e di mezzi per cucinarlo («mentre mescolavo, il mestolo ha forato il tegame»), muniti solo di neve per lavarsi («il corpo era coperto di croste di sporcizia, che almeno aiutavano a sopportare il freddo»), mangiati dai pidocchi («quando la mamma ha messo a bollire i miei vestiti per lavarli, c’era un dito di pidocchi che galleggiava sull’acqua»).

Dall’altro, il desiderio profondo di pace. Per il signor Marzona è importante sottolineare che i partigiani erano pacifisti: è vero che non hanno risposto al disarmo alla richiesta di Eisenhower, poiché il nord Italia era ancora occupato dai fascisti, ma ricorda quando, nei primi mesi del ’46, si poteva sentire il rumore delle canne dei fucili, che con gioia i partigiani spezzavano nelle griglie dei lavatoi. Non consegnarono le armi: le ruppero, perché non potessero sparare mai più.

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Giovanni Marzona alla Giornata della Memoria 2009 a cura del Comitato Antifascista della Zona 8 Milano

I primi anni dopo la caduta del fascismo, la vita non fu più semplice per i partigiani: Giovanni Marzona ricorda molte porte chiuse, tanti posti di lavoro negati, a causa dei suoi precedenti “da dissidente”.

«Ma avevamo conquistato la libertà –dice con orgoglio- e per la libertà avremmo dato tutto».

Questo il messaggio che continua a condividere con la sua testimonianza, la lotta che non ha mai smesso di portare avanti, partecipando a conferenze, raccontando nelle scuole, condividendo con giornalisti e scrittori: il bene più prezioso che abbiamo è la nostra libertà, libertà di esprimerci e libertà di scegliere.

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Copertina del libro presentato il 22 Aprile 2016 al CSA Baraonda con la testimonianza di G. Marzona

L’Educazione civica non si fa (soltanto) sui libri

Riposto il tricolore dopo i festeggiamenti del 25 aprile, anche quest’anno gli italiani hanno svolto il loro ruolo da cittadini consapevoli, chi esprimendo gratitudine per la conquistata libertà, dandola meno per scontata del solito, chi polemizzando sul fatto che il Giorno della Liberazione debba esistere 365 giorni l’anno, o chi ancora insinuando dubbi più o meno leciti sull’effettiva libertà dei cittadini dello Stivale.

Un tale entusiasmo nell’esprimere la propria opinione e nel sentirsi cittadini d’Italia fa quasi sorridere, o innervosire, se si pensa all’affluenza da record (negativo) al recente referendum sulle trivelle, alla posizione del Capo del Governo in merito alla questione e alle innumerevoli parole che sono state dette e scritte sull’argomento. Come nasce dunque questo duplice animo dei cittadini italiani, talvolta motivati e intrisi di senso civico, altre volte apatici e totalmente indifferenti allo Stato, con tutti i suoi annessi e connessi?

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La risposta a questa problematica dicotomia va ricercata, come spesso accade, nelle nuove generazioni: si sa che i giovani sono come una tabula rasa, pronti per essere formati e modellati dalla società che li circonda. E quando si parla di senso civico, la scuola sembra venire prima della famiglia nel compito di infondere nelle nuove leve i valori del buon cittadino italiano. Ma che cos’è davvero l’Educazione civica nelle scuole italiane?

Lo abbiamo chiesto ad alcuni insegnanti della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo di Cene e Gazzaniga, provincia di Bergamo, la cui Dirigente è la dottoressa Elena Margherita BerraGiuseppe Scarlata, docente di Lettere, la definisce così: «La formazione degli alunni, sia facendo conoscere loro i principi della Costituzione, sia cercando di stimolare il senso civico in ognuno di loro evitando la semplice teoria e mettendo in pratica le parole. Per quanto mi riguarda l’educazione civica viene affrontata quotidianamente, ogni volta che si presenta l’occasione, spiegando storia, leggendo un brano di antologia o scoprendo i problemi dell’ambiente». Sembra dunque che l’Educazione civica rappresenti un sostrato comune a più discipline, qualcosa che trova espressione in ambiti e materie diverse; dello stesso parere è anche Patrizia Ongaro, insegnante di Lettere: «L’educazione civica è diventata un sapere trasversale: io personalmente, ma come penso molti docenti, ho affrontato temi di cittadinanza in tutte e tre le materie che insegno. Temi come il lavoro, i diritti e i doveri, la famiglia, il comune, l’organizzazione dello stato, la parità, le tasse, democrazia e dittature, l’ambiente… Sono argomenti che ho sviluppato svolgendo il mio programma».

Insomma, ai docenti intervistati sembra essere ben chiaro il proprio compito di “educatori del senso civico”, verso il quale mostrano una particolare devozione. Tuttavia, che cosa prevede ufficialmente lo Stato in merito all’insegnamento dell’Educazione civica? Ce lo spiega Scarlata: «Alle scuole medie alcune ore di Storia vengono dedicate alla disciplina, mentre nella scuola superiore l’educazione civica sembra sparire, tranne in quelle scuole in cui si insegna Diritto». Può sembrare lecito domandarsi se questa apparente sottovalutazione della disciplina possa costituire un problema vero a livello educativo. Ci rassicura Elisabetta Corna, docente di Lettere, che concorda coi colleghi: «L’ora di Educazione civica “istituzionalizzata”, a volte invocata come fosse la soluzione di tutti i mali, non è necessaria nel momento di cui, lavorando per competenze il più possibile, si insegna ai ragazzi che la società la si costruisce insieme, cominciando dal costruire all’interno della classe delle buone relazioni. In fondo, in questo lavoro di costruzione di un “sé” in relazione libera con gli altri, sta la chiave della felicità nella vita di una persona».

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L’Educazione civica sembra dunque essere profondamente radicata nella scuola media, seppure non sia fissa nella programmazione dell’orario delle materie o sottoposta a prove di verifica. Del resto, aggiunge Scarlata, «i ragazzi vedrebbero questa disciplina noiosa se istituzionalizzata, è molto più efficace associarla ai vari momenti della quotidianità scolastica, ad aspetti pratici. Ad esempio con le classi terze organizzo uno spettacolo per il 25 aprile. Quest’anno il titolo è La libertà è l’ossigeno dell’anima».

Ed è proprio in queste attività “pratiche”, slegate dalle pure materie di studio, che sta l’essenza delle proposte alternative messe in atto con successo dall’Istituto Comprensivo di Cene e Gazzaniga. Il progetto SCAT (Scuola, Cultura, Arte e Territorio), di cui ci parla Rosaria Bosio, docente di Arte ed Immagine, è una di queste proposte innovative e si pone l’ambizioso obiettivo di avvicinare la cittadinanza alla conoscenza della nostra Costituzione. Come? Tramite la rappresentazione pittorica degli articoli della Costituzione in spazi pubblici della città, che in questo modo vengono abbelliti e restituiti alla cittadinanza. «Educazione civica quindi non è solo una materia di studio, ma è un dovere di tutti», ci dice Bosio.

Ancora, la professoressa Corna ci racconta di come l’impegno dei docenti della scuola secondaria abbia portato alla formazione del Consiglio Comunale dei Ragazzi: «Straordinario strumento di partecipazione attiva alla vita civile, a partire dal proprio Comune, primo luogo di democrazia che ciascuno di noi conosce; esso coinvolge attivamente i ragazzi della secondaria di primo grado e, solo come elettori, quelli delle classi quinte della primaria».

Questi entusiasmanti esempi e le altre numerose iniziative promosse dalla scuola secondaria di primo grado faranno forse ricredere anche i più scettici sull’impegno della scuola dell’obbligo nell’educare le nuove generazioni ad essere cittadini coscienti e responsabili. Di fronte ad un tessuto sociale reso sempre più complesso dalla mancanza di valori, la scuola e gli insegnanti si pongono obiettivi ambiziosi ideando modalità sempre nuove e stimolanti di formazione e trasmissione della cultura e del senso civico.

 

What’s behind a victory parade?

More than seventy years after the end of World War II people and nations are still remembering the day the conflict ended. It is indeed an important moment of reflection for each citizen, who on the anniversary of his country’s liberation can appreciate the liberty he has more than during the rest of the year. On this day, which varies according to the country – it is April 25 in Italy, August 25 in France, May 5 in the Netherlands, for example – public demonstrations and parades are organized in several cities to pay homage to the victims of the war, to celebrate the resolution of the conflict, with the hope that something that terrible wouldn’t happen again.

Speaking of parades, an interesting case is the one of the two communist states which won the war, Russia and China. The meaning of memorial parades in the two states is of particular interest.

Russian May 9th

May 9th, devjatogo maja as they refer to in Russian, is also called “Victory Day” (Russian Den’ Pobedy). The name speaks for itself – Soviets chose to underline the fact that they had won the conflict. The entire eastern block of countries celebrates Victory Day on May 9, but Russia definitely does it bigger. Den’ Pobedy is usually celebrated with a solemn parade in Red Square in Moscow and all the departments of Russian Army join it. Interestingly May 9th parade had become a modest celebration in the 90s, but Putin brought it back to its majesty. The most glorious parade took place last year, in occasion of the 70th anniversary of the victory. It was joined by 16,000 Russian soldiers and 1,300 foreign troopers from 10 different countries, plus 200 tanks and 150 planes and helicopters.

Not only Moscow is interested by Victory Day parade though. Every Russian city celebrates May 9th with parades, fireworks, concerts and events, involving men and women, children and seniors. Nevertheless, the real protagonists of Den’ Pobedy, from Moscow to Vladivostok, are the veterans. They walk fiercely with their golden medals and their old uniforms, with a nostalgic gaze, and they are the real heroes of the day. One of them has recently become a case, when Russian photographer Aleksey Petrosian published on his Instagram profile a picture of a veteran crying during the 9th May parade in St. Petersburg in 2007, hoping to find his identity and reconstruct his story.

Picture by Aleksey Petrosian
Picture by Aleksey Petrosian

Chinese September 3rd

Despite Chinese people’s love for parades and political celebrations, for decades the anniversary of the end of the World War II in China – September 3rd – has been largely ignored by both the public and the government. This may seem apparently incredible, given the enormous death toll of the conflict in China – 20 million victims only among the civilians – and all the suffering inflicted by Japanese occupation (first and foremost the Rape of Nanjing).

Point is that it was Communist Party’s bitter foes – the Nationalists – who did most of the fighting and dying in WWII. For most of the war, the Communist Party had to operate in secrecy and was much less equipped than the Kuomintang, the ruling Chinese Nationalist Party supported by the United States. Beijing had therefore no interest in celebrating the victory of their enemies.

Foot Formation parade-Xinhua

However, on September 3rd 2015, a sumptuous parade was held in Beijing to commemorate the “70th Anniversary of Victories in the Chinese People’s War of Resistance Against Japanese Aggression and the World Against Fascism”. The parade was not only memorable for its grandeur, but also because it was the first time that the anniversary was properly commemorated in 70 years. To mark the occasion, the government even set a National Holiday of three days to allow citizens “to participate in memorial activities”, as the announcement read.

Gun salute-Xinhua

Why to start now? The reason is, of course, political. After Japan in 2012 nationalized the disputed Senkaku Islands (Diaoyu in Chinese), the relationship between the two countries have deteriorated considerably. The parade is therefore the last Chinese political move to underline Japan’s past (and present) aggressions and also to showcase China’s military force.

That’s how the anniversary went from being almost completely ignored to be widely promoted, but only for mere propaganda – probably not the best of reason.

Lucia Ghezzi, Margherita Ravelli

I partigiani di oggi rischiano la vita per la democrazia in Medio Oriente

Nonostante le dimostrazioni di potenza distruttrice degli attentati terroristici di Parigi e Bruxelles e il numero crescente di reclute occidentali, lo Stato Islamico sembra perdere sempre più terreno e supporto popolare in Medio Oriente. Già a gennaio 2016 i territori occupati dall’IS si erano ridotti notevolmente sia in Siria che in Iraq, un effetto dei bombardamenti occidentali e della lotta sul campo delle forze curde, i gruppi YPG (Unità di Difesa Popolare) e YPJ (Unità di Difesa delle Donne) e i Peshmerga del Kurdistan settentrionale. Insieme alla predominanza militare, lo Stato Islamico sta perdendo anche la stretta psicologica sulle popolazioni dei territori occupati, dove azioni di disobbedienza civile crescono in numero e audacia.

Esiste dunque una resistenza mediorientale contro lo Stato Islamico? A giudicare dai resoconti provenienti dalla regione decisamente sì, e come fu per il fenomeno della Resistenza italiana, anche quella contro l’IS varia nei metodi, passando dalla guerriglia in armi alle proteste non-violente.

A rendersi protagoniste dell’opposizione armata più strenua ed efficace contro lo Stato Islamico, appunto, sono stati finora i peshmerga iracheni e, in Siria, le milizie curde dei YPG e YPJ; tra le due fazioni, che politicamente hanno poco in comune, le YPG hanno attirato molta attenzione mediatica grazie alla spregiudicatezza dimostrata nel combattere con mezzi limitati un nemico ben armato e finanziato come l’IS (a differenza dei Peshmerga, che sembrano possedere armi più adeguate) e per l’ideologia che le caratterizza.

La lotta del YPG non è infatti unicamente volta a contrastare l’IS, ma si inscrive in un quadro più ampio di cambiamento sociale che i curdi sperano di attuare sul territorio. Nel 2013 questi hanno dichiarato il Rojava (Kurdistan occidentale) area autonoma all’interno della Siria, suddivisa in tre cantoni governati da assemblee popolari. Il YPG si contraddistingue inoltre per una forte spinta anti-capitalista e per l’aspirazione a creare una società equa e governata dal basso, basata sull’eliminazione delle gerarchie sociali, a partire da quelle di genere.

Sebbene l’organizzazione sottolinei di essere separata dal Partito dei Lavoratori Curdi (PKK), considerato un’organizzazione terrorista da Turchia, Stati Uniti ed Europa, la sua vicinanza a quest’ultimo la rende sospetta per Erdogan, mentre la maggior parte delle forze occidentali ha imparato a vederla come alleata nella lotta contro l’IS. Sospetti e critiche verso il suo operato vengono anche da altri: Amnesty International l’ha accusata di operare rimozioni forzate delle popolazioni arabe dai villaggi nelle aree sottoposte al suo controllo, mentre alcuni suggeriscono che abbia legami poco chiari con il regime di Assad. Le YPG rigettano tali accuse e prendono le distanze dalle aspirazioni nazionaliste del PKK, presentandosi come un’entità multi-etnica e multi-nazionale impegnata nella difesa di tutte le popolazioni etniche del Rojava.

Gli entusiasmi e gli scetticismi riguardo alle YPG abbondano ed è difficile stabilire dove sia la verità nel groviglio di informazioni più o meno di parte che ci raggiungono. Quello che è certo è che le loro aspirazioni di giustizia sociale e la tenacia dimostrata nel combattere il fascismo religioso dell’IS rendono difficile non vederle un po’ come le brigate partigiane del nuovo millennio.

Come accennato sopra, la resistenza contro lo Stato islamico in Medio Oriente è fatta anche di episodi di disobbedienza civile e infazioni quotidiane dei codici islamici imposti. Nel 2013 una manifestazione dei siriani di Raqqa era riuscita ad ottenere la liberazione di un uomo arrestato dall’IS con l’accusa di aver tentato di contrastare un attacco delle milizie islamiche contro la casa di un residente sciita. Nel 2014 la popolazione di Mosul, in Iraq, si organizzò per impedire la demolizione della moschea di Souq-al Sharin, considerata eretica dal califfato, e riuscì a salvarne una parte dormendovi dentro nei giorni scelti per la distruzione. Resoconti più recenti indicano che le diserzioni dai ranghi dell’IS sono in crescita, motivate presumibilmente dalla disillusione incontrata dai combattenti una volta realizzata la distanza tra le promesse del gruppo e le reali condizioni di vita sotto il califfato. Allo stesso tempo un gran numero di civili siriani continua a resistere la coscrizione nelle milizie islamiche, mentre medici e avvocati rifiutano di lavorare per loro.

Ma l’attività di resistenza non-violenta contro l’IS più nota al momento è forse quella degli attivisti del collettivo giornalistico Raqqa is Being Slaughtered Silently (letteralmente, “Raqqa sta venendo massacrata silenziosamente”). Attivo dal 2014, il gruppo si occupa di documentare la vita quotidiana nella città siriana sottoposta al dominio dell’IS, svolgendo anche pericolose attività di propaganda clandestina come l’affissione di poster e l’esecuzione di graffiti contrari all’IS per le strade della città. Il gruppo conta almeno quattro membri uccisi dai miliziani e molti altri ancora soggetti a minacce di morte, ma continua nonostante questo la sua attività di contro-informazione. Il sito Mosul Eye svolge un’attività di contro-informazione simile dalla città irachena di Mosul, contribuendo a demistificare l’immagine idilliaca di vita sotto la legge islamica diffusa dall’IS.

Atti di sfida e resistenza abbondano nei territori controllati dal califfato e sebbene coloro che se ne rendono protagonisti siano soggetti a rappresaglie cruente, le loro azioni aprono la strada a una speranza di democrazia per la regione e non solo. Questo 25 aprile sembra la data perfetta per rivolgere un pensiero all’impegno di quanti rischiano la vita per combattere uno dei fascismi contemporanei più sanguinari e per augurarsi che conoscano presto la loro Liberazione.

 

In copertina: combattenti curdi di YPG e YPJ (autore: Kurdishstruggle CC-BY 2.0/Wikimedia Commons).

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