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Quando raggiungere l’Italia era più facile

Negli ultimi articoli su Pequod abbiamo parlato molto dell’attuale sistema dell’accoglienza in Italia, intervistando chi nel nostro Paese è arrivato da poco e analizzando gli effetti dell’ultimo Decreto Sicurezza sulle politiche di integrazione. Ma com’era l’accoglienza dei migranti in passato? Come si arrivava in Italia in cerca di lavoro quando ancora non si parlava di “crisi migratoria”? Ne abbiamo parlato con Rosemary, 69 anni, senegalese arrivata in Italia negli anni ‘70 per seguire il marito italiano, e Deme, 40 anni, emigrato anche lui dal Senegal nei primi anni 2000.

Rosemary racconta di come all’epoca la migrazione fosse un fenomeno completamente diverso, in quanto ottenere un visto per l’Italia era ancora piuttosto semplice e il lavoro non mancava. Grazie al cambio conveniente, inoltre, «gli africani potevano costruirsi una casa al paese d’origine anche solo facendo i venditori ambulanti», mentre ora non è più così. Tuttavia, Rosemary precisa che non era tutto rose e fiori nemmeno in passato e che si è dovuta scontrare con la diffidenza che il suo matrimonio misto suscitava: «Quando sono arrivata io, ero la prima africana del paese e per di più sposata con un bianco, che era una vera rarità!». I pregiudizi nei confronti delle donne nere, infatti, non mancavano e Rosemary se lo ricorda bene: «Nei miei primi anni qui mi capitava che quando camminavo per rientrare a casa verso il tardo pomeriggio, c’erano uomini che mi accostavano con l’auto, dando per scontato che mi prostituissi».

Anche Deme sottolinea come vent’anni fa fosse molto più semplice di adesso trovare lavoro, ma, rispetto agli anni ‘70, ottenere dei documenti era già diventato molto più complicato e bisognava trovare delle strade “alternative”: «Quasi sicuramente trovavi un lavoro in nero, qualcuno ti prestava i suoi documenti, andavi alle cooperative e trovavi lavoro subito». Deme ricorda come fosse fondamentale il sostegno da parte della comunità di africani: i nuovi arrivati venivano accolti e ospitati da altri immigrati che poi li aiutavano a trovare un lavoro: «Dopo un mese di stipendio che rimaneva a te, iniziavi a contribuire alle spese della casa. Poi dal posto letto ti pigliavi una stanza, poi una casa in affitto. Era come una piccola comunità».

Deme (nome di fantasia) ha preferito non farsi ritrarre per evitare di essere riconosciuto.

Anche Rosemary concorda: «Vedrai sempre africani che si aggregano tra loro; superiamo insieme le difficoltà: dalla ricerca del lavoro, in cui saremo sempre la seconda scelta rispetto a un occidentale, all’aiutare chi di noi si ritrova senza documenti, magari dopo anni di presenza sul territorio». Questo spirito comunitario non si riscontra invece tra gli italiani, come ricorda con tristezza Rosemary, per cui lo scoglio più difficile da superare è stato proprio il loro atteggiamento freddo e individualista, ben diverso da quello senegalese a cui era abituata. A questo si aggiungevano le difficoltà linguistiche, che generavano a volte delle situazioni tragicomiche: «Mia suocera mi disse che per far brillare la cucina ci voleva “olio di gomito” e io girai tutti i negozi del paese per cercarlo, senza che nessuno si fermasse a spiegarmi che era un modo di dire».

Nei confronti dell’attuale sistema dell’accoglienza in Italia, Deme si dice piuttosto critico: «Da quello che vedo penso che ci sia troppa propaganda. (…) Dicono le parole, ma (…) i fatti non ci sono». Anche Rosemary, pur riconoscendo l’importanza di un sistema di accoglienza che all’epoca del suo arrivo era invece del tutto assente, nutre delle perplessità sulla situazione attuale, in particolare riguardo all’assenza di opportunità di crescita per i migranti: «Trovare un lavoro era d’obbligo negli anni ’80 se non si voleva diventare clandestini, mentre è quasi impossibile per questi ragazzi chiusi nei centri».

Tante cose sono cambiate rispetto al passato per i migranti che cercano di arrivare in Europa, ma il loro desiderio di scoperta e la voglia di riscatto sono ancora gli stessi di allora. Proprio per questo motivo sarebbe opportuno per noi europei tenere a mente le parole di Deme: «Quando uno parte (…) dal continente Africa per venire qua in Europa, lo fa per vedere con i suoi occhi, per capire e comprendere queste “altre realtà” che prima ha sempre solo sentito raccontare. Partendo da quella realtà africana, si porta dietro tutta la strada che ha fatto per arrivare fino a qua. Non è una strada proprio facile». No, non lo è per niente.

 

Articolo redatto da Lucia Ghezzi. Interviste a cura di Sara Alberti e Sara Ferrari.

Su richiesta dell’intervistato, è stato utilizzato il nome di fantasia “Deme” per proteggerne l’anonimato.

In copertina: foto di Antonello Mangano (CC BY-NC-SA 2.0).

Il sistema dell’accoglienza in Italia spiegato da un’esperta

L’approvazione del Decreto Salvini su immigrazione e sicurezza avvenuta il 5 ottobre scorso ha riportato in auge il tema dell’accoglienza (mai scomparso del tutto) all’interno del dibattito politico italiano. La nuova legge ha confuso un po’ le cose, tanto che se si vuole affrontare come funziona il sistema dell’accoglienza in Italia, bisogna fare una distinzione tra un pre-Decreto ed un post-Decreto. Per fare un po’ di chiarezza ho intervistato Alessandra Governa, operatrice legale all’interno di un ente SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).

«In questo momento lavoro in uno SPRAR come operatrice legale- spiega Alessandra – e sono specializzata in protezione internazionale». Essere un’operatrice legale all’interno di questi centri vuol dire principalmente orientare dal punto di vista legislativo e burocratico gli ospiti che ne abbiano la necessità. «Per diventare operatrice legale ho fatto un corso promosso dall’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) – mi dice Alessandra – che dal punto di vista della formazione è stato ottimo». Alessandra è stata anche a Ventimiglia come attivista del Progetto 20k, dove ha fornito assistenza legale alle persone che oltrepassavano la frontiera. Inoltre, ha lavorato per un certo periodo di tempo a Lampedusa: «Sull’isola ho fatto la volontaria per un’organizzazione umanitaria e devo dire che è stata un’esperienza che mi ha aiutato tantissimo a crescere nel campo dell’accoglienza ai migranti».

Ma cos’è, esattamente, uno SPRAR? A rispondere è sempre Alessandra: «Uno SPRAR è un centro di accoglienza in cui possono risiedere le persone che in genere hanno già ottenuto un certo tipo di protezione internazionale (anche se non è l’unico caso) per un periodo di sei mesi, fino a quando non viene ultimato il loro percorso di inclusione socio-lavorativa. La caratteristica principale degli SPRAR è quella di avere come primi attori i comuni, i quali danno in co-gestione alle organizzazioni umanitarie le abitazioni che accoglieranno i migranti». Parallelamente agli SPRAR, ci sono i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), i quali «non hanno i comuni come attori principali nella gestione, ma sono strutture private direttamente in contatto con la prefettura». CAS e SPRAR, però, sono le destinazioni finali di un percorso che inizia ben prima: «Le persone che arrivano in modo irregolare tramite la rotta balcanica o via mare, dopo aver richiesto asilo, vengono collocati in centri governativi, come gli hotspot dove avvengono i primi soccorsi medici e le prime identificazioni. Qui, i migranti possono formalizzare la domanda di protezione per poi essere trasferiti, a seconda delle necessità, nei centri di prima e seconda accoglienza, ovvero nei CAS o negli SPRAR».

Bisogna però specificare che attualmente, i CAS non offrono strutture adeguate per accogliere persone che provengono da un lungo viaggio come può essere quello dei migranti. I problemi igienico-sanitari ed il sovraffollamento sono più che comuni ed hanno già provocato numerose proteste, tuttavia, una vera soluzione non è ancora stata trovata.

Con il Decreto Salvini è stata inasprita principalmente la legislazione in materia di espulsione: nei CPR (Centri Per il Rimpatrio), infatti, rispetto a prima possono essere portate molte più persone che non necessariamente hanno ottenuto un decreto di espulsione. Inoltre, sempre per effetto del Decreto Salvini, è stato chiesto ai CAS di allontanare le persone con protezione umanitaria, in quanto sarebbero cessati i finanziamenti governativi atti ad aiutare questa categoria di migranti. Agli SPRAR invece: «Viene detto di ricevere solo le persone con protezione sussidiaria (protezione concessa a chi, pur non avendo una protezione internazionale e quindi lo status di rifugiato, fugge dal proprio Paese a causa di ogni tipo di persecuzione ndr) o i richiedenti asilo, ma non coloro in possesso di protezione umanitaria (concessa a chi non ha lo status di rifugiato, ma fugge per motivi umanitari come le guerre o i disastri naturali). Tuttavia, a questi centri di accoglienza viene data la possibilità di accogliere persone con altri tipi di permessi non attinenti alla protezione internazionale», mi spiega Alessandra che aggiunge: «Agli SPRAR è stato però concesso di continuare ad ospitare quelle persone che erano entrati con un permesso di protezione umanitaria prima del 5 ottobre, fino alla conclusione dei sei mesi». Ne consegue che gli SPRAR ed i CAS riceveranno molte meno persone e, in poco tempo, saranno portati a svuotarsi. Ciò va in una direzione completamente contraria rispetto all’idea di integrazione che c’è alla base dei CAS e degli SPRAR: la retorica salviniana, infatti, è incentrata sul potenziamento delle espulsioni e dei rimpatri, cosa che, per quanto la si possa sbandierare, è più facile a dirsi che a farsi.

È difficile immaginare, ora, come si evolveranno le cose, perché il decreto Salvini ha apportato dei cambiamenti significativi, ma, come conclude Alessandra: «sicuramente ci sarà un periodo di transizione per adattare ogni specificità alla normativa vigente. Alla fine, però, l’unica certezza è che le cose cambieranno: non è detto che ciò che c’era prima del 5 ottobre venga stravolto del tutto, ma non è neanche detto che rimanga invariato».

Africa, Europa e sensibilità: cosa sta dietro alla parola accoglienza?

Quanto spesso di sente parlare di accoglienza in questo periodo e quanto spesso questa parola viene strumentalizzata, bistrattata, trasformata, sfruttata? Nella maggior parte dei casi non ci si sofferma a soppesarla, a guardare cosa c’è dietro la facciata di quelle undici lettere, a pensare a cosa è davvero l’accoglienza. A come la vive chi la offre e a come la vive chi la riceve, ammesso che la riceva e che la voglia ricevere.

Pequod ha parlato di accoglienza con Lamine, di origine senegalese, che ha avuto modo di viverla in prima persona, e ha fatto capire a chi scrive che “accoglienza” è una parola piena di significati soggettivi e di punti di vista differenti che spesso, egoisticamente, ignoriamo.

Dove lavori e di cosa ti occupi nel tuo lavoro?

Sono operatore di un centro d’accoglienza e faccio il mediatore culturale in altri progetti. Il mio primo lavoro in Italia è stato da mediatore culturale con l’associazione Arcobaleno, con cui ho girato per le scuole per svolgere dei laboratori sulla cultura africana. In questa intervista, però, parla il Lamine africano, non l’operatore del centro di accoglienza.

Cosa è per te l’accoglienza?

Accoglienza è dare uno spazio, ma non fornire elementi per essere in questo spazio. Ad esempio, se io vengo da te e non ci siamo mai visti prima, tu mi dai il mio spazio, mi metti a mio agio, mi lasci portare quello che ho e quello che sono. Se non sai niente di me, non mi puoi accogliere. Sai quante volte mi è capitato che delle persone volessero cucinare per me un piatto italiano, e ci tenevano parecchio, ma non sapevano che io non mangiavo maiale? In particolar modo una signora, che ha insistito alquanto e lo desiderava moltissimo. Pensa che io ero invitato per la domenica, e lei aveva iniziato a cucinare già il giovedì! Il piatto ovviamente era buonissimo, ma io non mangiavo maiale. La signora però mi aveva dato il suo spazio a casa sua, mi aveva aperto le sue porte e non potevo rifiutare. Ho mangiato, perché per me quel gesto era più importante di ogni credo. In Senegal si dice “Se ti dà uno, non prendere dieci”: lasciare la propria casa per andare a casa di qualcun altro impone lasciare qualcosa all’altro e prendere qualcosa da lui. Altrimenti, se vuoi che le cose vadano come vuoi tu, devi stare a casa tua.

Qual è stata la cosa più difficile da accettare nell’accoglienza che hai ricevuto? E la più soddisfacente?

La mia sensibilità non è stata accolta, perché si vede lo straniero soltanto come uno statuto. Non ci si pensa, ma se si dice a qualcuno “sei un imbecille”, lo si dice alla maschera che ci si trova davanti, senza considerare il fatto che dietro a questa maschera ci sia una persona con la propria personale sensibilità.

D’altra parte, sono riuscito invece a vendere un’Africa che credo che possa essere qui, dei valori che ho ricevuto e che sono vendibili qui, un modo di essere con cui sono stato cresciuto, il modo di vedere la vita che ho e che mi hanno insegnato. Sono il vincitore del premio Tirafuorilalingua 2017 (concorso e festival dedicato a produzioni artistiche che celebrano, promuovono e valorizzano la lingua madre, ndr) per il quale ho scritto una poesia e un racconto sull’introduzione senegalese in società, intitolati Tutti insieme intorno allo stesso piatto. Ho descritto cosa si imparava dalla tradizione di mangiare insieme comportandosi in un certo modo e il significato di ogni singola azione. Credo che questi siano insegnamenti che si possono condividere in tutto il mondo.

Lamine durante la presentazione della sua opera Tutti insieme intorno allo stesso piatto al concorso Tirafuorilalingua 2017.

Reputo che bisogna essere consapevoli del fatto che l’africano in contatto con l’Europa, cioè l’esperienza di un africano che parte dall’Africa e poi arriva in Europa e trova determinate cose, crei un nuovo individuo. Questo individuo non è né africano né europeo, e lui stesso a volte fatica a riconoscersi. Io mi ritengo fortunato e sento di dovere tutto all’Africa, all’istruzione e alla formazione che ho avuto là.

Hai compiuto tutti i tuoi studi in Senegal o anche in Italia?

Ho studiato in Africa e iniziato anche l’Università, ma non l’ho finita. Una volta in Italia, non ho proseguito gli studi, perché non percepisco il riconoscimento del mio bagaglio culturale e perciò ritengo che non mi serva un titolo “vuoto”.

Pensi che le strutture di accoglienza siano adeguate a fornire effettivamente accoglienza?

Il centro di accoglienza mette in pratica quello che c’è nel bando della prefettura, quindi l’impostazione viene dall’alto. Bisogna però capire se si vuole accogliere o no e, soprattutto, per quale motivo accogliere? C’è una grande differenza: se mi accogli in casa tua per una notte e al massimo mi lasci la colazione è un conto, se mi accogli per la notte e poi vuoi farmi fare un lavoro è diverso, devi restare a spiegarmi come si fa, rimanere presente.

Lamine all’evento del lancio dell’edizione 2018 del concorso Tirafuorilalingua.

Cosa può fare un normale cittadino per accogliere?

Tanti normali cittadini già accolgono. La nonna mi diceva che noi non siamo tutti sensibili allo stesso modo. La formazione culturale e intellettuale fa sì che non abbiate nelle vostre corde l’accogliere un africano. C’è una sorta di senso di superiorità, perché dal momento in cui ci si pone in alto e quindi si guarda l’altro da sopra, si definisce l’altro come vittima. Non tutti però si sentono vittima, ognuno ha la propria sensibilità e il proprio modo di vedere le cose in questo caso.

La situazione odierna deriva dal fatto che l’Africa per molto tempo è rimasta immobile. Ricordo benissimo il mio professore di terza media, quando per spiegare la Rivoluzione Industriale ha introdotto l’argomento con queste parole: “mentre l’Africa è affetta da immobilismo, l’Europa affronta una crescita economica senza precedenti”.  Da quel momento ho iniziato a farmi domande su questo immobilismo africano: dall’Indipendenza fino ad ora che cosa si è fatto? Nel 2018 il Senegal ha ancora il programma scolastico che era stato imposto dal colonizzatore! E come mai nelle scuole europee la schiavitù si insegna in modo marginale? Per quanto riguarda i campi di concentramento nazisti tutti si fermano a riflettere, ne mantengono la memoria in una giornata precisa, mentre per la schiavitù non accade niente di tutto ciò. Sai quanti anni, quanti secoli è durata la schiavitù, e quante persone sono morte per questo motivo? Questi dati non vengono approfonditi.

Il discorso è abbastanza semplice: ai dirigenti europei in fondo conviene che le cose stiano in questo modo, se no poi non possono parlare d’altro. Come fai a vincere le elezioni senza parlare di immigrati? Ai governi africani d’altra parte conviene che la forza lavorativa emigri, almeno i dittatori non li butta giù nessuno. Ho un solo desiderio: ai dirigenti africani che vorrebbero comprare armi, date i vaccini.

In copertina: Dia Mouhamadou Lamine alla premiazione del concorso letterario Tirafuorilalingua 2017.

Tutte le foto sono state gentilmente fornite dall’intervistato, tutti i diritti riservati.

Centri d’accoglienza: le difficoltà dell’incontro culturale

Il primo senso a essere colpito avvicinandosi a un centro d’accoglienza è l’udito: ogni campo si configura come una moderna versione della Babele biblica, in cui idiomi arrivati dalle più disparate parti di mondo si mescolano e si confondono in un miscuglio di suoni.

A tentare il ruolo di Esperanto, di lingua franca che permetta un minimo di comprensione, s’impongono da un lato una lingua che quasi tutti gli ospiti cercano di gettare nell’oblio assieme a un bagaglio di ricordi infelici, l’arabo libico; dall’altro una lingua nuova, spesso pronunciata con fatica, scavando nella memoria a breve termine delle parole conosciute da poco, la lingua del Paese di accoglienza.

Su quest’ultima si concentrano gli sforzi di tutti coloro che si muovono all’interno dei campi, dagli ospiti agli operatori, perché la lingua di un Paese rappresenta il primo passo per potersi approcciare a un nuovo Stato, alle sue abitudini, alle sue tradizioni; un imperativo domina infatti sull’operato di tutti, stretto dai tempi di chi da troppi anni è in viaggio coltivando il sogno di realizzare una vita nuova nell’Europa dei diritti e adagiato sul continuo procrastinare dei tempi burocratici: assimilare la cultura di accoglienza.

La corsa all’integrazione prima che arrivi la fatidica chiamata presso la Commissione, che deciderà se assegnare o meno lo status di rifugiato e quindi se legittimare o meno la presenza sul territorio, canalizza tutti gli sforzi e l’apprendimento della lingua, soprattutto in paesi come l’Italia poco avvezzi all’utilizzo quotidiano di lingue internazionali come l’inglese, rappresenta il primo scoglio da superare; il primo ma non l’unico, perché integrarsi significa anche fare proprie le abitudini del popolo di accoglienza.

Primi passi con l’italiano.

 

Una premessa va anteposta a qualsiasi riflessione si voglia condurre sui centri di accoglienza: ognuno di essi rappresenta una realtà a sé. Da un lato ci sono gli aspetti legati al luogo in cui i campi sono collocati, che non si differenziano solo in base allo Stato, ma anche all’ambiente geografico in cui si trovano, alla vicinanza o distanza rispetto a un centro abitato, al tipo di accoglienza che la popolazione residente è disposta a offrire, alle possibilità d’integrazione che l’ambiente offre in termini di servizi.

Dall’altro ci sono l’organizzazione e la struttura del centro stesso, date dalle sue dimensioni (il numero degli ospiti, ma anche e soprattutto il numero di nazionalità accolte e in quale percentuale), e dalla tipologia di accoglienza (a seconda della sua strutturazione, ad esempio, in un campo-comunità o diffusa in appartamenti). Vano è il tentativo di elencare il numero di fattori che intervengono a modificare l’approccio che si cerca di portare avanti, tanto più che imprevisti d’ogni genere (dalle emergenze sanitarie agli abbandoni spontanei, dalle modifiche legislative alla mancanza di fondi) possono in qualsiasi tempo intervenire a bloccare progetti già avviati.

Particolarmente significativo è il numero degli ospiti che il centro accoglie e degli operatori che lavorano per loro: una maggiore disponibilità di tempo su un numero ridotto di persone, infatti, rende possibile tracciare percorsi d’integrazione vera, non univoca, ma di fusione e d’incontro tra culture. Purtroppo, la maggior parte dei campi in territorio italiano, soprattutto se di accoglienza prima o eccezionale, raramente rispettano il rapporto previsto tra numero di operatori e numero di ospiti (approssimando, circa 1 operatore ogni 20 ospiti); nello stesso tempo, essendo le Cooperative società di capitali, le loro scelte di investimenti sulla qualità della vita degli ospiti possono, nei limiti di alcune innegabili necessità di base, variare di molto e, nel momento in cui si rendono necessari tagli al budget, i primi aspetti a esser messi da parte sono quelli riguardanti il recupero della cultura d’origine.

Il banku, tipico piatto nigeriano e ghanese.

Un esempio concreto delle difficoltà che quotidianamente ci si trova ad affrontare è offerto dai pasti. Qualsiasi abitante del Bel Paese sarà pronto a dirvi che il cibo italiano è il più buono del mondo e, se forse un tedesco o un americano potrebbero anche essere disposti ad assecondare l’italica vanità, non così per un bengalese o un africano, abituati a pasti in cui imperano chicchi di riso dalla forma allungata che difficilmente scuociono. Tuttavia, i costi di preparazione di piatti etnici, che prevedono un gran numero di spezie e alimenti d’importazione, esulano dalle spese previste. Se può esser facile accontentare i gusti di alcuni ospiti, ad esempio preparando del banku nigeriano o le chapati pakistane, entrambe a base di farina e acqua, si rischia così di creare scontento tra gli africani occidentali o i bengalesi, che non apprezzano la difficile digeribilità di questi piatti.

Si finisce così per imporre una regola, spesso giustificata col pretesto dell’economia, a cui gli ospiti dovranno inevitabilmente adattarsi anche una volta fuori dal centro d’accoglienza: bisogna imparare a mangiare la pasta! E con questo tipo di approccio si affrontano un’infinità di tematiche e di regole, spesso imposte più che razionalmente giustificate: dagli orari del medico e i limiti di accessibilità degli ospedali, agli indumenti funzionali più che esteticamente piacevoli; dal modo di organizzare le pulizie degli spazi privati ai prodotti igienici da utilizzarsi; fino alle attività ricreative, incasellate in orari e ambienti specifici, in concomitanza con la disponibilità degli operatori di riferimento.

I pochi ambiti che sfuggono a questa forzata assimilazione, sono la religione e l’arte. La prima, riconosciuta ormai come diritto inviolabile dell’Uomo, riesce ancora a incontrare il rispetto dei precetti che di volta in volta la regolano e a trovare spazi per l’autorganizzazione dei momenti di preghiera. Anche se non sempre è facile osservare tutti i riti, la maggior parte delle festività, dalla festa di fine Ramadan al Natale, in molti campi riescono a diventare un sereno momento d’incontro e di scambio culturale.

L’espressione artistica, pur vincolata alla disponibilità di mezzi, diventa per molti occasione di un recupero della propria identità individuale, che porta con sé l’estetica della cultura d’origine: dai dipinti ai racconti nei dialetti materni, dall’intaglio del legno ai lavori di cucito. Laddove i campi offrono i materiali di produzione, si aprono finestre su culture lontane che potrebbero allargare anche gli orizzonti europei, se qualcuno sapesse coglierne gli spunti.

Anche nel più povero dei centri d’accoglienza, all’osservatore che sia pronto ad aprirsi a nuove realtà non possono sfuggire i suoni provenienti dalle innumerevoli cuffiette: note che sanno di ritmi di continenti lontani, di melodie che provengono da culture distanti, da luoghi che gli ospiti chiamano “casa” e che, pur stanchi di un viaggio che sembra interminabile, sognano un giorno di rivedere.

Momento di preghiera mussulmana presso un centro d’accoglienza.

In copertina: Dipinti e lavori artistici di un gruppo di ospiti di un centro d’accoglienza.

Per un teatro senza confini

Un luogo, o meglio un ambiente: qui e ovunque. Tante storie raccontate evocate e incarnate da persone reali. Il punto di partenza e il punto d’arrivo sono l’incontro: con sé e con l’altro, ma anche con chi quell’incontro non l’ha vissuto in prima persona.

Questo è il teatro, soprattutto nei laboratori con attori e non-attori; questo è il teatro che ci raccontano Teatro Due Mondi, Isabelle il Capriolo e Lucia Palmero con Popoli in arte, realtà che lavorano da tempo con migranti e richiedenti asilo per costruire un teatro capace di accoglienza.

Teatro Due Mondi, l’accoglienza senza confini

Prima tappa obbligata di questo viaggio è l’incontro con Alberto Grilli, regista di Teatro Due Mondi, storico “teatro di gruppo” italiano che dal 1979 crea spettacoli di strada e di impegno sociale. Ogni giovedì sera la sua Casa del Teatro a Faenza (RA) apre le porte a tutti, cittadini e migranti, per il laboratorio teatrale permanente Senza confini (fotografia in copertina), che periodicamente porta in piazza un numero elevatissimo di partecipanti (tra i 50 e i 70) con azioni di strada fondate sull’uso del corpo e perciò in grado di coinvolgere e comunicare a un pubblico eterogeneo.

Tutto è cominciato nel 2011, quando Teatro Due Mondi stava lavorando con un altro gruppo di partecipanti e su un altro tipo di urgenza: il caso delle 340 operaie licenziate dall’Omsa, storica fabbrica faentina, da cui nacque lo spettacolo Lavoravo all’Omsa.

«Da questa esperienza già nata l’idea di un teatro partecipato con attori e non-attori», racconta Grilli. «Nello stesso anno, per caso – ma il caso non è mai un caso [sorride, ndr] – la cugina di una partecipante ci ha chiesto di portare lo spettacolo nel centro di accoglienza di Lugo, vicino Faenza. Noi però abbiamo deciso di proporre un laboratorio. Ci siamo resi conto da subito che anche in città c’erano molti rifugiati, ma c’era poca coscienza tra gli abitanti di Faenza. Abbiamo deciso di continuare qui l’esperienza, con il laboratorio permanente», passando per numerosi progetti europei. Il gruppo continua a creare spettacoli legati alle tematiche del lavoro, alla discriminazione delle donne o al tema dell’accoglienza, «ma dall’esperienza dell’Omsa abbiamo cominciato a interessarci più ai non-attori che agli attori, anche mettendo a punto nuovi metodi del fare teatro».

Alberto Grilli mi parla del metodo di “prima accoglienza linguistica”, un approccio alla lingua italiana attraverso il racconto e la musicalità dei suoni, e di teatro partecipato: teatro di strada e in spazi aperti incontra il lavoro con gruppi misti, in cui dialogano insegnanti e genitori, cittadini e richiedenti asilo. Un teatro inclusivo, in cui conta l’“esserci”, non l’esibirsi.

Per questo la scelta delle azioni in piazza, tutte contrassegnate da titoli suggestivi. Una di queste, l’Azione per la gratitudine (2015), nasce dall’incontro del Teatro Due Mondi con i partecipanti al laboratorio che ogni giovedì sera si tiene nel paese di Ranica (BG), guidato da Sophie Hames e Luciano Togni di Isabelle il Capriolo.

Diritti in movimento: Isabelle il Capriolo

La prima esperienza di Sophie con i richiedenti asilo risale a 14 anni fa, quando ancora si trovava in Belgio, il suo paese natale. Poco più di due anni la collaborazione con il centro di accoglienza della comunità Ruah di Bergamo e oggi un laboratorio aperto a tutti, gratuito e autofinanziato. «Ci teniamo tanto. Il nostro gruppo è diventato una specie di famiglia. Anche un bisogno», racconta Sophie.

Il lavoro al centro culturale di Ranica è finalizzato alla creazione di azioni di strada, «ma questa è solo una parte del lavoro. Tutto il resto è incontro, e il teatro ha un potenziale grandissimo che è il gioco. I richiedenti asilo spesso arrivano in Italia e non hanno amici, non hanno la possibilità di parlare e confidarsi. Hanno bisogno di amicizia, come noi dopotutto. Io non so quanto do, ma so quanto ricevo. E sono mondi, mondi che si aprono».

Le azioni che portano in piazza hanno un valore politico, che si concretizza in tematiche ricorrenti: «Una cosa che ci preme è l’aspettativa: cosa ci aspettiamo da loro e cosa si aspettano loro da noi e dall’Europa?». Ma anche l’attesa e l’impossibilità di muoversi liberi nel mondo. «Il diritto al viaggio: io posso spostarmi ovunque, invece loro hanno una pazienza infinita. Devono stare zitti e aspettare, spesso in condizioni disumane, in centri d’accoglienza con otto persone per stanza».

Il tema del viaggio è centrale nello spettacolo Infinite porte, all’auditorium di Ranica il prossimo martedì 21 febbraio, in cui si fa riferimento anche agli italiani che si mettevano in viaggio verso il Belgio, paese d’origine di Sophie, per mettere nuove radici. Lei ne sintetizza l’essenza citando una parte del testo: «Il mio vecchio amico Augustin diceva che il mondo è come un libro: chi se ne sta sempre a casa sua finisce per leggere sempre la stessa pagina».

La bellezza dimenticata. Lucia Palmero e Popoli in arte

Grazie a Maria Paola Rottino, membro dell’associazione di cooperazione Popoli in arte, capiamo l’importanza della performance Don’t stop the beauty, che si è tenuta lo scorso 22 dicembre nella stazione di Ventimiglia, città che da sempre è un «confine permeabile», attraversato da tensioni sempre più forti. Grazie a lei entriamo in contatto con la regista, la performer Lucia Palmero, originaria della città.

«A noi sembrava importante e simbolico quel luogo, perché è punto di partenza, punto di arrivo e di respingimento da parte della polizia italiana. Per noi era importante sottolineare l’aspetto che non emerge, cioè la bellezza, la ricchezza che porta la diversità. Ed era importante farlo in un luogo in cui fosse possibile coinvolgere tante persone, un “limbo”, simboleggiato dalla sala d’attesa».

Don't stop the beauty_Pequod
Il volantino che i partecipanti alla performance “Don’t stop the beauty” hanno estratto dagli zaini e attaccato alle pareti della stazione di Ventimiglia.

Così Lucia ha contattato alcune corali italiane e francesi e ha chiesto ai richiedenti asilo di scegliere canzoni della loro tradizione che parlasse di viaggio o di frontiera. E poi c’è l’idea del confine. «L’ho materializzata in una porta chiusa ma trasparente, la porta a vetri della sala d’attesa. I gruppi dei richiedenti asilo cantavano dalla sala d’attesa con le porte chiuse: la gente da fuori poteva sentire le loro canzoni “filtrate». L’azione ha avuto un impatto forte sui passanti e sulle forze dell’ordine: «Mi ha colpito il tentativo di una donna di entrare forzando la porta», ricorda Lucia, «un altro uomo ha trovato una porta secondaria e da lì sono entrate persone che hanno chiesto di non smettere di cantare anche ad azione conclusa».

Il momento performativo cambia qualcosa nella percezione, anche per gli artisti che si approcciano a forme d’arte relazionali. Lucia Palmero ci racconta il suo percorso dalla pittura alla performance, centrata sui temi dei diritti umani e su azioni semplici ma intense: «Ho capito che mi interessa continuare a costruire momenti ripetibili, momenti di umanità, per stare insieme, attraverso azioni che si confondano il più possibile con la realtà». E mi corregge quando torno a parlare di teatro: «Più che teatro, più che qualcosa per un “pubblico” attivo, faccio in modo che sia il “pubblico” ad attivarsi».

In copertina: azione di strada presso il cortile dell’Accademia Carrara di Bergamo, realizzata dai partecipanti al laboratorio condotto da Isabelle il Capriolo.

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