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Un esperimento di narrazione transmediale: il caso B.O.A.

Bordello Occupato Autogestito, in sintesi, uno spazio liberato, occupato e autonomizzato. Al suo interno si proponeva un’attività di sex working, con un approccio ludico della libertà di espressione e costruzione del conoscere se stessi.

Dove? Nessuno sa dove sia B.O.A., eppure qualcuno sostiene di esserci stato!

In realtà, B.O.A. non esiste né mai è esistito, se non nella realtà virtuale. È stato spacciato come posto fisico che proponeva eventi e attività, come fosse uno stabile in cui si ritrovavano i membri di questo collettivo, ma di fatto si trattava di un progetto concettuale, la cui unica tangibilità stava nelle locandine proposte da B.O.A. stesso.

Ho chiacchierato con la mente di questo processo comunicativo (in anonimato su sua richiesta n.d.r.), che mi ha spiegato dell’ esistenza/non-esistenza di B.O.A. su due linee di costruzione: un progetto di tesi di laurea e un esperimento comunicativo per tentare di verificare l’efficacia della narrazione transmediale. Quindi un modo di portare concetti e narrazioni in maniera scomposta su vari media.

Nell’ottica della costruzione di B.O.A. è stato deciso di convergere verso un modello propositivo, non rigidamente costituito ma aperto alle idee e alle proposte di chi si sarebbe avvicinato con interesse. Cosa è successo concretamente?

Innanzitutto, B.O.A. ha messo in evidenza il fatto che il mercato del sesso a pagamento ha un target forte anche in contesti particolari e connotati politicamente. La divulgazione delle sue iniziative ha attirato chi «voleva scopare»: questo modello politico ha raggiunto proprio quella tipologia di persone che volevano sperimentare, indagando, la propria sessualità.

Da subito sono state messe in chiaro le regole di B.O.A.: spazio liberato da sessismo, razzismo, fascismo, con l’intento di uscire dal sistema in cui viviamo. Il progetto aveva due obiettivi paralleli e della stessa importanza: un obiettivo scientifico, dimostrando che questo tipo di comunicazione funziona, e un obiettivo politico, per convincere gli utenti di questo tipo di istanze e rivendicazioni.

I risultati, però, si sono scostati dalle aspettative: l’esperimento ha infatti dimostrato che questo tipo di narrazione, se utilizzato in modo incauto e senza calcolarne bene i rischi, può essere un’arma a doppio taglio. Sembra che siano stati commessi degli errori gravi sia nella costruzione sia nella comunicazione e il linguaggio si è ritorto contro dal punto di vista emotivo, a causa della scelta di un tema politico e non di qualcosa di più frivolo.

Nella narrativa transmediale è il lettore che deve collegare tutti i pezzi, tutte le informazioni che fanno riferimento a un macroargomento e ricostruire il messaggio. Ciò crea curiosità intorno all’oggetto comunicativo, alimentando un meccanismo di mistero, di «erotismo dell’informazione»: lasciare qualcosa di piccolo che non si sa bene cosa sia. Da qui il lettore è portato alla ricerca del messaggio precedente e di quello successivo, quindi alla scoperta di nuove informazioni. È proprio questo mistero che tiene in piedi il meccanismo comunicativo pubblicitario, alimentandone la diffusione.

È stato scelto questo tema, detto brutalmente, perché aveva una valenza «utilitaristica»: sui temi controversi è facile alzare polveroni, fomentati da pareri differenti e da contrasti che si autoalimentano. Esistono un’infinità di posizioni diverse sul tema del Sex Working, anche molto pensate. L’idea è stata quella di partire da un tema importante, che ha a che fare con un certo tipo di rivendicazioni di libertà, di diritti che dovrebbero essere in qualche modo universali: innanzitutto il diritto alla libera scelta riguardo il proprio corpo e la propria vita, che si declina anche come diritto al lavoro e alla libera scelta della propria professione.

Il problema è la condizione in cui versa, almeno in Italia, questo tipo di non-lavoro, spesso ostracizzato e incriminato. Tutt’oggi molto dibattuta è la questione etica, che nel nostro paese risente di una morale di matrice cattolica ancora molto potente e comporta una stigmatizzazione dei rapporti sessuali a pagamento come di tutte quelle abitudini sessuali che si discostano dalla monogamia etero orientata.

Di per sé, la legge italiana non è particolarmente criminalizzante: è lecito lo scambio di prestazioni sessuali per denaro, tanto che è prevista una forma di tutela dei sex workers nella misura in cui il cliente che si rifiuti di dare il compenso pattuito può essere condannato per violenza sessuale. Tuttavia, lo svolgimento pratico di questo lavoro è circondato da una muraglia di regole, norme, scappatoie e zone grigie.

Dal punto di vista procedurale, l’esperienza di B.O.A. ha dimostrato come questo tipo di comunicazione sia pericolosa. La sua deflagrazione può facilmente danneggiare le persone vicine a chi la utilizza, in particolare chi sfrutta i medesimi canali per raggiungere un target poco dissimile. Tuttavia, dimostrare la pericolosità del meccanismo è quel tipo di effetto collaterale che costringe quanti ne sono rimasti scottati a riflettere sulla forza e le implicazioni che un processo comunicativo può avere.

Un’arma, questo tipo di comunicazione particolarmente violenta, che può produrre dei risultati molto d’impatto.

Ph. credits: F.D., tutti i diritti riservati

Una Sala da Thè per l’integrazione

Laura e Lamin sono seduti di fronte a me, 20 anni entrambi, lei dinamica ed entusiasta, lui più timido e riflessivo; Laura è italiana e studia psicologia a Bergamo, Lamin viene dal Senegal ed è un cuoco. Hanno storie e origini molto diverse, ma entrambi fanno parte di Sala da Thè, il nuovo “gruppo informale multietnico” con sede a Bergamo, che, come recita la loro presentazione su Facebook, è “volto a comprendere i bisogni primari tanto quanto i desideri e le ambizioni profonde di migranti e non”. Laura mi spiega che il gruppo è nato a gennaio 2019 dall’esigenza di fare qualcosa di concreto per favorire l’integrazione e lo scambio con i migranti, vista anche la situazione politica attuale che decisamente non rema in questa direzione. «Molti di noi operavano già singolarmente come volontari in centri d’accoglienza, ma ci siamo chiesti cosa potessimo fare di concreto come gruppo, perché qualcosa bisognava fare, e abbiamo quindi deciso di creare Sala da Thè».

Un incontro di Sala da Thè a Bergamo (foto di Sala da Thè, Tutti i Diritti Riservati).

Un nome decisamente curioso, ma che serve a sottolineare il carattere informale e aperto a tutti del progetto: «La sala da thè è un posto informale dove chiunque può entrare, non serve essere “qualcuno” (…) e dove qualunque persona può esprimere liberamente le proprie idee e avanzare delle proposte riguardo la tematica dell’immigrazione». Il gruppo, composto per ora da una quindicina di ragazzi e ragazze italiane e una decina di migranti, è molto eterogeneo e ognuno fornisce il suo apporto personale mettendo a disposizione le proprie competenze: «C’è chi lavora in uno studio legale, chi in un CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria, ndr), chi fa l’educatore, ecc. Abbiamo cercato di raccogliere più esperienze possibili per dare un supporto ai migranti e sopperire alla mancanza di servizi e figure professionali che al momento non ci sono, ma dovrebbero esserci».

Lamin racconta che è stato proprio l’avvocato che lo segue nel processo di richiesta d’asilo a spingerlo a partecipare agli incontri di Sala da Thè e gli ha presentato alcuni membri. In particolare, Lamin si sofferma sull’aiuto che il gruppo fornisce con le pratiche burocratiche: «Quando uno [dei migranti] deve andare in questura, se c’è qualcuno [di Sala da Thè] che è libero lo accompagna. Così con loro va tutto bene».

Tuttavia, Sala da Thè non vuole fornire solo un supporto “pratico” ai migranti, ma anche e soprattutto essere un luogo di condivisione per permettere a tutti di sentirsi compresi e di realizzare i propri sogni e aspirazioni. Quando Laura mi parla di questo obiettivo tanto ambizioso, in un primo momento ammetto di sentirmi un po’ scettica sulla fattibilità del progetto, ma lei non esita a farmi un esempio specifico: “Ci sono due ragazze del gruppo che amano cantare e vorrebbero far conoscere il proprio talento su YouTube. Noi, allora, le abbiamo aiutate a girare un video di una loro canzone a Bergamo. Certo, ottenere i documenti è importante, ma noi crediamo ci sia anche dell’altro”.

Un momento della cena benefit del 16 marzo organizzata da Sala da Thè (foto di Sala da Thè, Tutti i Diritti Riservati).

È proprio con questo spirito che Sala da Thè ha organizzato diversi eventi per far conoscere il gruppo sul territorio e allargare la sua rete di contatti e relazioni. Il primo è stato una cena benefit di presentazione del progetto con un menù senegalese preparato dai ragazzi, tra cui ovviamente anche Lamin, cuoco di professione. È proprio mentre parliamo del “suo” cibo che Lamin, fino ad allora piuttosto timido, improvvisamente si anima e, mentre cerca di descriverci i piatti tipici senegalesi che ha preparato, gli si illuminano gli occhi. Fatica a trovare le parole in italiano, ma grazie a Google ci mostra delle foto davvero invitanti; alla fine, rinuncia a descriverceli a parole e si limita a esclamare con un gran sorriso soddisfatto: “Buonissimo!”.

Laura a queste parole sorride e mi spiega che la partecipazione alla cena è andata ben al di là delle loro aspettative e, per questo motivo, hanno deciso di riproporla in chiave di aperitivo anche per il prossimo evento del 16 marzo presso lo spazio Polaresco di Bergamo, che durerà però un’intera giornata e comprenderà diverse attività. I partecipanti di Sala da Thè proporranno infatti vari laboratori, interamente gratuiti e studiati in base alle competenze dei vari componenti del gruppo: un ragazzo abile con la macchina da cucire, ad esempio, terrà un piccolo laboratorio di sartoria, mentre altri con la passione per la pittura permetteranno a tutti di dare libero sfogo alla propria vena creativa dipingendo su tela. A seguire, ci sarà la presentazione del gruppo, l’aperitivo multietnico e la Jam Session musicale aperta a tutti: “In puro spirito Sala da Thè”, precisa Laura con un sorriso. Infine, la serata si concluderà con il concerto della band Ottocento, organizzato direttamente dal Polaresco. Non è tutto, però. Laura mi racconta con entusiasmo che stanno già lavorando a un nuovo evento per il 31 marzo, una partita interculturale di calcio a cui ci si potrà iscrivere durante la giornata di sabato 16.

Dalle parole di Laura e di Lamin capisco quanto credano nel progetto e quanto siano importanti questi eventi per loro e per tutto il gruppo. A me, in fondo, sembra che il senso del progetto di Sala da Thè stia tutto qui: nell’entusiasmo di Sara e nel “buonissimo!” esclamato da Lamin mentre parla dei suoi piatti con gli occhi luminosi.

 

In copertina: Laura e Lamin (Tutti i Diritti Riservati).

Sister Group: il nostro femminismo è antirazzista

Ventimiglia è simbolo degli ermetici confini Europei, la città di confine dove Progetto 20K ha iniziato a operare dal 2016. Oltre al supporto generale alle persone in transito, grazie anche all’ apertura di Eufemia – Info and Legal Point, nasce negli ultimi anni il Sister Group: gruppo femminista nato dall’ esigenza di dedicare spazi specifici alle donne migranti.

Apriamo l’intervista con una domanda che le stesse attiviste si sono poste: «Quali relazioni esistono tra la violenza dei confini e la violenza di genere, che anche noi attiviste sentiamo sulla nostra pelle?». Altra presa di posizione chiave, sottolinea ancora il concetto di sopra: «Il nostro 8 marzo è contro la Legge Salvini, contro la chiusura dei porti, per un Permesso di Soggiorno Europeo slegato dal lavoro e dalla famiglia».

Proprio questa ricerca di intrecci, tra tematiche ampie e complesse si muove il Sister Group: «Un gruppo di attiviste di Progetto 20K e NUDM Genova, in tempi e per ragioni diverse ci siamo avvicinate al contesto di Ventimiglia». Le attiviste ricordano bene le «settimane di monitoraggio sui confini, di manutenzione di sentieri, aiuto materiale e informativo alle persone migranti, ecc… Tutte attività che ci hanno consentito di cominciare a capire qualcosa delle dinamiche del confine».

NUDM Genova per la chiamata alla manifestazione del 14 luglio 2018 a Ventimiglia (GE)

Le attiviste ci raccontano la brutalità del contesto e quella voglia di realizzare un luogo veramente alternativo e solidale, generatrice di interazioni: dall’assenza di possibilità al costruirne una insieme alle persone in viaggio. Continuano le ragazze: «A novembre del 2017 le donne che vivevano sotto il ponte nell’accampamento informale erano sempre più numerose: molte non volevano stare al campo istituzionale della Croce Rossa, troppo lontano e troppo militarizzato. Iniziava a fare freddo e insieme alle donne c’erano bimbe e bimbi piccolissimi, addirittura neonati. Vedevamo che le donne venivano all’Info Point, ma con evidenti difficoltà: se ne stavano relegate in un angolo e il loro turno alla postazione internet veniva sempre dopo quello degli uomini» .

Riusciamo a comprendere quale è stato il percorso di questo progetto nel contesto di confine e all’ interno di Progetto 20K, scoprendone la nascita e l’evoluzione, fino ad arrivare alle attività. «Il Sister Group è nato a fine novembre del 2017 e ha interrotto le attività a dicembre del 2018: Eufemia non esiste più, abbiamo avuto lo sfratto. Come modello esistiamo ancora, siamo convinte della sua utilità e riproducibilità: ha portato l’approccio e la politica femminista all’interno di un progetto politico fatto da maschi e femmine, che sicuramente era predisposto a lasciarsi contaminare, ma non ancora femminista».

Concretamente? Spiegano le attiviste: «Quando Eufemia era in attività, le donne potevano lavarsi, cambiarsi gli abiti e recuperare materiale utile per l’igiene; usare internet e caricare il cellulare, avere informazioni sulla situazione al di qua e al di là della frontiera, sui servizi sanitari del territorio e sui loro diritti; potevano rilassarsi ascoltando musica, facendosi a vicenda unghie e capelli, affidando per qualche ora le figlie e i figli alle volontarie. Era un posto dove ritrovare un barlume di normalità, dove recuperare un poco di energia e fiducia reciproca e dove condividere speranze e ostacoli».

La peculiarità delle attività è anche avere occhi e orecchie anche per le strade di questa peculiare città di confine, cioè nei luoghi dove la violenza è particolarmente brutale. «Avevamo una particolare attenzione a ciò che accadeva fuori da Eufemia: tante donne arrivano già sotto controllo del racket della tratta e queste donne sono difficilmente avvicinabili: arrivano e subito scompaiono. Abbiamo cercato di monitorare questi movimenti clandestini per capire come provare a intercettare e aiutare queste donne – tra loro tante minori», mi spiegano le attiviste.

Questa attenzione si coglie anche dalla localizzazione fisica che aveva l’ Infopoint di Progetto 20k nel suo complesso, cosi spiegato dal gruppo: «Abbiamo aperto il Sister Group all’interno dell’ Infopoint Eufemia, situato in posizione strategica: a cinque minuti a piedi dalla stazione ferroviaria di Ventimiglia e a un passo dall’accampamento informale sul greto del fiume Roya. Un giorno a settimana lo spazio era aperto esclusivamente a donne e bambine/i».

Diverse attiviste, essendo liguri, vedono questo confine come primario nella loro azione politica: «Ventimiglia era la nostra frontiera: da anni vedevamo le violazioni sulla pelle delle persone migranti, l’ostilità o totale cecità della cittadinanza e delle istituzioni, vedevamo quanto questo danneggiasse anche noi, italiane magari, ma con pelli di diverso colore e con il bisogno di cambiare la società a beneficio del 99% della popolazione mondiale. Era però difficile capire come intervenire, come incontrare le persone migranti. L’ infopoint Eufemia, aperto da Progetto 20K ci dava una base fisica e pratica per lavorare sul territorio e in particolare per noi con le donne e le/i minori».

La mancanza di uno spazio fisico riduce notevolmente le possibilità d’azione, ma ancora una volta la riflessione delle attiviste è profonda e laboratoriale. Valorizzando l’autodeterminazione dei corpi delle donne migranti, «ricominciando le attività, trovando un luogo adatto. Se questo non fosse possibile, di dovrà riorganizzare il lavoro orientato alla relazione con le donne in maniera differente. Abbiamo delle ipotesi ma dobbiamo darci il tempo di sperimentarle e verificarle».

Concludendo, Sister Group porterà l’8 marzo, data dello sciopero femminista globale, anche la questione migratoria, «perché il nostro femminismo parla al 99% della popolazione mondiale, quindi non può che essere antirazzista. In Italia, ma non solo, assistiamo a una campagna di odio contro le persone migranti, diventate ormai il capro espiatorio per ogni male sociale.

Vediamo come siano le donne migranti a pagare il prezzo più alto di questo razzismo diffuso: perché la protezione umanitaria non può essere rinnovata e vengono sbattute fuori dalle accoglienze anche se incinte, anche se con minori. Quando diciamo “sorella non sei sola” lo diciamo a tutte le donne che hanno deciso di cambiare la loro vita, di cercare una strada di libertà e autonomia, ma costantemente si scontrano con la violenza dei confini, dell’economia, del sessismo».

Ph credits: Progetto 20k, NUDM Genova

TPO, Vag61, XM24: mappa dello sport popolare a Bologna

Una mappa delle palestre popolari di Bologna, raccontate attraverso le loro storie, nei principi dell’antirazzismo, antisessismo e antifascismo di cui si fanno portavoce.

Polisportiva TPO – Lame

 

È il Teatro Polivalente Occupato, meglio conosciuto con il suo acronimo TPO, ad ospitare una delle storiche palestre popolari della città. L’idea nacque durante la seconda occupazione, quella di viale Lenin, successiva al primo sgombero dei locali all’Accademia delle Belle Arti del 2000. Gli ampi spazi dell’ex fabbrica, il fermento culturale, il desiderio di esprimersi attraverso il linguaggio del corpo, di promuovere il diritto allo sport e abbattere gli stereotipi che segnano numerose discipline: tutto questo mise in moto i primi corsi di pugilato e autodifesa; associati comunemente a un’etica violenta e fascista, questi sport nascono in realtà dal basso, dal movimento operaio. I primi esperimenti andarono avanti per tre anni, poi anche viale Lenin fu sgombrato e il centro si trasferì nell’attuale sede di via Casarini. A questo punto si trattava di ricominciare letteralmente da capo. La palestra si aprì dunque a molte altre attività, trasformandosi in una vera e propria polisportiva. Pugilato, muay thai, tessuti aerei, yoga, danza afro e danza contact: non importa quanto possano essere distanti tra loro, ciò che conta è che ognuna di queste pratiche risponda ai principi dell’antifascismo, antisessismo e antirazzismo.

C’è poi il calcio, rappresentato dalla squadra degli “Hic sunt leones”, nata nel 2011 durante l’edizione dei mondiali antirazzisti tenutasi a Bosco Albergati. Tra le varie battaglie portate avanti dalla HSL c’è stata quella contro l’abolizione dei comma 11 e 11bis dell’articolo 40 delle Norme Organizzative Interne della FIGC. Secondo la vecchia normativa infatti, i calciatori di cittadinanza non italiana, residenti in Italia, di età superiore ai 16 anni e che volessero tesserarsi per società appartenenti alla Lega Nazionale Dilettanti, non avrebbero dovuto essersi mai tesserati in precedenza per altre Federazioni estere. In ogni caso, per potersi poi iscrivere avrebbero dovuto consegnare certificato di residenza anagrafica attestante la residenza in Italia da almeno dodici mesi e permesso di soggiorno, se extracomunitari. Il nome assegnato alla campagna era “Gioco anch’io” e fu portata avanti per mesi dall’intera rete “sport alla rovescia”. Alla fine, i due comma furono cancellati. Per questo oggi alla palestra popolare del TPO nessuno vi chiederà un documento particolare per potervi iscrivere, nessuno pretenderà di controllare un permesso di soggiorno, perché nessuna barriera burocratica o istituzionale deve ostacolare il proprio diritto alla salute, all’educazione e alla convivenza sociale. La palestra è ovviamente autogestita e autofinanziata con costi di iscrizione bassissimi, altro principio fondante di ogni palestra popolare.

Per chi volesse approfondire l’argomento, è d’obbligo suggerire la lettura di due libri:Il pugilato per tutti e tutte. Storia, filosofia e istruzioni pratiche per la boxe nelle palestre popolari e Pugni e socialismo. Storia popolare della boxe a Cuba, scritti proprio da uno degli insegnanti e pugili del TPO, Giuni Ligabue.

La “Palestrina” popolare – Cirenaica

 

Capita spesso che, in situazioni di difficoltà, le palestre diventino rifugio per sfollati, ma è un caso unico quello che ha permesso allo scantinato di un dormitorio pubblico, il “Beltrame” di via Sabatucci, di trasformarsi in una palestra. La“Palestrina” popolare è nata nel 2012 grazie al sostegno di un’ampia rete di associazioni attive nel quartiere Cirenaica –  tra le quali Oltre, Fucine Vulcaniche, Sensiesegni, Universo, Naufragi, Avvocato di strada, Acqauablu e Vag61 –  e si è velocemente radicata nel tessuto sociale cittadino. Come in tutte le palestre popolari, non esistono barriere all’accesso e alla fruizione delle attività organizzate; al contrario, l’obiettivo è mantenere vivo uno spazio dove lo sport sia un’opportunità per molti e non un lusso per pochi.

La Cirenaica rappresenta il luogo ideale dove sviluppare un progetto come quello della “Palestrina” popolare, viste le forti reti associative e lo spirito solidale (è lo stesso quartiere bolognese dove, ormai da sei anni, viene organizzata la Festa Multietnica) che anima l’area. I ragazzi del centro sociale Vag61, realtà attiva da più di 10 anni nel rione, spiegano come la relazione con cittadini ed associazioni sia influenzata dal rapporto con il condominio Bel(le)trame, dove si trovano gli spazi adibiti a palestra. “In particolare abbiamo sempre voluto dimostrare come i dormitori non siano semplicemente i punti in cui rinchiudere esperienze di marginalità e povertà senza ritorno bensì luoghi di incontro, di scoperta e di riappropriazione dei tempi della propria vita. Tuttavia, non ci limitiamo solo alla dinamica di quartiere, infatti veniamo spesso contattati da varie strutture di accoglienza della città per sapere se i loro ospiti possono usufruire dei servizi della palestra”.

In soli quattro anni, la “Palestrina” è cresciuta molto, oggi vi si pratica muay thai, boxe, yoga, grappling e teatro. Fabio Le Piane, del Vag61, spiega che “le palestre popolari fanno parte di quei luoghi in cui tutti gli strati sociali della popolazione possono finalmente incontrarsi: dallo studente fuori sede al lavoratore precario, da chi vive in un dormitorio a chi è arrivato in Italia come migrante. Lo sport diventa così il pretesto per conoscersi, mischiarsi ed abbattere quelle barriere a cui la politica e la società contemporanee ci hanno purtroppo abituati”. Proprio così si concretizza il fine di aggregazione sociale e di creazione di una comunità solidale svolto dalle palestre popolari: “Non contano età, censo, professione o provenienza ma solo la voglia di allenarsi in compagnia e di riconoscersi in una comunità che si riconosce nei valori dell’antisessismo, dell’antirazzismo e dell’antifascismo”.

Non si tratta di un impegno solamente formale, ma di un orientamento quotidiano delle proprie azioni ed iniziative. “Non esiste una pratica unica con cui si realizza l’antifascismo, spiega ancora Fabio Le Piane, Significa lavorare contro qualunque forma di sessismo e di razzismo e, più in generale, contro ogni forma di divisione e di guerra fra poveri. Ma, non di meno, realizzare una palestra popolare antifascista è anche dimostrare che una palestra popolare può competere agonisticamente e senza paura con le palestre “commerciali”. Significa dimostrare che lo sport fallocentrico e machista non solo non è superiore, ma è del tutto inferiore allo sport corale e solidale proprio delle palestre popolari.”

La Palestrina Libera e Antifa Boxe TeófiloStevenson – Bolognina

“Cosa sono 5 milioni di dollari in confronto all’amore di 8 milioni di cubani?”
Teófilo Stevenson

 

Forse lo sport popolare per eccellenza è il pugilato, o almeno così ce l’ha presentato una vasta filmografia. Certo, non tutti saranno Rocky Balboa (proletario italoamericano che prendeva a pugni le carcasse della macelleria dove lavorava affinché la carne frollasse meglio) soprattutto perché l’obiettivo è un altro. Non si tratta di diventare delle star planetarie come nel film di Stallone e di raggiungere fama e successo. Tutt’altro: la boxe popolare per com’è intesa oggi nasce dal basso per restarci, se così si può dire. Quello che spinge ragazze e ragazzi a infilare i guantoni è l’amore per lo sport e in alcuni casi anche la fedeltà verso alcuni principi dai quali non si prescinde. In questi casi, quando la politica entra dentro le palestreper proporre un modello alternativo, nascono realtà come quella dell’Antifa Boxe Teófilo Stevenson. Inaugurata il 27 marzo del 2015, la Stevenson si anima nei locali dell’XM24 ed è la più giovane palestra popolare in città. Il nome è chiaramente un omaggio alla figura di Teófilo Stevenson, pugile cubano che tenne fede per per tutta la sua vita alla scelta di combattere solo in ambito dilettantistico e non accettare mai la carriera professionista. Nello spazio pubblico autogestito dell’XM si affianca anche un’altra realtà sportiva popolare, quella della Palestrina Libera, che offre laboratori e corsi di ogni tipo, alternativi alla boxe. Hatha yoga, tessuti aerei, shiatsu, trapezio, acrobalance e giocoleria come pratiche avverse alle logiche del sistema capitalista.

All’XM lo sport è sì importante, ma è più di un passatempo o uno sfogo: si trasforma piuttosto in una delle tante maniere nelle quali è possibile creare aggregazione al di fuori dei soliti circuiti. Il quartiere che la ospita, la Bolognina, è uno dei più caratterizzati storicamente da una forte componente multirazziale e proletaria, ed è proprio per questo che questo spazio si propone principalmente come luogo di aggregazione e solidarietà reciproca.

Progetti futuri: la palestra popolare del Circolo Guernelli – San Donato

Negli anni ’70 sorgeva, tra le case popolari di via Gandusio, una delle palestre popolari che per almeno trent’anni è rimasta punto di riferimento e aggregazione per gli abitanti del quartiere San Donato. Era la palestra del circolo Arci Guernelli, a sua volta sede dell’associazione nata nel dopoguerra per ricordare il partigiano Guido Guernelli, uno dei caduti della battaglia combattuta il 7 novembre del 1944 a Porta Lame. All’inizio degli anni ‘90 la palestra fu però chiusa e tutte le attività sportive vennero interrotte. Dopo oltre dieci anni, il 12 aprile scorso, l’ASD Il Grinta e il circolo hanno lanciato insieme una raccolta fondi per la riapertura, passata attraverso cene, donazioni e tornei.L’intera struttura necessitava di un’estesa ristrutturazione, avviata grazie all’importante contributo della fondazione Del Monte e, ad oggi, se tutto procederà per il meglio, si spera che la palestra possa riaprire a settembre.

Per una Bologna che resiste

Sport popolari, palestre sociali, luoghi in cui si abbattono i muri – metaforici e reali – per riappropriarsi di spazi necessari ad educare la comunità all’antirazzismo in tutte le sue forme. A Bologna questa urgenza continua a pulsare, lo dimostra quest’ultima storia raccontata. Ai palati più raffinati non risulterà scontato un “dettaglio”: l’appartenenza all’Arci del circolo Guernelli, che lo differenzia quindi delle altre palestre popolari cittadine – TPO, XM24, Vag61. Ma l’importanza degli sport popolari promossi da queste realtà è dimostrata proprio dalla possibilità tangibile di ricreare una dimensione, umana e sociale, dove ogni forma di pregiudizio sia estirpabile, anche quel cieco pregiudizio politico che spacca tra loro centri dai quali altrimenti ci si aspetterebbe collaborazione.

Il Guernelli prima di diventare Arci si dedicava principalmente alle attività sportive: ai tornei di calcio i compagni adottavano una bandiera per squadra, scegliendo tra quelle delle varie brigate partigiane, dopodiché scendevano in campo a giocare. La pratica sportiva, talvolta, concretizza meglio di tante altre attività quello che in fondo è il progetto comune di resistenza ai poteri.

Articolo scritto da: Roberta Cristofori, Angela Caporale, Filippo Batisti

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