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Davide, l’artigiano delle scarpe da settant’anni

Piove a dirotto quando entriamo nel laboratorio di Davide, calzolaio classe 1932 di Ranica, un paese di quasi seimila anime in provincia di Bergamo. Il calore ci avvolge da subito, sebbene da qualche anno la bottega non venga più usata quotidianamente. Le fotografie appese alle pareti, la legna per il camino e il tavolo al quale l’artigiano e la moglie Anna ci fanno accomodare lasciano intendere che fra le mura di quella piccola stanza è passata la storia di una famiglia, oltre che quella di un antico mestiere.

Anna è una signora di quasi ottant’anni, anche se non si direbbe. Comincia lei a parlare del marito, orgogliosa ci racconta gli esordi di Davide all’età di undici anni. «Era la vigilia della Quaresima quando la madre di Davide aveva chiesto al calzolaio del paese se avesse bisogno di un ragazzo. All’epoca funzionava così, tutti i giovani apprendevano un mestiere da un artigiano». Davide continua il racconto: «Dopo una settimana di prova ho iniziato ad andare a lavorare tutti i giorni, da mattina a sera. Il lavoro mi piaceva, sono stato fortunato».

E così cominciano gli anni della gavetta per il giovane calzolaio che, fra una bottega e l’altra, vede scorrere la storia dell’Italia e quella del suo piccolo paese: «Ricordo che in tempo di guerra venivano i tedeschi a far mettere il ferro al tacco degli stivali». Si lavorava molto in paese; del resto, specialmente negli anni della guerra, non c’erano molte persone che potessero permettersi delle scarpe nuove, quindi ci si accontentava di farle riparare per farle durare il più possibile. Nonostante ciò Davide voleva imparare tutto delle calzature e la sera, dopo il lavoro, si recava da un artigiano più anziano che faceva le scarpe a mano.

«A diciassette anni lavoravo già per conto mio» ci spiega Davide. Certo, in quegli anni era più facile aprire un’attività, come ci fa notare Anna: «Chiedevi il permesso e aprivi la tua attività. Quando passava il daziere si pagava, non c’erano molte altre formalità da sbrigare». Così, dopo tanti sacrifici, il calzolaio Davide continua la sua carriera da artigiano in proprio, tenendo attiva la bottega fino a pochi anni fa. Gli strumenti che ci mostra hanno dieci, vent’anni, ma sono ancora funzionanti. Basta un attimo a Davide per mostrarci in modo sapiente come piegare il filo per cucire le scarpe, o come far funzionare gli attrezzi del mestiere. La manualità è rimasta, così come il luccichio negli occhi quando racconta del suo lavoro.

«Ha lavorato tanto mio marito, ma grazie ai suoi sforzi abbiamo cresciuto sei figli, siamo stati in grado di dare loro una casa. Certo, non siamo stati una generazione molto fortunata, noi dovevamo soltanto lavorare, non avevamo scelta. Se avevi una qualche dote non veniva assecondata, venivi subito mandato dall’artigiano del paese o, peggio ancora, in fabbrica» ci spiega Anna. «Un tempo nel nostro paesino c’erano tantissime botteghe di artigiani. Eravamo poco più di tremila abitanti, ma avevamo quattro calzolai, quattro fornai, poi macellai, salumieri…i ragazzi andavano da loro ad imparare il mestiere. Poi sono arrivate le fabbriche e per i genitori la cosa più importante era che i figli, i miei coetanei, trovassero posto da operai». Il racconto di Anna è infarcito di amarezza, nonostante la fierezza con cui parla della carriera di Davide e della famiglia che hanno costruito insieme: «A differenza dei nostri genitori noi abbiamo supportato i nostri figli nelle loro scelte, li abbiamo fatti studiare quando hanno voluto. La loro generazione ha avuto la libertà, a differenza della nostra, la generazione dei fantasmi».

Anna ci saluta, è ora di preparare il pranzo. Ed è quando rimaniamo soli che Davide ci dice: «Io nella mia vita sono stato davvero fortunato. La chiamo fortuna, non saprei come chiamarla altrimenti. Non solo ho trovato un mestiere che davvero mi ha appassionato. La mia vera fortuna è stata mia moglie, una donna che ha saputo stare al mio fianco e ha supportato le mie decisioni. Del mio mestiere non dico che sono innamorato, anche se mi è piaciuto molto, perché è di una donna come Anna che ci si innamora!». Con queste parole, pronunciate dal cuore e con una sincerità disarmante, usciamo dal laboratorio e torniamo sotto la pioggia. Salutiamo Davide e lo ringraziamo, mentre lui, dubbioso, si interroga se le nostre scarpe di fattura industriale siano davvero impermeabili…

Fotografie di Martina Ravelli

Testo di Margherita Ravelli

Liuteria e banjos, l’arte antica di Alioscia Alesa

A Romano di Lombardia, docile paese adagiato sulle sponde del fiume Serio, in provincia di Bergamo, si trova un piccolo garage che invece che dar riparo a macchine o motociclette, offre le proprie mura al laboratorio di Alioscia Alesa Ferrara, il liutaio bergamasco dal nome russo specializzato nella lavorazione di banjos. Noi di Pequod, attratti dal richiamo di una professione antica, siamo andati a incontrarlo per farci raccontare la sua storia. E capire come sopravvivono al giorno d’oggi gli artigiani, in un mondo sempre più improntato all’automatismo e alla riproduzione meccanica.

Dopo gli studi liceali nell’ambito artistico, Alioscia è indeciso fra lo studio delle lingue scandinave e l’Accademia delle Belle Arti di Brera, a Milano. D’improvviso, l’illuminazione arriva da un amico: “Ma perché non ti iscrivi a una scuola di liuteria? Potresti così crearti una chitarra a forma d’ascia!”. Spinto da questa nuova sfida, Alioscia si iscrive alla Scuola Civica di Liuteria a Milano, in via Noto, dove incontrerà finalmente la sua vera passione: il banjo. «Fra tutti gli strumenti ho scelto proprio il banjo perché mi sono sin da subito innamorato del suono. Un suono antico e atavico, che mi conduce fino a mete lontane, capace di trasmettermi un senso di distanza». Il tipo di banjo preferito da Alioscia è l’Old Time Banjo. «Mi piace il suono di questo strumento e mi piace visivamente. Rapportarmi con il banjo mi dà due emozioni diverse: costruirlo mi appassiona – a volte ho la sensazione di partorire – mentre suonarlo, per me, è come giocare».

La firma di Alioscia è la lettera “A”, un richiamo alla mezza Luna innestata sulla paletta dei suoi strumenti.

Conoscere e scegliere artisticamente il legno per i propri banjos sono altre caratteristiche del liutaio di Romano, che dà vita agli strumenti senza essere vincolato dai parametri preesistenti sulla costruzione degli stessi. Le tipologie di legno predilette, e di conseguenza più utilizzate, sono il mogano, l’acero, il noce e il ciliegio. Il timbro e il suono che si vogliono trasmettere a uno strumento dipendono invece da vari elementi e dalle sottili combinazioni tra essi. Un esempio è la parte circolare su cui poggia la pelle: può essere in legno o in metallo, la scelta di uno o dell’altro dipendono prima di tutto dal tipo di timbrica che si sta cercando. E per quanto riguarda il tipo di pelle che si vuole applicare allo strumento? «Normalmente la scelta ricade sulla pelle sintetica perché più resistente e più pratica rispetto a quella animale – risponde Alioscia -, non subisce troppo gli sbalzi di temperatura e umidità oltre che risultare più “collaborativa” nella fase di installazione. Accadono invece casi di sostituzione della pelle sintetica con quella animale, sempre per una questione legata alla ricerca di una determinata sonorità timbrica, legata altresì al tipo di musica che si sceglie di suonare».

Affascinato dalle sonorità semplici e dirette, Alioscia si dedica anche alla costruzione di dulcimer (in foto). Ma non solo Old Time Banjo e dulcimer, il nostro liutaio si dedica altresì a banjo-ukulele, banjo-chitarra e banjo a 4 e 5.

Dopo aver ascoltato una strimpellata e qualche accordo, chiediamo ad Alioscia quale sia il suo tipo di clientela ideale per scoprire come l’originalità sia il punto chiave della sua arte: «I miei clienti giungono sino a Romano attratti dal passaparola. Non vendo nei negozi perché non mi conviene e, soprattutto, perché preferisco un mercato di nicchia. Per scelta personale, preferisco creare strumenti unici e peculiari, considerati al pari di oggetti d’arte». Nonostante uno strumento di liuteria sia tendenzialmente più caro rispetto allo strumento che si può acquistare in negozio, il banjo rimane tuttavia in una sfera che possiamo definire di «liuteria semplice». Il banjo è difatti soggetto a un percorso di lavorazione meno lungo e complicato rispetto a strumenti come la chitarra o il violino.

Cinque anni fa, Alioscia ha cominciato altresì ad avvalersi del sito “Alesa Banjos” per diffondere la sua arte, consapevole della portata di Internet, una vera e propria finestra sul mondo in generale e sul mercato dei banjos in particolare. «Specialmente tramite i profili Social media, come ad esempio Facebook, dove puoi mostrare ai tuoi clienti cosa si cela dietro la tua attività o metterti in contatto con altri artisti. Questa rete, mi permette persino di mostrare come si costruisce uno strumento musicale».

Ma cosa significa essere un artigiano all’inizio del XXI secolo? È un mestiere destinato a scomparire pian piano? Lo abbiamo domandato ad Alioscia, che subito smentisce le nostre grezze deduzioni: «In verità ci sono più liutai oggi che in passato. In questi anni ho notato come le persone si stiano riavvicinando al lavoro manuale e all’unicità di un prodotto, come se volessero allontanarsi dalla velocità dell’industrializzazione e del lavoro alienante in favore di una maggior qualità di impiego e di stile di vita».

Articolo di Sara Alberti e Francesca Gabbiadini. Fotografie di Francesca Gabbiadini.

I messaggi nascosti nei colori dei tessuti africani

Sbarcare sul continente africano significa anzitutto lasciarsi avvolgere da un tripudio di stimolazioni sensoriali: primo solleticato è l’olfatto, invaso di un’aria pregna di spezie, gas di scarico, incensi e sudore umano misto a profumi dolci; segue l’udito, come martellato da un accavallarsi di idiomi diversi, di suoni nuovi pronunciati da labbra carnose; infine la vista, che s’apre su orizzonti privi di confini, ma ricolmi di colori che il sole caldo accende in tonalità sempre più vivaci.

Quei colori restano impressi nelle iridi, grazie alle movenze sinuose che le donne africane nascondono tra le fantasie dei loro pagne e ai gesti ampi delle braccia con cui gli uomini agitano il boubou, sullo sfondo di un cielo d’una limpidezza unica, che incontra una terra asciutta e ramata.

Inevitabile è innamorarsi del wax (o ankara), tessuto per antonomasia attribuito dagli europei alla popolazione africana, che nasconde una storia molto più complessa: le sue origini risalgono infatti all’isola di Java, in Indonesia, dove nell’Ottocento i coloni olandesi inviarono un esercito composto in maggioranza di guerrieri ghanesi; affascinati dalla tecnica a noi nota come batik, tipica delle regioni indonesiane e consistente nel ricoprire di cera (wax, appunto, in olandese) le parti di tessuto che di volta in volta si sceglie di non tingere, i soldati la importarono in patria, dove ben si adattava all’uso che le popolazioni africane facevano degli indumenti. Un abito in wax non è infatti solo una copertura del corpo, ma un messaggio che chi lo indossa sceglie di trasmettere; ogni colore ricalca uno stato d’animo, che abbinato alle forme di volta in volta impresse sulla stoffa, comunica un contenuto specifico: così, ad esempio, un abito molto colorato con motivi a spighe di mais può simboleggiare ricchezza e abbondanza oppure le difficoltà della vita matrimoniale; il motivo della chioccia coi pulcini sottolinea il ruolo della madre nella coesione domestica; gli uccelli in volo sono invece di buon auspicio per chi si mette in viaggio. Nella loro capacità comunicativa risiede il successo di queste stoffe, diffuse in tutto il continente africano, spesso con varianti locali nelle tecniche di tintura: in Sud Africa, ad esempio, è popolare lo shweshwe, tessuto di cotone stampato a rullo; sulla costa orientale gli abiti tradizionali (kanga o kitenge), composti da due drappi di stoffa quadrata, sono spesso in bark, un tipo di tessuto stampato in cui sono inserite frasi e aforismi, per lo più in lingua swahili; dall’altra parte del continente, in Benin, è invece possibile ammirare l’abomey apliqué, una tecnica che permette stampe floreali e faunistiche in colori sgargianti.

Esempi di wax o ankara

Ben prima dell’invasione coloniale, si attestano nell’Africa subsahariana tecniche di confezionamento dei tessuti, che prevedevano l’imprimitura del colore tramite immersione nei pigmenti colorati, previa la copertura delle parti che si voleva lasciare intonse. A spopolare sono i toni del blu e dell’azzurro, che prendono forma nei cosiddetti indigo clothes, diffusi soprattutto negli stati centrali; due etnie, dislocate per lo più in Nigeria, spiccano nella produzione di questi tessuti: gli Igbo realizzano gli ukara, stoffe decorate con simboli rituali detti nsibidi; gli Yoruba applicano invece una tecnica simile al wax per ottenere i tessuti adire, in cotone o raffia con stampe geometriche. Forme simili e simili simbologie si ripetono in numerosissime stoffe della tradizione africana più ancestrale; in tutto il continente, infatti, materiali economici e resistenti come la canapa o la raffia, sono intrecciati e tinti con terra e argilla, per realizzare arazzi e vestiti pesanti vivacizzati dal variegato sfumare di marroni, dal nero ebano all’ocra sabbioso, passando per il rosso ramato.

Maestri indiscussi di questa tecnica di tintura sono i membri dell’etnia Bakuba, discendenti di un antichissimo impero dell’ Africa centrale, nell’attuale Congo; le donne di questo popolo producono i tessuti kuba, decorati con forme geometriche ripetute, spesso non progettate, ma spezzate da variazioni sul tema date dall’ispirazione del momento. La personalizzazione dei tessuti è fondamentale tanto per chi li indossa quanto per il produttore, ma la maggior parte dei segni impressi su stoffa ha un significato simbolico decodificabile in gran parte del continente; per questo motivo tanto i colori, quanto le texture di alcuni indumenti si ritrovano pressoché invariati in stati tra loro molto distanti. Simile nell’aspetto, nei materiali e nei disegni delle stoffe kuba, è ad esempio il bogolan (letteralmente: “vestito di terra”) prodotto dall’etnia Bambara, insediata sulla costa occidentale e originaria del Mali; a sud, in Botswana, si possono invece ammirare i tessuti mashamba stampati dalle donne WaYeyi, discendenti dell’etnia Bantu.

Una donna vestita con uno shuka maasai mostra un kanga dal Kenya, recante la scritta in swahili “Mama ni malkia hakuna atakae mfikia”, letteralmente “La mamma è una regina che nessuno può eguagliare”

 

Altrettanto antica in Africa è la tradizione della tessitura, come attestato dai reperti trovati in tutto il continente; interessante è il preservarsi di alcune tecniche di tornitura e intreccio nel corso di secoli e imperi: il tessuto kente, ad esempio, è prodotto dall’etnia Akan almeno dai tempi dell’impero Ashanti e della sua sostituzione all’impero del Ghana, caduto nel 1200. Il kente si ottiene dall’intreccio simmetrico di fili di cotone, le cui colorazioni vivaci ancora una volta trasmettono un messaggio o un augurio: il marrone, colore della terra, simboleggia ad esempio la salute; il giallo regale richiama fertilità e bellezza; il blu è segno di pace e armonia. La tecnica degli Akan è stata assimilata anche nei paesi limitrofi a quelli di insediamento dell’etnia, in cui si trovano tessuti in tutto somiglianti al kente: molto diffusi sono djerma e hausa, prodotti in Niger; gli Yoruba della Nigeria lavorano la stoffa aso oke; mentre in Mali l’etnia Fulani produce i khasa blankets, in cui i fili colorati sono sovrapposti a una base bianca, e i monocromatici dogon.

Simili a quest’ultimi sono i filati etiopi, tra cui spiccano gabior gabi, tessuto pesante usato per abiti e coperte, e natella, una stoffa leggera simile alla garza, decorata con bordi colorati. Sulla stessa costa, tra gli altopiani di Kenya e Tanzania, il popolo Maasai ha ereditato dai soldati inglesi la tradizione di avvolgersi nei kilt, coperte in cotone rosso, blu e nero, che qui sono filati e tessuti artigianalmente e prendono il nome di shuka.
Nel profondo sud del continente africano, infine, i discendenti dell’etnia Bantu ancora cardano le fibre dei baobab e le intrecciano nei tessuti gudza, diffusi soprattutto in Zimbabwe; mentre nel vicino Oodi Village, in Botswana, l’abilità artigianale delle donne sul telaio è tale che sulle loro stoffe è possibile ammirare splendidi ricami, lavorati direttamente nella trama del tessuto.

A sinistra sullo sfondo: un bogolan dal Mali; al centro e in basso a destra: due filati senegalesi; in alto a destra: una natella dall’Etiopia

PUTIA | sicilian creativity, quando l’artigianato fa rete

Bottega: luogo reale e ideale, che identifichiamo con l’artigiano intento sui suoi prodotti, con l’odore del legno e i ferri sul tavolo.
“Bottega”, una parola dal sapore antico. Figuriamoci se la pronunciamo con la cadenza calda e accogliente di un dialetto italiano. In Sicilia, ad esempio, suonerebbe come “putìa”. Ma quella che vogliamo raccontarvi è una putìa dei nostri giorni, che la tradizione vuole circoscriverla e amplificarla al tempo stesso: benvenuti in PUTIA | sicilian creativity, piccolo negozio di Castelbuono (Palermo) e network in espansione; progetto imprenditoriale che valorizza l’artigianato indipendente ma anche gli artisti che sperimentano materiali locali.

«PUTIA nasce un po’ prima del mio arrivo», anticipa Stefania Cordone, art director e responsabile della selezione dei fornitori. Ma lei questa storia l’ha seguita fin dall’inizio, con lo stesso entusiasmo con cui, oggi, racconta ad ogni turista le origini dei prodotti esposti in negozio. Era il 2014 quando Giuseppe Genchi e Michele Spallino, esperti di marketing e comunicazione, decidono di orientare il proprio lavoro sulla valorizzazione degli artigiani locali. Affittano uno spazio incastonato tra le pietre del cortile Poggio San Pietro, accanto al Castello dei Ventimiglia, principale attrazione del paese. L’intuizione arriva presto: l’ufficio è grande e centralissimo, sarebbe un peccato sacrificarlo solo alle riunioni di lavoro. PUTIA diventa una vetrina dell’artigianato e dell’arte.

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Stefania si innamora del progetto e ne sposa la causa: «L’obiettivo è raccontare una Sicilia diversa da quella che intuiscono i turisti filtrando dagli stereotipi. Vogliamo raccontare la Sicilia di chi resta, della resistenza e della resilienza: gli artigiani con cui collaboriamo abitano quasi tutti in Sicilia oppure, se non restano, la portano con sé e la raccontano nei loro manufatti».
Un altro criterio di selezione dei prodotti è la materia prima: «Un racconto della Sicilia attraverso i suoi materiali: ceramica, pietra lavica, corallo, legni autoctoni come il frassino e l’ulivo, e soprattutto la manna, fiore all’occhiello di Castelbuono».

Ne risulta una mappa della nuova creatività siciliana, che trova letteralmente forma nel pannello sagomato sulla forma della Sicilia all’interno del negozio-laboratorio, dove sono indicate le località di provenienza dei diversi produttori, suggerendo un altro modo di vedere e viaggiare in questa regione. «Quello che esponiamo e vendiamo è un pretesto per raccontare tutto quello che di bello c’è in Sicilia, nonostante sia una terra difficile. E io lo so» sottolinea Stefania «perché ho scelto di vivere qui».
Capiamo subito l’obiettivo profondo del team di PUTIA, ossia Michele, Stefania e Cinzia Venturella: scardinare antichi cliché con parole e azioni nuove, come consumo critico e km 0, filiera di qualità e slow life.

E poi ci sono le parole di Stefania, cantastorie che dà voce ai racconti di cui le opere sono testimonianza muta. «Sono il nostro valore aggiunto. Lo faccio ogni giorno e non mi stanco, perché scopro sempre qualcosa di nuovo». E così ci racconta la storia dei taccuini a marchio Edizioni Precarie(in copertina): la fornitrice è Carmela Dacchille, pugliese d’origine e siciliana per vocazione, che con la linea Conserva la tua freschezza! riutilizza la carta alimentare che nei mercati di Palermo avvolge carne, pesce e formaggi, per conservare, stavolta, la freschezza dei pensieri.
Ci sono le ceramiche Don Corleone di Taormina, i gioielli di Roberto Intorre, gli Animalberi di Vera Carollo… ma vogliamo parlare anche del discorso sull’arte sviluppato da PUTIA. E qui ritorniamo al momento in cui Stefania si unisce all’impresa.

 

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Formatasi all’Accademia di Belle Arti di Palermo, Stefania si divide tra PUTIA e il suo studio di disegno e incisione. «Al mio arrivo abbiamo pensato a un restyling del progetto, specificando il tipo di artigianato selezionato, più inusuale e innovativo, e dell’allestimento, per valorizzare PUTIA non solo come negozio ma come esperienza artistica». Inoltre, il livello sottostante, prima dedicato alle riunioni, diventa un’art gallery.
Sede di mostre personali e di una “collezione permanente”, «perché l’arte ha bisogno di un raccoglimento diverso dall’attenzione riservata all’oggettistica», ma anche presentazioni di libri, dischi e workshop. Con PUTIA Gallery l’educazione alla bellezza si unisce all’obiettivo più strettamente commerciale: avvicinare un flusso di visitatori che, attirato dai prodotti, torna periodicamente per partecipare alle iniziative culturali. «Anche di quei turisti che, attratti dai prodotti in vetrina, possono avere un approccio involontario all’arte».

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«In realtà non è stata pensata come strategia commerciale», ammette Stefania, «è una conseguenza delle nostre relazioni con artisti e artigiani: creatività genera creatività». L’input iniziale, insomma, è più genuino, ma la formula funziona: il franchising è un obiettivo ancora futuribile e prematuro, ma il network del “made in Sicily” sta prendendo piede grazie ai nuovi media, una risorsa in più per le nuove realtà artigianali. «Per ora la nostra unica vetrina online è stata la pagina Facebook, poi si è aggiunto Instagram e ora stiamo progettando l’e-commerce».

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Il lavoro non è semplice, ma può dare nuovi stimoli per riflettere sul proprio essere artigiano oggi. «Proporre una visione culturale e politica è un modo importante per noi giovani per dichiarare di esserci, soprattutto oggi che per vendere non sono necessarie delle sedi fisiche e non basta più il passaparola».
Creatività e strategia, queste le due parole chiave per l’artigiano di oggi. «E tanta caparbietà: torno alla parola “resilienza” ». Oggi su TripAdvisor PUTIA è la terza attività di Castelbuono dopo il Museo Civico al Castello: «Questo significa che stiamo lavorando bene e che le persone lo riconoscono. L’esserci su questo territorio, un piccolo paese, ha una gestazione lenta, come la lavorazione artigianale richiede la lentezza del fare. Ma i risultati ci ripagano».

Pillole di handmade: piccole idee, grande talento

Originalità e qualità sono i due pilastri che permettono alla cultura del “fatto a mano”di registrare negli ultimi anni un interesse sempre maggiore sia da chi l’artigianato lo produce sia da chi lo acquista e ne apprezza l’unicità. Inutile sottolineare quanto la crescita sia stata favorita dalle nuove tecnologie che aiutano ed invogliano chi possiede le doti di fantasia, energia e passione a diffondere e rendere a portata di click la propria Arte.

Etsy.com in questo contesto raccoglie l’interesse di migliaia di venditori che utilizzano questa piattaforma per aprire il proprio negozio e far conoscere il proprio talento.

Siamo partiti da qua per selezionare quattro negozi davvero originali ed avvicinare i visitatori alla bellezza di oggetti creati con mani e cuore e chissà carpire i segreti di un’efficace autopromozione.

Una pochette che ama viaggiare: Pattern Thetravellobag. Michela ha sviluppato il suo brand l’anno scorso, volendo creare qualcosa che racchiudesse le sue passioni: i viaggi, la grafica e il conoscere nuove persone e culture. Tutte le bag che realizza sono disegnate personalmente da lei al computer, ogni grafica è unica ed ogni bag rappresenta un viaggio che ha fatto o vorrebbe fare.

«Ho capito che ero sulla giusta strada dopo la partecipazione al primo Market a Milano, dove ho venduto quasi tutte le bag che avevo, ed ho iniziato ad essere richiesta per varie collaborazioni, ricevendo molte mail da ragazze da tutta Italia che mi chiedevano informazioni. Ad oggi lavoro più di 8 ore al giorno per far crescere questo progetto, che mi sta dando tante piccole, grandi soddisfazioni».

Essendo grafica, autopromuoversi sui social per lei è davvero la cosa più semplice ed immediata. Le chiedo quindi di raccontarmi qualcosa sulle attenzioni che bisogna avere nella vendita online: «metà del mio lavoro é appunto la postproduzione delle immagini dei miei prodotti e la creazione dei contenuti da postare su Instagram, Facebook, Etsy. Nella vendita dell’handmade si ricerca una coccola in più, non solo un prodotto. Molte ragazze dopo aver ricevuto il pacchettino che confeziono con cura, mi scrivono solo per dirmi grazie per come era confezionato e per il bigliettino scritto a mano. […] i clienti che acquistano prodotti handmade sono molto esigenti, attenti ai particolari, sensibili e interessati a conoscere la storia di come nasce ciò che acquistano. Sta nascendo qualcosa di nuovo e fresco tutto intorno al mondo dell’handmade in Italia. Tra Bergamo e Milano ci sono dei Market molto validi a cui partecipare per farsi conoscere».

photo credits: Pattern Thetravellobag

    

Rimaniamo nella Bergamo online di Etsy per scoprire Momonde . Erica è una persona che per sua stessa ammissione non riesce a stare con le mani in mano. Per lei avvicinarsi al mondo dell’handmade è stato un processo spontaneo dettato dall’esigenza di continua sperimentazione. «Su piattaforme come Etsy a livello internazionale e come little market a livello nazionale con alcune mie creazioni ho avuto molto successo e complimenti da persone che non mi conoscevano. Ogni persona nuova che conosco o luogo che visito può diventare sempre uno spunto per buttarmi in qualche nuova tecnica o per dare forma ad un nuovo bijoux!». Erica mi fa notare come alle volte bastano passione ed un’idea originale. I social network aiutano ma non bisogna mai dimenticare che occorre tempo, grinta ed intraprendenza.

«Il commercio delle nuove tecnologie è il commercio dell’immagine: ci si aspetta originalità, possibilità di personalizzazione e cura estrema per le esigenze del cliente. Curare la pagina instagram è un ottimo modo per incuriosire possibili clienti da indirizzare poi al proprio shop online con un link diretto in bio. Il blog può essere utile in misura differente, molto dipende dalla tipologia di prodotti che si propone; può essere un’occasione per far conoscere e far affezionare le persone all’artigiano, cosa molto difficile al giorno d’oggi».

 

photo credits: Momonde

Spostandoci a Milano, è impossibile non notare la bellissima realtà di Natura Picta. L’avventura su Etsy per Diego & Lucia principia nel 2011 ma il concept del loro brand affonda le radici nella loro adolescenza.

«La nostra storia è cominciata con l’dea di proporre al pubblico la nostra forma d’arte legata al concetto dell’upcycling ovvero il recupero di vecchie pagine di dizionario e libri, trasformati in opere d’arte ecosostenibili. Siamo artisti in grado di utilizzare materiali destinati allo scarto e non più in uso, trasformandoli in oggetti di decorazione e arredo per le case, per questo motivo ci definiamo eco-friendly crafters».

Diego & Lucia hanno suggellato i valori di Natura Picta intorno la sigla C.H.I.P.: costanza, handmade, idee, passione. Chiedo loro come hanno fatto a costruire un così saldo interesse intorno la loro Arte:

«Ci sono due filosofie di pensiero su come suscitare interesse. La prima è farsi tanta pubblicità, la seconda è realizzare prodotti unici che sappiano parlare da soli. Noi apparteniamo alla seconda categoria. Abbiamo suscitato interesse e curiosita’ da parte di siti, blog, riviste nazionali e internazionali adottando questa scelta. Le persone, in un prodotto handmade, cercano l’unicità, la bellezza e la funzionalità del prodotto. Nel nostro negozio offriamo anche un’altra caratteristica importante, la personalizzazione. Abbiamo deciso di seguire un approccio diversificato per ogni social network. Su Facebook e Twitter miriamo alla presentazione dei prodotti creati nell’arco della settimana, le ultime novita’ e tendenze, promozioni ecc.  Su Instagram invece ci è piaciuta subito l’idea di presentare al pubblico il “dietro le quinte” di Natura Picta : la nostra filosofia di vita, le nostre abilita’ artistiche ecc…»

 

photo credits: Natura Picta

Concludiamo con Milano, consigliandovi una visita ad Abstractales. Maki viene dal Giappone ed è un’illustratrice, una vera e propria artista del pennello. Maki racconta quanto nella vendita online sia importante l’esposizione del prodotto e quanto sia importate dedicarvici la massima cura possibile. Nel suo negozio si possono trovare le riproduzioni dei suoi dipinti, carta da lettere, biglietti, cartoline, accessori … tutte decorate con il sapiente utilizzo della tecnica dell’acquarello.

«La gente valorizza i lavori artigianali molto più di qualche tempo fa, ma in una maniera diversa da prima. Penso che in Italia il mercato dell’handmade sia ancora poco seguito forse perché è diffuso ancora da pochi anni rispetto agli altri paesi come il Giappone, dove risiedono una grande quantità di pubblico e creatori. L’aspetto positivo del negozio online è l’avere un pubblico diffuso un po’ tutto il mondo. La maggior parte delle mie vendite proviene da USA, Nord Europa e Australia. Etsy, inoltre, è un’ottima piattaforma di presentazione poiché è visitato frequentemente anche dai buyer e designer professionali alla ricerca di nuovi talenti provenienti da diversi paesi».

photo credits: Abstractales

“Ai Pioppi”, il Luna Park ad elettricità zero

A Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso, si nasconde un piccolo gioiello artigianale di nome “Ai Pioppi”, un’osteria dedita alla cucina veneta che propone un digestivo del tutto inusuale: il parco divertimenti ad elettricità zero!

Bruno Ferrin è la mente del parco e dell’osteria, sebbene affermi con affetto che «quando si inizia un’attività con la famiglia, ci si sente più motivati e supportati nelle proprie scelte». Pequod incontra Bruno durante la prima domenica di apertura, 26 marzo, sotto un pallido ma temerario primo sole di primavera: «L’idea è nata un po’ per caso. Quando ero un venditore di lieviti per fare il pane, avevo praticamente tutta la giornata libera perché finivo verso mezzogiorno. Un bel giorno ho pensato di aprire una frasca (“osteria di campagna” in dialetto veneto, n.d.r.) con mia moglie Marisa, proponendo salsicce e vino… Nel 1969 abbiamo capito che l’attività poteva fiorire ulteriormente e così abbiamo comprato il pioppeto circostante, in cui ho poggiato la prima altalena».

E proprio un’altalena diede il via al tutto: «Un giorno andai dal fabbro di paese per aggiustarne i ganci, ma mi sentii rispondere di non aver tempo per simili sciocchezze. Iniziai così ad arrangiarmi con la saldatrice» e a costruire a mano i primi giochi. Sebbene all’inizio si sentisse un po’ impacciato, Bruno è riuscito nel tempo a perfezionare la sua arte, aumentando negli anni il numero di attrazioni, sino alle 50 di oggi, tra altalene, pendoli, scivoli, catapulte, trampolini, ruote e montagne russe… il tutto rigorosamente azionato dai muscoli dell’uomo: le giostre non utilizzano infatti l’energia elettrica!

 

Ogni singola giostra nasce dall’accorto sguardo del suo costruttore. «Della natura ne osservo i movimenti e quando ne scorgo qualcuno più singolare, cerco di riprodurlo nelle mie attrazioni. Ad esempio, vedo un sasso che rotola o una foglia che cade, e da qui prendo spunto». In più, i visitatori fanno la loro parte: negli anni Bruno ha potuto perfezionare le proprie attrazioni attraverso i riscontri dei partecipanti: «Man mano perfezionavo le giostre seguendo i desideri della gente», continua il proprietario, sottolineando altresì l’importanza della partecipazione nel parco divertivertimenti “Ai Pioppi”. «Esistono tantissimi parchi divertimento», spiega Bruno, «in cui le persone si spostano da un seggiolino all’altro, facendosi trasportare da attrazioni a motore. Qui “Ai Pioppi”, devi muoverti un poco per divertirti e azionare le giostre! Io e la mia famiglia vogliamo difatti proporre un tipo di parco partecipato, dove ognuno si possa sentire attivo nello svago».

Il parco non è visitato solamente da curiosi italiani: “Ai Pioppi” ha fama internazionale, grazie anche ai loro profili Social. Annualmente si contano dai 30 ai 50 mila visitatori, di cui alcuni provenienti da Australia, America, Brasile… e Cina! Bruno ci racconta ridacchiando di quando un uomo proveniente da Shanghai gli chiese suggerimenti per aprire un parco simile nel suo Paese, chiedendogli consulenza e invitandolo a un futuribile incontro coi finanziatori.

Per scendere dallo scivolo, i tappetini sono altamente raccomandati!

Prima della loro inaugurazione, tutte le attrazioni vengono naturalmente testate e garantite da un ingegnere che ne studia i progetti. Negli anni non è mai successo nulla di grave, ci spiega sempre Bruno, sebbene qualche livido bisogna metterlo in conto, essendo tutte le attrazioni in metallo. Tuttavia, le giostre sono munite di protezioni e misure di sicurezza, mentre il procedere dei giochi è monitorato da attenti vigilanti.

Quanto costa l’ingresso al Parco? Tutto gratuito, a patto che cibo e bevande vengano consumati in osteria. Aperto il sabato e la domenica, “Ai Pioppi” è un’iniziativa della famiglia Ferrin e ancora familiare è la sua conduzione: alla prima cassa dell’Osteria, troviamo difatti il nipote Francesco che a soli 25 anni amministra a tempo pieno l’attività come manager, come ama definirlo nonno Bruno.

 

Bruno e Francesco all’ingresso dell’osteria

NIYA – Che suono fa la felicità?

Da sempre la musica è considerata collante sensoriale per eccellenza, coinvolgente, indiscreta, per tutti.

Negli anni il cambiamento trasversale ha dato luce a sempre più generi musicali, a mezzi di fruizione e strumenti sempre diversi e più tecnologici; ad oggi possiamo passare dall’heavy metal più pesante alla canzone partenopea tradizionale, dalla leggerezza delle note di Einaudi all’ultima hit di Lady Gaga semplicemente premendo un pulsante.

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Ma c’è un progetto, nato tra le colline della bergamasca, che mette in primo piano la riscoperta delle più antiche sonorità legate alla natura, ispirandosi alla cultura indiana d’America degli Sioux lakota: è il laboratorio di strumenti musicali artigianali di Maurizio Barba e Ileana Ferrara, marito e moglie entrambi musicisti che nel 2013 hanno deciso di rischiare fondando NIYA (letteralmente “spirito”), trasformando una passione in qualcosa di più concreto.

Tutto è nato dall’idea di aprire un negozio che ha aperto loro un mondo nuovo alla scoperta di questa cultura, apprendendone tecniche e tradizioni; dapprima cimentandosi nella realizzazione di strumenti musicali partendo da immagini e fotografie, in seguito perfezionando la tecnica scegliendo i legni e le forme più adatte da personalizzare con decorazioni tipiche della cultura aborigena, come il dot paint.

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Un momento di transizione che ha spinto i due artisti all’idea di portare a Bergamo un negozio di strumenti etnici musicali ancora in uso, che non sono la solita chitarra fender, come ci racconta Maurizio nel corso dell’intervista: «C’è la voglia di portare la liuteria in primo piano, è proprio questa che dovrebbe avere importanza, l’importanza di apprendere e conoscere l’essenza di una chitarra, di uno strumento, dai materiali scelti alla tecnica di creazione, piuttosto di uno strumento prefabbricato che arriva dall’industria».

Tra fiere e mercati dell’artigianato il negozio ancora non esiste, il laboratorio si trova a casa e, se già sfogliando la pagina facebook si resta affascinati dai colori e dalle forme, è fondamentale instaurare un vero e proprio rapporto materiale per capirne le sfumature. Spaziano dalla Musica di spettacolo alla Musicoterapia dal bambino curioso di otto anni, all’anziano che torna entusiasta per un nuovo acquisto, al musicista che prende uno strumento più dettagliato e professionale.

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Fiore all’occhiello del marchio leader nel settore del self-made in Italy sono la Kalimba in vero cocco – anche in versione elettrica – e la Kalimba Catania in legno massello, ma Niya è anche Cigar Box Guitar, la leggendaria chitarra Blues e Wood Drum a due, tre o quattro note.

Lo studio della propedeutica musicale verte ad avvicinare l’istinto naturale e primitivo dell’uomo come quello di tamburellare ai bambini, nelle scuole di infanzia, riportando la musica in primo piano nella comunicazione.

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Non mancano poi progetti futuri: «Al momento stiamo arricchendo il nostro catalogo di strumenti per arrivare a un progetto che partirà l’anno prossimo, grazie al quale uniremo alla musica il design di interni, faremo suonate letteralmente l’arredamento».

Le carte in regola ci sono tutte, un progetto innovativo, un’utenza felice ed entusiasta e progetti futuri che fremono, ma come nelle migliori storie non può mancare qualche ostacolo: il commercio eco-solidale locale al momento si è rivelato scettico rispetto a grandi metropoli come Milano o Parigi, ma siamo certi che il feedback positivo non tarderà ad arrivare, l’utenza bergamasca riuscirà a coinvolgere le varie realtà locali, arricchendone l’inventario.

Indi Azan, la poetica della bellezza e la mostra In_di_segni

Spesso ci sono desideri e impulsi non comuni che ci spingono a fare qualcosa nella vita, qualcosa di più. Avere una casa, una macchina, una famiglia, tutte queste cose perfette e comuni, possono sparire di fronte al bisogno di creare qualcosa; un motore che spinge tutto: la curiosità.

E’ ciò che muove Indi Azan, la curiosità e il bisogno, quasi fisiologico, di creare qualcosa che parli di sé.

Indi, al secolo Nidia Zaninetti, è un’artista che non si faticherebbe a definire più che versatile, senza un progetto ben definito che racchiude in sé in realtà un progetto preciso: fare arte, senza distinzioni di sorta. Dalla pittura, al disegno, alla scenografia, alla poesia, all’artigianato, fra influssi di Art Nouveau e Arts&Crafts.

«Credo che l’arte sia la capacità di “arrivare” all’altro. Talvolta arriva al cuore, ai sentimenti, altre volte arriva alla mente, altre ancora arriva e basta e poi se ne va, come un profumo, lasciando semplicemente una scia».

Dopo il liceo artistico e cinque anni all’Accademia di Brera a Milano («Anacronistica e inconcludente almeno quanto me, ma ricca di stimoli e fascino»), è il momento di sperimentare, senza sosta: in teatro a fare l’attrezzista, la sarta e la stiratrice, ma anche la scenografa (disciplina in cui si è laureata nel 2012), e poi le decorazioni nei ristoranti, le carte da parati, la fotografia, ma anche le arti applicate, una passione, creando agende, quaderni e gioielli

«Non credo che l’arte si possa trovare soltanto nei musei o nelle gallerie, dovrebbe essere sempre presente nella vita quotidiana. Non me la sento di dire che un quadro ben fatto è un’opera d’arte mentre un oggetto realizzato a mano magistralmente da un artigiano non lo è. Esistono e sono sempre esistiti pittori e scultori (i cosiddetti artisti) che pur possedendo ottime tecniche sono in grado di produrre solo buon artigianato, mentre esistono e sono esistiti superbi artigiani (vasai, falegnami, ecc.) le cui produzioni più che oggetti d’artigianato sono vere opere d’arte».

Passando per diverse fasi della sua vita, in cui ha reso un affettuoso omaggio ai vari artisti e alle correnti che l’hanno ispirata, come il romanticismo inglese, il surrealismo o la pop-art, “giocando” con i loro soggetti e le loro tematiche, ha sviluppato uno stile che si crea e ogni volta si rimodella, apprendendo da ogni fase artistica avuta. il suo inconfondibile stile si potrà ammirare nei prossimi giorni (dal 9 al 22 febbraio) durante la mostra In_di_segni, al Frida, locale in zona Isola a Milano.

« I disegni che espongo sono dei semplici schizzi eseguiti con pennarello nero. Sono nati dalla precisa volontà di dimenticare le tecniche, il segno preciso e meditato e pure il colore. Lasciando andare la mano dove vuole, senza che si senta in dovere di seguire la mente. Spesso si tratta di disegni affollati, ma anche nella moltitudine tutti gli omini che si possono incontrare in questi disegni sono soli, al comando (o allo sbando) della propria esistenza, in un viaggio precario da affrontare inevitabilmente in solitaria.»

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