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Volontariato, Africa e Amore

Lasciare casa propria per aiutare gli altri: una decisione coraggiosa, soprattutto quando per realizzarla è necessario confrontarsi con consuetudini e stili di vita di un paese lontano, dove si vivono situazioni di povertà a cui bisogna adattarsi, privandosi delle comodità anche più scontate e banali a cui si è abituati.

Pequod ha fatto qualche domanda a Floriana, che ha vissuto un’esperienza di volontariato in Ghana e precisamente a Dodowa, piccolo paese vicino alla capitale Accra.

Perché hai deciso di fare volontariato all’estero?

Un anno fa, a gennaio, mi sono svegliata e mi sono detta «voglio andare in Ghana!». Non so bene nemmeno io perché; è stata una decisione improvvisa. Ho contattato un amico che era stato in Africa per farmi dare qualche consiglio, poi l’associazione italiana Soho. Mi sono affidata a loro perché è l’unica realtà che conosco che opera senza far pagare un prezzo totale per l’esperienza, ma fornisce le istruzioni necessarie e le indicazioni sui vaccini, per poi lasciare che i volontari si gestiscano in autonomia per l’acquisto dei biglietti aerei. Nel giro di una settimana li avevo già comprati! Sono partita ad agosto, per andare a fare volontariato in un orfanotrofio che ospita 250 bambini, e sono ritornata anche a novembre, dopo aver fatto una raccolta fondi grazie alla quale ho comprato cibo, acqua e vestiti per i bambini; ho pagato per mandarli a scuola e fornirgli cure mediche.

Come era la tua giornata tipo?

Ad agosto i bambini non andavano a scuola, al mattino li aiutavo a fare il bagno: in sostanza dovevo prendere dell’acqua dal pozzo con un secchio, e utilizzando una tazza da tè lavarli, mentre loro si insaponavano con delle spugne speciali. Poi mangiavano, studiavano e giocavano. Spesso si ammalavano, soprattutto di malaria, e allora bisognava portarli in ospedale.

A novembre invece i più grandi andavano a scuola, mentre i piccoli facevano lezione nell’orfanotrofio. A volte, per carenza di insegnanti facevo lezione di inglese, francese o matematica. Poi si mangiava, si tornava a lezione e infine si faceva il bagno e si lavavano i vestiti in grosse bacinelle, con la pietra di sapone. Alla sera distribuivo le medicine. Quasi sempre, capitava l’imprevisto: molti dei bambini soffrono di reumatismi, si ammalano di malaria, o semplicemente bevono acqua non potabile e si sentono male.

Hai avuto una preparazione personale o professionale prima di partire?

No, la prima volta non avevo idea di cosa mi aspettasse. Alloggiavo in una casa di volontari, luogo che definirei fatiscente, ma che è diventato il mio posto preferito sull’intero pianeta. È una piccola casetta con due stanze, in ognuna delle quali ci sono letti a castello per 6 persone; non c’è acqua corrente e l’energia scarseggia. Un bidone fa da cisterna per l’acqua, e la doccia consiste in una porta di legno dietro cui ci si lava con un secchio d’acqua. Il secchio d’acqua si utilizza anche dopo aver usato il bagno.

Per telefono prima di partire avevo parlato con Mamma Valeria, che si occupa dei volontari in Italia, e mi aveva dato indicazioni su vaccini e malattie, raccomandazioni circa l’utilizzo dello spray repellente anti malaria e suggerito di tenere la bocca chiusa sotto la doccia per evitare i pericoli dell’acqua non potabile. Mamma Valeria mi ha dato tutte queste informazioni ma in maniera molto distaccata per non influenzare la mia idea sull’Africa.

Ma tutto ciò non ti ha fatto vivere l’esperienza con un po’ di ansia?

No, non ho mai avuto ansia, anzi, sono stata avvertita di non avere troppo contatto con i bambini per via di malattie o infezioni, ma io li baciavo e coccolavo! In Africa vivo come vivono loro: cammino scalza, mangio con le mani e non ho il minimo timore! Se dovessi beccarmi un’infezione, so che poi guarirebbe.

Qual è stata la parte più dura dell’esperienza e cosa ti ha dato più soddisfazione?

La situazione più dura da vivere è quando i bambini si ammalano, perché ci si sente male quando soffrono, si vorrebbe fare qualcosa ma non si può. Questa è a livello generale una delle cose brutte dell’Africa: voler fare tanto, cercare di garantire un futuro, ma non poterlo fare. Ci sono certe abitudini e tradizioni che non si possono cambiare e ti fanno sentire impotente: puoi solo dare soldi e affetto. Anche se paghi la scuola a un bambino, il suo livello di istruzione sarà sempre basso perché la scuola non va bene, ma chi è al comando per qualche assurda ragione non ti permette di mandarlo nella scuola migliore. Voler cambiare le cose e non poterlo fare è frustrante: ho la sensazione che l’Africa si sia rassegnata al fatto che la situazione non migliorerà.

La cosa più bella in assoluto invece sono i bambini: lasciano un segno che non si racconta. Quando faccio loro dei regali, sia materiali che no, soddisfacendo i loro desideri, fanno i salti dalla gioia. E nei momenti in cui sono davvero felici io mi sento piena dentro, viva. Quando mi scrivono che gli manco e aspettano il mio ritorno, mi commuovo. Ho intenzione di ritornare da loro ogni 4 o 5 mesi.

Nessuno ti ha mai chiesto: «Perché non aiuti in Italia invece di andare in Africa?»

Vado in Africa perché ormai ce l’ho nel cuore e sono molto affezionata ai bambini, ma quando ho potuto, ho sempre aiutato anche in Italia e anche a Londra, dove vivo ora, mi sono iscritta a un’associazione di volontariato. Credo che il volontariato sia una vocazione, se ce l’hai in Africa ce l’hai in qualsiasi parte del mondo.

Che consiglio daresti a qualcuno che volesse fare la tua stessa esperienza?

L’Africa la suggerisco a chiunque ma il consiglio è di vivere come le persone locali. Una volta nella vita, tutti dovrebbero provare per capire e arricchirsi. L’approccio alla vita è diverso quando il secchio d’acqua deve durare per quattro docce e un boccone di riso va diviso: impari a evitare sprechi, a non lamentarti. L’Africa si poggia sul pilastro della condivisione, “sharing is caring” e anche se il cibo è poco si condivide. I bambini tra di loro si spartiscono il cibo e gli oggetti che regalo e si prendono cura di me: quando un bambino ti imbocca, anche se ha le mani sporche, non si può rifiutare!

 

Tutte le fotografie sono state gentilmente condivise dall’intervistata, tutti i diritti sono riservati.

Pedagogie d’altri continenti

«In metro, un bimbo di una ventina di mesi stava seduto sulle gambe della mamma e teneva in mano un gioco di gomma: si divertiva a gettarlo in terra, ridendo per il rumore prodotto, e il papà a ogni tonfo si abbassava a raccoglierlo. In un movimento monotono la scena continuava a ripetersi, il gioco cadeva e il papà si abbassava, ma a nessuno veniva in mente di innervosirsi e sgridare il bambino», un amico di rientro dal Giappone mi racconta di quest’episodio per spiegarmi la libertà totale di cui godono i bambini nel Paese del Sol Levante. Nell’immaginario occidentale, i piccoli giapponesi crescono addestrati fin dall’infanzia a essere parte di una società operosa e produttiva, alle cui regole è imposto sottostare acriticamente; in realtà, in età prescolastica il modello educativo giapponese è tra i più lassisti e liberali del mondo. Ne Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict dà un’immagine grafica di questo modello educativo: l’arco di vita dei Giapponesi segue una curva ad U (contrapposta al modello americano che ha forma Ո), «in cui i massimi di libertà e di indulgenza sono riservati ai bambini e ai vecchi, mentre le limitazioni all’autodeterminazione individuale aumentano lentamente dopo la fanciullezza per raggiungere il punto più basso della curva nel periodo che immediatamente precede e segue il matrimonio».

L’educazione degli infanti avviene quasi totalmente per mezzo di provocazioni psicologiche, di cui la Benedict offre interessanti esempi: «quando un altro pic­cino viene a far visita, la madre in presenza del proprio bambino, si mette a vezzeggiare il piccolo ospite e dice: “Ho intenzione di adottare questo bambino; desidero proprio un bambino così carino e così bravo. Tu invece non ti comporti come dovresti per la tua età” […] oppure la madre dice al bambino: “Tuo padre mi piace più di te: lui sì che è un uomo come si deve”». In questo modo si ottiene il risultato di far sorgere nel giapponese adul­to quel timore del ridicolo e della condanna sociale che è un elemento così tipico della sua mentalità e che trova il suo fondamento nel kimochi-fugi, che Azuma definisce come «la tendenza a dare importanza ai sentimenti degli altri, o a tentare di simpatizzare con i sentimenti degli altri e di percepire le loro intenzioni».

Sempre grazie a questa filosofia, i bambini sono educati a essere membri di una società imperniata sul gruppo, di cui presto dovranno imparare le gerarchizzazioni, riflesse per la loro importanza nel linguaggio quotidiano: le espressioni “fratello” e “sorella” esistono, infatti, in Giappone solo accompagnati da riferimenti all’età, ossia come ani (fratello maggiore) o otōto (fratello minore), ane (sorella maggiore) o imōto (sorella minore).

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Questa gerarchizzazione, data dall’ordine di nascita, che attribuisce un vero e proprio potere, una vera e propria autorità, mi ricorda in qualche modo quello che in Senegal ho osservato essere l’ordine che naturalmente si costituisce all’interno delle famiglie. In tutta l’Africa, l’età è motivo di vanto e la persona anziana considerata più saggia dei successori; questo principio è tanto radicato da diventare significativo anche tra individui della stessa generazione, soprattutto in età infantile, quando ancora non subentrano titoli acquisiti e meriti, a mutare la piramide voluta dalla cronologia di nascita.

Come in Giappone, in Senegal il bambino sotto i tre/quattro anni sembra in qualche modo escluso dalle interazioni sociali, quindi esonerato dalle norme che le regolano: trascorre gran parte del tempo fasciato sulla schiena della madre, viene preso in braccio ogni volta che piange, mangia e dorme quando decide. Crescendo invece, l’infante è tenuto a obbedire a qualsiasi richiesta l’adulto ponga e a rispettarne le regole, ma gode, a differenza dei giapponesi, di totale autonomia nella gestione del tempo libero, anche grazie alla presenza di una comunità priva di pericoli e coinvolta nell’educazione; è tipico veder correre per i vicoli tra le case dei quartieri di Dakar gruppi di bambini che liberamente giocano, entrano ed escono dai cortili, litigano, fanno pace e stabiliscono gerarchie entro le loro microsocietà. Totalmente differente è però l’approccio dei genitori all’educazione scolastica; un’altra similitudine emerge tra Senegal e Giappone: fin dai primissimi anni d’istruzione, fondamentale è il successo scolastico, che viene misurato attraverso una vera e propria classifica di confronto tra compagni di classe. In entrambi i paesi, inoltre, la distinzione tra periodo scolastico e vacanze è molto meno netta di ciò cui sono abituati gli studenti europei: sull’isola asiatica il periodo festivo è impegnato tra club sportivi, attività extrascolastiche e servizi volontari per i comuni; i bambini senegalesi trascorrono invece buona parte delle mattinate estive nelle scuole coraniche, dove imparano il testo sacro attraverso forme di educazione rigide, che non escludono la punizione corporale. Quest’attitudine all’obbedienza prende periodicamente forma rituale nelle cinque preghiere comandate, quando il richiamo del muezzin fa correre le bimbe a coprirsi il capo e i bambini a prendere i tappeti da stendere in direzione della Mecca, senza che gli adulti intervengano a sollecitare.

Le riflessioni pedagogiche sul bambino come adulto, che tanto hanno caratterizzato l’Europa tra ‘800 e ‘900, sembrano aver appena sfiorato la cultura senegalese, in cui i rapporti tra adulti e bambini sono regolati dalla mera interiorizzazione di una gerarchia, che giustifica l’autorevolezza dei primi sui secondi. Di quest’ordine i bambini non soffrono, perché hanno autonoma gestione del tempo non impiegato in attività necessarie. Diverso è il caso dei bambini di strada, numerosissimi a Dakar, che trascorrono gran parte del tempo elemosinando e chiedendo gli avanzi di cibo nelle case, per poi rientrare nella scuola dove l’imam impartirà la lezione coranica; o ancora dei bambini che sui marciapiedi lavorano con le madri, vendendo acqua, frutta di stagione, piccoli dolcetti. Nessuna legge vieta il lavoro minorile né impone un’istruzione obbligatoria, benché a Dakar si trovino moltissime scuole pubbliche.

Alla base delle numerose similitudini tra i due paesi, geograficamente tanto distanti tra loro, sta il comune denominatore di un’idea di società come di una comunità coesa, i cui membri interagiscono collaborativamente tra loro, a formare una sorta di estensione dell’ambito domestico, che si esprime nella creazione di gruppi all’interno della società giapponese e nell’idea del social living senegalese. Caratteristica di entrambi i popoli è il rispetto sempre dovuto all’infante, aldilà dell’estensione della possibilità di rivolgergli richieste. Nel bambino, infatti, entrambe le culture vedono un riflesso dell’adulto che sarà in futuro; entrambe le culture hanno considerazione dell’individuo che racchiude in potenza e che sarà un giorno il punto di riferimento dei genitori che oggi si occupano della sua educazione.

In primis, nel bambino, Giapponesi e Senegalesi vedono la speranza di una continuità nel tempo della stirpe famigliare.

I libri per ragazzi spiegati agli adulti

Per parlare di letteratura per bambini e ragazzi è necessario, prima, sfatare almeno un paio di falsi miti.
Anzitutto, se pensate che i libri tra le mani di bambini e ragazzi siano solo quelli elencati nelle  odiate letture obbligate durante le vacanze di Natale, i numeri del mercato editoriale vi smentiranno. I lettori più avidi di libri extrascolastici si contano tra i bambini dai 2 ai 5 anni (63,3%) e gli adolescenti tra i 15 e 17 anni (53,9%), contro una media del 42% estesa a tutta la popolazione italiana. Non a caso, quindi, i titoli per bambini e ragazzi contribuiscono alla crescita del mercato editoriale italiano, costituendo il 17,4 % del fatturato totale e il 22,9 % delle copie vendute.
Ma a comprare i libri sono gli adulti, e qui arriviamo al secondo, forse più grande pregiudizio sulla letteratura per ragazzi.
Alcuni pensano si tratti di letture “facili”, storie semplificate in una scrittura semplice. Sono quegli adulti che hanno dimenticato di essere stati bambini, parafrasando Il Piccolo Principe, e i cambiamenti che hanno segnato la loro crescita. «Ma le domande che ci poniamo da ragazzi ci inseguono per tutta la vita».
Sarà per questo che per Mara Pace, giornalista, redattrice e traduttrice, il legame con il mondo della letteratura per l’infanzia non si è mai spezzato.
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Le prime esperienze al Giornale di Brescia, poi una laurea in Scienze della comunicazione, un master in Editoria e lo stage diventato lavoro presso il Corriere.it. Oggi, le attività di ufficio stampa in CAST Alimenti, importante scuola di cucina; le grandi traduzioni per la casa editrice Rizzoli; le collaborazioni con Il Castoro, Editoriale Scienza, la rivista Io e il mio bambino e soprattutto con Andersen, mensile di letteratura e illustrazione per il mondo dell’infanzia, «il fil rouge, la costante del mio percorso».
Nella rivista, Mara si occupa di recensioni e interviste, ma anche del blog Premio Andersen, lo spazio che ogni lunedì La Stampa.it dedica a vecchi e nuovi libri per ragazzi, e del progetto Leggevo che ero, raccolta di fotografie scattate a ogni autore intervistato con “il” libro d’infanzia. Sì, perché ognuno di noi ha un libro che porta nel cuore fin da bambino, che ci ha guidati verso le letture “consapevoli”, scelte per curiosità e passione.
Quello di Mara è Le streghe di Roald Dahl, autore cult di un’intera generazione di futuri editor, librai e scrittori per ragazzi (per i più giovani, l’autore de La fabbrica di cioccolato).
È da questo libro che parte la sua passione per la letteratura d’infanzia, ed è da qui che partiamo.
Fotografia di Mara Pace per la rivista “Andersen”.
A quando risale la tua riscoperta della letteratura per l’infanzia?

«Lavoravo al Giornale di Brescia. Un giorno mi hanno affidato la recensione di un libro per ragazzi di cui nessuno si voleva occupare. Io ero entusiasta, mi sono ricordata esattamente le emozioni che avevo provato da bambina. Sono stata una grandissima lettrice, amavo i libri, perciò ho dei ricordi molto forti. Ricordo quando ho comprato Le streghe, quanto mi era piaciuto, e il fatto di tornare in libreria e in biblioteca per cercare “lo stesso libro”. Una ricerca perenne di quell’entusiasmo che ti ha dato un libro e che cerchi tutta la vita. E così, quando ho incontrato di nuovo i libri per ragazzi, mi sono chiesta: ci sono ancora le collane che piacevano tanto a me da bambina? Che cosa è uscito nel frattempo? Era rinato l’amore per questo mondo affascinante e vastissimo. E ho scoperto la passione per l’illustrazione e il fumetto».

L’illustrazione è molto importante nel libro per ragazzi…

«Il rapporto parola-immagine è fondamentale e ci tengo a precisare che le immagini non servono a sostituire le parole! Possono semplificarle, ma a volte le complicano, danno dei contenuti aggiuntivi alla parola. I libri senza parole, i silent books, talvolta sono più difficili da leggere di un libro con le parole. Sono libri che abituano a leggere le immagini, fondamentale in un mondo in cui siamo quasi più bombardati da immagini che da parole. Per questo apprezzo quando l’immagine e il testo non raccontano la stessa cosa, ma riescono ad essere complementari, a volte anche discordanti, e quindi creano qualcosa insieme».

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I libri possono essere un gioco per i bambini?

«Questa domanda mi fa pensare ai libri de La Coccinella, famosi in tutto il mondo, che puntano sulla varietà di forme e idee cartotecniche. Il libro per la prima infanzia spesso è materico e il bambino gioca con le sue superfici. Sì, il libro è un gioco, ma è anche altro: la prima lettura nell’infanzia è affidata ad altri, agli adulti, perciò il libro diventa un oggetto attraverso cui passa il rapporto d’amore con la mamma, il papà, anche la maestra d’asilo. Che un adulto legga una storia è un gesto importante, che va al di là della storia letta e tocca l’affettività. Fino ai 5 anni, la lettura è a due: per un bambino è sentirsi raccontare una storia da qualcun altro. Per questo gli albi illustrati non parlano solo ai bambini, ma anche all’adulto al suo fianco, e i più belli emozionano entrambi».

Che cosa può trovare di interessante un adulto nei libri per bambini e ragazzi?

«Ci trovi un’umanità incredibile. Ci sono libri per adulti molto profondi, che scavano e scavano, e a volte trovi una profondità unica nella leggerezza dello sguardo bambino. Se pensi alla letteratura per bambini fino ai 12-13 anni, guardi il mondo da un punto di vista più basso. Ci trovo qualcosa di filosofico nell’abbassare lo sguardo, che a volte significa alzarlo: devi essere all’altezza di un bambino, non abbassarti al suo livello. Ricordiamoci che i bambini stanno una spanna sopra di noi perché hanno uno sguardo diverso sul mondo».

Una caratteristica trasversale che unisce la letteratura per ragazzi a tutta la letteratura?
«Ti insegnano a pensare, a guardare il mondo con i tuoi occhi e a ragionare con la tua testa. Il libro bello, qualsiasi libro, ti lascia con un senso di inquietudine, una domanda aperta, la voglia di vivere e di riflettere sul mondo. Con un punto interrogativo che ti emoziona e ti scuote. E questo nella mia esperienza lo fa più spesso il libro per ragazzi più che il libro per adulti».
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Per concludere, Mara Pace ci lascia con alcuni riferimenti per approfondire: buona lettura!

Giocare è una cosa seria

Giocare è un diritto di tutti i bambini. Tuttavia, chi pensa che il gioco sia un’attività fine a se stessa non potrebbe avere più torto. Infatti, sulla convinzione che giocare costituisca un momento fondamentale dello sviluppo del bambino è fondata la psicomotricità, disciplina nata in Francia alla fine del XIX secolo ed approdata in Italia negli anni Sessanta. All’inizio gli esperti di questo particolare ambito legato alla formazione e allo sviluppo infantile si trovavano a dover sfidare le convinzioni dominanti e a dover mettere in discussione i modelli educativi. Oggi che la psicomotricità è largamente diffusa in tutta Italia e le sue aree di competenza si sono evolute, lo psicomotricista si trova comunque a dover combattere contro pregiudizi e titubanze. A fare il punto della situazione e a capire perché sia così importante conoscere la psicomotricità e soprattutto praticarla ci aiuta Elena Campagnoli, psicomotricista di Vimercate.

Ciao Elena, ci racconti di cosa ti occupi?

Ciao, sono psicomotricista, o terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, e lavoro presso l’ospedale di Vimercate (MB) dove mi occupo di riabilitazione infantile e della diagnosi di disturbi vari, come i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Dal 2015 inoltre collaboro con l’associazione Airone, con cui conduco progetti di monitoraggio alla crescita e coordino gruppi di psicomotricità educativa nella scuola dell’infanzia e primaria, oltre che negli asili nido, a partire dagli otto mesi.

Come spiegheresti la psicomotricità a chi non la conosce?

La psicomotricità è quella disciplina che supporta i processi evolutivi dell’infanzia, dando modo al bambino di mettersi in gioco e valorizzarsi integrando le sue componenti emotive, intellettive e corporee, attraverso l’azione e l’interazione, con gli altri e con lo spazio. Aldilà di questa definizione generale, ciò che è fondamentale chiarire è che la psicomotricità non è soltanto un’attività terapeutica, pensata per bambini affetti da disturbi di vario genere; la psicomotricità, e nella fattispecie quella educativa, è pensata per tutti ed offerta a chiunque si trovi in età prescolare e fino ai primi anni di scuola primaria. Certo, aiuta a risolvere i problemi ma è soprattutto un’attività di supporto allo sviluppo complessivo del bambino, nella sua vita assieme agli altri e come individuo con le proprie peculiarità e predisposizioni. Detto ciò, uno psicomotricista si occupa dunque di attività diverse, concepite sia per bambini con particolari problematiche fisiche, mentali e disabilità sia per bambini con un regolare sviluppo e senza problemi evidenti.

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Parliamo del gioco: perché è importante? A cosa serve? Esistono miti e convinzioni da sfatare sul gioco dei bambini?

Partirei da una convinzione da sfatare sul gioco che è intrinseca nella comune accezione de termine. Il termine “gioco” nel linguaggio comune infatti sminuisce il vero significato della parola, lo estrania dalla vita reale. Per noi psicomotricisti invece il gioco è un fenomeno esistenziale legato alla storia di ciascun bambino e parte imprescindibile del suo processo evolutivo. Giocare è un passo fondamentale per lo sviluppo del bambino, è un’attività di apertura verso il futuro, in libertà e senza giudizi. Il ramo della psicomotricità che lavora nelle scuole, con bambini “sani”, è quello della psicomotricità educativa; non a caso, “educare” significa proprio “tirare fuori”, far sì che i bambini riescano a far emergere le proprie capacità.

Raccontaci come è strutturata l’attività psicomotoria nelle scuole.

Solitamente i percorsi nelle scuole durano al massimo sei mesi, durante i quali si devono far provare più cose possibili ai bambini, così che abbiamo spunti sufficienti per approfondire ciò che più si avvicina alle loro inclinazioni. Un percorso tipo è composto da dieci incontri: i primi due sono di conoscenza, servono ad instaurare un rapporto di fiducia nei confronti dello psicomotricista e lasciano ai bambini la possibilità di giocare liberamente con il materiale a loro disposizione. Si passa poi ad attività strutturate, per le quali il movimento costituisce sempre un elemento fondamentale. Ad esempio, si scandisce il ritmo con un tamburello per far muovere i bambini, insegnando loro a rispettare le pause, a riconoscere le parti del proprio corpo e del corpo degli altri, si preparano dei percorsi con schemi motori diversi, che prevedono di camminare all’indietro, strisciare, rotolare e altro ancora. Si dedica poi del tempo ad attività particolari con oggetti specifici, come costruire, travestirsi, giocare con la palla. Nel corso di questi incontri vigono delle regole che pian piano i bambini imparano a rispettare, dal rispetto dell’altro al rispetto dei tempi, dal coinvolgimento di tutti alla condivisione del materiale e degli spazi. Negli ultimi due incontri i bambini sono nuovamente lasciati liberi: questa è la fase di monitoraggio, in cui emergono le preferenze individuali e in cui si ha modo di verificare l’avvenuto sviluppo del bambino e l’acquisizione delle regole di comportamento e delle capacità di relazionarsi con rispetto verso gli altri.

Avendo a che fare con i bambini di oggi, quali ritieni che siano gli aspetti più difficili e cruciali nel crescere ed educare i bambini nel 2016?

Lavorando con i bambini si ha ovviamente a che fare con i genitori. Nella mia esperienza, ho osservato l’esistenza di due tipologie opposte di genitori: da una parte vi sono coloro che giustificano tutto quello che i loro figli fanno o dicono, prendendo alla leggera anche i comportamenti sbagliati; dall’altra ci sono genitori estremamente rigidi, che rimproverano i bambini con una tale severità e senza cercare un confronto da finire per spaventarli senza tuttavia insegnare loro una lezione. Più in generale, quella che ritengo essere una caratteristica comune alle famiglie di oggi è il fatto di essere complicate: oltre ai casi di separazione e divorzio, in cui tipicamente i genitori tendono a concedere tutto ai figli per il senso di colpa che provano, ci sono genitori super impegnati, non troppo giovani e quindi con meno energie, che spesso preferiscono lasciar correre per una questione di mancanza di tempo e semplificazione. I problemi frutto di una tale situazione sono molteplici: la mancanza di regole, l’incapacità di rispettare i tempi altrui e soprattutto di ascoltare qualsiasi adulto, dalla mamma alla maestra, con la conseguente difficoltà di apprendere. La psicomotricità si assume dunque l’obiettivo di educare al rispetto di se stessi e degli altri, si impegna a far passare ai più giovani il messaggio dell’esistenza di altri al di fuori di noi stessi e dell’importanza di vivere ascoltando ed assecondando anche le esigenze altrui.

Credi che in Italia la psicomotricità abbia lo spazio che si merita nella formazione dell’infanzia?

Benché nel nostro Paese esistano moltissimi centri privati che si occupano di psicomotricità educativa, essi ancora faticano a superare lo stigma che si tratti di un’attività esclusivamente ideata per bambini con problemi. Tuttavia, di recente l’interesse per la disciplina sta crescendo, spesso motivato dalla pura curiosità, dato che molte volte non si sa bene di cosa si tratti. Di conseguenza, le scuole che attuano progetti di questo tipo sono ancora troppo poche e nella maggior parte dei casi il tempo e i fondi concessi per queste attività sono troppo pochi. Ciò su cui noi psicomotricisti vogliamo insistere è l’importanza del gioco e di attività strutturate per tutti i bambini, sani e non, che oggi più che mai hanno bisogno di essere educati a sviluppare le loro potenzialità e a rispettare gli altri, le regole, gli spazi e i tempi di un mondo sempre più difficile.

Una mano dal passato per bambini del futuro

Alle porte di Bergamo, tra viali alberati e parchi giochi, c’è un negozio che vende alle famiglie quello che altri bambini non usano più: si chiama Secondamanina, e tra giocattoli, vestitini, culle ed altri accessori, conta più di cinquemila pezzi.
La curiosità di scoprire come nasce una realtà di questo tipo, come funziona e come riesce ad integrarsi in una comunità ci ha portato dietro le vetrine del negozio, a sbirciare tra i coloratissimi articoli e fare quattro chiacchiere con Tayla, la proprietaria.
“Quando ho avuto mia figlia, mi sono accorta di quante cose necessiti un bambino e di come le sue esigenze cambino velocemente: ho iniziato a scambiare con altre mamme le cose che non servivano più per altre di cui avevo bisogno, e così è nata l’idea di aprire il negozio”. A Secondamanina, infatti, chiunque può portare quello che ai propri figli non serve più: dopo una valutazione, gli articoli vengono esposti e possono essere acquistati da chi ne ha bisogno.
Da quando è nata, quest’attività è diventata una certezza per molte famiglie: chi compra sa di star scegliendo oggetti di qualità ad un prezzo minore, e chi vende sa di star dando nuova vita a quello che non usa più.
Ma chi sono i clienti di Secondamanina? “Nonne e neo-genitori sono i visitatori più frequenti, ma spesso contano su di noi anche famiglie al secondo o terzo figlio: quando si ha più di un bambino piccolo in casa servono tantissime cose e da noi si può risparmiare”
Abbiamo chiesto infine se ci fosse differenza tra clienti italiani e stranieri: “per la maggior parte, si rivolgono a noi clienti italiani, oppure famiglie di provenienza est-europea, dove negozi di seconda mano sono molto diffusi”.
Nonostante oggi in Italia la bassa natalità sia una questione rilevante, Secondamanina è una realtà che funziona e un punto di riferimento per ogni tipo di famiglia.

Tra le vie di Bucarest, i bambini di strada e la Fondazione Parada

Quando arrivi per la prima volta in una città, i passi ti conducono spontaneamente verso il centro, la parte migliore, biglietto da visita e facciata turistica. A Bucarest, invece, il centro storico ti racconta storie differenti.

Durante i miei primi mesi nella capitale (con molta probabilità a causa delle imminenti e oramai concluse elezioni presidenziali) la città è stata soggetta a continuo ammodernamento, tra strade, marciapiedi e nuove tinteggiature. Quando però si attraversa il giardino di Piaţa Unirii, a un solo chilometro dal Palazzo del Parlamento, nel cuore della città socialista che Ceauşescu cercò di costruire negli anni ‘80, non è possibile distogliere lo sguardo da coloro che dormono sulle panchine o bevono sull’erba. Sono le persone che vivono per strada, non più solo bambini ma anche adulti. Ai primi ho cercato di approcciarmi con sorrisi, saluti e sguardi buffi, sedendomi nelle vicinanze, ma nulla è servito a superare il loro sguardo di diffidenza nei miei confronti. Ho deciso allora di avvicinarmi a chi, con loro, lavora da anni: Associazione Parada Romania.

In Strada Bucur 23, Settore 4, a una decina di minuti da Piaţa Unirii, si trova il centro della Fondazione Parada, associazione che dal 2006 si propone anche su territorio italiano per la promozione e difesa dei bambini di strada. Utilizzando un approccio di tipo partecipativo, l’associazione punta alla reintegrazione sociale della gioventù di strada grazie al centro diurno, concepito come alternativa al vagabondaggio, nel quale si portano avanti attività ludiche e supporto psicologico, e grazie all’unità mobile Caravana, un servizio di assistenza stradale che si pone come intermediario tra la strada e i servizi offerti da Parada. L’unità mobile è attiva tre giorni alla settimana, incontrando diversi gruppi che abitano i canali, portando cibo, coperte e vestiti e parlando dei servizi che l’associazione può offrire, quali doccia, lavatrici e aiuto per la compilazione dei documenti necessari per lavoro e assistenza sanitaria; tutti servizi che Parada, nei due giorni della settimana in cui Caravana non esce dal centro, mette a disposizione dei suoi beneficiari.

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Ma chi sono i suoi beneficiari? Cosa si intende con “per strada”?

Una fascia di popolazione fissa, 1200-1500 persone di tutte le età, vivono senza dimora: d’estate nei parchi e lungo le vie, d’inverno nei canali sotterranei. I canali non sono le fogne. Tra la superficie e le fogne vere e proprie, nei canali scorrono i tubi del riscaldamento centralizzato, fondamentali per coloro che vogliono sopravvivere a un inverno capace di toccare i meno 20°. La strada rappresenta per questi senzatetto la libertà: negli orfanotrofi o nelle residenze messe a disposizione dal governo, la violenza è all’ordine del giorno.

Per le stesse motivazioni è nato il fenomeno dei bambini di strada dopo il Natale del 1989, giorno della caduta del regime comunista di Ceauşeascu. Dopo aver lanciato nel 1966 una campagna contro l’aborto e i metodi contraccettivi seguendo il binomio più rumeni = più potere, il dittatore tagliò le agevolazioni statali per le famiglie numerose, causando l’aumento vertiginoso della mortalità infantile, dell’abbandono di minori e del numero di bambini negli orfanotrofi. Da qui, i ragazzi non potevano scappare. Sino alla caduta del regime. Colpa dunque di Nicolae? Iuliana mi fa saggiamente notare come il numero dei bambini di strada, dal 1989 a oggi, sia costante. «Il problema è che dopo la Rivoluzione nulla è veramente cambiato. E’ subentrato il capitalismo, a gamba tesa, creando squilibri mostruosi accanto a moltissimi benefici, ma il passaggio è stato troppo repentino», proferisce Sergio.

Le strade di Bucarest non sono abitate solamente dai senzatetto. Le occupazioni, soprattutto nel centro storico della città, sono tantissime in quanto dopo l’89 numerose case sono rimaste sfitte e chi non ha una casa occupa, sperando che il proprietario non ritorni. Non è gente che vive nei canali, ma un giorno ci ritornerà: difficile dunque riuscire a fare una stima definitiva di coloro che vivono per strada poiché la strada ha regole tutte sue ed è caratterizzata da una flessibilità con la quale Parada deve fare i conti.

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«Una volta si faceva tantissima animazione lungo le vie della città, il circo, ma oggi non abbiamo la struttura per gestire tutti i bambini che l’attività potrebbe attirare. Senza contare che il personale della fondazione è dimezzato», continua Sergio. L’attività circense è stata cuore e fondamento dell’associazione, nata nel 1996 grazie a Miluod Oukili, giovane clown franco-algerino, che nel 1992 arrivò a Bucarest per fare l’artista di strada. Finì per conoscere i «boschetari» della stazione Gară de Nord e per scommettere che li avrebbe tirati fuori dai canali. Ce la fece con la maggior parte, tanto che uno di loro, allora bambino e oggi trentenne, lavora a Parada.

Per conoscere meglio la sua storia, vi rimando al film Pa-ra-da di Marco Pontecorvo realizzato nel 2008, augurandovi buona visione!

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