Tutt’oggi sembra che la più imponente e diretta forma di partecipazione sia la manifestazione, non potendo il cittadino fissare il giorno della votazione a suo piacimento. Nata come necessità all’attivismo e in risposta all’indifferenza nei confronti della società circostante, la manifestazione, indipendentemente che sia un corteo per strada o un ritrovo in uno spazio pubblico, dimostra opinioni e sentimenti condivisi di una collettività.
Ma possiede ancora oggi il medesimo significato? E, soprattutto, ha ancora la sua efficacia?
Provocazioni a parte, per questo fotoreportage la redazione di Pequod ha deciso di pubblicare fotografie scattate durante varie manifestazioni, mentre si camminava per dimostrare il dissenso su provvedimenti e disonestà. Da Roma, al Brennero, passando per Bologna e Bergamo, i nostri sguardi si intrufolano, partecipando, nei diversi movimenti che hanno cercato negli ultimi tempi di comunicare, prendere parola al fine di favorire uno scambio di opinioni. E forse proprio dalla parola e dall’opinione bisognerebbe ripartire per restituire all’azione e al manifestare la sua vitalità. Per questo motivo, una serie di fotografie che cercano di testimoniare come la nostra generazione vive e comunica la manifestazione, tra cartelli di protesta, fumogeni, danze e momenti di dialogo.
Andare a votare o andare al mare? Lamentarsi per ciò che non funziona o fare qualcosa per risolvere il problema? In queste semplici domande sta la differenza fra cittadini consapevoli e non, fra la partecipazione e il disinteresse.
Fortunatamente esistono iniziative che si pongono come obiettivo quello di rendere i cittadini più partecipi fin dall’infanzia, investendo sui giovanissimi: fra le tante Pequod ha scelto di raccontare del Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze, un laboratorio di educazione civica presente in molte città d’Italia. In particolare abbiamo avuto il piacere di parlare con Davide Tagliafichi, pedagogista, che dal 1996 coordina le attività del Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze di Piacenza. Un’iniziativa di tutto rispetto, con un’esperienza ventennale, che ha però saputo rinnovarsi ogni anno coinvolgendo nel tempo 354 classi e più di 6000 ragazzi. Insomma, un’organizzazione matura ma in grado di formare ogni anno nuove, anzi nuovissime (giovanissime) premesse!
Buongiorno Davide, ci racconta di cosa si occupa?
Buongiorno. Come pedagogista, da sempre mi occupo del rapporto fra infanzia, adolescenza e spazi urbani. In particolare lavoro nell’ambito dell’educazione civica, della partecipazione, che a Piacenza è maturata nell’esperienza del Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze.
Davide Tagliafichi
Entriamo subito nel vivo. Che cosa è il Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze?
È una forma di partecipazione attiva dei ragazzi delle medie di Piacenza alla vita democratica, amministrativa e civile del loro Comune. Gli incontri del Consiglio avvengono nelle classi e le tematiche affrontate sono suddivise sui tre anni di scuola media: si comincia con il funzionamento del Comune per poi arrivare ad un approfondimento della Costituzione, in terza media. E poi ci sono le proposte per la città di Piacenza formulate proprio dai ragazzi…
Ci dica di più di queste proposte…
Facciamo conoscere le peculiarità del Comune di Piacenza, organizziamo incontri con il sindaco e con gli assessori. Instauriamo un legame con il territorio attraverso attività pratiche a contatto con la città: ad esempio assieme ai vigili urbani i nostri ragazzi danno delle “multe morali” agli automobilisti indisciplinati. In questo modo nascono delle idee e dei progetti di miglioramento della città che a fine anno vengono presentati all’Amministrazione cittadina.
Ragazzi delle medie che danno una “multa morale”
Sembra un’attività molto impegnativa, che coinvolge non solo voi pedagogisti, ma anche le scuola e per certi versi anche gli organi comunali stessi. Quali sono le difficoltà maggiori incontrate nell’organizzazione del Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze?
In realtà nelle scuole non c’è nessuna ostilità, ti aprono le porte e c’è massima collaborazione. L’unica difficoltà da superare è stata la riduzione dei fondi a disposizione per queste attività: molti Comuni infatti hanno abbandonato il progetto, noi al momento siamo i più anziani in Italia! Senza contare che siamo stati il primo capoluogo di provincia ad avere un Consiglio dei Ragazzi e uno dei primissimi in Italia, dopo Corleone e Fano.
In questi vent’anni quali sono i progetti che vi hanno dato più soddisfazione?
Sicuramente motivo d’orgoglio è stato il progetto per un marciapiede per non vedenti, che ci ha fatto guadagnare il premio dell’ANMIL. E poi ci sono le piste ciclabili, fino a vent’anni fa assenti, e il recupero di piazze cittadine, progetti verso i quali l’attività del Consiglio ha aumentato la sensibilità. Senza contare le iniziative propriamente nostre, come la messa in sicurezza degli ingressi scolastici.
Progetto “Ingressi sicuri”
In che modo la coscienza civica dei ragazzi viene arricchita da quest’esperienza?
I ragazzi sono coinvolti in prima persona, si mettono in gioco personalmente e il fatto che non ci siano voti li fa sentire più liberi. E abbiamo effettivamente riscontrato che i contenuti trasmessi rimangono, infatti molti ex alunni oggi sono attivi nella vita civica e politica della città.
Ci lascia quindi con una ventata di ottimismo per il futuro, visti i risultati ottenuti finora?
Sicuramente ci sono state tante soddisfazioni, anche dimostrate dal fatto che alcune nostre iniziative sono state esportate in altri Comuni. Si continua però a cercare di migliorare; del resto è un po’ la maledizione dei pedagogisti: il nostro lavoro finito quando si vedrà? Si spera e si prova sempre… Con un’unica certezza importante, che i ragazzi, “nativi digitali” o meno, hanno sempre gli stessi bisogni: essere accettati, sentirsi accolti ed avere amici… Insomma, l’uomo resta uomo, ed è su queste semplici necessità della nostra natura che bisogna lavorare.
Primavera milanese, scende la sera e la prima folata di vento viene a stuzzicare Hamadou e me, seduti alla pensilina di Lambrate, in attesa del treno per rientrare a casa. Un africano dalla carnagione opaca e il naso stretto si avvicina per chiedere una sigaretta. «Da dove vieni?» chiedo. «Eritrea».
Istintivamente Hamadou si alza a prendere un caffè caldo dalla macchinetta, lo porge al ragazzo che gli si siede accanto e domanda di lui, della salute, della famiglia, secondo i convenevoli in uso nei paesi musulmani. Abdul si presenta e racconta la sua storia.
Asmara – Capitale d’Eritrea
«Fratello, non ho notizie da più di un anno della mia famiglia. Mia madre è deceduta mentre ero in viaggio; mia sorella forse è ancora giù, forse partita anche lei».
Da più di un anno, Abdul vive in strada; dal giorno in cui è scappato dal centro di prima accoglienza in Sicilia, ha conosciuto pensiline e stazioni in tutta Italia, attraversando la penisola sui binari e fermandosi su sollecito dei controllori, che di volta in volta lo trovano sprovvisto di biglietto.
«Non potevo più aspettare i documenti nel centro accoglienza: era come una seconda prigionia, dopo quella in Libia. In più c’era il rischio che mi dessero l’asilo umanitario, anziché quello politico: vuol dire che hai passaporto e documenti per viaggiare; da noi è vietato possederli prima dei 50 anni. Il governo eritreo viene informato dei cittadini all’estero che prendono passaporto e può punire le loro famiglie».
L’Eritrea è oggi una delle più terribili dittature: da 21 anni Isaias Afewerki, eletto poco dopo il voto per l’indipendenza, ha imposto un governo assolutista e fortemente militarizzato, che ignora le leggi della pur approvata Costituzione del 1997. La popolazione è totalmente privata dei propri diritti civili, l’informazione è controllata e la leva obbligatoria, estesa per legge a uomini e donne in età dai 18 ai 50 anni e spesso anticipata, è prevista non solo in caso di guerra, ma anche per programmi di lavoro statali.
Incontro tra il Segretario della Difesa Donald H. Rumsfeld e il Presidente Isaias Afwerki ad Asmara, Eritrea, il 10 Dicembre 2002 [ph: by Helene C. Stikkel]
«Sono partito la settimana dopo la morte di mio fratello maggiore, entrato nel campo di servizio militare a 17 anni. Mio padre ci aveva lasciati da meno di un anno per una malattia, quando sono venuti a portarlo via; pochi mesi dopo sono venuti a cercare me e mio fratello minore, perché mio fratello aveva tentato la fuga dal campo ed era stato fucilato. Fortunatamente nessuno era in casa quando arrivarono e fummo avvisati da conoscenti. Fuggimmo nel deserto, io e mio fratello lo attraversammo a piedi; mia madre si nascose per mesi insieme alla mia sorellina di pochi mesi presso una zia».
Abdul racconta molto dei giorni trascorsi nel deserto: il sole cocente sulla fronte, il cibo razionato condiviso, i predoni da cui fuggire nascondendosi sotto la sabbia calda. Racconta del fratello e delle chiacchiere e di come la notte si sdraiassero pochi minuti a osservare la volta stellata:
«È l’ultimo ricordo felice nella mia terra».
Dopo il deserto, la sua voce trema. Ci racconta sottovoce d’aver perso il fratello nelle prigioni libiche: «Mi sono imbarcato da solo. E sul gommone ogni giorno moriva un fratello».
Il suo racconto s’interrompe e mi fissa con sguardo intenso, duro e fiero:
«Voi europei vi dimenticate spesso delle fortune che avete e di quanto sono costate. Le ricchezze e i diritti che avete ottenuto sono anche grazie allo sfruttamento delle colonie. Noi continuiamo a subire le conseguenze della politica coloniale: gli europei hanno stabilito prima di cedere l’Eritrea all’Etiopia, poi di sostenere la nostra indipendenza. Ora anziché intervenire perché si rispettino i diritti umani, stringe accordi con Afewerki, come fosse un presidente democratico aperto al dialogo. Costerebbe troppo intervenire militarmente e non ci sarebbe nulla da guadagnare».
Vorrei chiedere scusa. Vorrei fargli sapere di come anch’io vorrei che il mio paese aprisse gli occhi e guardasse oltre le frontiere, per accorgersi che una vera democrazia non può esistere finché ci sia anche un solo popolo cui è negato il diritto a parlare, soprattutto quando quel popolo è stato tuo compatriota e ancora bussa alla tua porta per chieder aiuto. Non ci sono parole e forse non servono.
Stringo la mano di Hamadou; guardo il cielo, dove ormai sono apparse le stelle.
Da sempre la musica tradizionale è stata un mezzo di descrizione del quotidiano, un modo accettato dalla società per esprimere le proprie opinioni. I supporti tecnologici hanno fatto il resto: alla fine della Grande Guerra l’altoparlante diventò centrale per la diffusione della produzione musicale; ma contemporaneamente il disco e la radio permisero ad una grande varietà di produzioni locali di arrivare all’orecchio del grande pubblico.
Negli gli anni ’20 e ’30 in America si sviluppano dei nuovi generi musicali aventi come comun denominatore la musica tradizionale: ai grandi successi del blues classico si affiancano gli omaccioni del country blues, cantanti e chitarristi afroamericani che mettono in musica il loro background di miseria, disordine sociale e dissolutezza. Si crea uno stile vocale e chitarristico che sarà la base del successivo rhytm and blues e del rock. Invece Hillibilly erano i montanari degli Stati del sud, e questo diventò il termine per identificare il loro genere musicale. Il “country dei bianchi” vedeva come protagonista assoluto il banjo, così come il violino suonato con la tecnica “popolare” (appoggiato sull’avambraccio invece che sotto il mento).
Dopo la Grande Depressione masse di migranti si spostano a ovest degli Stati Uniti per scappare dalla siccità e dalle tempeste di sabbia che tanto avevano tediato gli stati centrali. Woody Guthrie (1912-1967) è con loro e canta i drammi, lo sconforto e le illusioni, in una combinazione di lucidità e di realismo che caratterizza i testi delle sue canzoni. Arrivato a Los Angeles, canta le sue critiche sociali e politiche alla radio; la diffusione è capillare e persegue a cantare del New Deal e dell’antifascismo unendosi ad altri cantanti impegnati politicamente: Guthrie è il vero padre della musica cantautoriale, che avrà un’influenza decisiva sul movimento successivo del folk revival e sui cantautori sessantottini.
Il mondo stava cambiando, soprattutto nel secondo dopoguerra, quando nel pieno dell’ “americanizzazione” di usi e costumi del quotidiano, c’era chi sentiva il bisogno di contrapporsi alla banalità e alla mistificazione ideologica della musica leggera. In Italia la goccia che fece traboccare il vaso furono Sanremo e le sue Casette in Canadà. La contrapposizione alla leggerezza musicale venne portata avanti dal gruppo Cantacronache di Torino e il collettivo del Nuovo Canzoniere Italiano, a cui aderirono anche le menti poetiche di Italo Calvino, Franco Fortini e Umberto Eco. Particolarmente ignorati dalle case discografiche, trovavano accoglienza tra le menti meno pretenziose di circoli operai, gli ambienti letterari e le case del popolo: l’elemento fondamentale del loro lavoro fu la riscoperta del mondo popolare (sulla scia delle ricerche etnografiche ed etnomusicolgiche di Ernesto De Martino e di Alan Lomax). Durante i loro concerti, per esempio, veniva chiesto al pubblico di riportare alla memoria canzoni popolari, canzoni di lotta e denuncia sociale o dell’esperienza partigiana con l’obbiettivo di dare voce a quelle che venivano considerate culture subalterne, creando così una primordiale idea di repertorio in questo senso.
Cantautori di stampo sanremese si avvicinarono a questo spirito musicale: Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Luigi Tenco esordirono in un contesto più vicino alla popular music e al rock’n’roll di matrice americana per poi diventare i primi rappresentanti della canzone d’autore impegnata, insieme all’anticonformista Fabrizio De Andrè. Con il ’68 (che in Italia durò fino a oltre la metà degli anni ‘70) il cantautorato s’infiamma di critiche politiche e sociali: arrivano i primi album di Francesco Guccini e la svolta di autoanalisi collettiva sui clichè e i limiti della società italiana di Gaber.
Da qui in poi la canzone d’autore italiana si riempie di sfaccettature e sonorità provenienti da influenze di ogni sorta, con una vena poetica, politica e sentimentale ereditata da questi grandi artisti che magistralmente hanno unito musica e poesia diventando i padri cantautori della popular music. Rimane il fatto che la musica di tradizione popolare è la base più intima da cui partire, il nostro background tradizionale che troppo spesso viene preso alla (musica) leggera.
“Italy is a democratic Republic founded on labour. Sovereignty belongs to the people and is exercised by the people in the forms and within the limits of the Constitution.”
This is what recognizes the Italian Constitution in its first of twelve fundamental principles. Italy is a democratic Republic, as Italian citizens we should have equal social dignity, the access to work and promote our labour skills, to choose in freedom…
But what is the situation of people that live, work, study in Italy for many years? This week Pequod wants to know the perception and ideas of people living in Italy, not because they were forced to leave their countries, not in an emergency situation, but because they choose “freely” to come to Italy for several reasons. This is the case of Aris, 35, Mexican and living in Northern Italy. Aris moved to Italy in the most romantic way: he met an Italian girl in Mexico, than they decide to go to Italy together and to get married. Although, he chose to come here for familiar affairs, he still admits that the choice to remain was hard: “it was challenging for me to put myself on test, to meet new people, know new places in another culture with the possibility to travel across Europe”. These are, according to Aris, the reasons why Mexicans like him decide to move and know Europe: “the Italian dream, as we perceive the American dream, for Mexican people doesn’t exist in Europe. Coming here without a job, without a family, without guarantees is too expensive, that is why people prefer the more unsafe way and go to United States.”
“Are Italians white? How Race is made in America” (goodreads.com)
Even though Aris thinks that Italy is a real and effective democracy, he asserts that our democracy is still imperfect, mostly, for foreign people. By marring and Italian girl, Aris got the Italian citizenship. Notwithstanding his formal and legal status, he doesn’t feel 100% an Italian citizen yet. “Maybe in ten years I will feel completely Italian, but nowadays I still feel the difference in my Mexican accent, my skin colour, my way of dressing: it’s really complicate to integrate in an old-fashioned society like Italy. My hope is the future generations: I meet more and more open minded people and I know that we are preparing in a big mental change in Italy, due to social changes.”
In official terms, the Democracy Index elaborated by The Economist Intelligence Unit’s Democracy Index recognizes what Aris told us, in its ranking of democracy worldwide. This index analyses 165 independent countries and two territories and it is based on five categories: “electoral process and pluralism; civil liberties; the functioning of government; political participation; and political culture”. In the report of Democracy Index 2015 (Democracy in an age of anxiety), the Economist Intelligence Unit classifies Italy, in its 21st place, as a flawed democracy, basically due to the decline of popular confidence in political institutions and parties, the poor economic performance, the weak political leadership and the growing gap between traditional political parties and the electorate have spurred the growth of alternative populist movements in Europe (Democracy Index, 2015).
Aris in “Latino Americano”, Milan
Although the Italian dream is faded and amiss, Aris likes to live in Italy. He loves its arts, gastronomy and landscapes. He likes to live in a safe country, with clean streets, natural parks. “I think I really like all the beautiful things that Italians don’t appreciate as they should, but I’m from Mexico City, I grew up in another reality and I can see the real beauty of Italy”. That is why Aris ends our conversation with some suggestions for us, Italians: “You should esteem your social and human hues and be more proud of what you have, without complaining if it’s raining, if it’s sunny, if it’s Monday, Tuesday, Wednesday…”
Cover Photo by Jameschecker (CCA-SA 4.0 by Wikimedia Commons)