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E’ la Cina l’esempio da seguire nel settore dell’energia solare?

Nel corso dell’ultimo decennio, la Cina è diventata un Paese all’avanguardia nel settore delle energie rinnovabili ed è oggi in testa alle classifiche mondiali per gli investimenti nelle tecnologie energetiche a bassa emissione di CO2. Le ragioni di questo impegno sono molteplici, in primis il tentativo di diminuire l’inquinamento che rende irrespirabile l’aria di molte metropoli cinesi, ma anche di assicurare la propria indipendenza energetica e cercare di tenere fede alla promessa fatta in ambito internazionale di ridurre le emissioni per contrastare il cambiamento climatico.

In particolare, una delle energie rinnovabili su cui il governo cinese ha maggiormente investito è stata quella solare. Nel 2015 la Cina ha incrementato la propria capacità energetica solare di 15 GW, sorpassando la Germania e diventando così il mercato di energia solare più grande al mondo con 43,2 GW di capacità produttiva, pari al 22,5% di quella mondiale. In base agli ultimi sviluppi, inoltre, questa tendenza sembra destinata a continuare. A settembre 2016, infatti, l’Amministrazione Energetica Nazionale (NEA) cinese ha presentato l’ultimo piano per lo sviluppo del solare termodinamico: 20 nuovi progetti di centrali da realizzare entro il 2018 che produrranno altri 1,35 GW in totale.

Impianti di produzione di energia solare fotovoltaica a Hong Kong (foto di Wpcpey – utente di Wikipedia).

Tutti segnali molto positivi, se non fosse che almeno 4,5 GW dell’energia prodotta nel 2015 non è mai arrivata ai consumatori ed è rimasta inutilizzata. Le ragioni principali sono due. In alcuni casi, gli impianti semplicemente non sono allacciati alla rete elettrica nazionale, in quanto sono stati realizzati dove la rete è vecchia o addirittura non presente. In altri casi, pur essendo connesse alla rete, le installazioni sono localizzate lontano dai centri urbani e industriali dove la domanda è maggiore; di conseguenza, la loro capacità produttiva non riesce ad essere sfruttata interamente, generando così grossi sprechi di energia.  Molte delle centrali sono infatti concentrate nelle province occidentali del Ningxia, Qinghai, Gansu, Mongolia Interna e Xinjiang, che, sebbene siano le aree con le migliori condizioni di irraggiamento, sono anche tra le province più povere, arretrate e meno popolate della Cina. Siccome anche i nuovi progetti in cantiere per il 2018 verranno realizzati in queste zone, è ovvio che se il governo non riuscirà  parallelamente a sviluppare le infrastrutture per la trasmissione e la distribuzione dell’energia elettrica, questi investimenti si riveleranno inutili.

Il governo si è finalmente mosso per risolvere il problema, dando ordine alle società di distribuzione elettrica di realizzare linee adeguate per fornire la connettività mancante nelle aree remote del Paese.

Tuttavia, l’evidente squilibrio degli enormi investimenti nella realizzazione di nuovi impianti di produzione a fronte dell’assenza di un programma adeguato per lo sviluppo delle infrastrutture di collegamento getta nuove ombre sul settore dell’energia solare cinese. Le aziende cinesi di pannelli solari sono leader indiscussi a livello mondiale, tanto che sei dei dieci più grandi produttori al mondo sono cinesi. Date le previsioni non esaltanti per il settore, il governo del Dragone potrebbe aver lanciato gli ultimi progetti per sostenere le grandi imprese ed assorbire il surplus della loro produzione.

L’ipotesi potrebbe benissimo essere fondata, anche perché non sarebbe certo la prima volta che Pechino interviene pesantemente a sostegno dell’industria energetica solare nazionale. La Chinese Development Bank (CDB), nata come policy bank nazionale e a tutt’oggi braccio destro del governo, ha fornito fin dall’inizio alle grandi imprese cinesi produttrici di pannelli ingenti prestiti a lungo termine con interessi irrisori, che hanno permesso loro di crescere in maniera esponenziale e diventare leader mondiali del settore in pochi anni, inondando il mercato di pannelli solari a buon mercato. Questo però ha portato gli Stati Uniti e l’Unione Europea ad accusare le aziende cinesi e Pechino di dumping, cioè di vendere i propri prodotti a un prezzo inferiore ai costi di produzione per mettere fuori gioco la concorrenza, tanto che entrambi i Paesi hanno in diverse occasioni imposto elevati dazi di importazione sui pannelli solari realizzati con materiali provenienti dalla Cina.

Se i propositi di Pechino di ridurre l’inquinamento atmosferico e le emissioni di CO2 attraverso l’energia solare sono assolutamente ammirevoli e auspicabili, i metodi finora impiegati non sembrano completamente in linea con questi scopi e paiono più finalizzati al raggiungimento di obiettivi economici che ambientali. L’impegno e gli investimenti per sviluppare il settore dell’energia solare sono indubbi, ma la mole di lavoro che resta da fare è notevole e la posta in gioco alta. Nei prossimi anni vedremo se la green economy cinese è una possibilità reale o se in verità si dovrebbe semplicemente parlare di green washing.

Ecocentro di Gruppo Esposito: dalla strada per la strada

Cartacce, mozziconi e tutta l’immondizia che troviamo nelle strade possono trasformarsi, dopo attenti passaggi di recupero e trattamento, in nuovo materiale per riasfaltare le strade stesse. Questa la finalità dell’impiantistica Ecocentro, un progetto sperimentato la prima volta nella città di Bergamo, dove ha sede l’azienda Gruppo Esposito, che ha brevettato questo impianto di recupero e trattamento dei rifiuti da spazzamento delle strade per ottenere nuovi materiali utili nel settore dell’edilizia e in altri processi produttivi.

Si tratta quindi di recupero, e non smaltimento dei rifiuti, secondo un’ottica green che anima il lavoro dell’impresa bergamasca.

A poche settimane dall’inaugurazione di Ecocentro a Guidonia, alle porte di Roma, contattiamo il titolare dell’azienda di Gorle (BG), Ezio Esposito, in partenza per un viaggio di lavoro in Sardegna.

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Ci parli della storia della sua azienda.

«La nostra azienda nasce nel 1998 e dagli anni Duemila lo scopo di Gruppo Esposito è individuare rifiuti mai recuperati e su di essi creare un’impiantistica atta al recupero e al riuso. Abbiamo brevettato una tecnologia che rendesse i rifiuti adatti a tale scopo e così abbiamo inaugurato il primo impianto Ecocentro a Bergamo, nel 2004; da lì ne sono seguiti altri 11 in Italia, per importanti enti privati e statali».

Da dove nasce l’idea che ha portato alla creazione di Ecocentro?

«L’idea è nata da una semplice constatazione: si smaltiscono parecchi rifiuti ma pochi di questi vengono recuperati, mentre possono essere utilizzati nei diversi cicli produttivi, come indica la normativa».

Personalmente, ha sempre avuto una passione, un’attitudine particolare per la cura dell’ambiente?

«Io vengo dal settore dell’igiene urbana; mi sono formato alla Waste Management, una multinazionale americana che occupa una posizione di leadership nella gestione integrata dei rifiuti. Insomma, il rifiuto l’ho toccato con mano, tanto per capirci! [ride]. Ho avuto sempre un’attenzione al recupero per creare qualcosa di nuovo, è nel mio DNA. Come dire, ho una vena aziendale in cui si intrecciano la passione per l’ambiente e la passione per l’impiantistica. E così ho creato un’azienda di ingegneria».

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A livello mondiale, come vede il panorama delle aziende che si occupano di economia green?

«Il settore della green economy va avanti, di pari passo con una normativa piuttosto chiara, che impone determinate percentuali di recupero dei rifiuti e delineando obiettivi importanti a livello nazionale ed europeo: ora, sta alle aziende raggiungerli, adeguando la propria impiantistica».

In questo scenario, l’Italia che ruolo svolge? Come immagina, quando si parla di innovazioni tecnologiche la tendenza generale è quella di guardare sempre oltreconfine, non senza un certo scetticismo nei confronti delle aziende italiane…

«In realtà gli italiani si sono sempre distinti in questo settore. Il nostro brevetto, ad esempio, è arrivato negli Stati Uniti, in Australia, in Cina. Poi, che in Italia ci si lamenti sempre, è un fatto tutto italiano, appunto, ma in quanto a impiantistica per l’ambiente, a livello nazionale siamo avanti. Molti guardano alla Germania, ma quanti sanno che la maggior parte delle attrezzature sono italiane, in Europa e in altri continenti? Probabilmente, allora, gli italiani non sono così arretrati; semmai, forse, ci adeguiamo più lentamente e in modo disomogeneo alle normative comuni».

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Restringiamo il campo alla città in cui ha sede Gruppo Esposito, ossia Bergamo: cosa ne pensa della vivibilità degli spazi verdi e dell’estetica dei suoi paesaggi?

«Per motivi di lavoro giro molto in Italia e all’estero, dato che i miei impianti sono diffusi a macchia di leopardo, perciò posso dire che Bergamo è sicuramente un’isola felice. Abbiamo una città e una provincia molto attente all’ecologia e all’ambiente, secondo me anche grazie ad ottimi e competenti funzionari provinciali nel settore ambiente. Il nostro primo impianto realizzato a Bergamo è stato un’innovazione a livello mondiale, ma anche grazie alla preziosa collaborazione di queste persone competenti che ci hanno permesso di avere le informazioni necessarie per avviare i lavori».

In un settore innovativo come quello dell’ingegneria ambientale, la ricerca assume un ruolo determinante: quanto e come investe la sua impresa in attività di ricerca?

«Gruppo Esposito investe ogni anno il 10% del fatturato in ricerca e sviluppo, per sperimentare e ideare impianti innovativi; in particolare collaboriamo con CINIGeo, il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Ingegneria delle Georisorse, che coinvolge le quattro università di Bologna, Trieste, Cagliari e la Sapienza di Roma e abbiamo un capannone da 1800 mq dedicato alla sperimentazione, con macchine e attrezzature. Puntiamo molto sulla ricerca perché è l’unica strada che ci permette di crescere e andare avanti in questo settore, per raggiungere gli obiettivi indicati nelle normative».

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Quanti giovani ci sono nel suo team di ricerca?

«Praticamente sono tutti giovani sotto 35 anni e hanno grandi potenzialità, ma gli anziani non devono mancare perché impegno, esperienza e passione devono essere di riferimento e di esempio proprio nei giovani in cui, probabilmente, dal mio punto di vista, mancano un po’. Credo che ci siano meno persone che si dedicano con passione a quello che fanno, questo anche perché c’è poca soddisfazione lavorativa, in termini di guadagni e di stabilità».

I progetti futuri di Gruppo Esposito?

«Stiamo progettando un nuovo impianto in Sardegna, a Cagliari, e guardiamo all’estero, in particolare verso l’Austria e l’Inghilterra. Intanto abbiamo parecchi lavori in corso d’opera: il progetto di recupero e trattamento dei limi delle aree portuali, che si depositano e attaccano al fondo marino; il recupero di scarti della lavorazione del vetro, per ottenere sabbie silicee utili nel settore minerario, e altro ancora. Insomma, le applicazioni possono essere diverse; si cerca sempre di trovare soluzioni di recupero, quindi di riutilizzare i rifiuti per mantenere un po’ più verdi i nostri ambienti».

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