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Ti insegno una parola gentile: Ruah

Ruah: un soffio, uno spirito. Una parola che parte dall’Antico Testamento per essere condivisa da cristiani, ebrei e musulmani. Una parola per una filosofia comune d’agire: la nostra responsabilità verso gli uomini e le donne che incontriamo e verso ciò che ci circonda.

Pequod, in questa settimana dedicata alla Giornata Internazionale della Lingua Madre, ha incontrato la Cooperativa Ruah che di questa filosofia comune d’agire ha fatto tesoro e l’ha resa concreta nel territorio bergamasco. Nata nel 1991 come associazione, aprì un centro d’accoglienza presso il Patronato S. Vincenzo di Bergamo «In quel periodo iniziavano ad arrivare le prime grandi ondate di immigrati e sul territorio, prima dell’Associazione, non esisteva nulla. Una volta accolti e soddisfatti i bisogni primari di queste persone, l’esigenza più forte da parte loro era quella di imparare la lingua – anche per un discorso di permanenza nel Paese e di possibilità lavorative (prima si trovava lavoro più facilmente). Nasce spontaneo nel centro d’accoglienza l’avviare corsi di italiano». Queste le prime parole della dottoressa Elisabetta Aloisi, insegnante professionista della cooperativa, durante la nostra intervista.

Con un migliaio di iscritti all’anno, la scuola di italiano della Cooperativa Ruah, ha come obbiettivo primario l’alfabetizzazione e l’insegnamento della lingua italiana. Lingua italiana vissuta come l’idioma ospitante e d’acquisizione. Una necessità che arriva insieme all’integrazione nel nostro paese (ancora troppo legato alla sua lingua madre?).

Come mi spiega Elisabetta, le difficoltà maggiori di questo progetto stanno nella mancanza di materiali, «non si possono usare gli stessi libri di testo che si usano con i bambini ma occorrono dei testi pensati per gli adulti» e nel problema dell’analfabetismo di alcuni studenti. Si aggiunga la motivazione e il tempo da dedicare allo studio: «queste persone che si rivolgono a noi hanno molta urgenza di imparare la lingua ma allo stesso tempo hanno una lavoro, una famiglia». Per questo motivo si cerca di rendere gli orari dei corsi il più possibile flessibili, con una fascia oraria che si estende dalla mattina al pomeriggio, fino alle lezioni domenicali e «grazie ai finanziamenti europei e quelli di altre associazioni riusciamo a fornire dei corsi alle donne con figli piccoli abbinato ad un servizio di baby-sitter sempre all’interno della scuola».

Ci sono corsi di italiano, inglese, francese e arabo, corsi di italiano mirati, per esempio allo studio per l’esame della patente di guida, percorsi di “italiano professionale” e di italiano per l’informatica (il nuovo analfabetismo?). La scuola di italiano Ruah non si limita all’insegnamento teorico della lingua: dopo le ore dietro ai banchi, tra libri e bollette del telefono, si esce! Si va in posta, negli uffici pubblici, al mercato, in Città Alta e alla Gamec. Si impara l’italiano direttamente “sul campo” andando incontro alle difficoltà quotidiane, insieme a proposte più intriganti come i laboratori linguistici collegati a progetti di teatro e di cucina.

L’attenzione per il prossimo è la nascita di questo progetto che mette la lingua madre al servizio di chi desidera renderla propria. È uno scambio, un soffio che passa da un idioma all’altro facendo venire a galla quel che veramente ci accomuna come genere umano.

Muoversi tra i suoni di Dakar: un racconto di multilinguismo africano

In partenza per Dakar, ancora una volta ripongo nel bagaglio a mano, come ancora di salvezza, i miei libri per imparare lo wolof, pur sapendo che il mio è soltanto un piccolo gesto scaramantico di fronte allo straordinario plurilinguismo del Senegal, che non si esaurisce certo nell’incontro tra l’ormai lingua ufficiale di stato e quella coloniale, il francese.

Ancora una volta, riempiendo lo zaino, alleno la mia mente a passare attraverso idiomi diversi, fiduciosa della comprensione che riceverò dal popolo del Paese dell’Accoglienza, come i senegalesi chiamano la loro terra.

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Già in aeroporto, sono travolta dai suoni della folla che cerca di richiamare l’attenzione del mio viso pallido sulle merci in vendita e i taxi in attesa: «Madame! Madame!» «Señora! Señora!» «Miss! Miss!».

Oltre il rumore, riconosco la voce di mio nipote Ndiaw; mi chiama nel suo tono “francesemente” dolce, ”africanamente” basso.

Scopro che la modulazione delle frasi che caratterizza i senegalesi è tra le cose che più mi sono mancate. Lo scopro ascoltando mia cognata Ndeye che in inglese mi indica dove mettere le valigie; è laureata e conosce la lingua dagli anni del liceo; non la parla con scioltezza, ma le nostre conoscenze sono bastate a stabilire tra noi una complicità. Con lei ho attraversato il mercato del quartiere, conosciuto le abitudini delle donne africane, scoperto i segreti di sapori e tessuti; e l’ho fatta ridere ascoltandomi scherzare con i due negozianti della zona che parlano spagnolo, convinti che sia italiano, perché hanno lavorato alle dipendenze di un portoghese.

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Con mio marito abbiamo incontrato anche alcuni senegalesi che l’italiano lo parlano davvero, pur non avendo mai messo piede fuori dal loro paese; mi stupisco del fatto che tutti mi diano la stessa spiegazione: «L’italiano è facile da imparare: basta leggere un libro e cercare di capire il senso comparandolo al francese. Parlare è semplice: si dice così come si scrive.»

Ho toccato con mano la facilità con cui questo popolo apprende nuove lingue: dopo pochi giorni trascorsi in famiglia, mia nipote Sanou, di sette anni, indicando il piatto da cui mangio, chiede: «È buono? Dafa neeχna?», prima in italiano, poi in wolof; spiegando e comprendendo allo stesso tempo. Ha semplicemente ascoltato mio marito tradurre per me nei precedenti pranzi.

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Con mia suocera è stato meno semplice: non parla wolof ma serere, la lingua del villaggio in cui è nata e dell’etnia cui appartiene tutta la famiglia; abbiamo passato molto tempo assieme, io imparando a riconoscere il modularsi della sua voce, lei ripetendo ritualmente le stesse espressioni e riempiendo i silenzi di rosari di buoni auguri, cui io possa rispondere con un internazionale: «Amine». È una lezione che più volte mi è tornata utile di fronte ad anziani che si esprimevano in una delle sei lingue nazionali del Senegal, tra cui la wolof è maggioritaria.

Mia suocera mi accoglie sempre nella lingua madre, con un dolce: «Nam fio? Soob a khamo sama goro, kam khalato gong rek!». (Come stai? Sei mancata mia nuora, ti ho pensato tanto!) Non sapendo rispondere in serere, ripiego sull’arabo, che è la lingua della preghiera e in Senegal, come in molti paesi a maggioranza musulmana, entra a far parte di diversi momenti e riti quotidiani: «Alhamdulillah! Ringraziando Dio!».

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Dall’horror friulano al rap sardo, il fascino delle minoranze linguistiche

Parlare di minoranze linguistiche d’Italia è un po’ come percorrere il Bel Paese in tutta la sua lunghezza. Cartina alla mano, ci spostiamo dall’arco alpino, dove troviamo le minoranze germaniche, al confine orientale, tra le parlate slovene di Trieste, Gorizia e Udine; tutt’altra musica nel Meridione, dove le lingue di antiche popolazioni albanesi risuonano in Sicilia e Calabria con un’eco che arriva fino all’Abruzzo, passando per la Puglia e il Molise, terre di idiomi greci e croati. Una traversata via mare e siamo ad Alghero, tra i suoni del catalano.
Queste le tappe segnate sulla nostra cartina, queste le lingue minoritarie riconosciute dalla legge 482/1999, ma che gusto c’è in un viaggio senza deviazioni inaspettate? Nord e Sud non sono poi così lontani se sentiamo qualche parola di francoprovenzale in Val d’Aosta e Puglia, di ladino o di occitano, che dalle valli piemontesi si riscopre in Calabria.
Carte e cartine semplificano, fino all’esclusione dei dialetti galloitalici e zingari e del curioso tabarchino. Questa miopia non ha impedito però ai molti parlanti in friulano e sardo di usare la propria lingua minoritaria come canale d’espressione privilegiato.

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Il Friuli da brivido di Lorenzo Bianchini
Tra cinema e webserie, il regista traccia una geografia dell’orrore nelle terre del Friuli e le racconta con le lingue del posto: sono in friulano il mediometraggio Dincj de Lune (I denti della Luna, 1999), storia di licantropia, e il primo film, Lidrîs cuadrade di trê (Radice quadrata di tre, 2001), mentre per Oltre il Guado (2013), premiato al TOHorror Film Festival, sceglie un dialetto sloveno parlato al confine.
Radice quadrata di tre si apre sui sotterranei bui e labirintici dell’Istituto tecnico Malignani di Udine, dove Bianchini lavorava come assistente tecnico, una location perfetta per l’avventura di tre ragazzi che, una notte, s’intrufolano nella loro scuola. Più minimalista la storia dell’etologo di Oltre il guado, dove i boschi di Monteprato e il piccolo centro di Topolò si animano di misteriose presenze che incombono dietro una porta o all’angolo di una strada abbandonata.

Sono scorci di luoghi quotidiani, che però Bianchini carica di tensione; lo stesso fa con la lingua, creando uno straniamento inquietante dai dialetti familiari e recuperando le atmosfere delle leggende locali. Un progetto ambizioso, per giunta no/low budget, quello di girare film horror in furlan: produzioni di genere “minoritario” in lingua minoritaria.

La Sardinian old school dei Balentia e i Cor(anta) di Alessio Mura
Anche il rap non è certo un genere tipico della musica italiana, soprattutto in Sardegna e nei primi anni Novanta, quando nasceva Balentia (poi ForeFingers Up!), storica formazione rap sarda che parte da una forte base hip hop e rimescola le carte unendo il funky e l’elettronica, senza dimenticare i doverosi omaggi ai big d’oltreoceano e ai grandi compositori per il cinema italiano. Insomma, l’ostacolo di un dialetto ostico come il sardo si può superare lasciandosi trasportare dal mix di basi, samples e flow, ma anche sbirciando le traduzioni dei testi, incluse nei cd a partire da Bisensi disi (2007).

ForeFingersUp
L’ultimo album del gruppo è Vidas&Rimas (2012), ma l’MC Alessio Mura, in arte Su Maistu, rinasce con Coranta (2015): l’album da solista, realizzato anche con il supporto del crowdfunding, racconta di passioni, per la famiglia, la musica e la propria terra d’origine.

Due terre così lontane, il Friuli e la Sardegna, trovano un appuntamento importante nel SUNS, Festival della canzone in lingua minoritaria, con Suns Sardigna, e insieme si aprono alle innovazioni musicali e cinematografiche prodotte in lingue minoritarie di tutta Europa, testimoniando la loro vitalità non solo in territori circoscritti.

 

In copertina, fotogramma dal film Custodes Bestiae (2004) di Lorenzo Bianchini.

Radio Free Europe: free media (and languages) in unfree societies

What means of communication is more natural than language? Speaking your own mother language makes you feel comfortable and gives the possibility to fully express yourself. In a utopian society everybody could speak his own language without any restriction. In such an idealistic world, promoting languages through radio broadcasting might seem the most natural thing to do.

Indeed no media is more immediate and direct than radio when it comes to spreading the language, as even illiterates are able of understanding its message. Nevertheless, there is something that a non-utopian and realistic world has to deal with and that makes the natural tendency to speak his own mother tongue problematic. Language has been given an ideological and political meaning. Languages have been involved in the construction of peoples’ identity for ages and since XVIIIth century in particular they’ve been used as fundaments of the construction of the nation.

As a consequence, language has become a strong means of power, being censorship the ultimate weapon against those languages which don’t represent the dominant ethnical group within a nation. In this context it is possible to collocate the establishment of Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL – official website) at the beginning of the Cold War to transmit uncensored news and information to audiences behind the Iron Curtain. Founded in 1950, Radio Free Europe was funded principally by the U.S. Congress in order to broadcast to those country where communism was censoring and filtering the news.

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Source: http://www.rferl.org/

However, even after the collapse of Communism Radio Free Europe didn’t stop its broadcasting, despite some thought RFE/RL had fulfilled its mission. The need for RFE/RL uncensored information was still a mutual concern and the words of Czech President Vaclav Havel are significant to understand the Radio relevance: “we need your professionalism and your ability to see events from a broad perspective.” Since 1991 Radio Free Europe has broadened its horizons and has reached new audiences. Today it broadcasts to 23 countries in 28 languages, including Iran, Afghanistan, Pakistan, Ukraine, and Russia.

Source: http://www.rferl.org/
Source: http://www.rferl.org/

Not only does RFE/RL journalists fight for information freedom, but also they provide news in peoples’ native languages whereas the government media lack information in those languages. Radio Free Europe gives a voice to those languages which are underrated because of their minority position within the states.

In order to understand its relevance, we might highlight the case of Radio Azatliq, the Tatar-Bashkir section of RFE/RL. In facts, even though Tatarstan and Bashkortostan are autonomous republics (belonging to Russian Federation), Azatliq, with its headquarters in Prague, is the only major international broadcaster for the Tatar and Bashkir communities in Russia, where the government on the contrary seems to limit ethnic minorities’ language rights. And it’s even more surprising to find out that Radio Azatliq content is used to teach the Tatar language to students, as the language used by the broadcasting service is modern and the topics relevant.

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If Free Media in Unfree Societies well summarizes Radio Free Europe/Radio Liberty spirit and aim, we are not afraid to say that defending and promoting native languages is definitely part of its noble mission as well.

“Progetto hindi”: quando la multiculturalità è minacciata

L’India ha alle spalle una tradizione e una cultura millenaria. Settimo per estensione e secondo per popolazione, nel Paese si parlano, e sono riconosciute ufficialmente, 22 lingue diverse e circa 2000 dialetti. E proprio questa diversificazione linguistica ha dato vita al “progetto hindi’”: il premier Narendra Modi, infatti, sarebbe intenzionato a rendere l’hindi l’unica lingua ufficiale e nazionale, a svantaggio delle moltissime minoranze del Paese. Le polemiche non sono di certo mancate, ma la strada intrapresa da Nuova Delhi sembra quanto mai segnata.

 

L’hindi è un continuum dialettale di lingue di ceppo indoeuropeo parlato principalmente nell’India settentrionale. Data questa sua molteplicità è stato riconosciuto il primato al dialetto khari bori, parlato nei pressi di Delhi, sul quale si fonda l’hindi standard. Lingua ufficiale insieme all’inglese ma non lingua nazionale, ecco cos’è l’hindi oggi per questo Paese.

La lingua è un collante fondamentale per la sua società, eppure l’India non ha ancora una sua lingua nazionale. Da non dimenticare, inoltre, il tasso elevatissimo di analfabetismo, più di 287 milioni di persone che non sanno né leggere né scrivere. L’idea di Modi sarebbe, quindi, quella di superare l’uso dell’inglese a livello amministrativo e di ridurre le altre lingue a dialetti, in modo da completare l’unificazione linguistica sotto il segno dell’hindi, di fatto portando a compimento un processo di ‘’nordificazione’’ del Paese. Ma l’impresa è più dura del previsto.

 

È una guerra vecchia di 100 anni quella intrapresa dal Premier: già il Mahatma Gandhi ci aveva provato, nel 1918, con l’istituto di Propagazione dell’Hindi nel Sud dell’India. Il Congresso Nazionale Indiano votò l’hindi come lingua ufficiale nel 1925, ma poco tempo dopo, tra il 1937 e il 1940, esplosero le prime proteste nello Stato federale di Tamil Nadu per proteggere l’identità della lingua tamil, parlata da milioni di persone, e delle altre lingue di ceppo dravidico diffuse principalmente nel sud dell’India. Dalle agitazioni e dagli scontri tra il 1946 e il 1950 nacquero i partiti identitari dravidici, che riuscirono ad acquisire notevole consenso e a preservarlo fino ad ai giorni nostri. Partiti che Modi ha intenzione di colpire sfruttando il suo progetto. Per tutta risposta, però, non mancano manifestazioni di dissenso più o meno eclatanti.

 

Se diventasse effettivo, il “progetto hindi” cancellerebbe in un colpo solo la multiculturalità del subcontinente, quasi fosse un punto debole piuttosto che una ricchezza del Paese, a scapito di un processo di alfabetizzazione e di unificazione linguistica graduale, più lento e impegnativo ma senz’altro rispettoso delle varie differenze regionali.

Giornata Internazionale della Lingua Madre

Dal sito della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO (unesco.it/cni):

“Nel novembre 1999 l’UNESCO ha proclamato il 21 febbraio “Giornata Internazionale della Lingua Madre”. Le celebrazioni della “Giornata Internazionale della Lingua Madre” hanno l’obiettivo di promuovere la diversità linguistica e culturale ed il multilinguismo nella convinzione che una cultura della pace possa fiorire solo dove ognuno possa comunicare liberamente nella propria lingua in tutti gli ambiti della propria vita. L’UNESCO crede fermamente che nell’istruzione sia fondamentale non solo la diversità linguistica e culturale ma anche la tutela, protezione, conservazione delle lingue in pericolo di estinzione.

Perché il 21 febbraio? Gli eventi che hanno condotto all’adozione di questa data iniziarono quando il Governatore del Pakistan occidentale ed orientale dichiarò pubblicamente il 21 marzo 1948 che l’URDU sarebbe diventata l’unica lingua ufficiale per tutto il Pakistan. Ma la maggior parte della popolazione che viveva in Pakistan parlava il BENGALI (o BANGLA) e quindi protestò contro la dichiarazione.

Il 21 febbraio 1952 un gruppo di studenti sostenitori del bengali persero la vita protestando presso il campus universitario di Dhaka contro le autorità pakistane che cercavano di imporre l’urdu. Tutto questo accadde tra le 3.20 e le 3.50 del 21 febbraio del 1952 e questi minuti seminarono nel cuore dei bengalesi il desiderio di una nazione. Iniziò così la lotta per l’indipendenza .

Il significato di questa giornata va oltre il semplice movimento della lingua per rappresentare la lotta per l’emancipazione dall’oppressione. Celebrare questo evento significa contribuire a sviluppare l’identità culturale nazionale che ha fatto dei bengalesi un popolo che abita una nazione indipendente.”

(testo integrale qui)

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
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