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Il ghetto ebraico: un silenzioso labirinto nel cuore di Bologna

Dimenticatevi la frenesia e il traffico di via Rizzoli a Bologna e addentratevi con me nel suo ghetto ebraico.

Era il 1506 quando lo Stato Pontificio sottometteva Bologna ed era il 14 luglio 1555, in piena età controriformista, quando Papa Paolo IV con la bolla Cum nimis absurdum, tradotto “perché è oltremodo assurdo”, costringeva intere comunità ebraiche ad emigrare. In breve, la bolla consisteva in una legge che limitava i diritti degli ebrei e imponeva ai credenti di portare un distintivo giallo che li escludeva dal possesso di beni immobili e dall’esercizio di alcune professioni, tra cui quelle sanitarie. Ma soprattutto sanciva la costruzione di apposite aree entro le quali gli ebrei avrebbero dovuto obbligatoriamente vivere, i ghetti. In particolare, gli ebrei bolognesi vennero rinchiusi l’8 maggio del 1556 e ci rimasero fino al 1593, quando furono definitivamente cacciati.

Oggi il ghetto, delimitato da via Zamboni, via Oberdan e via Marsala, conserva la struttura urbanistica originaria, ovvero un complicatissimo groviglio di vicoli stretti e portici in sequenza, avvolti da un’atmosfera così tranquilla da avere l’impressione di trovarsi in un’altra città. L’accesso all’area era regolata da due cancelli: il primo all’imbocco con via De’ Giudei, e il secondo nell’attuale via Oberdan (un tempo via Cavalliera). Percorrendo via del Carro si incontra via dell’Inferno, l’arteria principale, dove al civico 61 vi sorgeva la sinagoga del ghetto, di cui oggi ne rimane solo una targa in memoria.

Dunque, posate cartine e mappe e lasciatevi guidare dalla mano di Fatima. Vi condurrà tra le vie di questo emblematico labirinto, fino al Museo Ebraico in via Valdonica, dove avrete la possibilità di ripercorrere la storia della comunità ebraica bolognese e non solo.

Una riflessione: minoranza che avanza

Parlare di Giorno della Memoria significa impegno a riflettere, a richiamare nella mente le cose apprese.

E se l’omofobia, la paura del diverso e le discriminazioni in genere sono le nuove malattie della società odierna, iosonominoranza.it  è il farmaco orientato a curarle.

Iosonominoranza è un progetto di Think community che nasce nel contesto veronese, uno spazio di condivisione e di scambio per proporre il nostro punto di vista minoritario, si legge. Il sito (nomination ai Macchianera Italian Award 2015, tra i migliori siti LGBT) è un agglomerato di contributi di vario genere, un contenitore aperto alla partecipazione di tutti, che restituisce una panoramica sulla lotta contro tutte le discriminazioni. Come tutti i progetti ben riusciti nasce da un bisogno: superare l’incomprensione, l’intolleranza, la sensazione di non accettazione e diversità. Il fine ultimo è proprio quello di costruire una società più aperta, unita, sana e rispettosa della diversità di ognuno, qualunque essa sia; il mezzo è quello di un orgoglioso e festoso condividere che cerca, nel frattempo, di abbattere tabù e sradicare ignoranze.

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Attualità, cultura, testimonianze, esperienze, petizioni, approfondimenti, sono tante le sezioni in cui il sito è articolato. Tra le parti più scanzonate possiamo citare la rubrica video Pink Logan Risponde, animata dall’ esuberante drag queen Pink Logan, pensata per risolvere dubbi e rispondere alle domande della community. Altra felice risorsa di intrattenimento sono i loaded del programma radio @GayBar di Radio Stonata, dedicato alla comunità LGBT italiana: vero e proprio progetto sociale che di puntata in puntata affronta e approfondisce un argomento differente.

Selezionando uno fra i tanti percorsi offerti, posso menzionare la sezione Fuori dall’Armadio, dedicata al coming out. Lungi dal voler indicare una sorta di percorso obbligato, vuole semplicemente essere un punto di riferimento o appoggio per tutte quelle persone che hanno intenzione di dichiararsi ai loro cari. Dall’accettazione di sé stessi si passa attraverso le ragioni, i modi, i tempi per arrivare sino alle reazioni, alla creazione di un momento di transizione condivisa, di ascolto e comprensione reciproca.

 

L’ evento significativo del passato weekend, quando le associazioni LGBT si sono riversate nelle piazze al grido di #svegliaitalia, in vista della discussione al senato del ddl sulle unioni civili, è uno spunto di riflessione su cui il Paese non può più temporeggiare. Visitare iosonominoranza è un’occasione per imparare a vedere l’altro, liberandosi da inutili specchi deformanti. Opportunità per riflettere.

Guardare oggi la storia nei paesaggi di Varsavia e Berlino

Beatrice atterra in aeroporto, di ritorno dalla Polonia; la vado a prendere con una punta d’invidia e molta curiosità: dovevo essere con lei ad esplorare una tra le più famose città teatro della Seconda Guerra Mondiale, ma gli impegni lavorativi me lo hanno impedito.
Così appena sale in macchina, la investo di domande; non vedo l’ora di sapere: «Com’è Varsavia?»
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Mi aspetto racconti di monumenti e memoriali, essendosi nella sua breve gita concentrata sulla Città Vecchia, invece Beatrice inizia descrivendomi parchi e palazzi:
«Il parco Lazienki è un’immensa distesa di verde al centro della città, intervallato da architetture sei/settecentesche. È come un giardino incantato in cui appaiono palazzi da fiaba, laghi e statue; tra cui il monumento a Chopin, uno dei più famosi di Varsavia.»
La interrompo subito: io voglio sapere del sapore di storia della città, del suo ghetto e di come i suoi abitanti ci camminino. «Ma il ghetto è rappresentato soltanto da una linea tracciata a terra che ricorda le mura che lo cingevano; puoi camminare da una parte all’altra, ma anche passarci sopra, e puoi non accorgertene nemmeno! All’interno c’è la Via della Memoria, con alcuni monumenti dedicati agli ebrei.»
«E quindi che impressione dà muoversi tra le case di Varsavia?» «La città è molto bella, ricca di palazzi colorati, di giardini e piazze; ovunque si posi lo sguardo, s’incontrano attrazioni esteticamente indiscutibili: dall’impeto della Statua della Sirena ai caldi mattoni del Castello Reale, dalla maestosità della Cattedrale di San Giovani Battista al fiabesco Barbacane. Se però cerchi un riscontro all’immagine della città di cui raccontano i libri di storia, allora ciò che ti circonda appare come un grande parco giochi: tutto è stato ricostruito, fino a non lasciare traccia dei bombardamenti subiti.»
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La mia mente, con un breve volo pindarico, si sposta alla città di Berlino, dove io e Beatrice abbiamo passato qualche giornata assieme, un po’ di mesi fa. Ovviamente penso al gigantesco Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa e al Museo Ebraico, ma soprattutto la mia memoria si concentra sull’atmosfera che aleggia nella città: su quei segnali di passaggio della storia e di continuo rinnovamento dei tempi che parlano in tutte le strade. Massima espressione del sincretismo epocale è l’East Side Gallery, quotidiana reinterpretazione del concetto di libertà, ma anche ultimo tracciato di un muro che sollecita la memoria storica. Con un sorriso ricordo il travagliato viaggio che abbiamo intrapreso per raggiungere il quartiere russo, dove aveva sede una collettiva di performer provenienti da tutta Europa, e i pasti a base di noodles cinesi vegetariani, mentre Beatrice si gettava nell’ennesimo kebab turco; ripenso all’accoglienza dell’ostello francese e dei suoi piccoli letti in legno e al pessimo caffè americano preso per scaldarsi dal vento di Alexanderplatz.
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Due modi diversi di interpretare la storia, due modi diversi di rapportarsi al presente: Varsavia si è raccolta in se stessa ed è oggi un piccolo gioiello settecentesco entro l’Europa del XXI secolo; Berlino si è aperta all’esterno, diventando baluardo europeo dell’internazionalità, dell’integrazione e dell’innovazione. Entrambe sono città che raccontano una storia e che si fanno emblema di come l’estetica di una città influenzi gli orizzonti anche interiori di chi la abita.
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Le cicatrici di Lanzmann

A tutti quelli che conoscono a menadito il lavoro di Claude Lanzmann farà piacere sapere che è in arrivo un biopic, firmato dal giornalista americano Adam Benzine, nominato nella cinquina dell’Academy come Best Documentary Short Subject. Claude Lanzmann, francese, scrittore, insegnante e regista, amico di Simone de Beauvoir e di Jean-Paul Sartre nonché direttore di Les Temps

modernes, nel 1973 inizia a lavorare a quella che passerà alla storia del mondo (e del cinema) come un’opera magna: Shoah esce nel 1985 e parla dell’olocausto attraverso un’eccezionale finezza di regia e montaggio; 11 anni di lavoro e 10 ore di film che hanno consacrato Lanzmann nell’olimpo dei maestri d’indagine del reale. Serio e pacato, Lanzmann volge la sua ricerca verso i testimoni oculari, le persone che hanno vissuto il rispetto delle regole senza domande e adotta un punto di vista interno su un sistema folle e ordinario. Shoah è un fiume di parole, frammentato da quadri bucolici dei luoghi di morte; nessun repertorio, ché «l’immagine uccide l’immaginazione»: a parlare è la storia degli uomini.

La Soluzione Finale non fu mai dettata da un ordine scritto, ma da una burocrazia che fu «una successione di piccole tappe, superate secondo una logica» scrive Giuseppe Genna, al termine della quale «i burocrati sono diventati inventori». Shoah è testimonianza eccezionale nonché lezione fondamentale sulle possibilità del documentario, sul suo linguaggio e sulla sua grammatica.

Locandina del film Shoah e copertina del DVD.

Dopo anni di lotta con gli spettri di Shoah, nel 2013 arriva Le dernier des injustes, la storia di Benjamin Murmelstein, il primo intervistato da Lanzmann a Roma negli anni ’70 e da subito meritevole di un film a sé.

Tre decani si alternarono all’ “amministrazione” del ghetto-modello di Theresienstadt, 60km da Praga, specchietto per le allodole per il resto dell’Occidente: l’ultimo e l’unico decano sopravvissuto fu Murmelstein, al lavoro con “il demone” Eichmann anche per le liste di chi doveva restare e chi doveva partire.

Scagionato dal tribunale cecoslovacco dall’accusa di collaborazionismo, Murmelstein è passato alla storia come figura estremamente controversa e Lanzmann ne restituisce un’immagine complessa, al di là del bene e del male. Curiosamente, lo stesso anno Claudio Giovannesi completa un altro pezzetto del puzzle, filmando l’isolato WOLF Murmelstein, il figlio dell’ultimo degli ingiusti.

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Scena da Le Dernier des Injustes.

In un mondo composito di testimoni e fatti storici, Lanzmann ha sempre messo a punto la sua versione, lavorando a tesi. Non fategli domande: quello che c’era da dire è già nell’autobiografia Le lièvre de Patagonie (2009) e nei suoi film.

Intervistarlo è compito arduo, ma questo non ha dissuaso Benzine. Spectres of the Shoah è il documento finale, il passaggio in cui l’intervistatore passa dall’altro lato e racconta l’approccio alla materia, che agli albori non superava la nozionistica generale sui numeri. Quello che non sapeva è quanto questo gli avrebbe cambiato la vita: l’angoscia che continua a pervadere l’autore e che, conseguentemente, non può mancare nello spettatore; la stanchezza, che gli ha impedito per anni di mettere mano alla storia di Murmelstein. Oltre questo, nell’intervista di Benzine c’è tutto il processo produttivo, compreso l’inganno necessario su soldi e tempi per portare a termine la ricerca, compresa la spinta oltre i limiti con i suoi intervistati, messi alle strette e portati a parlare, a rivelarsi. Benzine fa un ritratto calcolato, arricchito da altro materiale inedito dall’Holocaust Memorial di Washington, creando un film di taglio giornalistico, primariamente per il pubblico americano.

Per chi non ha mai segnato Shoah tra i film da vedere, un consiglio senza retorica: 9 ore e mezza passano come un fulmine e lasciano davvero un’emozione irreversibile. Farà da testo la realtà, dove le cicatrici del regista sono quelle di chi ha percepito l’umanità. È la memoria dell’oppressione che vivono tutti i popoli sotto nuove e vecchie dittature, scoperte o mal celate sotto la coperta dell’Occidente democratico. È ricordare che in Europa non manca mai il ritorno inutile di spinte nazionaliste.

Per chi non fosse ancora convinto di rinunciare alla fiction, almeno per dovere di cronaca vale la pena di segnalare un’altra opera cinematografica di qualità, ché si possono superare Schindler’s list e Benigni: date una chance all’ungherese László Nemes, già assisente di Béla Tarr, e alla sua opera prima Son of Saul. Dentro vi troverete, ancora, tutte le cicatrici di Lanzmann.

American concentration camps during WWII, the other side of persecution

Holocaust Memorial Day (HMD) is the anniversary of the liberation of Auschwitz concentration camp by the Soviet Army in 1945, and it’s also the occasion for remembering the victims of Nazi Persecution, at least for one day in a year. Pequod Rivista would like to delve deeper into the matter of concentration camps crossing the Atlantic Ocean to report a quite underrated fact, the existence of American concentration camps during World War II.

After December 7, 1941 the position of the United States about WWII changed, as a consequence of the unexpected Japanese aircraft attacks on the US Pacific Fleet at Pearl Harbor in Hawaii. American reaction was as harsh as such an unfair attack had been – in facts, Japanese hadn’t declared war to US and Pearl Harbor events came just out of the blue. Not only did American government decide to enter WWII after that tragic event, but also it established the building of several concentration camps for Japanese-Americans in the western part of United States.

Original WRA caption: San Francisco, California. Exclusion Order posted at First and Front Streets directing removal of persons of Japanese ancestry from the first San Francisco section to be effected by the evacuation. Source: http://www.densho.org  
Original WRA caption: San Francisco, California. Exclusion Order posted at First and Front Streets directing removal of persons of Japanese ancestry from the first San Francisco section to be effected by the evacuation. Source: http://www.densho.org

After the bombing, President Franklin Roosevelt authorized to incarcerate 120,000 Japanese-Americans, both adults and children (referred to as “Nisei”, term indicating Japanese immigrants’ children in USA), with no distinction between immigrants and citizens.  According to Executive Order 9066 (link) and to Public Law 503 (link) the US government gave the Army the power to exclude Japanese-Americans from American society in case of “military necessity”. Later, from February 1942, people of Japanese ancestry were forced to move from the West Coast to the inland western states. The aim was preventing Japanese-Americans from sabotaging and spying on the US affairs in favor of their home country.

Source: https://en.wikipedia.org/wiki/Internment_of_Japanese_Americans
Source: https://en.wikipedia.org/wiki/Internment_of_Japanese_Americans

The War Relocation Authority (WRA) tried to run camps as small cities, where the Japanese-American inmates could go to school, do recreational activities and go to the market, even hold elections for self-government. Located in the desolate desert, the internment camps were shaped as blocks of wooden barracks with communal bathrooms, laundry facilities and dining halls, surrounded by barbed wire fences along the perimeter and by watching towers overlooking the inmates.

Copyright Ansel Adams: “Mrs. Yaeko Nakamura and family buying toys with Fred Moriguchi.”
Copyright Ansel Adams: “Mrs. Yaeko Nakamura and family buying toys with Fred Moriguchi.”
Source: https://en.wikipedia.org/wiki/Internment_of_Japanese_Americans  
Copyright Ansel Adams: “Nurse Aiko Hamaguchi, mother Frances Yokoyama, baby Fukomoto.”

At the end of 1942, a feeling of unrest among the inmates was animating the camps. The WAR circulated a questionnaire in order to figure out how many of those Japanese-Americans were loyal or disloyal toward United States. Those who proved to be loyal could leave the camps but were forced to enlist. In 1944 the government started drafting men from the internment camps. Most of them seized the moment, as it was the only way to restore their honor, but 300 of them strongly refused to fight for a country that had ignored and cancelled their civil rights.

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“Goodbye my son”, by Henry Sugimoto (1942).

With the end of the war, all the concentration camps were quickly closed, with the exception of Tula Lake, and the Japanese-Americans started to go back home, trying to integrate themselves again within the American society. Once they were back their lives were all but easy. On one hand, those who went back to the city found it hard to find accommodation and job; on the other, people who had come from the countryside found out that they had lost their farm and had to start again as farmers.

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Charles Isamu Morimoto, a well- know artist in Los Angeles, he documented his life in Manzanar’s camp.

Only in 1988 the US government officially apologized for the “grave injustice” done to Japanese people during the war. Actually, also in the immediate postwar many Americans had recognized the injustices of the wartime. Nowadays it’s really important to remember and to understand what happened during WWII in the United States, especially considering the contemporary issues connected to terrorist threats. The diffused opinion that governments are allowed to overpass civil liberties in the name of public safety should consider how dangerous some decisions might be, remembering that in the past many innocents lost their lives and their freedom only because of blind fear of the unexpected and of the unknown.

Cavie umane ieri e oggi: i volontari, gli inconsapevoli e gli ingannati

Tra gli orrori che si sono consumati nei lager nazisti, gli abusi della sperimentazione scientifica su cavie umane non si discosta per obiettivi e risultati dalla “soluzione finale”: due operazioni nate dalla volontà di affermare la supremazia della razza ariana e destinate a condurre milioni di persone alla morte. Tra queste, i deportati chiusi in camere di decompressione, per testare quanto si potesse sopravvivere ad alta quota senza pressurizzazione; quelli nutriti solo con acqua salata o quelli cui furono asportati ossa e arti, abbandonati a una rapida morte per infezione.

Questa aberrante combinazione di darwinismo sociale e teorie eugenetiche trovò terreno fertile anche prima dell’avvento dei fascismi e non solo nel Reich hitleriano, come confermano le pratiche di sterilizzazione su soggetti accuratamente selezionati negli Stati Uniti e negli evoluti Paesi scandinavi, seguiti da Canada, Francia e Giappone. Ma soprattutto, la storia delle sperimentazioni pericolose e spesso segrete si è protratta ben oltre il secondo conflitto mondiale, dalle ricerche sugli effetti della radioattività a est e a ovest della cortina di ferro fino ai test di farmaci dei giorni nostri, nonostante l’approvazione del Codice di Norimberga e della Dichiarazione di Helsinki, documenti fondamentali per la tutela dei diritti dei soggetti sperimentali.

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«Se la storia della sperimentazione clinica sull’uomo può insegnarci qualcosa, dalle sanguinose pratiche di vivisezione del millennio appena concluso fino al Tuskegee Study sulla sifilide, è che il peso dei possibili abusi tende a ricadere su quelli tra noi che sono più poveri e socialmente più deboli». Così scriveva nel 2007 la giornalista Sonia Shah nel suo libro-inchiesta Cacciatori di corpi, ricordandoci che i progressi della ricerca medica, di cui beneficiamo tutti, sono spesso il risultato di innumerevoli test condotti su centinaia di esseri umani che non ne traggono alcun vantaggio o addirittura ne rimangono danneggiati. Qualche decennio fa erano i malati psichiatrici e ospedalieri, i detenuti e gli immigrati, perfino le donne incinte e i bambini; oggi sono persone povere e bisognose di cure dei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”, ma anche i volontari dei Paesi europei, attirati più dai facili guadagni che dalla voglia di contribuire al progresso scientifico.

La morte recente di uno dei partecipanti alla sperimentazione di un farmaco promossa dal laboratorio francese Biotrial ha riacceso i riflettori sui numerosi volontari che si prestano ai trials clinici per i medicinali sperimentali. Si tratta di casi piuttosto rari (uno degli ultimi circa dieci anni fa, il ricovero in terapia intensiva delle sei “cavie” che avevano assunto un antileucemico a Londra), che le case farmaceutiche cercano di scongiurare attraverso opportune precauzioni; anzitutto criteri di selezione rigorosi, la sottoscrizione del “consenso informato” e il limite di partecipazione a un test ogni tre mesi. Inoltre nel Canton Ticino è stato istituito un registro dei volontari sani, di cui il 90% sono italiani di Milano, Varese e Como.

La vicina Svizzera attira molti giovani come Lorenzo, 34enne romano che un anno fa raccontava a Il Giornale la sua storia di «sperimentatore»: laureato in giurisprudenza ma disoccupato, preferisce passare qualche settimana in altri Stati europei piuttosto che cercare lavori poco remunerativi. Certo dev’essere difficile vivere nell’Italia della crisi se si possono avere un compenso giornaliero di 200 € circa e un check-up gratuito, ma i Comitati etici avvertono di non sottovalutare gli effetti collaterali e non illudersi di fare di questa attività un lavoro continuativo. È dello stesso avviso l’Università di Trento, che gestisce il gruppo Facebook “Bacheca Esperimenti” per “reclutare” nuovi soggetti per test di natura psicologica e cognitiva.

Talvolta la decisione di sottoporsi a test per la ricerca farmacologica sembra essere presa un po’ troppo alla leggera, ma quest’impressione diffusa rimane spesso taciuta: dal business della sperimentazione scientifica traggono vantaggi reciproci i volontari e le case farmaceutiche, interessate a superare velocemente le quattro fasi che permettono infine di introdurre il nuovo prodotto sul mercato.

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Tempi rapidi e costi molto contenuti, questo sembra spingere le aziende leader dell’industria farmaceutica in Sud America, Africa e Asia, dove sono state condotte sperimentazioni caratterizzate da gravissime carenze etiche che non sarebbero state tollerate nelle sedi occidentali. Tra gli ultimi scandali quello svelato da un’inchiesta del quotidiano inglese The Independent: nel 2011, in diversi villaggi dell’India avevano partecipato ad almeno 1.600 test clinici per conto di colossi come Pfizer, Merck e AstraZeneca più di 150mila persone, perlopiù analfabete e povere, del tutto inconsapevoli di essere cavie di sperimentazioni cliniche. Di queste, tra il 2007 e il 2010 almeno 1.730 sono morte perché già malate (e non curate) o proprio a seguito dei test effettuati.

Il rischio che la delocalizzazione degli esperimenti scientifici si trasformi in una nuova forma di “colonizzazione” è già realtà, come osserva il Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento La sperimentazione farmacologica nei paesi in via di sviluppo (2011), perché in Paesi in condizioni socio-economiche svantaggiate «il concetto di ricerca tende ad essere confuso con la cura e l’assistenza medica». È impossibile, in questi casi, parlare di “volontari”: spesso i soggetti si sottopongono alla sperimentazione di nuovi farmaci per ricevere pasti gratuiti, senza alcuna consapevolezza delle funzioni di un vaccino o del loro stesso ruolo in una ricerca scientifica. Una consapevolezza che non manca agli enti promotori e ai governi dei Paesi occidentali, costantemente  richiamati al rispetto dei diritti umani, di tutti gli esseri umani e a rinnovare le proprie procedure, in direzione di una nuova etica per la bioetica.

Secondo il CNB, il “gap” culturale tra Paesi ricchi e Paesi a basso reddito potrebbe essere colmato elaborando nuove forme di comunicazione attente non solo ai cavilli formali, ma anche all’effettiva comprensione da parte dei soggetti coinvolti; una sorta di mediazione culturale che riduca lo squilibrio culturale tra tradizione occidentale e usanze locali, avvicinando il mondo della medicina alla società.

Probabilmente ne deriverebbero grandi benefici anche per le “cavie” dei Paesi più ricchi, dove il “consenso informato e volontario” si è ridotto a una pratica burocratica che protegge le parti a livello legale, ma che chiarisce ben poco dei rischi delle sperimentazioni. Di certo allontanerebbe il rischio di uno sfruttamento più o meno celato dei «più deboli» economicamente, che si trovino a Nord o a Sud del globo.

Cavie Umane, Svizzera in Canton Ticino ad Arzo, presso la Cross Research vengono sperimentati nuovi farmaci su volontari,

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