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Una mano dal passato per bambini del futuro

Alle porte di Bergamo, tra viali alberati e parchi giochi, c’è un negozio che vende alle famiglie quello che altri bambini non usano più: si chiama Secondamanina, e tra giocattoli, vestitini, culle ed altri accessori, conta più di cinquemila pezzi.
La curiosità di scoprire come nasce una realtà di questo tipo, come funziona e come riesce ad integrarsi in una comunità ci ha portato dietro le vetrine del negozio, a sbirciare tra i coloratissimi articoli e fare quattro chiacchiere con Tayla, la proprietaria.
“Quando ho avuto mia figlia, mi sono accorta di quante cose necessiti un bambino e di come le sue esigenze cambino velocemente: ho iniziato a scambiare con altre mamme le cose che non servivano più per altre di cui avevo bisogno, e così è nata l’idea di aprire il negozio”. A Secondamanina, infatti, chiunque può portare quello che ai propri figli non serve più: dopo una valutazione, gli articoli vengono esposti e possono essere acquistati da chi ne ha bisogno.
Da quando è nata, quest’attività è diventata una certezza per molte famiglie: chi compra sa di star scegliendo oggetti di qualità ad un prezzo minore, e chi vende sa di star dando nuova vita a quello che non usa più.
Ma chi sono i clienti di Secondamanina? “Nonne e neo-genitori sono i visitatori più frequenti, ma spesso contano su di noi anche famiglie al secondo o terzo figlio: quando si ha più di un bambino piccolo in casa servono tantissime cose e da noi si può risparmiare”
Abbiamo chiesto infine se ci fosse differenza tra clienti italiani e stranieri: “per la maggior parte, si rivolgono a noi clienti italiani, oppure famiglie di provenienza est-europea, dove negozi di seconda mano sono molto diffusi”.
Nonostante oggi in Italia la bassa natalità sia una questione rilevante, Secondamanina è una realtà che funziona e un punto di riferimento per ogni tipo di famiglia.

La ricerca italiana mette radici in Svizzera

Come se la passa un ricercatore italiano all’estero? Questa settimana Pequod intervista Chiara, ricercatrice di trent’anni che tra i boschi e nelle città della Svizzera ha trovato il cambiamento.

Dopo il liceo classico è stata la volta della Facoltà di Agraria presso l’Università Statale di Milano «perché non di solo latinorum vive l’uomo». Durante il dottorato, sempre a Milano, sul ruolo delle foreste nella prevenzione di fenomeni di dissesto idrogeologico, la giovane dottoranda si recò in una Fachhochschule (Università di scienze “applicate”) a Berna scoprendo che, per gli svizzeri, i boschi e le frane «sono una cosa seria».

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«Tornata a Milano, un’amica mi ha girato quasi per caso un bando per post doc a Davos, ho provato a partecipare e inspiegabilmente mi hanno preso. Ho accettato un po’ perché volevo mettermi alla prova: dopo otto anni a Milano tra università e dottorato, era tempo di cambiamento. In più il progetto era interessante, lo stipendio pure! Anche se la Svizzera è cara, come post doc sei pagato davvero tanto. Inoltre sulle tematiche su cui lavoro io c’è tantissima sensibilità e tantissimi investimenti, si fa una ricerca a stretto contatto con le esigenze della comunità e di chi in bosco ci lavora, e questo è davvero bello. Anche qui si va avanti di contratto precario in contratto precario, ma ci sono molte più opportunità di finanziamento rispetto all’Italia. Adesso sono di nuovo a Berna».

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Le difficoltà più grandi sono state quelle dell’ambientarsi al nuovo paese ospite: l’alimentazione  « I formaggi svizzeri sono una bufala, non sono così buoni!» e l’entrare in contatto con un idioma de tutto nuovo. «E poi tutto il resto, cioè gli amici, il solito bar, la ciclostazione, le Prealpi Orobiche, la nonna… Le cose che ti mancano quando sei via. Più che avere voglia di partire ero terrorizzata perché io di base sono una pantofolaia e non una giovane dinamica  – come sembra “obbligatorio” essere oggi – però ora sono contenta di averlo fatto. Voglia di tornare adesso ne ho, ma non a tutti i costi: vorrei poter continuare a fare il lavoro che mi piace».

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A questo punto mi è sembrato inevitabile chiedere a Chiara quale sia il suo pensiero riguardo i famigerati “cervelli in fuga” dei ricercatori italiani all’estero. «Odio la definizione “cervelli in fuga”. La gente va in cerca di opportunità:  puoi chiamarci anche “piedi in fuga”, come ti pare. Da sempre la gente si sposta, ognuno coi suoi motivi e se sei nato in Europa è facile farlo. Nella ricerca poi fare un’esperienza di qualche anno all’estero, poi c’è chi si trova così bene che si ferma! Detto questo, al di là dei casi e delle motivazioni personali, la situazione della ricerca in Italia è un disastro. La Gelmini ha ucciso l’università pubblica e i suoi successori non stanno migliorando la situazione insabbiando il vero problema: taglio drastico dei finanziamenti, il blocco del turn over e del reclutamento e il precariato. Per chi lavora nella ricerca e si confronta tutti i giorni con i problemi reali è davvero frustrante».

Al momento Chiara e il suo compagno sono in “fase meditativa”. Le piacerebbe rientrare definitivamente nella bergamasca, magari tra un paio di anni. L’obbiettivo rimane quello di incastrare i desideri lavorativi con la vita quotidiana e la novità del diventare mamma «sto provando a proporre qualche progetto di collaborazione tra la Svizzera e il contesto milanese, se son rose fioriranno!»

 

Italiani in viaggio sulle tracce del benessere

La convenzione di Schengen, sottoscritta a partire dal 1990, e la conseguente apertura delle frontiere europee per un libero passaggio di merci e persone hanno dato inizio a ingenti flussi migratori e spostamenti temporanei tra i 26 stati aderenti. Per i giovani appartenenti oggi a uno stato europeo è ovvia la possibilità di recarsi in qualsiasi altro stato membro della Comunità, munito soltanto di un documento di riconoscimento; lo stesso non vale sia per chi è di altre generazioni, sia per chi vive in uno dei numerosi paesi che non hanno questa fortuna.

Contemporaneamente, anche le frontiere intercontinentali sono diventate meno invalicabili e l’uomo occidentale moderno, estremamente facilitato a spostarsi da un capo all’altro del mondo, si è qualificato per la sua esigenza di viaggiare, di mettere alla prova se stesso, di fare della propria vita un’esperienza continua. I giovani italiani oggi hanno l’imbarazzo della scelta circa la selezione di una destinazione diversa da quella natia; programmi di scambio all’estero, possibilità di stage e di esperienze formative in qualsiasi luogo del mondo hanno reso l’uomo migrante, non più solo per necessità e per desiderio di scoperta, come avveniva in passato, ma anche per l’esigenza di affermarsi come individui in altro luogo. Individualismo e realizzazione di sé sono inclinazioni caratterizzanti le società moderne occidentali e lo spostarsi sta diventando parte integrante di questo processo, una sorta di passaggio dovuto.

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Il viaggio, inclinazione insita da sempre nella natura umana, è oggi anche sostenuto da una comune visione: l’incapacità del nostro paese di offrire opportunità ai più o meno giovani di realizzazione personale, di studio, di lavoro, di qualità della vita. Gli ultimi dati forniti dall’Istat circa le migrazioni permanenti prendono in analisi i dati del 2014: rispetto all’anno precedente, le cancellazioni dall’anagrafe di cittadini italiani per l’estero sono aumentate dell’ 8,2 %, raggiungendo le novantamila unità.

Le principali mete di destinazione risultano Germania, Regno Unito, Svizzera e Francia; stati appartenenti all’Unione Europea che presentano stili di vita e abitudini culturali molto simili all’Italia, permettendo un facile adattamento dei giovani migranti, e che allo stesso tempo offrono condizioni economiche più favorevoli, grazie alle quali è più semplice costruirsi una carriera e cavalcare aspirazioni di crescita e guadagno. Le politiche di questi paesi sono volte a favorire l’immigrazione di imprenditori e laureati stranieri, con lo scopo di aumentare posti di lavoro e crescita economica; una politica che è totalmente estranea all’Italia. Nelle classifiche ritroviamo anche destinazioni dove è assai più complicato risiedere in maniera permanente: Stati Uniti e Canada, ad esempio, sono mete molto ambite dagli italiani, nonostante una politica di visti molto serrata.

Se è vero che la migrazione italiana all’estero è in definitiva caratterizzata dalla ricerca di condizioni economiche migliori, come dimostra il fatto che le scelte ricadano principalmente sui Paesi che sono stati meno afflitti dalla crisi economica e che fanno dello sviluppo e della crescita un loro punto di forza, i dati Istat rivelano un panorama migratorio dalle esigenze molto più variegate, che non possono essere limitate al mero fattore finanziario. Le statistiche già nel Maggio 2009 indicavano quasi 4 milioni di italiani residenti all’estero e più di 2 milioni di unità familiari iscritte all’anagrafe estera, proporzione che si è mantenuta pressoché costante negli anni. Il dato porta a riflettere tanto sulle evidenti carenze dello stato italiano nell’assistenza ai nuclei familiari, quanto sull’effettiva qualità della vita nella penisola mediterranea.

Un numero non esiguo e sempre crescente di italiani, infatti, sceglie di migrare al solo scopo di trovare stili di vita alternativi e lontani da quelli del vecchio continente, spostandosi verso mete più “esotiche” con l’intento di cambiare drasticamente e in modo permanente le proprie abitudini e certezze. Eclatante è stato il movimento migratorio verso le campagne australiane, che ha portato lo stato dei marsupiali ad irrigidire le politiche sugli ingressi; ma non meno consistenti sono gli spostamenti verso il Sud Est asiatico, che offre modeste possibilità di guadagno ma stili di vita a basso tasso di stress.

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Da queste analisi, emerge la necessità impellente di una riflessione politica che si interroghi sul significato del concetto di “qualità della vita”. Se da un lato è evidente che la certezza di un lavoro stabile e una sicurezza economica costituiscono la principale esigenza dei giovani italiani, non meno intensa è la ricerca di un ambiente familiare e lavorativo meno nevrotizzato. In un mondo dove il possesso di beni sembra ormai essere interiorizzato come un’esigenza primaria, sempre più giovani viaggiano in cerca di una realtà diversa, dove ricchezza e benessere non necessariamente coincidono.

L’Italia e i giovani, se l’università è solo una spesa (pubblica)

L’Italia è un Paese per vecchi? Secondo recenti dati Istat, il tasso di fecondità nel 2015 continua a diminuire, mentre la popolazione anziana è il 21,4% del totale, una percentuale destinata a salire nel giro di un decennio. Alcune prevedibili conseguenze: la progettazione di un welfare a misura di anziano e giovani che cercano fortuna altrove o lavorano più a lungo per finanziare le pensioni.

Lunga vita ai giovani!

Se queste sono le condizioni attuali e le prospettive di vita future della società italiana, possiamo fantasticare su un Paese che crede nei giovani e che investe risorse significative anzitutto su un sistema d’istruzione inclusivo e lungimirante per la piena affermazione nel mercato del lavoro. Ma qual è l’investimento reale dell’Italia sulla formazione universitaria? Sono proprio i freddi dati statistici, relegati a pubblicazioni sporadiche o a strumentalizzazioni politiche, a fare chiarezza sullo scenario di un’Italia giovane che sceglie di continuare gli studi e, talvolta, di emigrare verso altri lidi.

Numeri caldi

L’ultimo rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sui sistemi d’istruzione nei 34 Stati membri, Education at a glance, rivela che nel 2012 le istituzioni universitarie hanno investito 10.071 dollari per studente, solo due terzi della spesa media OCSE; una quota pari allo 0,09% del PIL nazionale, più vicina a Brasile e Indonesia e distante anni luce dal 2% o più di Stati Uniti e Canada, ma anche del Cile e della Colombia.

Spesa per le istituzioni del settore dell’istruzione in percentuale del PIL da fonti pubbliche (in blu) e private (in azzurro) di finanziamento. Fonte: OCSE 2015
Spesa per le istituzioni del settore dell’istruzione in percentuale del PIL da fonti pubbliche (in blu) e private (in azzurro) di finanziamento. Fonte: OCSE 2015

Oltre al danno, la beffa: nel 2014 non solo è appena il 62% dei laureati tra i 25 e i 34 anni a trovare lavoro (la media OCSE è all’82%), ma si osserva che tra chi ha conseguito la laurea e chi solo il diploma di istruzione secondaria superiore la differenza di reddito è assai poca, come accade in Brasile, Messico e Turchia.

Redditi da lavoro relativi dei lavoratori (25-64 anni) con livello d’istruzione terziaria e loro quota percentuale rispetto alla popolazione complessiva (2013). Fonte: OCSE 2015
Redditi da lavoro relativi dei lavoratori (25-64 anni) con livello d’istruzione terziaria e loro quota percentuale rispetto alla popolazione complessiva (2013). Fonte: OCSE 2015

In Italia, insomma, i finanziamenti alle università non sembrano una priorità dell’agenda politica e una formazione più elevata non è il passepartout per un futuro più stabile. Il concomitante aumento delle tasse (da 736,91€ a 1.112,35€ circa in 10 anni, scriveva l’estate scorsa Corriereuniv.it) e dei laureati disoccupati (all’inizio del 2016 l’Eurostat avverte che solo il 53% lavora a 3 anni dalla fine degli studi), scoraggia i giovani a diventare matricole. E allora, perché non tentare di farsi una vita altrove, in un altro Paese?

Alla conquista dell’est(ero)

Non c’è bisogno di tante indagini per intuire che per molti giovani l’istruzione e il mondo del lavoro all’estero offrono più opportunità e l’emigrazione è una possibilità per il futuro. Tra questi, alcuni portano avanti studi universitari e ricerche con tenacia e con il sostegno economico dei Paesi che li accolgono. Infatti Roberta D’Alessandro, tra i ricercatori vincitori del bando europeo ERC Consolidator, ha frenato l’entusiasmo della ministra dell’Istruzione Stefania Giannini chiedendole di «non appropriarsi di risultati che italiani non sono».

Chi intraprende la carriera universitaria in Italia non ha vita facile. Ce ne parla Marco Passarello, professore di chimica in una scuola secondaria superiore, ex assegnista di ricerca. «Precario, ovviamente». Contratti al massimo di un anno, e agli ultimi mesi il solito pensiero: «Li rinnoveranno? Ci saranno fondi per finanziare la mia ricerca?». Magari si passa un periodo in atenei stranieri per applicare i metodi appresi in Italia, ma qui spesso le condizioni non sono ottimali. «Sono stato anche assunto per una sperimentazione su nuove strumentazioni di laboratorio, acquistate da tempo dall’università, ma arrivate ormai a metà del mio contratto».

Gente che va, gente che viene. Ma chi rimane?

Con dottorandi e ricercatori, se ne vanno dall’Italia sempre più giovani e tra questi il 30% ha una laurea. Non si tratta della solita polemica intergenerazionale, ma dell’evidenza di un’Italia che vede allontanarsi tanti giovani preparati e meritevoli. Gli stessi che potrebbero contribuire alla futura classe dirigente, all’innovazione tecnologica e al settore della cultura.

A New Chinese Baby Boom? Not any time soon

In the last 37 years, two topics were bound to come up in any discussion about China: its huge population and the consequent one-child policy created to limit it. Not anymore. At the end of October 2015, the official Chinese news agency Xinhua announced that from that moment all Chinese couples would be allowed to have two children, putting an end to the controversial one-child policy that in the past has led to forced abortions and infanticides across the country.

The announcement has been a long time coming. Demographers have long warned that, because of the one child’s policy, China was heading towards a demographic crisis characterised by an ageing population, shrinking labour force and gender imbalance. China’s fertility rate, estimated by the World Bank to be 1.7 births per woman in 2013, is below the replacement rate of 2.1, while one Chinese out of ten is now over the age of sixty-five, a number likely to double by mid-century. Those figures would be extremely worrisome for any country, but they are even more so for China, which, despite its communist badge, does not provide any safety net for the elderly.

Although the two-child policy is considered a major move, many experts think it is however “too little, too late”, as extremely low fertility rates and the excessive ageing of the population are not reversible in the near future.

The new policy has to overcome many obstacles to succeed, one of the main issues being the way it is currently implemented. While the policy itself was passed by a national body – the National People’s Congress’ Standing Committee – its implementation has been left entirely to the provinces. Without clear guidelines from the central government, only twelve provinces took some hesitant steps to boost birthrate, mainly by changing maternal and marital leave regulations. For example, the once encouraged “late marriage” (after the age of 25 for women and after 27 for men) will no longer be rewarded with extra holiday entitlements, while in some provinces marriage and maternity leaves have been increased, in order to encourage people to marry and have children earlier.

However, these measures are scattered and far from being enough. What is missing are targets for birth quotas that each province should be aiming for, as there were with the one-child policy. The problem is that data necessary to provide these quotas are not available, as there is currently no real scientific understanding of the exact degree to which the population is decreasing and thus no precise indications as to how many additional births are needed. The lack of accurate population statistic is partly due to the so-called “black children” phenomenon. Back in the darkest days of the one-child policy implementation, many families that were unable to pay the fines and unwilling to resort to abortion chose to have children in secret. These children remain undocumented and thus are not reflected in current population statistics. To complicate matters even further, China has a “floating population” of nearly 170 million migrant workers from rural to urban areas that have no local household registration status and thus are not included in the available data. As a result, defining quotas without an accurate picture of the demographic conditions will prove tricky.

China Daily / Wang Nina
China Daily / Wang Nina

Implementation is only a small part of the problem though. Even if the government managed to launch an effective and coherent program to increase birth rate, its success would not be guaranteed. In almost every country in the world economic development has led to fewer babies. As incomes increase, so do parents’ expectations for their children. Families often prefer to focus their efforts and resources on one child, in order to ensure he or she gets the best opportunities to succeed. That is all the more true with regards to China. As good education and healthcare are increasingly pricey in the middle kingdom, families worry about the financial toll of having babies. Besides, due to the fierce competition in Chinese society, families want their child not only to get a good education, but also to gain an edge in the global job market. Hence most parents spend nearly 15% of their annual income on additional classes for their child, including weekly English lessons.

In 2013, when the government last relaxed the one-child policy by allowing more categories of people to have a second child, the response of the eligible couples was tepid at best. Two million couples were expected to try for a second child under the new rules within the first year. By the end of 2014 fewer than 1.1m had applied.

Given the absence of defined government guidelines and the little enthusiasm shown by parents so far, the successful outcome of the two child-policy looks far from certain. What seems reasonably sure is that a new Chinese baby boom isn’t bound to happen any time soon.

Beijing, 2011
Beijing, 2011

 

 

Bassa natalità, ecco perché sta scattando l’allarme

In Italia vivono 60,5 milioni di persone. Circa 5 milioni sono stranieri e costituiscono più o meno l’8% della popolazione.
Questa settimana su Pequod ci imbarcheremo verso i mari della demografia, per spiegarvi come e quanto sta cambiando la nostra società, anche attraverso i numeri di nascite e morti. Per capire quanto influiscano, in termini socio-economici, soprattutto in prospettiva futura.

Partiamo dal dato più  importante.

Nel 2015 si è verificato un evento che ha fatto scattare l’allarme tra gli addetti ai lavori: per la prima volta, dal 1861 – cioè da quando esiste l’Italia unita – il numero di bambini nati nell’anno solare è sceso sotto le 500.000 unità, soglia cosiddetta “psicologica”.

In Italia non si fanno più figli, e questa è la risultante di molti fattori. Al primo posto si colloca un caro vecchio refrain: la crisi economica. Fare un bambino è una scelta importante e non solo in termini di ‘responsabilità genitoriale’. Pone – o almeno dovrebbe – un bel punto fermo nella vita di ogni individuo. Un tempo si era soliti usare una bella espressione: essere sistemati.

Essere sistemati voleva dire aver trovato moglie o marito – meglio se un buon partito e con una buona dote – aver messo al mondo dei figli, non prima però di avere un tetto, sorretto da muri solidi, sulla testa.
Ecco, se oggi si provasse anche solo a pensare in maniera decisa che la soluzione risiede in quanto scritto sopra, dovremmo chiederci a quale era geologica abbiamo ancorato le nostre idee.
Certamente è così, ma se stiamo parlando in termini economici, dobbiamo anche fare i conti con un’altra parola astratta, ma dal contenuto molto solido: stabilità.
Essere stabili è un altro modo per dire essere sistemati. Il che prevede, per prima cosa, avere un lavoro che garantisca introiti, che appaghi la persona e non renda frivolo questo passaggio terreno.
La realtà, invece, si chiama “tempo determinato”, “co.co.co”, “contratto a progetto”, “stage” e una marea di prestazioni lavorative a termine.

Altro fattore, raramente citato, è legato alle donne, le mamme. Chi, in un contesto del genere, può permettersi di abbandonare, anche solo temporaneamente, il posto di lavoro per una maternità? Ammettiamo anche che la legge italiana ha fatto qualche passo in avanti nell’ultimo periodo, ma quante mamme possono fare questa scelta in libertà senza pensare alle conseguenze, soprattutto lavorative, che possono verificarsi in seguito?
Si aggiunga, poi, che in Italia gli asili nido sono un miraggio per molte famiglie.

Le conseguenze

L’allarme quindi è già scattato. Se il nostro Paese non provvederà a risolvere questa crisi demografica, ci saranno grosse e ulteriori ripercussioni in ambito economico. Come un cane che si morde la coda, la crisi riduce le nascite, e l’abbassamento della natalità rischia di frenare ancora di più un’economia già  stagnante.

Anche perché l’invecchiamento della popolazione sembra inarrestabile e con esso aumenta la mortalità. Il saldo naturale (cioè il rapporto tra nascite e morti) nel 2015 è stato del -23%.
Servono investimenti soprattutto sui giovani. E non stiamo parlando solo di soldi.

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