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“Ai Pioppi”, il Luna Park ad elettricità zero

A Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso, si nasconde un piccolo gioiello artigianale di nome “Ai Pioppi”, un’osteria dedita alla cucina veneta che propone un digestivo del tutto inusuale: il parco divertimenti ad elettricità zero!

Bruno Ferrin è la mente del parco e dell’osteria, sebbene affermi con affetto che «quando si inizia un’attività con la famiglia, ci si sente più motivati e supportati nelle proprie scelte». Pequod incontra Bruno durante la prima domenica di apertura, 26 marzo, sotto un pallido ma temerario primo sole di primavera: «L’idea è nata un po’ per caso. Quando ero un venditore di lieviti per fare il pane, avevo praticamente tutta la giornata libera perché finivo verso mezzogiorno. Un bel giorno ho pensato di aprire una frasca (“osteria di campagna” in dialetto veneto, n.d.r.) con mia moglie Marisa, proponendo salsicce e vino… Nel 1969 abbiamo capito che l’attività poteva fiorire ulteriormente e così abbiamo comprato il pioppeto circostante, in cui ho poggiato la prima altalena».

E proprio un’altalena diede il via al tutto: «Un giorno andai dal fabbro di paese per aggiustarne i ganci, ma mi sentii rispondere di non aver tempo per simili sciocchezze. Iniziai così ad arrangiarmi con la saldatrice» e a costruire a mano i primi giochi. Sebbene all’inizio si sentisse un po’ impacciato, Bruno è riuscito nel tempo a perfezionare la sua arte, aumentando negli anni il numero di attrazioni, sino alle 50 di oggi, tra altalene, pendoli, scivoli, catapulte, trampolini, ruote e montagne russe… il tutto rigorosamente azionato dai muscoli dell’uomo: le giostre non utilizzano infatti l’energia elettrica!

 

Ogni singola giostra nasce dall’accorto sguardo del suo costruttore. «Della natura ne osservo i movimenti e quando ne scorgo qualcuno più singolare, cerco di riprodurlo nelle mie attrazioni. Ad esempio, vedo un sasso che rotola o una foglia che cade, e da qui prendo spunto». In più, i visitatori fanno la loro parte: negli anni Bruno ha potuto perfezionare le proprie attrazioni attraverso i riscontri dei partecipanti: «Man mano perfezionavo le giostre seguendo i desideri della gente», continua il proprietario, sottolineando altresì l’importanza della partecipazione nel parco divertivertimenti “Ai Pioppi”. «Esistono tantissimi parchi divertimento», spiega Bruno, «in cui le persone si spostano da un seggiolino all’altro, facendosi trasportare da attrazioni a motore. Qui “Ai Pioppi”, devi muoverti un poco per divertirti e azionare le giostre! Io e la mia famiglia vogliamo difatti proporre un tipo di parco partecipato, dove ognuno si possa sentire attivo nello svago».

Il parco non è visitato solamente da curiosi italiani: “Ai Pioppi” ha fama internazionale, grazie anche ai loro profili Social. Annualmente si contano dai 30 ai 50 mila visitatori, di cui alcuni provenienti da Australia, America, Brasile… e Cina! Bruno ci racconta ridacchiando di quando un uomo proveniente da Shanghai gli chiese suggerimenti per aprire un parco simile nel suo Paese, chiedendogli consulenza e invitandolo a un futuribile incontro coi finanziatori.

Per scendere dallo scivolo, i tappetini sono altamente raccomandati!

Prima della loro inaugurazione, tutte le attrazioni vengono naturalmente testate e garantite da un ingegnere che ne studia i progetti. Negli anni non è mai successo nulla di grave, ci spiega sempre Bruno, sebbene qualche livido bisogna metterlo in conto, essendo tutte le attrazioni in metallo. Tuttavia, le giostre sono munite di protezioni e misure di sicurezza, mentre il procedere dei giochi è monitorato da attenti vigilanti.

Quanto costa l’ingresso al Parco? Tutto gratuito, a patto che cibo e bevande vengano consumati in osteria. Aperto il sabato e la domenica, “Ai Pioppi” è un’iniziativa della famiglia Ferrin e ancora familiare è la sua conduzione: alla prima cassa dell’Osteria, troviamo difatti il nipote Francesco che a soli 25 anni amministra a tempo pieno l’attività come manager, come ama definirlo nonno Bruno.

 

Bruno e Francesco all’ingresso dell’osteria

La sintesi in un fiore: storia d’una primavera giapponese

Primavera. Agli occhi dell’occidente è significante fidente in un crescendo di calore, luce e colore.
Nell’arcipelago nipponico, dove sembra che gli animi siano più melanconici, è allo stesso tempo annuncio di un inevitabile prossimo autunno.
Presentata così c’è da svenarsi, me ne rendo conto, ma con qualche approfondimento si può facilmente cogliere la raffinatezza e la lucidità della visione orientale.
Primavera quindi, o 春 (Haru) in “sol levantese”: è il periodo che crea lo scenario figurativo più diffuso dell’estremo oriente, la “cartolina” di idillio, un’armonia cromatica d’altro mondo. Ed è su un aspetto prettamente botanico che si fonda il culto della primavera giapponese e si sviluppa una profonda e sentita elucubrazione filosofica: la fioritura dei ciliegi.
Da Aprile a metà Maggio lo spettacolo della manifestazione floreale percorre le isole da sud a nord ammantandole di ogni sfumatura di rosa. La breve durata del fenomeno è valsa alla delicatezza del fiore di ciliegio (sakura in “gergo”) la qualifica di simbolo di bellezza fugace, di impermanenza e ciclicità di tutto ciò che esiste. Da qui la fine tradizione della pratica dell’Hanami (花見) ovvero “ ammirare i fiori”: attimi empatici dove tra l’occhio dell’uomo e il processo della corolla si crea un colloquio dolce e malinconico sull’arco della vita.

Per destreggiarci nell’argomento, utile è riportare tratti d’esperienza “su campo” di Ginevra: giovane romana, si ritrovò per casi di vita a condurre un viaggio di un mese in terra giapponese; caduta in preda al suo fascino, negli anni successivi ha continuato la frequentazione con assidua passione, assistendo al rivelarsi di tutte le stagioni e al viverle del suo popolo.
Una delle sue ultime scappate orientali ha visto una fortuita e fortunata partenza nella seconda metà di Marzo che è valsa, al suo giungere in Tōkyō, un’accoglienza da regina: «I parchi e i viali della città esplodevano di centinaia di tonalità di rosa, dal pallido al vivido, che coronavano il ritrovato verde primaverile. I boccioli si erano schiusi qualche giorno prima del mio arrivo. Ci sono migliaia di cultori e appassionati dell’Hanami che, da ogni parte del mondo, ogni anno monitorano le papabili date della fugace fioritura per poter prenotare il periodo di pellegrinaggio e presenziare all’evento con puntualità; io ho avuto una fortuna sfacciata continua dacché, nel mio muovermi dalla capitale a Kyoto, ho persino seguito involontariamente i momenti di sbocciatura partecipando quindi a due intere settimane di suggestione».
Tutte le varietà dei ciliegi, infatti, nell’arco di circa un mese e mezzo, vanno in fiore partendo dall’area sud-est del paese e continuando verso l’ovest e il nord; per cui ogni regione offre lo spettacolo in tempi differenti, in base alla posizione geografica.
«Invitata da Yuri, un’amica “autoctona”, al parco Yoyogi (nella zona di Harajuku, nel centro di Tōkyō) ho potuto celebrare il mio primo Hanami con tutti i crismi della tradizione: in un vasto spazio, gremito come una spiaggia italiana d’agosto, migliaia di famiglie, amici e colleghi hanno steso le loro tovaglie da pic-nic sotto l’arboreo tetto rosa. Petali cadono tra il vociare e il brulichio infinito, si posano sull’ebrezza generale. Cibarie e birra ad accompagnare i festeggiamenti. Noi cerchiamo un piccolo ritaglio di prato libero per goderci i nostri bentō (box da pasto) e la surreale gioia dilagante».

Un entusiasmo fugace, quello dei giapponesi, che esorcizza la paura del “terminare delle cose tutte” con un’ode tra l’apollineo e il dionisiaco, l’esaltazione del bello e l’abbandono all’euforia.
«Avrei dovuto spostarmi a Kyoto qualche giorno più tardi, ma l’enorme afflusso di turisti aveva già saturato le disponibilità di alloggio; così ho dirottato su Nara, città pressochè limitrofa e famosa per l’ampio parco che sorge nei suoi confini.
Anche qui la piena fioritura mi ha accolto, ma in uno scenario decisamente più suggestivo rispetto a quello della metropoli: nell’area verde, dove migliaia di cervi vivono liberi e sereni nei confronti dell’uomo, ho incontrato solo un numero contenuto di visitatori! Tra loro, i più passeggiavano in coppia in abiti da festa tradizionali (Kimono e Yukata) allungando biscotti ai cervi o presi da sessioni fotografiche da neosposi; essendo questo un periodo d’incanto e buon auspicio, la celebrazione di matrimoni è infatti molto frequente. Avevo dunque trovato la situazione favorevole per un approccio contemplativo intimo con il paesaggio naturale».
Dal campo base di Nara, Ginevra ha poi mosso in giornata verso mete vicine: a Himeji, il famoso castello bianco pareva una visione ultraterrena, incorniciato di fiori e scintillante di sole com’era!

Poi finalmente, Kyoto. In quest’ultima tappa, saliente è lo scenario che le si para innanzi nel preservato antico quartiere di Gion, celebre per essere stato ospite di bordelli e sale da tè: «Il rione è attraversato da piccoli canali che in quell’occasione erano riempiti da una distesa di petali; l’effetto era quello di un fiume rosa in movimento, un’essenza fluttuante, bellissimo! Poi, la sera, in più zone della città, gli alberi vengono illuminati dalla base verso l’alto dando inizio all’affascinante Yozakura (lett.: la notte dei ciliegi), ossia l’Hanami notturno».

In questo mondo
camminiamo sopra l’inferno
guardando i fiori.
(Kobayashi Issa)

[Fotografie di Ginevra Latini]

Omeopatia: la stregoneria del nuovo millennio?

La pratica dell’omeopatia nasce ad opera del medico tedesco Samuel Hahnemann, il quale, nel 1810, sviluppò una teoria del tutto originale, secondo cui ogni malattia nota era la manifestazione di un’unica affezione, che consisteva in un disturbo nella capacità del corpo di mantenere integra la propria forza vitale. I sintomi erano quindi la rappresentazione del danno patito dalla forza vitale, mentre la cura consisteva nel giusto stimolo fornito al corpo perché riattivasse la propria forza di guarigione. Egli ipotizzò che una sostanza potesse eliminare nell’individuo malato sintomi analoghi a quelli che essa stessa provocava in un individuo sano. Da ciò derivò la cosiddetta Legge dei simili, secondo cui “i simili si curano con i simili” e per la quale il sintomo prodotto da un rimedio scaccerebbe il corrispondente disturbo che colpisce la forza vitale dell’individuo. Per questo motivo la pratica fu chiamata omeopatia (stesso male), per distinguerla dalla medicina classica o allopatica (diverso male), che cura i sintomi producendo effetti ad essi opposti. Col passare del tempo gli omeopati compirono esperimenti somministrando numerose sostanze e registrando gli effetti prodotti nei pazienti. Risultò però evidente che molti di quei rimedi erano potenzialmente tossici e sommavano i loro effetti a quelli dei sintomi della malattia. Per limitare questi esiti negativi venne sviluppata la Legge delle diluizioni infinitesimali, preparando diluizioni partendo da tinture madri pure che venivano diluite, per un numero di volte variabile, in un solvente (acqua o alcool). Per chiarire, se prendessimo una soluzione oggi comunemente utilizzata in omeopatia (una diluizione di 1 a 10 ripetuta 12 volte) otterremmo la proporzione tra un microlitro di tintura madre (una goccia) e il contenuto di una piscina olimpionica di acqua! Era quindi convincimento degli omeopati che l’azione risanante e terapeutica aumentasse in proporzione al diminuire della dose, fino a raggiungere una quantità infinitesimale tale per cui il contenuto di tintura madre finale dovrebbe essere quasi del tutto assente.

Queste teorie col tempo dovettero sembrare surreali ed è per questo che gli omeopati crearono un trucco per spiegare qualcosa che si scontrava col buon senso, e lo fecero introducendo due concetti: la dinamizzazione e la memoria dell’acqua. In breve, venne disposto che, dopo ogni diluizione, il composto venisse agitato in modo tale che la dinamizzazione creata attivasse la forza vitale intrinseca alla soluzione, superando (secondo i seguaci dell’omeopatia) il problema dell’assenza di qualsiasi sostanza dentro la soluzione. Le odierne conoscenze fisiche hanno però imposto di accantonare il concetto di “forza vitale” in favore di una nuova ipotesi. Si sostiene ora che le dinamizzazioni imprimerebbero alla struttura dell’acqua una sorta di impronta della sostanza medicale disciolta, permanente nonostante le diluizioni estreme: il solvente assumerebbe una struttura determinata dal principio attivo, che continuerebbe ad esercitare i propri effetti anche qualora fosse del tutto assente. Se fosse vero, l’omeopatia rivoluzionerebbe lo scibile umano. Ma, a ben vedere, il trucco non riesce a nascondere la criticità di fondo: se anche l’acqua avesse una non ben identificata memoria, come sarebbe possibile che questa discriminasse tra sostanza e sostanza? Perché la memoria dovrebbe attivare solo la sostanza interessata all’omeopata e non le altre con cui entrerebbe evidentemente in contatto? L’omeopatia non lo spiega e anzi ci chiede più che uno sforzo scientifico una professione di fede. La stessa che compie il credente per immaginare la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù. Ma un conto è il piano della spiritualità, soggetto all’intima convinzione umana, un altro è la scienza, basata su concreti e disciplinati pilastri oggettivi.

Samuel Hahnemann (1755–1843), considerato il fondatore dell’omeopatia (PD-Art-1843-US).

Nel 1988, un gruppo di scienziati diretto da un noto immunologo francese, Jaques Benveniste, pubblicò sulla rivista Nature un articolo che sembrava dimostrare come una soluzione diluita in proporzione 1-10 per 120 volte fosse ancora dotata di una quantità di principio attivo rilevabile. La scoperta sarebbe stata sensazionale e per questo motivo venne nominata una commissione ad hoc per assistere alla ripetizione degli esperimenti, col risultato di dimostrare l’erroneità della tesi. Lavorando secondo protocolli più rigorosi e con la tecnica in cieco (senza quindi sapere quale delle provette contenesse principio attivo e quale no), fu possibile affermare che la soluzione omeopatica prodotta non aveva alcun effetto e che la tanto esaltata “memoria dell’acqua” non si era manifestata. Venne poi alla luce come la ricerca di Benveniste fosse stata finanziata da alcune ditte produttrici di medicinali omeopatici. Fu però un editoriale pubblicato nel 2005 sulla rivista medica The Lancet a confutare definitivamente questa pratica. L’analisi prese in considerazione 110 studi clinici che avevano confrontato medicinali allopatici ed omeopatici con placebo e il risultato fu che “gli effetti clinici dell’omeopatia, ma non quelli della medicina convenzionale, sono generici effetti placebo o di contesto”.

Sul fronte giuridico il primo intervento dello Stato sull’omeopatia risale al 1978, anno in cui il Consiglio Superiore di Sanità assimilò i prodotti omeopatici ai preparati galenici, a patto che risultassero innocui e fossero venduti solo nelle farmacie. Nel 1989, il Ministero della sanità pubblicò in Gazzetta Ufficiale un disciplinare che imponeva ai produttori di preparati omeopatici requisiti di innocuità, qualità delle sostanze di partenza, divieto di pubblicità e di inserimento di indicazioni terapeutiche sulle confezioni. Per arrivare ad una prima legge si dovette attendere il d.lgs. 185/1995, che recepì la direttiva europea 92/73/CEE in materia di prodotti omeopatici. Per “medicinale omeopatico” si definisce quello che si ottiene “da prodotti, sostanze o composti, denominati materiali di partenza omeopatici, secondo un processo produttivo disciplinato dalla farmacopea europea. Ai medicinali omeopatici si applicavano quindi le regole dei medicinali tradizionali con alcune curiose eccezioni: prima fra tutte l’obbligo di contenere un principio attivo la cui diluizione superi il rapporto 1/10.000 (sic!) e inoltre l’obbligo di inserire la dicitura “medicinale omeopatico, senza indicazioni terapeutiche approvate”, cosa tanto bizzarra da generare confusione in chi utilizzerà un prodotto le cui finalità non sono risultate attendibili. Il successivo d.lgs. 219/2006 ha introdotto altri singolari elementi prevedendo sulle confezioni la dicitura “consultare il medico se i sintomi persistono” a cui dovrebbe seguire la domanda: quale medico? Forse un medico non omeopata per evitare il rischio di vedersi prescritto un nuovo prodotto del tutto inefficace. Altra stranezza è la previsione che quello omeopatico sia un “medicinale non a carico del Sistema Sanitario Nazionale”, che si scontra con la possibilità di detrarre le spese sanitarie derivanti da prodotti omeopatici dalla dichiarazione annuale dei redditi (di fatto scaricando parte dell’onere sul sistema sanitario pubblico). Un ultimo effetto dell’ordinamento è stato quello di imporre una regolarizzazione di tutti i preparati omeopatici già in commercio prima delle norme del 1995, prevedendo l’obbligo a carico dei produttori di munirsi di una autorizzazione alla vendita (equiparata a quella dei farmaci tradizionali) entro il 30 giugno 2017. Ciò comporterà per l’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, l’onere di vagliare 25.000 prodotti omeopatici attualmente in commercio. Verrebbe da chiedersi che senso abbia che un ente dello Stato venga paralizzato da un compito inutile come quello di valutare dei prodotti che non hanno alcun impatto sulla salute dei cittadini.

Se le norme giuridiche in ordine all’omeopatia sembrano alquanto discutibili, non lo è la sentenza del Tribunale di Roma del 16 febbraio 2017, che ha deciso che, in caso di contrasto tra i genitori in merito alle cure mediche da somministrare alla figlia, prevale il genitore che predilige la medicina tradizionale. Nel caso di specie, i genitori non erano concordi su quale trattamento sanitario impartire alla propria figlia, il che ha spinto il giudice a decidere di procedere alla vaccinazione e alle cure mediche tradizionali per via coattiva, poiché ha riconosciuto che il rifiuto della madre violava il diritto alla salute riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione ed era contrario al preminente interesse del minore a cui dovevano essere prestate le cure più adeguate, riconosciute dal Tribunale in quelle della medicina tradizionale. Alla fine la scienza ha prevalso di nuovo.

Mollo tutto per vivere in barca a vela

«Fa un freddo terribile e questo vento prima o poi mi porterà via».
E’ febbraio e sono a Falmouth, in Cornovaglia, sulla mia barca. Ho guidato sette ore il venerdì sera per arrivare qui per alcuni lavori di sistemazione da fare sull’imbarcazione; e proprio questo weekend c’è una tempesta.
Sto aiutando il mio ragazzo Ryan a salire in testa d’albero del nostro piccolo catamarano per misurare il sartiame. Mentre saltello qua e là da un lato all’altro dello scafo, tendendo il metro avvolgibile e scribacchiando numeri, controllo che Ryan ci sia ancora: questo vento potrebbe farlo cadere dai dieci metri d’altezza a cui si trova.
Per un secondo l’idea di mollare un buon lavoro, il caldo confortevole di una bella casa, seppure in affitto, gli amici e la famiglia, e partire all’avventura su una barca a vela mi pare assurda. Poi, non appena Ryan scende al sicuro e siamo al riparo nella cabina, con tutte le misure che ci servono scritte sul mio quaderno, sorrido.
Lo stiamo veramente facendo: stiamo sistemando la nostra barca e finalmente salperemo per il Mediterraneo.

Una decina di mesi fa, lo scorso Maggio, mi stavo rilassando su una spiaggia naturale, camuffata e nascosta tra le coste di Maiorca, lontano dal tempaccio inglese e dai resort affollati dell’isola spagnola. Stressatissima a causa del mio lavoro come capo di dipartimento di un’agenzia di marketing digitale a Manchester e riluttante all’idea di riprendere l’aereo di lì a pochi giorni, ho iniziato a divagare in riflessioni sulla vita:
«Perché dobbiamo per forza ammazzarci di lavoro fino ai settant’anni, per poi goderci dieci o quindici anni di dolce far niente, magari costretti in un letto di ospedale? Chi l’ha deciso? Chi dice che dobbiamo per forza accantonare tutti i nostri sogni e sperare di poterli realizzare solo quando saremo vecchi e stremati?»
A un tratto, la vita regolare che pure mi aveva regalato non trascurabili soddisfazioni, non aveva più senso. Mi ero resa conto di trascorrere la routine quotidiana di quella vita che i più considerano normale, in attesa di quei momenti di pausa, spesso vissuti a contatto con la natura, che mi ridavano energia; stavo vivendo solo per arrivare al weekend per fare arrampicata oppure per le vacanze dedicate allo scuba diving.
Per la prima volta nella mia vita, ho capito che non dovevo per forza adeguarmi.

Ho la fortuna di poter fare il mio lavoro ovunque, a patto di avere una buona connessione internet, quindi perché rimanere intrappolata in una città grigia e fredda nel Regno Unito? Ho sempre avuto troppa paura di mettermi in proprio come freelancer perché avevo affitto e bollette da pagare, ma vivere in barca a vela elimina tutti questi costi e i relativi problemi.
Quindi, eccomi qui. Sto per iniziare l’avventura più rischiosa, ma anche la più emozionante della mia vita!
A fine Agosto 2016, io e Ryan abbiamo comprato un catamarano Heavenly Twins costruito nel ’77, lungo poco meno di otto metri. Non è grande, ma ha tutto ciò che serve: cambusa con forno e fornelli, cuccetta matrimoniale, “soggiorno” e bagno. Sarà la nostra casa galleggiante per il futuro prossimo. La barca, che abbiamo chiamato Kittiwake, ci è costata meno di un’auto nuova e vivremo a bordo frugalmente e in modo ecosostenibile, una scelta etica che avremmo sempre desiderato fare e che ora potremo realizzare.
Ciò che fa sentire me e Ryan vivi sono le avventure: campeggiare su isole deserte, scalare scogliere, conquistare la cima di una montagna, fare snorkeling con le tartarughe marine, … Così, nel mese di Maggio sistemeremo al meglio Kittiwake per renderla confortevole e poi partiremo alla volta del Mediterraneo, entro Giugno 2017.

Nell’attesa di partire, tra una riparazione e l’altra, fantastichiamo su mete sempre più lontane, pur avendo già ideato un tragitto definitivo. Facilmente ci scontreremo con ostacoli climatici che ci rallenteranno e non siamo certi delle miglia nautiche che realmente riusciremo a coprire: la sicurezza è per noi la cosa più importante, consapevoli che vivremo in balia dei movimenti del mare e del vento, ma la nostra ambiziosa rotta è disegnata sulla mappa!
Partiremo da Falmouth, in Cornovaglia, e attraverseremo la Manica vicino a Salcombe, in Devon. Da lì costeggeremo la Francia fino alla baia di Biscay, che in parte dovremo attraversare di notte per mancanza di punti d’approdo cui ancorare la barca.
Esploreremo poi il nord della Spagna e il Portogallo, dove trascorreremo le notti cullati dalle tranquille acque delle foci dei fiumi, protetti dalle correnti vigorose dell’oceano. Qui, speriamo di riuscire a fare qualche arrampicata sulle impressionanti scogliere portoghesi e, chi lo sa, magari impareremo anche a fare un po’ di surf.
Raggiunto il sud della Spagna, attraverseremo lo stretto di Gibilterra e ci dirigeremo verso le isole Baleari; abbiamo deciso di dedicare un intero mese all’esplorazione delle belle isole spagnole e delle loro cale naturali, cogliendo l’occasione anche per qualche allenamento nel freediving.

Navigheremo poi nel Mare di Sardegna, per arrivare sull’isola italiana nei pressi di Portoscuso; di qui, percorreremo la costa sarda verso sud per avvicinarci alla Sicilia, sfioreremo il Tirreno e raggiungeremo quindi il Mare di Sicilia e Marsala.
Dopo aver costeggiato la parte sud-ovest dell’isola, dovremmo attraversare nuovamente il Mare di Sicilia, questa volta in direzione di Malta. Qui, trascorreremo l’inverno navigando, tempo permettendo, tra le isole di Comino, Gozo, Cominotto e gli scogli minori di St. Paul’s e Filfola; speriamo anche di poter fare diving prima che arrivi il freddo, così da poter vedere i cavallucci marini. Ci avventureremo alla volta degli spettacolari sentieri e falesie dell’arcipelago maltese tra Novembre 2017 e Marzo 2018; Malta ha inverni molto miti e spesso le temperature sono intorno ai venti gradi fino a Natale, quindi è il posto ideale per svernare.
E poi? E poi chi lo sa. Non abbiamo piani per il futuro, ma sappiamo che vogliamo vivere una vita più significativa e avventurosa, una vita che non ci intrappoli dietro una scrivania o davanti alla TV.

Potrete seguire la nostra esperienza sul nostro blog sailingkittiwake.com e sui social: per ora siamo su Twitter e Facebook, ma documenteremo il viaggio anche su YouTube, non appena partiremo.

Permacultura: vivere con la natura, non contro la natura

Seduti in giardino, tra l’aria temperata di questo finire di Marzo che illude di una Primavera 2017 che ci restituisca finalmente le mezze stagioni, con Davide osserviamo la fortuna di vivere entrambi immersi nel verde, lui rifugiato tra le colline maremmane, io nascosta tra le montagne bergamasche, ancora a contatto con la natura che ciclicamente muta colori, dando nuovo aspetto ai paesaggi e ricordando lo scorrere del tempo.

Rispettare la scansione dei mesi che la luna impone alla natura è la prima regola dei coltivatori diretti come lui, conoscitori del mutare del tempo e delle stagioni, e non è certo una novità che la produzione intensiva che ha fatto seguito all’industrializzazione e al progresso, affermando esigenze di mercato che vogliono quotidianamente cibi freschi disponibili tutto l’anno, sia tra le principali cause del disequilibrio creatosi tra le risorse a disposizione e il numero di persone che abitano il pianeta Terra; ma fattualmente esiste una possibilità per sfamare la popolazione mondiale senza sfruttare la terra oltre l’eccesso?

«Esiste la permacultura, – mi spiega Davide, che da un paio d’anni sta frequentando seminari su questo criterio applicato in agricoltura – che propone un approccio etico alla terra, in vista di uno stile di vita ecosostenibile».

Bill Mollison, fondatore della permacultura, e il suo manuale introduttivo, tradotto in italiano da Terra Nuova Edizioni

La permacultura, dall’inglese permanent culture (o permanent agriculture), consiste in una strategia di progettazione del territorio, elaborata negli anni ’70 da Bill Mollison e David Holmgren, attraverso lezioni, conferenze e manuali, che parte dall’osservazione dell’ambiente, per una sua organizzazione funzionale finalizzata alla permanenza nel tempo. Nato in un villaggio di pescatori in Tasmania, negli anni ’50 Mollison osservò l’incipiente deterioramento di alcuni ambienti naturali dell’isola natia e la progressiva carenza di risorse; dopo un breve periodo da attivista resistente, dedicò la sua vita all’insegnamento, concentrando le proprie ricerche verso stili di vita sostenibili e ideando con Holmgren questa sorta di disciplina, che raccoglie strategie di produzione etiche elaborate nei più diversificati territori.

«Non ci sono dettami, norme inderogabili prescritte: la permacultura parte dall’osservazione diretta dell’ambiente in cui si vuole vivere, o che si vuole progettare. – continua Davide – Ci sono tre principi etici elaborati da Bill Mollison, che riassumono il punto di vista proposto:

1. cura e rispetto della terra;
2. cura e rispetto degli uomini, delle persone;
3. investimento del surplus (tempo, denaro, materiali) al fine di realizzare gli obiettivi.

In sostanza ci si preoccupa di insediarsi in un ambiente, sfruttandone al massimo le risorse, ma senza mai esaurirle, anzi facendo in modo che si rinnovino ciclicamente».

In primis, la permacultura è una strategia di coltivazione ecologica. Anche Davide è venuto a contatto con le prime nozioni grazie a una coltivatrice diretta che gli ha fornito consigli su come gestire un orto sinergico: «Per orto sinergico s’intende uno spazio coltivato non al solo scopo di nutrirsi, come nel caso delle monocolture settoriali, che separano gli ortaggi per specie, ma al fine di creare un ambiente che, equilibrandosi autonomamente e con un intervento umano minimo, fornisca nutrimento senza debilitare il terreno in cui si trova. Fondamentale è la scelta di piante che creino tra loro un rapporto appunto sinergico, cioè di aiuto reciproco: per fare un esempio concreto, accostando piante di calendula e pomodori si risolve in modo ecologico il problema delle cimici, perché la calendula attira vespe che si nutrono degli afidi dei parassiti del pomodoro. Lo scopo è tanto quello di ridurre l’impatto ambientale al minimo, quanto quello di evitare dispendio inutile di energie e risorse, applicando ad esempio strategie come la pacciamatura e l’uso dei “bancali”. La prima consiste in una copertura in materiale organico (paglia o cartone), una sorta di serra utile a mantenere l’umidità e impedire la crescita delle piante infestanti, che ha il valore aggiunto di concimare il terreno una volta sedimentato. I “bancali” sono invece cunette rialzate, di cui è possibile sfruttare tutta la superficie, concentrando quindi le energie, grazie cui si rafforzano le radici delle piante, costrette a scavare più a fondo per trovare terreno nutriente».

L’orto sinergico di Davide in Toscana

Ascoltando Davide, nella mia mente affiorano ricordi della maestra delle elementari che spiega la grande rivoluzione scaturita dall’introduzione della rotazione delle colture, espressione organizzata della saggezza contadina che si conserva in permacultura in alternanze come quella tra ortaggi e legumi: bisognosi di azoto i primi, azotanti i secondi, si scambiano e condividono sostanze passando attraverso la terra. La permacultura è quindi una sorta di raccolta delle migliori strategie di volta in volta messe in atto dagli uomini nel corso della storia, per insediarsi nei più disparati ambienti con un impatto minimo. Mi chiedo se in questa idea di insediamento vi sia spazio anche per le innovazioni tecnologiche: «Certo! – risponde Davide – Io ad esempio sono molto interessato alla questione delle energie rinnovabili; tra chi frequenta corsi o forum di permacultura, è molto sentita la questione dei pannelli solari, che potrebbero essere una buona fonte energetica, ma sembra ci sia ancora un forte impatto ambientale al momento dello smaltimento, forse anche nella produzione. Ci sono poi moltissime altre fonti ancora da prendere in considerazione!».

Permacultura non è solo agricoltura. Davide mi racconta di quanto esteso possa essere il concetto di permanent culture: «Innanzitutto, è applicabile a qualsiasi tipo di ambiente e clima perché è pensato per ogni area geografica, partendo dalla sua osservazione diretta. In Messico, ad esempio, ho conosciuto un ragazzo che applicava l’urban permaculture: viveva con la figlia in una vecchia casa semiristrutturata con un sistema idrico ad acqua piovana che alimentava l’orto disposto sia sul terrazzamento del tetto sia sfruttando la luce negli interni. Poi non riguarda solo gli orti e la coltivazione: non prevede il vegetarianismo, quindi si occupa anche di allevamento; oltre che della costruzione di abitazioni a basso impatto ambientale e buona resa energetica, ma anche semplici conigli di adattamento di strutture preesistenti per ottimizzarne l’uso, così come di giardini decorativi ecosostenibili. Esiste infine una social permaculture, che si occupa di ristabilire un equilibrio etico sociale tra le persone, secondo principi di condivisione più che di accumulazione, sempre nell’ottica di una corretta dispersione delle energie e delle risorse».

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
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