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Tutta un’altra cosa. I ManuFatti, l’anima ecologica dello scarto

Vedere un lampadario fatto con un aspiretto degli anni Cinquanta può essere spiazzante. Come pure un semplice portatovaglioli in vinile. Emanuele Gabusi se la ride mentre mi osserva girare in questa stanza colma dei suoi ManuFatti. «Vedi, tutto parte dalla sensazione di fastidio che mi dà lo spreco. Io ho un diploma di tecnico delle Industrie Meccaniche, per cui montare e smontare è sempre stato il mio mondo». Siamo alla GESV Motor, a Flero (BS), azienda che produce pezzi meccanici fondata dal padre di Emanuele. «L’occhio me lo sono fatto in officina: solo lavorando per l’industria puoi renderti conto delle montagne di oggetti buttati. Ho imparato che un oggetto può avere funzioni diverse da quelle per cui è stato fabbricato. Inoltre, sono stato sempre molto sensibile all’aspetto ambientale. Il fatto che si buttassero via tutte quelle cose per produrre un pezzo nuovo, non l’ho mai sopportato. Ancora oggi mi chiedo perché bisogna costruire una sedia dal nulla, se possiamo utilizzare tutto quello che c’è già».

ManuFatti - PequodRivista
Emanuele Gabusi nella sua officina, la GESV Motor di Flero, in provincia di Brescia.

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Dalla produzione meccanica alla creatività del riuso, grazie a un’esperienza quotidiana tra oggetti di uso comune. «Ma non è stato così semplice. Abbiamo attraversato il 2008, la crisi, la cassa integrazione per tutti. Sono stati anni duri quelli, in cui mi sono trovato con poco lavoro e molto tempo a disposizione», confessa Emanuele. «Pensa che dovevo comprare una lampada e allora mi sono detto “perché comprarla se la posso costruire?”. Così ho creato il primo oggetto con materiali accumulati in magazzino». È proprio nell’anno del boom della crisi economica che Emanuele dà un nome all’idea di recuperare utensili rotti o scartati e crearne elementi di design: nasce il progetto “i ManuFatti”, ovvero gli oggetti fatti da Manu.

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Alcune delle prime lampade realizzate da Emanuele Gabusi con oggetti di scarto.

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«Gli oggetti sono sempre piaciuti, mi attira la loro forma. Li guardo, li studio, prendo appunti su come riutilizzarli. Scrivo migliaia di foglietti, schizzi a penna. A volte, mi sveglio di notte con l’idea di cosa farne».  Come un’idea schizzata su un foglio, come un abbozzo appena accennato, a volte le esperienze più importanti nascono senza una spiegazione apparente, poi si evolvono e tutto diventa via via più chiaro. «In quel periodo ho realizzato il mio primo oggetto di design: una poltrona fatta con un bidone dell’olio esausto. L’ho ritagliato in cima e rivestito il bordo con un sacco di juta. Nel 2010 due ragazze che gestivano uno storico locale di Brescia, Le Tits, hanno organizzato uno “svuota-cantina” e mi hanno chiesto di portare qualcosa. Ho portato questa poltrona perché volevo liberarmene e invece è stato un vero successo: poco dopo mi hanno proposto di fare una mostra personale e in tre mesi ho rivoluzionato il loro locale». A stretto giro arrivano la selezione presso un concorso a Roma con il Ventila Fiore, una lampada nata dal montaggio di un ventilatore e di un vaso, e addirittura un articolo su Glamour per gli orecchini fatti con le palettine per il gelato. «So che può sembrare incredibile: il riutilizzo dei materiali per creare arredi di design oggi va di moda, ma allora era un mondo completamente in ascesa».

 

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Le poltrone ricavate dai bidoni dell’olio esausto riutilizzate durante un concerto di Nicolò Fabi presso la Latteria Molloy di Brescia.
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In alto a destra, gli orecchini realizzati con palettine di plastica per il gelato compaiono sulla rivista “Glamour”.

Nel tempo cresce la visibilità di una produzione artigianale e creativa così poco praticata, nascono nuove idee da sviluppare in oggetti sempre più accurati e ricercati, e così gli scarti accumulati in casa cominciano a non bastare più. «Ho cominciato a girare ovunque ci fossero scarti o pezzi rotti: aspettavo fuori dalle isole ecologiche per chiedere alle persone di poter vedere i loro rifiuti prima che li buttassero, andavo nei solai e nelle cantine di amici». Emanuele racconta divertito di una nuova curiosità ma anche di un’esigenza pratica: «La mia tecnica non era più sufficiente, per realizzare un nuovo progetto dovevo infilarmi nei laboratori dei falegnami, dei vetrai, dei tappezzieri… e non ti nascondo che alcuni artigiani erano diffidenti!».

Tutto questo lavoro è stato notato e non sono mancati i riconoscimenti, come la partecipazione al FuoriSalone di Milano nel 2012, in un allestimento dedicato a start-up e designer con un’attenzione particolare alle tematiche ambientali. Sono gli anni frenetici in cui i ManuFatti approdano in numerosi eventi sul territorio bresciano e nazionale, ma la sua più grande soddisfazione è un’altra: «I miei ManuFatti sono diventati sempre più creativi ed è diventato sempre più evidente al pubblico che gli oggetti non hanno limite di utilizzo, che il loro recupero in nuove forme è pressoché infinito». Per questo ricorda come uno degli eventi più creativi la mostra i SettiManu Enigmistici. La locandina è un cruciverba che richiama la Settimana Enigmistica, le opere fotografiche consistono in rebus composti da oggetti riciclati con parole prese dal gioco Scarabeo: le soluzioni dei giochi, ovviamente, sono sempre a tematica ambientale.

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La locandina della mostra i SettiManu Enigmistici, presentata in diverse località della provincia bresciana.

Prima ancora della creatività, l’ecosostenibilità, che si traduce nel riuso dei pezzi che altrimenti sarebbero rifiuti, è la componente caratteristica dell’attività di Emanuele: il design dell’oggetto ha un’anima ecologica. E di questo Emanuele parla a lungo. Mi spiega la sua ultima iniziativa, i laboratori di riuso: «Quest’anno ho iniziato a collaborare con un’associazione di Rodengo Saiano (BS), Il Baule della Solidarietà, organizzando corsi sul riciclo di oggetti per bambini e ragazzi. Mostro recupero delle cose di tutti i giorni e lo faccio tramite esempi pratici: prendiamo un sacco e c’infiliamo tutti i rifiuti che producono durante la giornata, da quando fanno colazione alla cena. Buttiamo tutto lì dentro, i tubetti del dentifricio, i cartoni dei biscotti, penne consumate… non ti dico quante cose vengono fuori! Poi proviamo a riutilizzare questi oggetti per dare una vita nuova». Mi immagino i ragazzi sommersi da chili e chili di scarti quotidiani. «Eh sì, ma è molto istruttivo per loro vedere queste cose. Vedi, il volontariato mi ha sempre attirato, perché mi permette di raccontare l’importanza dell’ecosostenibilità e condividere le idee alla base del riuso».

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Alcuni scatti da uno dei laboratori di riuso organizzati da Emanuele Gabusi in collaborazione con l’associazione di volontariato Il Baule della Solidarietà di Rodengo Saiano (foto: Alice Laspina).

Oggi il lavoro nell’azienda familiare è aumentato, la crisi sembra essersi ridotta. «Ma la passione chiama ancora. Il piacere di recuperare gli oggetti, la sfida di trasformarli in altro. Come quell’oggetto laggiù», dice indicando una delle sue creazioni nella stanza. «È uno scaldaletto. Ne ho fatto un porta spezie per la cucina: dove c’è il rotolo ho messo un mattarello».

Lo guardo girare tra tutti quegli oggetti, prenderli uno a uno. Su una scrivania, tra gli schizzi a penna di un mobile, vedo gli orecchini fatti con le palettine di gelato. Li sfioro, sono colorati di giallo, viola e blu. Conosco una persona a cui starebbero bene, penso e dico. «Prendili» mi dice Emanuele e me li mette in mano. «Emanuele…», provo a protestare. «Lascia stare – dice lui – devo solo trovare una scatola regalo».
Mentre lui cerca tra i cassetti, io mi avvicino alla finestra. Vedo un furgone attraversare la strada, un cartellone pubblicitario proiettare un’ombra storta. È una zona industriale qualsiasi, di un paese che non avrei mai pensato di visitare, ma vi posso giurare che da questa stanza il mondo là fuori è tutta un’altra cosa.

In copertina: il Ventila Fiore, la lampada realizzata con un ventilatore e un vaso, uno degli oggetti di design realizzati da Emanuele Gabusi e presentati al FuoriSalone di Milano (2012). (Foto: Dal sito www.imanufatti.it)

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Ecocentro di Gruppo Esposito: dalla strada per la strada

Cartacce, mozziconi e tutta l’immondizia che troviamo nelle strade possono trasformarsi, dopo attenti passaggi di recupero e trattamento, in nuovo materiale per riasfaltare le strade stesse. Questa la finalità dell’impiantistica Ecocentro, un progetto sperimentato la prima volta nella città di Bergamo, dove ha sede l’azienda Gruppo Esposito, che ha brevettato questo impianto di recupero e trattamento dei rifiuti da spazzamento delle strade per ottenere nuovi materiali utili nel settore dell’edilizia e in altri processi produttivi.

Si tratta quindi di recupero, e non smaltimento dei rifiuti, secondo un’ottica green che anima il lavoro dell’impresa bergamasca.

A poche settimane dall’inaugurazione di Ecocentro a Guidonia, alle porte di Roma, contattiamo il titolare dell’azienda di Gorle (BG), Ezio Esposito, in partenza per un viaggio di lavoro in Sardegna.

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Ci parli della storia della sua azienda.

«La nostra azienda nasce nel 1998 e dagli anni Duemila lo scopo di Gruppo Esposito è individuare rifiuti mai recuperati e su di essi creare un’impiantistica atta al recupero e al riuso. Abbiamo brevettato una tecnologia che rendesse i rifiuti adatti a tale scopo e così abbiamo inaugurato il primo impianto Ecocentro a Bergamo, nel 2004; da lì ne sono seguiti altri 11 in Italia, per importanti enti privati e statali».

Da dove nasce l’idea che ha portato alla creazione di Ecocentro?

«L’idea è nata da una semplice constatazione: si smaltiscono parecchi rifiuti ma pochi di questi vengono recuperati, mentre possono essere utilizzati nei diversi cicli produttivi, come indica la normativa».

Personalmente, ha sempre avuto una passione, un’attitudine particolare per la cura dell’ambiente?

«Io vengo dal settore dell’igiene urbana; mi sono formato alla Waste Management, una multinazionale americana che occupa una posizione di leadership nella gestione integrata dei rifiuti. Insomma, il rifiuto l’ho toccato con mano, tanto per capirci! [ride]. Ho avuto sempre un’attenzione al recupero per creare qualcosa di nuovo, è nel mio DNA. Come dire, ho una vena aziendale in cui si intrecciano la passione per l’ambiente e la passione per l’impiantistica. E così ho creato un’azienda di ingegneria».

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A livello mondiale, come vede il panorama delle aziende che si occupano di economia green?

«Il settore della green economy va avanti, di pari passo con una normativa piuttosto chiara, che impone determinate percentuali di recupero dei rifiuti e delineando obiettivi importanti a livello nazionale ed europeo: ora, sta alle aziende raggiungerli, adeguando la propria impiantistica».

In questo scenario, l’Italia che ruolo svolge? Come immagina, quando si parla di innovazioni tecnologiche la tendenza generale è quella di guardare sempre oltreconfine, non senza un certo scetticismo nei confronti delle aziende italiane…

«In realtà gli italiani si sono sempre distinti in questo settore. Il nostro brevetto, ad esempio, è arrivato negli Stati Uniti, in Australia, in Cina. Poi, che in Italia ci si lamenti sempre, è un fatto tutto italiano, appunto, ma in quanto a impiantistica per l’ambiente, a livello nazionale siamo avanti. Molti guardano alla Germania, ma quanti sanno che la maggior parte delle attrezzature sono italiane, in Europa e in altri continenti? Probabilmente, allora, gli italiani non sono così arretrati; semmai, forse, ci adeguiamo più lentamente e in modo disomogeneo alle normative comuni».

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Restringiamo il campo alla città in cui ha sede Gruppo Esposito, ossia Bergamo: cosa ne pensa della vivibilità degli spazi verdi e dell’estetica dei suoi paesaggi?

«Per motivi di lavoro giro molto in Italia e all’estero, dato che i miei impianti sono diffusi a macchia di leopardo, perciò posso dire che Bergamo è sicuramente un’isola felice. Abbiamo una città e una provincia molto attente all’ecologia e all’ambiente, secondo me anche grazie ad ottimi e competenti funzionari provinciali nel settore ambiente. Il nostro primo impianto realizzato a Bergamo è stato un’innovazione a livello mondiale, ma anche grazie alla preziosa collaborazione di queste persone competenti che ci hanno permesso di avere le informazioni necessarie per avviare i lavori».

In un settore innovativo come quello dell’ingegneria ambientale, la ricerca assume un ruolo determinante: quanto e come investe la sua impresa in attività di ricerca?

«Gruppo Esposito investe ogni anno il 10% del fatturato in ricerca e sviluppo, per sperimentare e ideare impianti innovativi; in particolare collaboriamo con CINIGeo, il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Ingegneria delle Georisorse, che coinvolge le quattro università di Bologna, Trieste, Cagliari e la Sapienza di Roma e abbiamo un capannone da 1800 mq dedicato alla sperimentazione, con macchine e attrezzature. Puntiamo molto sulla ricerca perché è l’unica strada che ci permette di crescere e andare avanti in questo settore, per raggiungere gli obiettivi indicati nelle normative».

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Quanti giovani ci sono nel suo team di ricerca?

«Praticamente sono tutti giovani sotto 35 anni e hanno grandi potenzialità, ma gli anziani non devono mancare perché impegno, esperienza e passione devono essere di riferimento e di esempio proprio nei giovani in cui, probabilmente, dal mio punto di vista, mancano un po’. Credo che ci siano meno persone che si dedicano con passione a quello che fanno, questo anche perché c’è poca soddisfazione lavorativa, in termini di guadagni e di stabilità».

I progetti futuri di Gruppo Esposito?

«Stiamo progettando un nuovo impianto in Sardegna, a Cagliari, e guardiamo all’estero, in particolare verso l’Austria e l’Inghilterra. Intanto abbiamo parecchi lavori in corso d’opera: il progetto di recupero e trattamento dei limi delle aree portuali, che si depositano e attaccano al fondo marino; il recupero di scarti della lavorazione del vetro, per ottenere sabbie silicee utili nel settore minerario, e altro ancora. Insomma, le applicazioni possono essere diverse; si cerca sempre di trovare soluzioni di recupero, quindi di riutilizzare i rifiuti per mantenere un po’ più verdi i nostri ambienti».

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