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I giovani d’oggi sono nati nel Duemila

«I giovani nati nel 2000 l’anno prossimo diventeranno maggiorenni, hanno già diciassette anni» ho realizzato ad alta voce all’inizio di quest’anno. Invecchiare è normale ed inevitabile, ma rendersi conto di non essere più la generazione giovane che si affaccia alle prime esperienze della vita adulta è una botta di realtà difficile da superare. I miei coetanei, i nati negli anni Ottanta per intenderci, hanno ormai ceduto lo scettro dei “giovani d’oggi” ai figli degli anni Novanta e sì, anche a quelli dei Duemila. Un simbolo affascinante, luccicante e seducente come solo gli anni “teen” e i vent’anni sanno essere, ma anche imponente, alle volte impegnativo con un bagaglio di pregiudizi che lo appesantiscono da sempre. Perché essere giovani significa anche essere la generazione stigmatizzata per eccellenza, essere troppo spesso etichettati come dei buoni a nulla, incapaci, svogliati, mammoni, choosy e disinteressati. Insomma, i tempi cambiano, ma i più giovani, per un motivo o per l’altro, sono sempre il capro espiatorio della società.

In quanto esponente dei giovani che furono ma che ancora un po’ ci si sentono, provo empatia nei confronti delle nuove generazioni, che sul groppone portano il fardello dell’essere i “giovani d’oggi”. Mi sono così prefissata l’obiettivo di sfatare i falsi miti e le calunnie che in genere vengono addossati ai ragazzi, andando a conoscere i famigerati “duemila”, quelli che quest’anno sono alla vigilia della maggiore età. Con Giada e Simona, classe 2000, abbiamo riflettuto sulle colpe e gli errori che la società attribuisce solitamente ai più giovani.

Simona frequenta il terzo anno del liceo delle Scienze Umane, è appassionata di Diritto e si definisce negata nelle materie scientifiche. Quando la chiamo è appena tornata da un pomeriggio di compere, mi spiega che non ha guardato il cellulare per tutto il pomeriggio perché quando è con i suoi amici se ne dimentica totalmente. Da qui lo spunto per la mia prima domanda, che riguarda proprio la tecnologia ed il suo uso-abuso; i giovani infatti sono sempre tacciati di essere schiavi dello smartphone e di non saper socializzare senza. Simona ammette di lasciarsi distrarre dal cellulare, specialmente quando è a casa, ma quando è fuori con le amiche lo controlla raramente. «E poi» aggiunge «è normale che siamo tutti attaccati alla tecnologia: a scuola il cartaceo non esiste più ed i compiti ce li mandano via e-mail

Quando accenno alle ragazze del fatto che non di rado gli adulti tendano a dare degli svogliati ai giovani, entrambe mi smentiscono senza fatica. Simona è impegnatissima con allenamenti e gare di nuoto agonistico, mentre Giada, nel poco tempo libero che resta a chi come lei frequenta il liceo scientifico, si dedica alla danza, alla fotografia e alla lettura, le sue passioni. Certo, entrambe trovano anche il tempo per ascoltare la musica e divertirsi con spensieratezza, ma Simona ci tiene a specificare che preferisce non andare in discoteca tutti i sabati, anche se i suoi genitori sono piuttosto permissivi a riguardo.

Giovani passioni, fotografia di Martina Ravelli

L’energia e l’entusiasmo che trasmettono quando parlano delle loro passioni mi fanno vergognare al pensiero delle scuse che, per mancanza di voglia, mi invento per non fare qualcosa che mi piace. Appurato dunque che i duemila non sono né dipendenti dalla tecnologia, né fannulloni e svogliati come molti li dipingono, discuto con loro dell’importanza che riveste nella loro vita l’attualità, di quanto effettivamente si interessino di ciò che accade in Italia e nel resto del mondo. Insegnanti, genitori e venerandi esperti, infatti, affermano con tono grave che i ragazzi di oggi non sanno nulla, sono ignoranti e menefreghisti. Quello che io percepisco dalle loro risposte è piuttosto diverso però; Giada si informa sull’attualità e anziché fregarsene si dice molto preoccupata dalle vicende che scombussolano il pianeta. «Temo di non essere in grado di sviluppare un’opinione critica» mi rivela umilmente, ed io intanto penso che in molte occasioni “adulte” avere il coraggio di ammettere i propri limiti sia invece sintomo di saggezza. Diversamente, Simona un’opinione se la sta formando, non per sentito dire ma informandosi attivamente: «Ogni tanto vado a delle conferenze organizzate da gruppi giovanili in cui si discutono problemi globali; qualche volta intervengono anche dei migranti.» E quando le chiedo se la scuola aiuta questo percorso di conoscenza e di formazione sui temi attuali, mi risponde che in generale in classe se ne parla pochissimo. Anche in questo caso, le due giovani hanno confermato quello che già sospettavo: disinteresse e superficialità sono etichette appiccicate alle nuove generazioni senza che quelle più vecchie e mature le aiutino a sviluppare una maggiore consapevolezza.

Mi avvio alla conclusione della mia chiacchierata con le due giovani ragazze. È tempo di tirare le somme e di sferrare gli ultimi colpi ai detrattori dei teenager del 2017. Quando chiedo loro di raccontarmi chi sono i loro modelli e le persone che ammirano, non mi sento rispondere nomi di attori, cantanti, blogger o influencer. Giada cita Madre Teresa, Nelson Mandela e Gandhi; Simona mi incuriosisce affermando senza alcuna esitazione che l’esempio da seguire per lei è la sorella maggiore. Mi spiega che ne ammira la maturità e lo sforzo che fa nel guadagnarsi dei soldi lavorando in pizzeria nel fine settimana, nonostante sia ancora giovanissima e i genitori le mettano a disposizione del denaro per uscire e fare acquisti. Che le ragazze non abbiano grilli per la testa e siano decisamente mature lo capisco anche quando mi parlano delle aspirazioni per il futuro. Giada vorrebbe diventare medico o psicologa, anche se non ha idea di come possa essere l’università ed un po’ la spaventa. Simona vorrebbe studiare giurisprudenza per potersi occupare di tematiche ambientali, legate all’inquinamento e alla globalizzazione. Sa che l’università non sarà una passeggiata, i genitori le hanno spiegato che si dovrà impegnare tantissimo. E grazie ad uno stage formativo che sta svolgendo tramite la sua scuola proprio quest’anno sta imparando che anche il mondo del lavoro costituirà una sfida da non prendere con leggerezza: «Non posso sapere come sarà il mio impiego né come saranno i miei datori di lavoro. Quello che so è che dovrò faticare, non mi aspetto che le soddisfazioni arrivino dal nulla

Fotografia di Martina Ravelli

Simona e Giada non sono dei fenomeni, sono due quasi-diciassettenni come tante. Le loro risposte alle mie lievi provocazioni non sono studiate. Non si sono neanche fatte aiutare da Google. Simona e Giada insegnano agli adulti, con una sincerità disarmante, che i giovani d’oggi non sono migliori né peggiori dei giovani di ieri. Che è comodo parlare di superficialità delle nuove generazioni, quando non si ha nemmeno la premura di andare oltre quella superficie e cercare di capire i dubbi, le paure e le potenzialità dei nuovi giovani. Mettere da parte la spocchia da persone vissute, solo perché si ha qualche anno in più, e ricordarsi che tutti siamo stati “giovani d’oggi” un tempo e che tutti siamo stati accusati di essere pigri, senza valori e senza interessi. Questo è quello che mi hanno insegnato due normalissime ragazze del Duemila.

Combattere la noia è l’arte del pendolare

Quest’anno riprendo l’università. Ed inesorabile riprende la mia vita da pendolare.

Abitando in un paesino alle pendici di quella che si definisce alta valle e dovendo raggiungere la grande metropoli capoluogo lombardo, la scelta di spostarsi con i mezzi pubblici rappresenta una sfida che vuole una certa preparazione: si tratta complessivamente di un viaggio quotidiano di 8 ore, divise tra andata e ritorno; impegnarle è praticamente un lavoro per cui è bene organizzarsi.

Negli anni ho ormai fatto mia l’arte del pendolare, attitudine del “fuorisedemanontroppo”, prigioniero di un limbo dove non si è degni d’un appartamento, la patente di guida diventa inutilizzabile e le proprie gambe non bastano più. Quantomeno pensavo di averla fatta mia! Ma c’è sempre un giorno in cui l’automatismo delle nostre azioni fallisce; quel giorno, nella vita del pendolare si apre uno spazio per il più temuto nemico: la noia.

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Arrivando alla fermata dell’autobus quando ancora non ha finito di ritirarsi il buio della notte e solo grazie al passaggio di alcuni magnanimi lavoratori su turni, è difficile trovare la forza per abbattersi di fronte all’evidenza che l’iPod (estratto da una borsa sovraccaricata, dopo infinitesimali istanti di ricerche quasi geologiche, in virtù del ritardo dei mezzi) ha la batteria scarica. Poco male: è troppo presto per agitarsi, ma anche per tenere gli occhi aperti; l’arrivo del bus è accolto da me e dai pochi miei compagni d’attesa come fossimo a fine giornata, all’ora del meritato riposo. Finalmente si dorme!

Il risveglio è un vero e proprio trauma: ancora non è giorno e noi a occhi chiusi, come bestiame al pascolo, ci seguiamo dall’autobus al tram. Inizio a svegliarmi quel tanto per aver la forza di stupirmi ancora una volta del fatto che, fossimo tra fine ‘800 e inizio ‘900, non dovrei darmi la pena né di svegliarmi per attraversare a piedi la strada e cambiar mezzo né tantomeno di calcolare i minuti di ritardo che l’autista dell’autobus non potrà evitare sulla strada provinciale. Prima dell’era del petrolio, due tram attraversavano le valli bergamasche per raggiungere il capoluogo provinciale; così come altre infrastrutture italiane, sono state dismesse negli anni ‘50 per far spazio ad automobili e cemento ed ora le si vorrebbe indietro.

Affronto il troncone di ferrovia ricostruito nel 2009 tentando invano di riprender sonno e fissando invidiosamente gli altri passeggeri: quasi tutti assorti nella musica che passa dagli auricolari, molti a occhi chiusi, qualcuno concentrato sul telefono, probabilmente in qualche social network. Mi preparo per la prossima ora di treno, cercando nella borsa un libro da leggere, ma ancora una volta la fortuna non mi assiste: sul mio comodino sono rimasti sia il romanzo che cercavo sia il libro di testo che sto studiando. Ho con me solo testi da riconsegnare e appunti già ripassati.

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Per il resto del tragitto, la mia unica attrazione sono gli altri viaggiatori.

Quasi tutti dispongono di un mezzo tecnologico, la maggior parte di uno smartphone, alcuni di un portatile; sprovvista di un telefono munito di connessione internet, a quest’ora del mattino mi sento esclusa dal mondo, che sembra essersi spostato nella dimensione virtuale. Tento di spiare gli schermi attorno a me: Candy Crush Saga regna sovrano; mi tornano alla mente i Polly Pocket e i Mini Pony dei viaggi per il mare con mamma nei primi anni ’90: i colori e le forme sono ancora gli stessi, rimasti immutati nel passare del tempo e delle evoluzioni tecnologiche. Al tempo, i genitori compravano i Tamagotchi, i primi diari elettronici, i Gameboy per i figli; oggi genitori e figli stringono alleanze, si regalano frutta, si scambiano vite in forma virtuale.

Ancora stretto il legame tra tecnologia e informazione: le notizie fioccano tra i pixel, s’ingrandiscono sotto i polpastrelli. Qualcuno ancora sfoglia i giornali, per lo più approfittando pigramente dei fogli lasciati agli ingressi delle stazioni, ma la maggior parte dei pendolari si affida alla rete e velocemente scorre da un contenuto all’altro.

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Ultima tappa: metropolitana milanese.

La capitale dell’industria non delude e mi regala immagini di pura attualità: uomini e donne in carriera si tuffano nei treni avvolti da cuffie insonorizzanti, discutendo dentro microfoni invisibili, gesticolando su multitouch screen, sfogliando pagine letterarie su opachi kindle.

Stretto tra loro, un giovane universitario si mantiene perfettamente in equilibrio al centro del corridoio, stringendo tra le mani un libro su cui spicca il sigillo della biblioteca. Questa è la vera arte del pendolare.

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