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Esperienze Di Attività Con Marco Peri

Cara Arte, vorrei incontrarti tra 10 anni

Quelli appena passati sono stati mesi lunghi e difficili. Mesi in cui molti di noi hanno potuto partecipare a eventi virtuali, come conferenze, lezioni a distanza e webinar, sperimentando l’importanza del digitale che si è dimostrato un supporto funzionale per le realtà culturali e artistiche in un momento di crisi.

È stato infatti necessario operare un cambiamento, che ha condotto l’arte verso una stimolante sinergia con il mondo digitale. Se molti eventi e altrettante mostre sono stati cancellati o rimandati, alcuni organizzatori e direttori invece hanno deciso di sperimentare un modo innovativo per continuare a esserci, impiegando un altro format. Questo è il caso della Milano Digital Week che sta creando conferenze, conversazioni e dirette su Facebook e Instagram, mentre l’attesissima mostra “Raffaello.1520-1483” presso le Scuderie del Quirinale di Roma ha saputo incuriosire il pubblico online grazie a un’abile programmazione di post e video relativi all’esposizione, includendo anche elementi di backstage e interviste ai curatori.

La Casa Testori di Novate Milanese, d’altra parte, ha creato una proposta pensando ai più piccoli: la rubrica “Artist & Son/Daughter” nata dall’idea di Andrea Bianconi, in cui gli artisti, tra i quali Marica Fasoli e Nicola Villa, hanno raccontato e suggerito delle attività laboratoriali da poter svolgere con i propri figli, divertendosi a giocare e imparare durante la quarantena.

Anche le piccole realtà associative attive sul territorio di Bergamo, sono state inevitabilmente toccate da questa ondata di cambiamento. L’associazione Inchiostro.itinerari e incontri d’arte di San Paolo d’Argon ha creato dei video-pillole in cui svela inedite informazioni e curiosità d’arte, dedicate ai luoghi in cui realizza visite e incontri. Al momento sta preparando un corso di formazione di storia dell’arte del territorio bergamasco curato dallo storico dell’arte Dorian Cara. Diversamente si è mossa l’associazione Un fiume d’arte di Ponte San Pietro, che ha deciso di annullare l’Esposizione di settembre e si sta concentrando sulla creazione della mostra delle opere della pittrice Patrizia Monzio Compagnoni, in programma per il 2021 nella Pinacoteca Vanni Rossi.

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Molte realtà, dalle più grandi alle più piccole, hanno trovato il loro modo per restare a galla, tramite soluzioni utili e sostenibili per continuare a dare importanza e pubblica condivisione del loro patrimonio.

La quarantena ha consentito, però, di mettere sotto i riflettori il mondo dell’arte e della cultura, presentandone luci e ombre. Abbiamo potuto ammirare la qualità estremamente duttile e versatile dell’arte e dei suoi mediatori. Musei, gallerie, centri culturali e associazioni sono infatti riusciti ad adattarsi alle nuove modalità virtuali per comunicare, coinvolgere, rendere fruibile e accessibile il patrimonio. Ma è proprio qui che sono sorte le prime domande sul futuro dell’arte, della comunicazione e della didattica museale da qui a 10 anni.

Certamente osservare un video o partecipare a una visita guidata virtuale è un modo facile, pratico e, oserei dire, “veloce” per viaggiare e ammirare musei e opere d’arte che si trovano in altri Paesi. Se questi contenuti rispondono a un’esigenza “fisica” e geografica, manca però una comunicazione più attenta e curata alla concretezza dell’arte, che è fatta di idee, progetti, gesti manuali, strumenti, tecniche e soprattutto di relazioni umane.

Le attività digitali talvolta descrivono le opere d’arte e i luoghi culturali con una certa freddezza e mancanza di “contatto”, di sensibile coinvolgimento. Visitare un museo o una mostra è un’esperienza sensibile complessa, coinvolgente, unica e soggettiva, che richiede una diversa durata e un tempo da dedicare, una disposizione d’animo e una ricerca selettiva delle opere. Durante la visita il fruitore guarda, sceglie, pensa, si muove, si avvicina, si allontana, impara e forma il proprio sguardo e il gusto critico.

Ad oggi abbiamo a disposizione una programmazione ricca, gratuita ed eccessivamente presente sui social network, che rende indispensabile una creazione e una ricerca di tavoli di confronto e di studio. A tal proposito abbiamo intervistato l’artista Angelica De Rosa e lo storico dell’arte Marco Peri, che ci hanno offerto un curioso spaccato di spunti e riflessioni sull’arte e sulla didattica.

Angelica De Rosa è una giovane artista di 29 anni, che lavora a Milano e si dedica alla realizzazione di suggestive opere nelle quali insegue l’elemento sonoro e sensibile creando un’indagine evocativa che spazia tra corpo e mente, tra udito e vista, tra il percepito realmente e il “potenzialmente” percepibile. La sua arte si basa sul concetto di contatto, di volta in volta studiato attraverso diverse forme e tecniche artistiche, quali la pittura, la scultura, i video e la performance.

Angelica De Rosa
Angelica De Rosa. Ogni diritto è riservato.

L’artista, guardando al presente senza perdere di vista il futuro, vede nella tecnologia «un gigante dalle enormi falcate» che «porta ad un appiattimento del valore artistico, che scardina, a suo favore, l’armonia di valori che compongono un’opera d’arte.»

Il valore e il funzionale apporto della tecnologia al mondo dell’arte ad oggi sono indiscutibili. Ciò non toglie che, secondo l’artista, bisogna farne un uso moderato e specifico, che non vada a intaccare «il delicato equilibrio tra filosofia, poesia, esperienza sensoriale, valenza estetica, matericità e tecnica, che è ciò che genera la produzione artistica.» De Rosa infatti sottolinea che «la magia dell’arte sta nel saper creare uno spazio che favorisca l’incontro tra l’intimità dell’artista e l’intimità del fruitore. Da ciò che accade in quell’incontro si sperimenta cosa sia l’arte.»

L’arte è un’esperienza estetica che amplia e confonde i sensi, in cui fruitore e artista dialogano fra loro. È sempre più necessario preservare la sua forza magica, la straordinaria capacità comunicativa che permette a tutti di avvicinarsi, comprenderla e con divertimento sperimentarla. Di certo il legame che insiste con la tecnologia e il mondo digitale deve, come spiega la giovane artista, «essere in funzione dell’arte. Che la tecnologia possa servire l’arte e non esserne il fine.» Non bisogna confondere le due distinte realtà: si deve trovare un equilibrio di forme e strumenti, un’armonia di cultura e comunicazione.

Marco Peri, storico dell’arte che da anni si dedica all’educazione museale e nel 2018 ha ricevuto il Marsh Awards for Excellence in Gallery Education, che premia le eccellenze in questo campo, ci ha parlato della didattica museale e del ruolo dei musei nel futuro.

Marco Peri
Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

«Come cambierà la didattica dell’arte tra 10 anni? Questa è una domanda da libro dei sogni. Il mio auspicio per il futuro è che l’arte possa diventare non solo una presenza ma il fondamento di ogni curriculum formativo. È tempo per un cambio di prospettiva, che sposti l’attenzione dalle qualità degli artefatti ai processi cognitivi e sociali che attraverso l’arte si possono generare. Didattica dell’arte dovrebbe significare educare con arte, cioè considerare l’arte come mezzo e non come fine, uno strumento trasformativo per guardare alla vita e alla realtà. Attualmente le arti hanno un ruolo marginale nei percorsi educativi, ma sono convinto che la musica, il teatro, la poesia, le arti visive, siano strumenti di conoscenza essenziali per sviluppare pienamente le proprie risorse. Il contributo delle arti per la crescita individuale rappresenta un’opportunità di valore aggiunto per generare la conoscenza e la fiducia per immaginare consapevolmente il futuro.»

Ancor più oggi diventa indispensabile capire come l’arte e la sua didattica dovrebbero essere considerate un fondamento imprescindibile per tutti in quanto permettono di imparare e formare il pubblico in modo semplice, diretto e multidisciplinare. Se la didattica può iniziare un percorso di ri-scoperta il ruolo del museo in futuro come sarà? E il suo ruolo nell’educazione culturale?

«Credo che il museo contemporaneo sia un formidabile spazio di relazione, in futuro l’istituzione dovrebbe ambire ad essere sempre di più uno spazio di ricerca sociale democratico e libero», continua Marco. «Tra le istituzioni culturali del nostro tempo, il museo è probabilmente la realtà più promettente nella quale costruire una cultura condivisa. Nel museo si possono esplorare una pluralità di temi insieme a un pubblico ampio ed eterogeneo, dalle famiglie, al mondo della scuola e così via interagendo con tutta la società. In questo senso il museo potrebbe essere un contesto per costruire nuovi modelli di vivere sociale. Non solo un luogo conservativo ma soprattutto un luogo trasformativo che agisce con consapevolezza il proprio ruolo educativo per la società, un laboratorio di idee e di futuro.»

Il museo oggi è un luogo di relazioni umane e di conoscenze condivise, che proprio a partire da questa quarantena può iniziare a sviluppare e approfondire le sue capacità di trasformazione e versatilità: può dedicarsi a pubblici più ampi, trattare temi sempre differenti, diventare luogo di connessione tra le istituzioni universitarie e scolastiche e le realtà cooperative ed associative del territorio, oltre a poter trasformarsi in un centro di ricerca ed elaborazione di buone pratiche di vita. Come evolverà però nel suo rapporto cruciale con il digitale?

Esperienze Di Attività Con Marco Peri

«Questi ultimi mesi», riflette lo storico dell’arte Peri, «in cui i musei sono rimasti chiusi e il distanziamento ci ha impedito di vivere le relazioni in presenza, ci hanno dimostrato le infinite opportunità del mondo digitale.» Misurandoci «con altre modalità di fruizione, divulgazione e creazione di contenuti», continua, abbiamo dovuto anche riconoscere una certa «impreparazione nel gestire le opportunità offerte da questi strumenti.» Investire «intelligenza e creatività» in questo settore, può permetterci di «generare nuovi contenuti di valore», approfittando «del valore aggiunto delle nuove tecnologie come strumento di accessibilità universale e inclusione sociale.»

 

Immagine di copertina e ultima immagine di questo articolo: esperienza di attività culturali assieme allo storico dell’arte Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

“Purity” di Jonathan Franzen

Jonathan Franzen, autore dei celebri romanzi Le correzioni (2002), Libertà (2010) e del più recente Purity (2015), è sicuramente uno degli scrittori contemporanei più rappresentativi della letteratura americana degli ultimi anni, tanto da guadagnarsi la copertina della rivista Time col titolo di “grande romanziere americano”. Franzen è infatti un eccellente osservatore delle minuzie che compongono la vita dell’americano medio e in particolare delle complessità che caratterizzano le sue relazioni familiari. Uno degli elementi centrali dei suoi romanzi è il senso di colpa dovuto all’incapacità di essere all’altezza delle aspettative della propria famiglia. Questo è evidente tanto nei figli di Enid e Alfred Lambert ne Le correzioni, quanto nella relazione tra il personaggio principale di Purity, Pip, e sua madre.

La copertina di "Purity" di Jonathan Frazen, Einaudi, 2016.
La copertina di “Purity” di Jonathan Frazen, Einaudi, 2016.

Malgrado le analogie con i precedenti romanzi, con Purity Franzen sembra tuttavia voler andare oltre e delinea una storia dai complicati intrecci. Pip, che convive con un’alternativa famiglia di emarginati e inquilini abusivi, è alla ricerca di suo padre, di cui la madre rifiuta da sempre di rivelare l’identità, limitandosi a definirlo la causa della sua disperata infelicità. La ricerca di Pip, che è il motore che avvia la trama del romanzo, la conduce prima a lavorare per il Sunlight Project, una specie di Wikileaks estremista con sede in Bolivia guidato dal carismatico Andreas Wolf, e poi a Denver per prendere parte a un progetto giornalistico volto a denunciare il furto di una testata nucleare. Tale ricerca potrebbe a prima vista far pensare a un romanzo sull’educazione sentimentale e sessuale di una giovane donna inesperta alle prese con la dura realtà del XXI secolo – una sorta di Grandi Speranze moderno, di cui peraltro il nome di Pip e altri dettagli sono evidenti citazioni. All’interno di questa tradizione, però, Franzen riesce come al solito a rappresentare la contemporaneità americana, soffermandosi sull’ossessione per la trasparenza e la connettività assolute nell’era di Internet. Se il senso di colpa era al centro dei personaggi fragili del Le Correzioni, e l’ideologia della libertà sconfinata aveva creato un disastro educativo per un’intera generazione di ex ragazzi in Libertà, in Purity è l’idolo della trasparenza ad ogni costo a mietere vittime.

Attraverso il personaggio di Andreas Wolf, Franzen paragona la cultura di sorveglianza della Stasi, il Ministero della Sicurezza Sovietica della Germania dell’Est, con quella del web. Man mano che procede nei suoi sforzi di denunciare i mali della corruzione mondiale, Andreas trova sempre più analogie tra i due sistemi: «Come i vecchi politburo, anche quello nuovo [del web] si vantava di essere nemico delle élite e amico delle masse, impegnato a dare ai consumatori ciò che volevano, ma ad Andreas […] sembrava che Internet fosse governato più che altro dalla paura: la paura di essere impopolari e sfigati, la paura di rimanere esclusi, la paura di venire insultati e dimenticati». Da entrambi i sistemi inoltre «non era possibile uscire»; «l’assioma, per entrambi, era che stava emergendo una nuova specie di umanità […]. Non sembravano infastiditi dal fatto che le élite di potere erano costituite dalla vecchia specie di umanità, avida e brutale». L’opinione di Andreas è espressione della critica di Franzen stesso nei confronti degli effetti incontrollati di Internet e della tecnologia. Come ha spiegato in un’intervista al Guardian, «la tecnologia stessa è la Stasi […]. E la Stasi non aveva bisogno in realtà di fare granché […] contava sul fatto che le persone si autocensurassero. E controllassero il loro comportamento per paura della Stasi, senza il bisogno che questa alzasse un dito».

Franzen sulla spiaggia nei pressi della sua abitazione a Santa Cruz, California (Morgan Rachel Levy/Guardian)
Franzen sulla spiaggia nei pressi della sua abitazione a Santa Cruz, California (Morgan Rachel Levy/Guardian)

 Nonostante la ricerca della trasparenza e della “purezza” sia essenziale per tutti i personaggi, questo è un romanzo di segreti, manipolazioni e bugie. Ai personaggi di Purity non piace come va il mondo, lo vorrebbero cambiare radicalmente, purificarlo appunto, ma poi sono loro stessi i primi a sbagliare in continuazione, ad ingannare e produrre dolore senza nemmeno rendersene conto. Sebbene i protagonisti aspirino quindi all’ideale americano di essere artefici del proprio destino, essi sono in realtà soggiogati dai propri sensi di colpa e prigionieri delle conseguenze involontarie del loro passato e della vita in cui sono capitati di nascere.

Purity è dunque un romanzo di formazione distorto, che tratta delle inquietudini e dei paradossi non solo americani, ma dell’intera contemporaneità.

Combattere la noia è l’arte del pendolare

Quest’anno riprendo l’università. Ed inesorabile riprende la mia vita da pendolare.

Abitando in un paesino alle pendici di quella che si definisce alta valle e dovendo raggiungere la grande metropoli capoluogo lombardo, la scelta di spostarsi con i mezzi pubblici rappresenta una sfida che vuole una certa preparazione: si tratta complessivamente di un viaggio quotidiano di 8 ore, divise tra andata e ritorno; impegnarle è praticamente un lavoro per cui è bene organizzarsi.

Negli anni ho ormai fatto mia l’arte del pendolare, attitudine del “fuorisedemanontroppo”, prigioniero di un limbo dove non si è degni d’un appartamento, la patente di guida diventa inutilizzabile e le proprie gambe non bastano più. Quantomeno pensavo di averla fatta mia! Ma c’è sempre un giorno in cui l’automatismo delle nostre azioni fallisce; quel giorno, nella vita del pendolare si apre uno spazio per il più temuto nemico: la noia.

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Arrivando alla fermata dell’autobus quando ancora non ha finito di ritirarsi il buio della notte e solo grazie al passaggio di alcuni magnanimi lavoratori su turni, è difficile trovare la forza per abbattersi di fronte all’evidenza che l’iPod (estratto da una borsa sovraccaricata, dopo infinitesimali istanti di ricerche quasi geologiche, in virtù del ritardo dei mezzi) ha la batteria scarica. Poco male: è troppo presto per agitarsi, ma anche per tenere gli occhi aperti; l’arrivo del bus è accolto da me e dai pochi miei compagni d’attesa come fossimo a fine giornata, all’ora del meritato riposo. Finalmente si dorme!

Il risveglio è un vero e proprio trauma: ancora non è giorno e noi a occhi chiusi, come bestiame al pascolo, ci seguiamo dall’autobus al tram. Inizio a svegliarmi quel tanto per aver la forza di stupirmi ancora una volta del fatto che, fossimo tra fine ‘800 e inizio ‘900, non dovrei darmi la pena né di svegliarmi per attraversare a piedi la strada e cambiar mezzo né tantomeno di calcolare i minuti di ritardo che l’autista dell’autobus non potrà evitare sulla strada provinciale. Prima dell’era del petrolio, due tram attraversavano le valli bergamasche per raggiungere il capoluogo provinciale; così come altre infrastrutture italiane, sono state dismesse negli anni ‘50 per far spazio ad automobili e cemento ed ora le si vorrebbe indietro.

Affronto il troncone di ferrovia ricostruito nel 2009 tentando invano di riprender sonno e fissando invidiosamente gli altri passeggeri: quasi tutti assorti nella musica che passa dagli auricolari, molti a occhi chiusi, qualcuno concentrato sul telefono, probabilmente in qualche social network. Mi preparo per la prossima ora di treno, cercando nella borsa un libro da leggere, ma ancora una volta la fortuna non mi assiste: sul mio comodino sono rimasti sia il romanzo che cercavo sia il libro di testo che sto studiando. Ho con me solo testi da riconsegnare e appunti già ripassati.

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Per il resto del tragitto, la mia unica attrazione sono gli altri viaggiatori.

Quasi tutti dispongono di un mezzo tecnologico, la maggior parte di uno smartphone, alcuni di un portatile; sprovvista di un telefono munito di connessione internet, a quest’ora del mattino mi sento esclusa dal mondo, che sembra essersi spostato nella dimensione virtuale. Tento di spiare gli schermi attorno a me: Candy Crush Saga regna sovrano; mi tornano alla mente i Polly Pocket e i Mini Pony dei viaggi per il mare con mamma nei primi anni ’90: i colori e le forme sono ancora gli stessi, rimasti immutati nel passare del tempo e delle evoluzioni tecnologiche. Al tempo, i genitori compravano i Tamagotchi, i primi diari elettronici, i Gameboy per i figli; oggi genitori e figli stringono alleanze, si regalano frutta, si scambiano vite in forma virtuale.

Ancora stretto il legame tra tecnologia e informazione: le notizie fioccano tra i pixel, s’ingrandiscono sotto i polpastrelli. Qualcuno ancora sfoglia i giornali, per lo più approfittando pigramente dei fogli lasciati agli ingressi delle stazioni, ma la maggior parte dei pendolari si affida alla rete e velocemente scorre da un contenuto all’altro.

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Ultima tappa: metropolitana milanese.

La capitale dell’industria non delude e mi regala immagini di pura attualità: uomini e donne in carriera si tuffano nei treni avvolti da cuffie insonorizzanti, discutendo dentro microfoni invisibili, gesticolando su multitouch screen, sfogliando pagine letterarie su opachi kindle.

Stretto tra loro, un giovane universitario si mantiene perfettamente in equilibrio al centro del corridoio, stringendo tra le mani un libro su cui spicca il sigillo della biblioteca. Questa è la vera arte del pendolare.

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