Camminare per la città e rintracciare un luogo in cui il verde nasca e si sviluppi in libertà, senza costrizioni, senza vasi né cartellini a catalogarlo, può essere un esercizio difficile.
Tuttavia, anche se ormai, negli spazi in cui viviamo, non esiste un luogo in cui la natura cresca liberamente, la presenza di parchi è comunque una cosa positiva: trovare un posto, nel contesto urbano a cui siamo abituati, che ci estranei, significa prendersi una pausa fisica dalla quotidianità e trovare una quiete che solo la natura, anche quando artefatta, è capace di dare.
KUMA è un viaggio. KUMA sono tre menti e tre strumenti. KUMA è una chimera: un po’ leone, un po’ capra e un po’ serpente. KUMA è suono, musica e rumore.
«Bergamo, sala prove adibita a studio, tre elementi in una stanza iniziano a suonare. Partendo dall’improvvisazione di groove, affiancando psichedelia e noise la band trova un sound concreto, di impronta sperimentale, caratterizzato dall’esigenza di uscire dai canoni tradizionali del Rock», queste le prime parole di Nicola Gualandris durante la nostra intervista. Oltre a lui, la sua chitarra e il suo orecchio sensibile, altri due musicisti, attivi ormai da anni nel panorama underground della musica italiana, contribuiscono alla nascita di questo nuovo progetto musicale. Mauro Galbiati alla chitarra baritona e Jacopo Moriggi alla batteria si sono rinchiusi nella suddetta saletta insieme a Nicola per «una sessione di registrazione di tre giorni e diversi mesi di missaggio con elementi di sound design; così è nato il primo disco: CHAPTER ONE». Questo è il primo lavoro autoprodotto della band, in uscita a marzo 2016, a cui seguirà un tour di promozione. (link)
La “voglia di rimettersi in carreggiata” nella realtà musicale circostante, l’esigenza (dopo tanta musica fatta e sentita) di creare un progetto sperimentale, porta all’idea di costruire le canzoni su dei suoni particolari, ed è a questo punto che entra in gioco l’orecchio di Nicola. Da sound designer con una grande sensibilità, in questi anni ha portato avanti un grosso lavoro di registrazione e campionatura di suoni incontrati nei suoi viaggi intorno al mondo.
«Un giorno stavo riascoltando dei suoni che avevo registrato nella savana africana e mi sono detto: Cavolo! Perché non ricostruire l’ambiente sonoro che ho sentito e visto per abbinarlo a degli strumenti acustici, esaltandone le emozioni e le maestosità di quei esseri giganteschi, feroci e pacati?! Allora ho iniziato a stendere varie tracce ricostruendo pian piano l’ambiente sonoro dell’Africa. Poi ho messo in play facendole scorrere nel tempo, ho preso la chitarra e ho iniziato a suonare. Tutto quello che avevo dentro, ciò che mi aveva regalato quell’esperienza di suoni, lo stavo esprimendo attraverso uno strumento musicale e le registrazioni catturate durante il viaggio».
Chiaro che il lavoro e l’esperienza hanno influito molto sul prodotto finale di KUMA infatti, la maggior parte dei brani sono stati ricostruiti, a livello sonoro, seguendo le procedure del lavoro di sonorizzazione che si usano, per esempio nella creazione di video e di cortometraggi. Sono stati usati gli stessi strumenti e lo stesso approccio.
Al momento il disco master è stato mandato in stampa. Pensato come una sorta di viaggio continuo, le varie tracce sono unite dal suono di un ruscello: un effetto di riposo e di continuità che accompagna il moto musicale e sonoro. CHAPTER ONE è un’esperienza d’ascolto che unisce musica e rumore, è la savana, un treno, una città, un signore che russa, una bicicletta che passa sopra un arpeggio blues. Un processo di interazione tra suoni reali e schemi musicali che portano la natura stessa ad essere musica, ad essere suono umanamente organizzato.
Attraversare la California on the road è sicuramente una di quelle esperienze immancabili nel curriculum ideale di un viaggiatore e lo è in modo particolare quando si viaggia con una macchina fotografica. È l’esperienza che hanno fatto quest’estate Giulia e Alice, conosciutesi qualche anno fa proprio grazie alla passione comune per la fotografia e diventate, viaggio dopo viaggio, grandi amiche. Entrambe studentesse, Alice a Milano e Giulia a Edimburgo, hanno trovato il modo di incontrarsi visitando insieme diverse città europee. Quest’estate sono riuscite ad allargare le loro rotte e conquistare una meta che era tra i sogni di entrambe: la California.
In due settimane hanno viaggiato sulle strade californiane in compagnia di Henry, un amico americano che le ha ospitate nella loro prima tappa a Los Angeles e ha poi proseguito con loro il roadtrip fino a San Francisco, la meta finale. Lungo il viaggio hanno sostato in diverse città, ma hanno anche incontrato la natura americana: dalla mattinata spesa a conoscere San Diego, fino a vedere il confine col Messico; spostandosi a Mission Bay per un’uscita in barca, per poi raggiungere Jade Cove, una località nella regione del Big Sur famosa per la presenza di leoni marini. A Santa Barbara hanno visitato il Karpeles Manuscript Library Museum, la più grande collezione privata di documenti e manoscritti originali, e han poi percorso la costa fino a giungere a Hearst Castle, un palazzo sulle colline che si affaccia sull’Oceano Pacifico.
Tra tutte le tappe e i luoghi visitati, il più interessante fotograficamente è senza dubbio il Parco nazionale di Yosemite: un’area naturale protetta che copre un’estensione di oltre 3000 km quadrati e arriva a raggiungere la catena montuosa della Sierra Nevada. Nel 1984 è entrato a far parte del Patrimonio dell’Unesco per la sua ricchezza naturale, fatta di cime granitiche, cascate, enormi sequoie e un’incredibile biodiversità. Nella storia della fotografia, questo Parco nazionale è stato il soggetto degli obiettivi di molti grandi fotografi: primo tra tutti l’americano Ansel Adams, che proprio a Yosemite contribuì a porre le basi della straight photography, una fotografia diretta ed estremamente oggettiva, e rese artisticamente celebre l’imponenza della natura di questo Parco. Giulia e Alice descrivono così il posto nello Yosemite che più di tutti le ha colpite: «Taft Point – l’alto promontorio che permette una vista panoramica del Parco – è il posto più mind-blowing che abbiamo visto: essere letteralmente ad un passo dal vuoto più totale dà i brividi e un senso di libertà incredibile». Yosemite continua ad essere, comprensibilmente, un cliché per la fotografia. Alice racconta di aver per un po’ rubato il posto ad un gruppo di fotografi durante uno shooting ad una coppia di sposi: «Quando siamo tornate a casa, li ho cercati su internet e ho scoperto che erano tra i fotografi di matrimonio più famosi al mondo».
Lasciato il Parco, lungo il loro tragitto, Alice e Giulia hanno incontrato diversi altri spettacoli naturali tipicamente americani: Lake Tahoe, ad esempio, un grande lago di acqua dolce tra le montagne della Sierra Nevada; o Point Reyes, famoso promontorio nord della costa californiana. Tappa finale la città di San Francisco, la metropoli più ecofriendly d’America.
Creare con l’ambiente circostante, questa è l’essenza della Land art: non una superficie da dipingere, né un blocco di marmo da scolpire, ma lo spazio stesso in cui viviamo è la tela privilegiata dai protagonisti di questo movimento nato alla fine degli anni sessanta negli Stati Uniti. Le opere realizzate partono sempre dall’intervento dell’uomo, che si pone in dialogo con gli elementi naturali di un luogo cercando di realizzare qualcosa che sia in armonia con il contesto; molto sentita infatti è la vicinanza alla causa ecologista, oltre ad un generale rifiuto per l’esasperata esaltazione del progresso tecnologico celebrato da movimenti come la Pop art. Questa attenzione nei confronti della natura e del paesaggio nasconde una silenziosa protesta verso la civiltà occidentale: questa sventra la “madre terra” arrogandosi diritti che non le appartengono, come un tiranno che spadroneggia senza limiti e non entra in rapporto simbiotico con l’ambiente. Altro fattore importante è il tempo, creatore fondamentale quanto l’artista, sia che si tratti di quello circolare, vale a dire l’eterno alternarsi delle stagioni, sia che si tratti del succedersi dei cambiamenti climatici. Il tempo modifica il paesaggio e le opere, fortemente inserite nel contesto naturalistico, sono irrimediabilmente soggette a questo cambiamento.
Per chiarire meglio quanto detto non resta che citare un paio di esempi; primo tra tutti, la Spiral Jetty di Robert Smithson. Realizzata sulla sponda del Great Salt Lake, l’opera consiste in una sottile lingua di roccia e terra che si distende sulle acque avvolgendosi su se stessa creando un legame tra acqua e terra; esposta all’azione erosiva degli agenti atmosferici, essa muta il suo aspetto in continuazione durante l’anno.
Robert Smithson, “The Spiral Jetty”, Great Lake, 1970
Altro riferimento d’obbligo a The Lightning Field di Walter de Maria, un campo nel deserto del New Mexico dove sono installati pali metallici che attirano i fulmini dei frequenti temporali che si verificano nella zona, creando uno spettacolo tanto terribile quanto affascinante e irripetibile.
Walter de Maria, “The Lightning Field”, Catron County (New Mexico), 1977
Negli ultimi mesi è però un altro il nome che occupa le pagine dei giornali, quello di Christo; il suo ambizioso progetto, The Floating Piers, prevede la costruzione di una temporanea passerella sul lago d’Iseo che collegherà Montisola alla terraferma. L’artista, che per anni ha collaborato con la ormai scomparsa moglie Jeanne-Claude, è noto per le originali performance in cui interi palazzi e monumenti sono stati letteralmente impacchettati per nasconderli alla vista dei passanti, mostrandoci quanto anche oggetti e visioni apparentemente scontate, a cui siamo abituati, improvvisamente diventino importanti nel momento in cui ne siamo privati.
Christo and Jeanne-Claude, “The Pont Neuf Wrapped”, Parigi, 1975-1985
Quello che l’artista sta realizzando non è una semplice opera architettonica, un ponte gettato tra una sponda e l’altra, bensì un percorso per portare i visitatori in una nuova dimensione, concentrandosi sulla valorizzazione dello spazio. The Floating Piers non si discosta molto dalla produzione dell’artista; egli non copre il lago con un telone, sarebbe impensabile, ma trova il modo di ribadire questa presenza attraverso una via nuova, che non nasconde ma rivela: l’uomo potrà spostarsi sull’acqua, esplorando con le proprie gambe un “territorio” dove prima era impossibile andare. Camminando sul pelo dell’acqua riscopriremo un luogo di cui forse ci eravamo dimenticati.
“The Floating Piers”, il nuovo progetto di Christo
In copertina: Robert Smithson, Broken Circle, Paesi Bassi (1971-2011)
The term “eco-city” seems like the combination of two words that couldn’t be more unrelated to each other. Cities as we know them are far from being ecological: grey sky, polluted water and rare green spaces definitely do not match “ecological” definition on the dictionary. Add to the equation the word “Chinese” too and you get what sounds like a plain and simple oxymoron. The air in nearly all of China’s cities is harmful to breathe, half the drinking water is below international standards, and 20 to 40 percent of the arable soil is contaminated with toxins. However, Chinese eco-cities are a thing – at least on paper.
According to a 2009 World Bank report, China has launched over 100 eco-city projects in the last decade, more than any other country worldwide. These initiatives are part of Beijing efforts to tackle two of the most prominent of Chinese environmental issues – heavy pollution and uncontrolled urbanization. Once completed, the eco-cities should run on renewable energy, recycle their water and waste, have resource-efficient buildings and extensive public transportation networks.
Rendering of Dongtan eco-city (Yale University/Arup)
Unfortunately, most of these projects will probably never see the light of day. The most (in)famous cases are Dongtan and Huangbaiyu projects. The former should have transformed an uninhabited grassy island nearShanghai into a visionary and futuristic city, housing up to half a million people. According to the original timetable, the first phase of construction was to be completed by the Shanghai Expo in 2010, thus allowing the municipality to show its commitment to a green future. Today, almost nothing has been built and the only construction that stands out is a visitor centre that is now shut.
Another failure was the Huangbaiyu project, which aimed at transforming a small village in North East province of Liaoning into a energy-efficient community. Although it managed to complete 42 homes by 2006, only a handful of these were built with the highly touted “ecological bricks”, made in special hay and pressed-earth. Besides, most of the houses remained empty, as cost overruns made the homes unaffordable to many villagers. In other instances, the farmers refused to live in them because the yards weren’t large enough to raise animals. On the plus side, the houses were built with a garage, although most of the villagers don’t own a car.
Both the eco cities were designed by internationally renowned foreign architectural firms and the launch of the projects had been widely covered by international media. So why did these plans not come to fruition? In the case of Dongtan, firstly it wasn’t clear whether the project was to be funded by Chinese government or by the foreign firms who designed it, so the construction came to a standstill. Secondly, the political leaders who championed the plan were ousted in a corruption scandal and the project definitely stalled. In the case of Huangbaiyu, on one hand there was a lack of oversight: no one ensured the plans on paper could be effectively translated into projects on the ground; on the other hand, the eco-city didn’t adapt to local circumstances and needs, resulting unappealing to the village community.
Rendering of Tianjin eco-city (http://www.tianjinecocity.gov.sg/)
Despite the failure of these first attempts, not all of Chinese eco-cities seemed to be destined to encounter the same fate. Standing out among the multitude of eco-city proposals is the Sino-Singapore Tianjin Eco-city project, which seems to have learned some lessons from the mistakes of its predecessors. The plan, resulting from a partnership between the Singapore government and Tianjin local government, looks promising for different reasons. On one hand, the position is highly strategical: located within the fast growing economic hub of Tianjin Binhai New Area, some 40 km away from Tianjin city center and 170 km from Beijing, it is more likely to attract further investments. On the other hand, the project is funded by both sources and is expected to have significant economic returns, making a greater level of supervision and follow-through more likely. In order to encourage people to move there, government and investors’ incentives made rents and other services, such as school tuition costs, much cheaper than in central Tianjin. On paper, the plan seems overall to be proving successful so far: the first goal set by the developers – to cover 3 sqm by 2013 – has been met and the buildings comply with the world’s most stringent green architectural standards. Unfortunately, despite all the efforts, they stand mostly empty and unused. The problem probably lies in the project of building a whole new city from scratch rather than letting it develop organically: it may work on the drawing board, but it’s harder to actually implement it. At present, Tianjin eco-city doesn’t have any hospitals, many storefronts on its main shopping plaza stand empty and most viable employers are at least half an hour away by car. Construction is everywhere, but the people are scarce.
If Tianjin eco-city doesn’t manage to attract more inhabitants in the next few years, its fate may be the same as Dongtan’s and Huangbaiyu’s: a bold futuristic vision that couldn’t translate into reality. There is still hope – the project didn’t stall and it’s still building after all – but chances are that “Chinese eco-city” may just remain a fascinating oxymoron and nothing more.
Model of Tianjin eco-city (The Guardian/Allison Jackson/AFP/Getty Images)
Special thanks to Elena Bigardi, author of the thesis “Sviluppo urbano nelle economie emergenti in Cina e in Brasile. Il caso delle eco-cities”.
Cover photo: “Dongtan Eco-City urban concept”, Lafarge Holcim Foundation
In tempi in cui l’ecosostenibilità è diventata un’esigenza più che una tendenza, il mondo è alla disperata ricerca di nuove soluzioni rispettose dell’ambiente e in grado di evitare sprechi energetici. Sebbene il progresso sia una delle cause intrinseche degli attuali problemi ambientali, il progresso stesso può e deve escogitare soluzioni environmental-friendly. L’innovazione green deve iniziare dalle nostre case, diventare protagonista del nostro quotidiano. Solo così il cambiamento positivo può avere una speranza concreta di prendere piede e generare una vera e propria rivoluzione nel modo dell’uomo di rapportarsi all’ambiente.
Già da tempo l’architettura è consapevole delle potenzialità di una progettazione ecosostenibile nella lotta comune a favore dell’ambiente. È infatti nel 1988 che nasce il protocollo Passivhaus, dalla collaborazione tra lo svedese Bo Adamson e il tedesco Wolfgang Feist. I due architetti, finanziati in parte dalla Repubblica Federale Tedesca, ebbero la possibilità di realizzare delle Passivhaus, “case passive”, che fino ad allora avevano rappresentato solamente un’idea, un concetto puramente teorico, seppure interessante.
Ma che cosa è una casa passiva? Una casa passiva è un edificio in grado di coprire la maggior parte del fabbisogno energetico per il riscaldamento o raffrescamento ambientale interno mediante l’utilizzo di dispositivi passivi. In altre parole, un edificio passivo non ricorre ad impianti termici tradizionali, poiché è in grado di mantenere un’adeguata temperatura al suo interno senza impiegare energia, o utilizzandone una quantità minima. Le case passive sono quindi quasi totalmente autosufficienti e capaci addirittura di produrre ed accumulare un surplus energetico convertibile anche in energia elettrica, oltre che termica.
Questa definizione trova una dimostrazione tangibile nel primo esemplare di Passivhaus realizzato nel 1991 da Feist a Darmstadt, in Germania. Le quattro villette a schiera progettate secondo il protocollo Passivhaus sono tuttora attive e consumano soltanto 10 kWh al metro quadrato, una cifra davvero irrisoria. Alla base del progetto di Wolfgang Feist c’è la semplice ma fondamentale intuizione che tutto possa produrre calore in una casa, dal sole alle persone che ci vivono fino agli elettrodomestici. E il successo di questa intuizione è dovuto non solo all’evidente risparmio energetico ed economico, ma anche alla spendibilità del progetto: potenzialmente tutti gli edifici possono diventare passivi.
Quali sono gli strumenti e le caratteristiche della Passivhaus? Contrariamente a quanto si possa credere, non ci sono particolari vincoli sul materiale in cui debbano essere costruite le case passive: legno strutturale, cemento armato o mattoni possono egualmente essere i materiali di costruzione di una casa ecosostenibile ed autosufficiente dal punto di vista energetico. L’architettura passiva sfrutta le proprietà intrinseche di ciascun materiale, essendo a conoscenza della capacità di ciascuno di accumulare e rilasciare calore. Pannelli solari, pompe di calore, serbatoi d’acqua e strati di materiali diversi a costituire le pareti: questa la chiave del funzionamento delle case passive. Sfruttando dunque le energie rinnovabili questo tipo di architettura promuove l’armonia fra uomo e ambiente, dimostrando che una maggiore conoscenza della natura e delle materie prime può rappresentare un vantaggio per gli esseri umani senza tuttavia implicare per forza uno sfruttamento delle risorse.
Come si è evoluto il sistema della Passivhaus dal 1991? Dalle villette di Darmstadt è stata fatta molta strada, afferma Feist, che oggi dirige il Passive House Institute and International Passive House Association. Nel 2013 erano 50.000 gli edifici costruiti secondo gli standard della casa passiva. E non sono soltanto unità residenziali: uffici, scuole, palestre, alberghi, supermercati e piscine sono stati costruiti secondo i parametri ecosostenibili e a risparmio energetico. Anche i confini geografici non rappresentano un limite alla Passivhaus, i cui principi fanno sì che il modello possa funzionare in qualsiasi condizione climatica. Così scrive infatti Feist: «dieci candeline o perfino il calore corporeo di quattro persone sarebbero sufficienti per riscaldare una casa passiva di 20 metri quadri in pieno inverno, anche in zone dal clima particolarmente freddo».
La casa passiva è quindi qualcosa di vero, efficace e fattibile, senza limiti apparenti. Tuttavia attualmente questi edifici sono diffusi principalmente in Germania, Austria, Paesi Bassi e altri paesi del Nord Europa. Anche in Italia esiste un numero piuttosto significativo di esperienze simili. Tuttavia a livello normativo vi è ancora molta strada da percorrere prima che questo brillante modello di architettura ed edilizia rispettosa dell’ambiente diventi davvero lo standard delle costruzioni del presente e del futuro. L’Austria finora sembra essere il modello da cui prendere esempio: dal 2015 la casa passiva è lo standard prescritto per tutti gli edifici, senza considerare che già dal 2007 questo standard era stato reso obbligatorio nella regione austriaca del Vorarlberg. La speranza è che la diffusione della Passivhaus e la sua innegabile efficienza ci convincano ad essere più lungimiranti quando si tratta di energia e soprattutto che l’uomo capisca veramente gli indubbi vantaggi del saper vivere in armonia con l’ambiente.