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Confessioni di una viaggiatrice in solitaria

Quando parlo con qualcuno dei miei viaggi da sola, mi imbatto spesso in due tipi di reazioni: il sospetto mascherato da preoccupazione (“Sola? Ma sei pazza? Non hai paura?”) o l’ammirazione per il mio “coraggio” (“Sola? Ti ammiro un sacco, sei davvero coraggiosa!”). Queste reazioni mi fanno sorridere, perché non credo di essere un’incosciente, né tanto meno un’eroina, solo perché mi reco in viaggio in qualche luogo perfettamente sicuro senza avere compagnia.

La verità è che viaggio (anche) da sola semplicemente perché mi piace ed è un’esperienza diversa dal viaggiare in compagnia. Dal lato pratico, infatti, viaggiare sola mi permette innanzitutto di non dover dipendere dalla disponibilità altrui per partire. Quante volte avete sentito le parole “Verrei volentieri, ma non ho ferie/soldi/tempo, ecc.”? Tutte motivazioni legittime e sensate, ma se voi avete la voglia e la possibilità di viaggiare è un peccato non approfittarne solo perché in quel momento nessuno può partire con voi.

La mia lezione di cucina coreana a Seoul.

Inoltre, essere sola mi consente di organizzare il viaggio in maniera perfettamente aderente alle mie esigenze e ai miei interessi, senza dover scendere a compromessi. Ad esempio, essendo io una vera e propria foodie, in ogni viaggio dedico sempre tempo e risorse a ricercare del buon cibo locale, che si tratti di street food o piatti più ricercati in ristoranti del posto. Siccome quando viaggio in compagnia non è sempre detto che gli altri condividano questa mia ossessione (che si prende anche una buona parte del mio budget), viaggiare da sola è un ottimo modo per dare libero sfogo alla mia passione. Partecipare a una lezione di cucina coreana a Seoul, gustare deliziosi spiedini di pesce in riva al Mar Giallo a Qingdao (Cina) o seguire un mini-corso sullo jamon hiberico a Madrid sono tra le esperienze dei miei viaggi in solitaria che più mi hanno entusiasmata e che non esiterei a ripetere. E quello che è il cibo per me, può essere l’arte, le spa o la corsa per qualcun altro. Ciò che conta è che si tratta di tempo solo vostro e potete dedicarlo a ciò che più vi piace senza compromessi.

Oltre a questi aspetti “pratici”, tuttavia, viaggiare da sola mi ha insegnato moltissimo su me stessa, su cosa amo davvero fare nel mio tempo libero e quali sono i miei ritmi e i miei limiti. Il mio primo viaggio da sola è stato a 22 anni durante il mio periodo di studi in Cina, quando, durante le vacanze estive, ho deciso di recarmi nello Shandong, una provincia non troppo distante da Pechino, sicura e facile da girare. I primi giorni sono stati terribili. Avevo stilato un programma di tutte le cose che volevo fare e vedere e mi ci attenevo rigorosamente. Non importa quanto fossi stanca, quanto magari quel tempio in particolare non mi facesse impazzire o quanto quel museo mi risultasse noioso, mi sentivo in dovere di vedere ed esplorare tutto, senza perdere del tempo prezioso in attività futili come riposarmi o passeggiare. Dopo qualche giorno, ho realizzato che non mi stavo divertendo per nulla e che più che un viaggio mi sembrava una missione per completare la mia check list. Ho iniziato a chiedermi che cosa mi andava davvero di fare quel giorno: volevo recarmi in visita a quel tempio sperduto? Sì? Bene! No? Allora una passeggiata senza meta per la città seguita da uno spuntino di spiedini di pesce e una birra in riva al mare sarebbe stata comunque un’ottima alternativa. Capire che dovevo seguire i miei ritmi è stata una rivelazione e una liberazione, che mi ha aiutata moltissimo anche nei miei viaggi successivi, in compagnia e in solitaria. Durante i miei viaggi da sola, ci sono giorni in cui ho voglia di visitare e vedere tutto e giorni in cui, invece, preferisco concentrarmi su un’attrazione sola per poi passare il tempo a fare people watching o leggere un libro in un caffè. 

Cena a base di enormi molluschi presso il mercato del pesce d Busan, Corea del Sud.

Con questo non voglio dire che viaggiare soli sia tutto rose e fiori. Come in tutti i viaggi, ci sono i momenti no, in cui ci si scontra con inconvenienti più o meno gravi che, quando non si ha nessuno con cui condividerli e affrontarli, possono risultare più difficili e scoraggianti. Allo stesso tempo, tuttavia, riuscire a superare i problemi contando solo sulle proprie forze può anche dare grandi soddisfazioni. Nel corso del mio viaggio in Corea, mi sono slogata una caviglia alla mia seconda tappa cadendo su un sentiero e ammetto che inizialmente ero disperata. Mi sentivo una stupida per essere stata tanto distratta da cadere e credevo di essermi rovinata l’intera vacanza per una sciocchezza. Dopo lo sconforto iniziale, però, mi sono rialzata, ho zoppicato fino alla mia guesthouse, mi sono fasciata la caviglia alla bell’e meglio guardando un tutorial su YouTube e ho iniziato a ripensare il viaggio, cercando attività più fattibili in quelle condizioni. Certo, ho dovuto escludere templi esotici zeppi di gradini e camminate che sicuramente sarebbero stati fantastiche, ma ne ho approfittato per provare esperienze che altrimenti non avrei mai fatto, come andare in una jimjilbang, la tipica spa coreana, passare del tempo a giocare con dei gattini in un cat café, fare lunghe chiacchierate serali sulla situazione della penisola con i gestori e gli ospiti delle guesthouse dove alloggiavo e, infine, rimpinzarmi di molluschi di ogni tipo al mercato del pesce di Busan (ok, forse questo l’avrei fatto comunque…). Nonostante l’inconveniente, quindi, il viaggio è stato un successo e mi ha insegnato che posso cavarmela anche con una caviglia slogata in Corea (e che non devo comprare scarpe con la suola liscia).

Viaggiare è stupendo e poterlo fare sia in compagnia che da soli, a seconda delle mete e delle situazioni, permette di avere accesso a esperienze completamente diverse tra loro, che possono essere ugualmente soddisfacenti in modi differenti. Non è detto che viaggiare da soli piaccia a tutti, ma io consiglio di provarlo almeno una volta nella vita, perché ne uscirete arricchiti e imparerete sicuramente qualcosa, fosse anche a non rifarlo una seconda volta.

 

In copertina: veduta di Gamcheon Village, Busan, Corea del Sud.

Lonely Planet: dalla prima guida underground al successo in tutto il mondo

Chi non ha mai programmato un viaggio con una guida Lonely Planet, o l’ha mai avuta tra le mani sognando posti lontani e sconosciuti? Sicuramente poca gente, visto il numero di lettori nel mondo. E pensare che la Lonely Planet è nata davvero “underground, in sordina…

Pequod ha chiesto a Tiziana Mascarello della Edt, casa editrice italiana di Lonely Planet, di raccontarci tutta la storia, dalla prima guida al successo mondiale.

«Come è nata la Lonely Planet e perché?»

«Lonely Planet nasce negli anni ’70, e la sua storia inizia quando i futuri fondatori, Tony e Maureen Wheeler, partono per un viaggio che da Londra li porta fino a Melbourne, percorrendo tutta l’Asia. In quegli anni si viaggiava ancora poco e in modo abbastanza indipendente: il viaggio era del tipo “fai da te”. Tony e Maureen scrivono la guida dopo aver terminato tutto il viaggio, proprio per incoraggiare le persone che volevano compiere quel tipo di percorso. La loro opinione era “chi fa il viaggio in aereo non sa cosa si perde”, perché avrebbe tralasciato tutta la parte riguardante la conoscenza e il contatto con altre culture. Inoltre, grazie ai loro consigli si sarebbe potuto viaggiare per più mesi con la stessa spesa del viaggio in aereo.

«Tony e Maureen scrivono quindi un libriccino sulla loro esperienza durata un anno, viaggiando con ogni tipo di mezzo: auto acquistate e poi rivendute, traghetti sul Bosforo, autostop. Proprio per fornire dei rudimenti di viaggio e mostrare come ce la si può cavare, rispondendo alle richieste di tante persone che chiedono informazioni, pubblicano Across Asia On The Cheap. Il libro diventa un riferimento e il percorso, in quegli anni dell’epoca hippie, era molto popolare: il Nepal, ad esempio, era la via della droga e della perdizione. Nel libro però passa anche il messaggio che viaggiare “con i piedi per terra” è molto importante per vedere molte cose e fare determinate esperienze. Tony e Maureen capiscono che c’è molta curiosità e bisogno di informazioni pratiche riguardo i viaggi fai da te, e la soddisfano con la loro voglia di viaggiare e trasmettere esperienze.

«È così che la coppia inizia a fare viaggi più approfonditi e dettagliati, soprattutto nel sud-est asiatico, scrivendo ogni volta una guida. Tony e Maureen restano a vivere a Melbourne, dove nasce la casa editrice ora conosciuta in tutto il mondo. Il modo di viaggiare dei fondatori resta sempre lo stesso: è importante informarsi prima, in modo che la scoperta diventi ancora più interessante, ed è fondamentale entrare in contatto con le persone, essere curiosi riguardo alla cultura e alle abitudini locali. Lo stile di viaggio è sempre quello “fai da te” di viaggiatori indipendenti, che in quel periodo utilizzavano qualsiasi mezzo».

Tony e Maureen Wheeler con il loro Across ASIAon the cheap

«Com’è cambiato il pubblico di Lonely Planet dalle prime guide a oggi?»

«Il pubblico si è allargato tantissimo sia perché le persone che viaggiano sono aumentate, sia perché in generale si viaggia di più. Molti di coloro che utilizzano una guida Lonely Planet riconoscono che il viaggio è terapeutico ma anche la guida stessa lo è. Averla infatti costituisce di per sé un’idea di viaggio, e dà conforto perché è una sorta di evasione dal quotidiano, oltre a dare la possibilità di iniziare a conoscere i luoghi che si andranno poi a visitare. È insomma il simbolo del viaggio che ognuno poi si costruisce.

«Oggi l’offerta è molto differenziata: oltre alla guida classica che ha tutte le informazioni necessarie, ci sono guide più specifiche, destinate ai viaggi più brevi, come le guide pocket. Non solo i viaggiatori “fai da te”, ma anche chi si sposta per studio o chi fa viaggi organizzati usa la guida. Le pubblicazioni hanno sempre seguito l’esigenza del viaggiatore che cambia, ma lo spirito rimane principalmente quello del viaggiatore consapevole e informato, che dedica molta attenzione ai posti che visita. Lonely Planet si rende conto di avere delle responsabilità nei confronti della salvaguardia del pianeta, e cerca di indirizzare i suoi lettori verso un turismo consapevole».

«Qual è stata la svolta per il successo di Lonely Planet

«La crescita di Lonely Planet è stata costante i primi anni, per poi diventare esponenziale negli anni ‘90. Nata nel 1973, si è fatta conoscere inizialmente con il passaparola, senza grandi investimenti pubblicitari. Si può dire che le persone che utilizzavano una guida erano soddisfatte e la consigliavano ai propri amici. Le strategie di marketing sono arrivate dopo, quando la casa editrice ha iniziato ad aumentare le proprie sedi e ora la diffusione è molto più facile grazie ai canali social. Si può dire però che il successo è stato determinato dalla necessità di un prodotto che dava informazioni molto pratiche su dove dirigersi, a chi rivolgersi per avere informazioni, dove reperire il mezzo adeguato, e altre piccole certezze che davano sicurezza a chi organizzava viaggi da solo in quel periodo».

«Quante persone leggono le guide di Lonely Planet

«Anche Lonely Planet viaggia, non solo i suoi lettori! I numeri parlano chiaro: la quota di mercato in Italia è del 50%, e ciò significa che una persona su due la utilizza.

«Le destinazioni pubblicate invece cambiano a seconda dei periodi storici, dei cambiamenti socioeconomici, dei pericoli: i flussi di viaggio cambiano, i lettori restano. In realtà resta anche una guida evergreen, quella di New York. In questo periodo anche il Giappone attrae molto!».

 «Qual è la chiave di Lonely Planet per continuare ad avere successo?»

«Non perdere il contatto con i viaggiatori, che è costante. Prima avveniva con lettere, appunti che i viaggiatori scrivevano per migliorare lo strumento di viaggio, approfondire o proporre alternative. Ora tutto ciò avviene tramite i social network, ma il contatto permane continuo e costante, ed è fondamentale per rispondere alle esigenze del pubblico.

«Possiamo dire che negli anni in cui iniziano a nascere le agenzie di viaggio e i viaggi organizzati, la Lonely Planet era un’alternativa. Adesso le offerte sono molto differenziate e personalizzate, offrono un ventaglio molto più ampio di scelta. La nostra proposta resta però sempre la stessa: fornire una guida da cui il viaggiatore può estrapolare il proprio itinerario».

«C’è ancora qualcosa di underground nella Lonely Planet di oggi rispetto ad altre guide?»

«Lo spirito che sopravvive è quello di dare indicazioni molto puntuali oltre alla continua ricerca di curiosità, di luoghi autentici spesso meno conosciuti perché fuori dai percorsi più battuti. Vengono segnalati ovviamente anche i luoghi assolutamente da non perdere e i punti di riferimento essenziali, ma anche tantissimi altri che danno un’idea più precisa del Paese o della città, ricercandone le parti meno turistiche e più “quotidiane”».

Viaggiare e scrivere accompagnati dalla Sindrome di Asperger

Navigando nei meandri del web capita, a volte, di imbattersi in siti interessanti, particolari. Succede quasi per caso: magari stai ascoltando una canzone su YouTube, sbirciando tra qualche social e, nel frattempo, vuoi compiere una breve ricerca su un argomento che hai poco chiaro. Succede che invece di aprire il primo link, il tuo occhio cada sul secondo e che, spinto dalla curiosità del nome, tu lo apra.

Ecco, questo è ciò che è capitato a me circa due settimane fa. Il sito in questione, o meglio, il blog si chiama Operazione Fritto Misto e, chiaramente, almeno un’occhiata l’ho dovuta dare! Perché… Perché nel nome c’è “fritto misto”; quindi, mi chiedo io: vuoi non aprire un link che ha “fritto misto” nel nome?

Le mie aspettative vengono subito deluse: ingolosito al pensiero di veder apparire sul monitor immagini di ciotole colme di verdure miste e piatti di carni e pesci rivestite di superfici croccanti, non appena lo apro scopro che il blog non tratta solo ed esclusivamente di cucina! Colpa mia che non ho letto tutto il titolo del sito: Operazione Fritto Misto – Ceci n’est pas un blog de cuisine. Causa la mia sbadataggine e forse l’appetito, non avevo colto l’originale punto di vista del blog, racchiuso nella bellissima citazione all’opera di Magritte, Ceci n’est pas une pipe. Di cucina e di ricette se ne parla, diciamo che c’è “Un po’ di cucina” (come titola la rubrica dedicata), ma gli argomenti di cui è possibile leggere spaziano dai libri alle serie tv, passando per i film e diversi viaggi. Insomma, un vero fritto misto!

A incuriosirmi, inizialmente, è più che altro il fatto di capire quale sia il collante, il filo conduttore di tutti questi post; così, esplorandolo un po’ scopro che la proprietaria, nonché unica autrice, si chiama Alice, ha 28 anni, è torinese di nascita e lavora come hostess d’hospitality allo stadio. Una blogger come tante, apparentemente, se non per il fatto che Alice è portatrice della sindrome di Asperger; un disturbo di scoperta relativamente recente, i cui sintomi, difficili da indagare sia per le loro molteplici sfumature sia per la mancanza di informazioni scientifiche circa le cause della sindrome, sono legati alla sfera sociale dell’individuo.

E come nasce l’idea di aprire un blog che parla di sé, in una persona che ha difficoltà nell’avere interazioni sociali? Non resisto all’invito “Contattami” che appare nell’elenco in menù, da cui Alice risponde a tutte le mie curiosità: «Come tutti i possessori di un blog ho iniziato a scrivere per puro piacere. A spingermi ad aprire Operazione Fritto Misto, però, è stata la difficoltà di comunicazione, il bisogno di una forma di socializzazione adatta al mio modo di essere, che conciliasse la necessità di condividere gli interessi alla facilità dell’espressione scritta. Per questo, scrivere, per me, vuol dire comunicare senza pressioni».

Il blog, nato come blog di cucina «vegetariana, simpatizzante vegana», presto si è aperto a una grandissima varietà di temi: «Stavo stretta in mezzo a sole ricette; così ho ampliato gli argomenti e si sono aggiunti i viaggi, Torino, libri e film. Un fritto misto, insomma», mi racconta Alice. E proprio sui viaggi di Alice ritengo opportuno soffermarmi, immaginando non sia facile cambiare ambiente e incontrare nuovi spazi, per chi come lei sente la necessità di vivere in una comfort zone, ossia un ambiente privo di rischi o fonti di ansietà, quanto più familiare possibile: «Per anni ho viaggiato in camper, il che mi ha dato l’opportunità di visitare moltissimo l’Italia, di cui ho amato il giro di tutta la costa sarda e la Puglia; ma anche il sud della Francia, la Svizzera (soprattutto Locarno, città d’origine di mio nonno) e l’Austria. Poi c’è Londra, che mi ha fatto innamorare ancora prima di visitarla, e Copenaghen, che nel periodo natalizio mi è entrata nel cuore».

Così, la sezione “Sì Viaggiare” del blog ha iniziato a prendere forma: in questo spazio, Alice racconta i suoi viaggi, di quelli passati ma anche di quelli che un giorno ha intenzione di fare. A tal proposito ha scritto un articolo, datato Gennaio 2016, dal titolo “Traveldreams 2016 Per Sognare in grande”, in cui stila una lista di quei Paesi che in futuro vorrebbe visitare; dalla Namibia alla Polinesia francese, passando per la Scozia, l’articolo racconta alcune delle fantasie di viaggio che Alice coltiva da tempo . Sorpresa: al punto 6 c’è l’Italia, perché, cito testualmente, «chi l’ha detto che i viaggi da sogno si trovino a distanze transoceaniche?». Nel sito non mancano consigli da viaggiatori: suggerimenti sui trasporti economici, tra cui particolare attenzione ottiene Megabus, cui Alice dedica un #diarioditrasferta su Instagram; innumerevoli recensioni culinarie, non senza riferimenti all’ambienti e all’economia; critiche sincere (irresistibili quelle al Balcone di Giulietta a Verona, la cui parete retrostante è «ormai cimitero di microbi e saliva») e commenti senza peli sulla lingua (ammette che «Parigi mi ha delusa», anche se per affrontarla impara ad apprezzarne il fascino, seguendo il suo principio di «curare la paura con la bellezza»).

Infine una certa attenzione è riservata a Torino, ai suoi eventi, ma anche ai suoi luoghi più nascosti e interessanti; immancabili sono i consigli su dove fermarsi a mangiare, mentre alcune curiosità sui piemontesismi più diffusi potranno aiutarvi nell’approccio ai torinesi.

Alla base di tutti questi viaggi c’è la sindrome di Asperger che la fa (quasi) da padrona. «I primi momenti – mi spiega Alice – non è stato facile perché partire senza i miei genitori, all’epoca parte integrante della mia comfort zone, si è rivelato psicologicamente tumultuoso: ero felice di andare ma inspiegabilmente ero terrorizzata, al punto di stare male per tutta la durata del soggiorno. Non mi sono voluta arrendere, così ho iniziato a cercare un modo per reagire, come faccio nella vita di tutti i giorni».

Ed è da quel momento che le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa, e il viaggio ha assunto, per Alice, un sapore nuovo: «Mi sono accorta che a spaventarmi erano gli imprevisti e l’ignoto come, ad esempio, un metal detector che suona, un quartiere sconosciuto, o persone che mi parlano in un’altra lingua, e che quindi la soluzione era prepararsi adeguatamente, cercando più informazioni possibili senza lasciare troppo al caso. Certo gli intoppi ci sono sempre, ma riderci su e viaggiare con qualcuno di cui mi fido aiuta sempre».

Fotografie di Operazione Fritto Misto

Auguri Lonely Planet! 25 anni da guida turistica

Con il caldo afoso degli ultimi giorni è stato difficile frenare la mente dal perpetuo desiderio di viaggi lontani e mete sconosciute. L’estate sembra oramai essere esplosa nel cielo e una delle guide più famose al mondo non si lascerà cogliere impreparata neppure quest’anno. Soprattutto quest’anno! 25 anni fa la casa editrice torinese EDT pubblicava in Italia le sue prime due guide Lonely Planet! Alla vigilia di questo anniversario, Lonely Planet Italia festeggerà il suo primo quarto di secolo a Bergamo con il Festival “UlisseFest viaggi incontri e altri mondi”, un evento per eccellenza dedicato agli amanti del viaggio e dell’incontro con le altrui culture. Per l’occasione, gli instancabili narratori della Lonely saranno affiancati dalle vivaci realtà rappresentate dal laboratorio di comunicazione polivalente “Idee al lavoro” e il laboratorio della curiosità per bimbi “Xké?”.

“Explore every day”, il video appositamente creato da Lonely Planet Italia per i suoi 25 anni di attività. / Tutti i diritti sono riservati.

Da grande navigatore quale è, Pequod non poteva farsi sfuggire questo importante compleanno e, prima di salpare verso l’imperdibile Festival di Bergamo, è andato a scambiare qualche parola con il direttore marketing di Lonely Planet Italia, Angelo Pittro.

 

Partiamo dall’UlisseFest: come si svolgerà il festival? E in quali luoghi della città di Bergamo?

Dal 30 giugno al 2 luglio, UlisseFest invaderà Città Alta, da Piazza Vecchia fino a Piazza Mascheroni, proponendo eventi altresì all’interno di alcuni chiostri della cittadella. L’appuntamento sarà un’occasione per buttare un occhio al di là dei propri confini e proprio per questo abbiamo scelto Bergamo: Città Alta rappresenta per noi una terrazza sul mondo, una finestra sull’oltre. Autori di Lonely Planet e giornalisti, viaggiatori, fotografi ed esperti saranno gli ospiti di questa edizione, tutti accomunati dall’aver fatto del viaggio una componente fondamentale della propria vita.

 

Qual è il tema principale del Festival?

Il filo conduttore di tutti gli eventi si intitola “Portami via”. Una tematizzazione per noi molto importante poiché portatrice di un duplice significato: per un verso, questo tema rappresenta la voglia di evasione che tutti noi sperimentiamo prima del viaggio e, allo stesso tempo, tale tematica raffigura la necessità di partire di tutti coloro che vivono in una situazione di difficoltà, come può essere la miseria o una guerra. Se superare il confine significa solamente andare in vacanza, allora l’idea stessa di viaggio viene meno.

A latere, tre workshop per mostrare al pubblico come si racconta un viaggio non solo agli altri, altresì a se stessi. Un modo non solo per raccontare, quindi, ma anche per fissare su carta i propri ricordi. Benché il Festival si presenterà gratuitamente a chi vorrà partecipare, per i workshop richiederemo un piccolo contributo, previa iscrizione.

Credits: Kavram, Patagonia, southern Argentina. The famous Route 40 paved road parallel to the Andes.


In questi 25 anni di carriera, quali sono stati i cambiamenti più significativi di Lonely Planet Italia?

Per un verso è cambiato tutto e per l’altro non è cambiato nulla! Il modo in cui si viaggia è cambiato notevolmente: ad esempio, quando si raccolgono notizie su un viaggio o una meta oggigiorno c’è un eccesso di informazioni che 25 anni fa era impensabile ottenere. Nel medesimo istante, però, tutto è rimasto come allora: poche sono le fonti veramente autorevoli e aggiornate e proprio in questo contesto si inserisce una buona guida.

La sfida di Internet non ci ha colto impreparati. Lonely Planet Italia ha sempre cercato di cogliere le esigenze dei propri viaggiatori: online si possono trovare le nostre guide e i nostri cataloghi, sia in formato pdf che per supporti iPad. Si possono inoltre acquistare singoli capitoli! Ad esempio, se si desidera organizzare un viaggio che da Bergamo porti a Lisbona, adesso si possono scaricare solo i paragrafi che ci interessano… tutto ciò permette una formidabile personalizzazione della propria guida. Infine, anche i tempi di produzione di una guida sono notevolmente accorciati. Prima bisognava attendere il rientro dell’autore, mentre oggi il giornalista può semplicemente caricare le nuove informazioni raccolte su un server, le quali possono essere stampate o caricate online in tempi celeri.

 

Cosa significa viaggiare con una guida Lonely Planet nello zaino nel 2017? Le esigenze dei lettori sono cambiate?

Lo zoccolo duro dei nostri lettori cerca sempre di fare esperienza e non solo osservazione passiva di una destinazione. Sin dagli albori, i lettori ci han sempre scritto per aggiornare i dati delle nostre guide. Queste sono le principali costanti del modo di viaggiare di chi ci legge. Se dobbiamo trovare delle differenze, di certo sono cambiate le destinazioni. Ricordo i primi anni in cui andava per la maggiore il Messico e il Sud America, per poi lasciar spazio al Medio Oriente. I fatti di oggi, ahimè, hanno inevitabilmente cambiato l’asse delle mete preferite. Un tempo Egitto e Turchia erano due Paesi visitati moltissimo, mentre adesso è difficile anche solo ricevere informazioni aggiornate. In questo periodo i viaggiatori si dirigono sempre più a Est: il Giappone non viene più considerato una meta irraggiungibile e proibitiva.

Credits: Sean Pavone, Fujiyoshida, Japan at Chureito Pagoda and Mt. Fuji in the spring with cherry blossoms.


Sentendo tutte queste destinazioni esotiche e immaginando di visitarle, mi sorge una domanda spontanea: viaggiatore e turista rappresentano due modalità di viaggio completamente differenti?

Creare dei confini concettuali è quanto di più sbagliato si possa fare. Questa distinzione è stata spesso usata negli anni per dividere soggetti di classe A e di classe B; un modo di fare completamente opposto alla nostra etica. Alcune volte è piacevole vivere la nostra esperienza di viaggiatore in spiaggia, prendendo il sole e sorseggiando un cocktail. Altre volte, nella medesima vacanza, potremmo sentire il bisogno di avvicinarci ai locali e quindi visitare un mercatino di spezie venendo a contatto con una realtà differente alla nostra quotidianità. La distinzione sta tuttavia nell’essere più o meno informato su una meta, possedere o meno consapevolezza del contesto circostante. Un contesto che può cambiare anche solo fra Bergamo e Torino.

Credits: Peter Zelei Images, Lavender fields, Plateau de Valensole.


Avendo un target di lettori assai variegato, come fa Lonely Panet Italia a far coesistere nello stesso prodotto editoriale le richieste di un pubblico giovanile e quelle di uno più maturo?

Una delle ragioni del successo di Lonely Planet riguarda proprio il linguaggio. Nelle nostre guide si possono sì trovare informazioni pratiche per un viaggio in autonomia, ma allo stesso tempo i consigli di viaggio sono raccontati con un linguaggio amichevole, un compagno di viaggio cartaceo che si esprime con parole informali. Questo accadeva diversi lustri fa e tutt’oggi è così rimasto.

 

E come fate ad interagire con un pubblico di giovanissimi?

Purtroppo mi duole ricordare che l’Italia è uno dei Paesi europei in cui si legge di meno, soprattutto nella fascia dai 13 ai 17 anni. La nostra ambizione è proprio quella di raccontarci e avvicinarci a questi lettori: Lonely Planet Itali – Kids è un progetto nato per i bambini dai sei anni in su per trasmettere la curiosità verso il viaggio, poiché siamo ben consapevoli che la voglia di esplorare deve essere appresa a quell’età. Per i nostri piccoli esploratori proponiamo libri sulla città e sull’ambiente, come avventurarsi nelle profondità di un oceano o fare surf sulle dune dei deserti. La curiosità va coltivata e non bisogna di certo dirigersi dall’altra parte del mondo: si può stare anche a casa propria, l’importante è osservarne i dettagli!

Credits: Justin Foulkes, Avenue of the Baobabs, Morondava, Madagascar.


Spaziamo oltre i confini temporali: come si presenterà Lonely Planet Italia fra 25 anni?

Ah! Spero di esserci ancora… scherzi a parte, bisogna capire come aumenteranno sempre più i media con cui si diffonderà la cultura del viaggio. Ad esempio, un trend degli ultimi anni è l’utilizzo di filmati video. Di conseguenza, man mano che si evolvono gli strumenti di racconto, ci evolviamo anche noi. Tuttavia è soprattutto il viaggiatore che ti guida. Un bravo editore deve essere in grado di capirlo in fretta e mettersi a disposizione. La Lonely Planet è nata proprio per soddisfare un’idea democratica di viaggio: l’idea che viaggiare fosse alla portata di tutti ha permesso alla nostra guida di differenziarsi dagli editori ancora ancorati all’idea ottocentesca dei ricchi viaggiatori aristocratici.

 

E per finire… un consiglio per le vacanze estive 2017?

Ogni anno Lonely Planet Italia propone “Best in Travel”, la raccolta delle dieci città, dieci regioni e dieci Paesi che suggeriamo di  visitare prima del successivo capodanno. Come scoprirete durante “UlisseFest”, quest’anno le mete migliori da visitare sono Perù e Canada!

In Copertina: i fondatori e primi autori di Lonely Planet, Tony e Maureen Wheeler.

Le fotografie di questo articolo sono state gentilmente concesse da Lonely Planet Italia. Tutti i diritti sono riservati.

Una vita galleggiante, direzione sud

La vita in barca a vela ti insegna a rallentare, ad assaporare ogni momento di libertà e bellezza e ad apprezzare le piccole cose della vita.

Fare il bucato può richiedere due giorni. Spesso l’acqua scarseggia e ti devi lavare con due o tre bicchieri d’acqua. La notte, se senti freddo, devi preparare una borsa dell’acqua calda perché non c’è il riscaldamento. A volte la sera, anche se sei stanco, devi avere pazienza e aspettare di trovare il punto d’approdo giusto per ancorare – non puoi permetterti di lasciare andare la tua casa galleggiante alla deriva.

Questa vita un po’ più difficile ti insegna tanto; ti cambia, ti tempra, ti rende più indipendente, perché libera dall’assuefazione a beni materiali e TV. La sera giochi più spesso a carte o a backgammon; la mattina apprezzi il paesaggio che ti circonda e, lontano da spot e cartelloni pubblicitari, non hai bisogno dell’ultimo modello di cellulare. E’ una vita più ricca, più piena: hai tempo per ammirare altre barche entrare in porto, notare la sagoma di un delfino all’orizzonte e parlare a una foca mentre si avvicina alla tua imbarcazione, sperando venga a salutarti più vicino.

[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]

Dopo aver mollato tutto per andare a vivere su una barca, la nostra tanto attesa avventura è iniziata lenta: Ryan ed io abbiamo trascorso il mese di Maggio ormeggiati sul fiume Penryn, in Cornovaglia, preparando la nostra barca Kittiwake per la traversata della Manica. Da una parte, molto del nostro tempo è stato impegnato in modifiche e migliorie: abbiamo, tra molte altre cose, sostituito tutto il sartiame, installato una nuova toilette ecosostenibile, aggiunto un rubinetto d’acqua salata, costruito un mini armadio per i vestiti. Dall’altra, abbiamo lavorato sodo sui nostri progetti freelance per guadagnare qualche soldo.

Approfittando dei ritagli di tempo tra un lavoretto e l’altro e delle numerose visite di parenti e amichi, venuti a salutarci prima che salpassimo, abbiamo esplorato la costa vicino a Falmouth. Abbiamo portato la maggior parte dei nostri ospiti a St Mawes, un caratteristico paesino della Cornovaglia situato sulla penisola di Roseland. Qui abbiamo ancorato nella bella Cellar Bay: una piccola baia dalle acque calme, circondata dal verde; era il punto ideale per un pranzo al sole sul ponte!

Ci siamo anche avventurati un po’ più lontano, navigando verso la spiaggia di Bohortha. Il freddo ha frenato me, ma Ryan ha avuto il coraggio di fare un tuffo nell’acqua verde smeraldo (indossando muta invernale), per andare a guardare la nostra ancora sott’acqua.

[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]

Verso la fine del mese abbiamo deciso che Kittiwake era pronta per salpare: non potevamo più aspettare! Un veloce sguardo alle previsioni è stato sufficiente a convincerci che attraversare la Manica sarebbe stato impossibile: i venti erano previsti da est (proprio a prua) e sembrava anche tendessero a indebolirsi nei giorni successivi.

Abbiamo deciso di usare il vento a nostro favore e spostarci verso ovest, con la brezza e le onde a poppa. Siamo così partiti alla volta del fiume Helford; la prospettiva di stare all’ancora in un altro fiume non era molto emozionante, ma ci stavamo finalmente muovendo (lentamente) verso sud, abbandonando la sicurezza del nostro ormeggio.

Dopo una lunga e impegnativa giornata di navigazione, abbiamo calato l’ancora vicino a una spiaggia selvaggia, alla foce del fiume Helford. Eravamo stanchi e affamati, quindi appena arrivati abbiamo cenato e siamo andati direttamente a letto.

[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]

Nel mezzo della notte, verso l’una, un rumore ci ha svegliati all’improvviso: era un costante toc toc toc. Ryan è saltato fuori dal letto per vedere cos’era, sperando che nulla si fosse rotto a bordo; dopo meno di un minuto, sento Ryan che mi urla: «Elena! C’è la bioluminescenza!».

Più veloce di un ghepardo sono schizzata fuori dalla cabina senza giacca né scarpe e sono corsa nel pozzetto. Ryan era a poppa, chinato a guadare l’acqua; mi sono avvicinata e ho subito notato l’alone verde che avvolgeva la nostra scaletta. Abbiamo preso un secchio e l’uncino e abbiamo iniziato a muovere l’acqua e schizzarla il più veloce possibile: come per magia, centinaia di particelle di plancton si sono illuminate attorno a Kittiwake. Ryan ed io non potevamo smettere di ridere e condividere espressioni di stupore; siamo tornati a letto mezz’ora dopo, incapaci di dormire.

[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]

Il giorno seguente ci siamo svegliati di fronte ad un paesaggio che somigliava a quello di Jurassic Park: la spiaggia di fronte cui eravamo ancorati aveva una sabbia chiara che rendeva l’acqua verdissima trasparente e, alle spalle, una foresta di alberi altissimi. Nel tardo pomeriggio Ryan ed io, con il nostro tender Marica, abbiamo raggiunto la riva a remi e abbiamo esplorato la spiaggia e il bosco, godendoci una camminata di tutto relax sulle belle rocce.

Mentre remavamo per tornare a “casa”, abbiamo visto dei delfini all’orizzonte nella baia di Falmouth, così ci siamo affrettati per tornare a bordo e guardarli meglio con il cannocchiale: erano almeno una decina. Non appena saliti a bordo, ci siamo accorti che l’acqua formava centinaia di piccoli mulinelli tutto attorno alla barca. Ryan, velocissimo, ha preso la canna da pesca e nel giro di tre minuti aveva pescato uno sgombro gigante, dopo cinque minuti ne ha pescato un altro: la cena era assicurata!

Dopo il delizioso pasto (sgombro in olio e aglio e patate lesse, con burro e rosmarino), verso le dieci e mezza, è calato il buio; non essendo ancora stanchi, abbiamo deciso di testare l’acqua per vedere se c’era ancora bioluminescenza. Non appena abbiamo provocato qualche spruzzo, il plancton è tornato a mostrare la sua vitalità luminescente.

[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]

Ryan ed io siamo saltati a bordo di Marica e abbiamo remato attorno a Kittiwake spruzzando plancton fluorescente ovunque, giocando con l’acqua e ammirando la scia di stelle che il nostro tender si lasciava dietro. E’ stato un momento magico.

Non ci mancava nulla – né il nostro vecchio appartamento, né il riscaldamento, né Netflix. Questa bellissima serata valeva più di tutti i comfort cui avevamo rinunciato. A volte i posti più inaspettati diventano i più cari nella tua memoria.

[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]

Ode ai treni cinesi

Durante i miei studi universitari, ho trascorso in Cina diversi mesi, a Pechino e a Shanghai, tra il 2010 e il 2013. Nel corso dei miei soggiorni, ho avuto modo di compiere numerosi viaggi in varie aree del Paese, tutte molto diverse e distanti tra loro. Quando mi chiedono che cosa mi ha più colpito dei miei viaggi, ho l’imbarazzo della scelta: il cibo delizioso? I panorami incredibili? Gli sguardi curiosi e cordiali dei cinesi che ti accompagnano ovunque? Sicuramente tutto questo e anche di più, ma se dovessi scegliere un elemento distintivo e peculiare di ogni mio viaggio, opterei per i treni cinesi.

In Cina, a meno che non si abbia una patente cinese, non è possibile affittare una macchina e circolare autonomamente; per i lunghi tragitti bisogna affidarsi ad altri mezzi di trasporto e il migliore, secondo me, è il treno. Parlate con chiunque abbia viaggiato in Cina e sicuramente avrà almeno un aneddoto divertente e interessante da raccontarvi riguardo le sue esperienze sui treni del Dragone, unici nel loro genere.

Una carrozza di sedili duri sul treno Pechino-Xi’an, 2011. [Fonte: Lucia Ghezzi-Tutti i diritti riservati].

Innanzitutto, acquistando un biglietto del treno in Cina, non vi sentirete chiedere se preferite viaggiare in prima o seconda classe, ma se volete sedili morbidi, sedili duri o posti in piedi. Se un tempo i sedili duri erano, fedeli al loro nome, esattamente delle panche di legno, adesso in molti casi non è più così. Sebbene siano tuttora molto meno confortevoli rispetto ai sedili morbidi, la differenza principale tra i due è che le carrozze dei sedili duri ospitano anche i posti in piedi, quelli morbidi sono invece in carrozze separate.

Ciò significa che, acquistando un biglietto nei sedili morbidi, non dovrete trascorrere il vostro viaggio in carrozze affollate all’inverosimile con decine di persone accampate nei corridoi, tutte con borse piene di merci varie e, in alcuni casi, anche galline o piccoli animali al seguito. Chiaramente, per lo stesso motivo i sedili duri e i posti in piedi sono anche quelli più interessanti, dove non potrete fare a meno di entrare in contatto, in tutti i sensi, con i vostri “vicini”, i quali, che parliate cinese o meno, proveranno sicuramente a chiacchierare con voi e vi offriranno dei semi di girasole, lo snack da viaggio cinese per eccellenza.

Ho fatto diversi viaggi in treno sui sedili duri e in alcuni casi anche nei posti in piedi, in genere per tratte medie di sette o otto ore, e sono state tutte esperienze speciali.

Foto di gruppo: Lucia con una famiglia della provincia del Guizhou in una carrozza di cuccette dure sul treno Hangzhou-Huaihua. [Fonte: Lucia Ghezzi – Tutti i diritti riservati].

Per le tratte più lunghe, invece, nel mio caso in media tra le 20-25 ore, ho optato per le cuccette, divise a loro volta in morbide e dure. Anche qui la differenza sta nella comodità e nello spazio a disposizione: le cuccette dure sono sei per ogni scompartimento, disposte come due letti a castello con tre piani l’uno; mentre le cuccette morbide sono solo quattro per scompartimento e molto più confortevoli.

A parte questa prima differenza, però, anche le cuccette dure non sono tutte uguali tra loro. Le più basse, per cui non si ha bisogno di usare la scaletta, sono più costose, in quanto più comode per spostarsi e alzarsi e provviste di un piccolo tavolino su cui appoggiarsi e mangiare durante il giorno. Tuttavia, sono anche quelle con meno privacy, dato che gli occupanti delle cuccette superiori spesso le usano come sedili durante le ore diurne. Ammetto di essere una grande fan delle cuccette dure, a cui sono legati molti dei miei ricordi dei treni cinesi.

Un altro aspetto tipico, e da me molto apprezzato, dei viaggi sui treni cinesi è il cibo. Nelle carrozze con le cuccette, infatti, negli orari dei pasti gli inservienti passano con dei carrelli su ruote da cui si possono scegliere diverse pietanze di carne, verdure, uova, ecc., tutte regolarmente accompagnate dal riso bianco. Certo, se non parlate cinese sceglierete probabilmente un po’ a caso in base all’aspetto, ma in genere non verrete delusi, credetemi!

In alternativa, se proprio non vi fidate del cibo sul treno, potete acquistare delle vettovaglie nelle stazioni prima di partire. In particolare, i fangbianmian, gli spaghetti istantanei, sono una costante dei viaggi in treno. Ogni carrozza, infatti, che sia di sedili o cuccette morbidi o duri, è provvista di un distributore di acqua calda, essenziale sia per riempire i thermos del té che ogni cinese si porta sempre appresso, sia per far rinvenire gli spaghetti istantanei da mangiare in brodo.

Uno scompartimento di cuccette dure sul treno Pechino-Mosca. [Fonte: jcb2u/Flickr. Licenza CC BY-ND 2.0]

I treni cinesi di questo tipo, purtroppo, sono una specie in via d’estinzione, e sempre più spesso vengono rimpiazzati da linee moderne e ad alta velocità, che permettono di attraversare le enormi distanze del Paese in poche ore. Non nego che andare da Pechino a Shanghai (circa 1200 km) in meno di cinque ore, comodamente seduti in uno scompartimento moderno e pulito, rappresenti un notevole risparmio di tempo e fatica, ma così quello in treno non è più un viaggio, solo uno spostamento.

Tierra de historia: viaggio in un inverno tropicale

Questi sono lampi di un viaggio in America centrale, il resoconto, nelle sue possibilità, di 40 giorni ripercorsi a 4 mani. Questa è una testimonianza di come pulsa il cuore remoto, di là, dopo il grande mare.

Rovine Maya sul mare caraibico a Tulum, Messico [ph-Ginevra Latini – Tutti i diritti riservati]

Siamo due ragazzi con tre cambi nello zaino e un abbozzo d’itinerario: dalla capitale messicana alle regioni di sud-est (Quintana Roo, penisola dello Yucatan, Chiapas), fino a sconfinare nel Guatemala. Costringere in poche battute l’intero incedere sarebbe opera ingrata; cerchiamo allora, con qualche salto temporale, di toccarne i momenti salienti.
Si parte:

LA CAPITALE

Ciudad de Mexico, inizio Febbraio, 13° in più rispetto casa. 15 ore di traversata oceanica da dover smaltire e, avanti, la scoperta del nuovo mondo.
Fa sera mentre noi, storditi dal jet lag, scivoliamo tra i capillari del sistema sanguigno di una capitale tra le più densamente popolate ed estese sul globo, sorta su un altipiano che supera i 2000 metri d’altitudine. Di là dei vetri del bus, confusa, misera, la periferia muta le sue forme rivelando un nucleo più moderno, occidentale.

Ed è nel quartiere piuttosto centrale di San Cosme che prendiamo alloggio, campo base per i primi giorni. Già, nella ricerca di un frugale pasto, percepiamo quanto i cugini del Nord abbiano “contaminato” lo stile di vita latino: per ogni taqueria un Oxxo (convenience store stile 7eleven), per ogni noce di cocco una bottiglia di Coca-Cola. Sopravvivono, grazie a Dio, migliaia di bancarelle accroccate ai bordi d’ogni marciapiede dove trovare disparate pietanze locali per due soldi.

Ciudad de Mexico [ph. Ginevra Latini – Tutti i diritti riservati]

L’aria, a 2250 metri, la si inala con più fatica, soprattutto quando miscelata allo smog metropolitano; così, con il fiato corto, progettiamo le prime escursioni e ci ritiriamo nella prima notte d’oltre oceano.

In una manciata di giorni seguenti, sufficientemente ripresi dallo sbalzo di fuso orario, spaziamo tra siti culturali e aree di interesse architettonico: El Zòcalo o Piazza della Costituzione, baricentro della città, con la sua sfarzosa cattedrale cattolica sorge su quello che era stato il luogo d’acme di Tenochtitlan, l’antica capitale dell’impero azteco. A due passi, il folgorante Palacio de Bellas Artes (riconosciuto tra i monumenti più importanti del paese) precede la scoperta, nel bosco cittadino di Chapultepec, dell’immenso museo nazionale di antropologia dove situa la più ricca collezione al mondo d’arte pre-colombiana. Perla imperdibile è la coloratissima ed eccentrica casa dove vissero la coppia d’artisti Frida Kahlo e Diego Rivera, ora adibita a esposizione permanente di numerose opere della celebre pittrice.

Allontanandoci dal girovagare urbano dedichiamo un’intera giornata alla visita di Teotihuacan, le sublimi rovine d’una antica città mesoamericana: massicce ed eleganti, le piramidi contornano gli atavici viali e dominano la terra fin dove arriva la vista. Qui, dagli affreschi sopravvissuti al tempo si imparano storie di floride civiltà, i loro forti legami divini e i costumi lontani.

Città preocolombiana di Teotihuacan, Messico [ph. Ginevra Latini – Tutti i diritti riservati]

PENISOLA DELLO YUCATAN

Il Messico meridionale, tra lo Yucatan e il Quintana Roo, offre una delle più affascinanti meraviglie naturali del mondo: i cenotes, pozzi di roccia calcarea formatisi nel tempo dall’erosione di grotte carsiche che costellano il territorio di piscine naturali. Circondati da una folta vegetazione esotica abbiamo avuto il piacere di immergerci nelle acque trasparenti del Gran Cenote e nel profondo abisso blu del X’Canche, nel sito archeologico di Ek Balam.

Le regioni, infatti, conservano suggestive rovine maya in spettacolari parchi naturali. L’antica città portuale di Tulum, per esempio, sorge sulla costa dell’azzurro Mare dei Caraibi e pullula di socievoli iguane che, sotto il sole cocente, accompagnano il visitatore alla scoperta di antichi edifici e templi. La bellezza di questi terreni messicani comprende anche deliziose cittadine coloniali, come la particolare “Ciudad Amarilla” di Izamal, ultima tappa prima di lasciare la calda regione dello Yucatan, quasi totalmente composta da edifici dipinti di giallo, dove si trova anche il Convento de San Antonio de Padua.

X’Canche Cenote, Penisola dello Yucatàn, Messico [ph. Ginevra Latini – Tutti i diritti riservati]

CHIAPAS

Il primo approccio con la patria Zapatista avviene a Palenque ed è pressoché estatico: la giungla, per la prima volta, ci attornia ospitandoci in uno scenario ancestrale dove rovine Maya resistono in simbiosi con la foresta tropicale. Giovani del luogo propongono champignones per incrementare l’effetto “magico” della situazione; noi invece optiamo per “farci” di straconditi nachos e guacamole divino.

La notte le scimmie sciamano sopra la nostra capanna portando i monologhi della natura selvaggia. Una veloce tappa a immergersi nelle turchesi pozze alle cascate di Agua Azul e siamo pronti per ritornare momentaneamente alla civiltà: la coloniale San Cristòbal de Las Casas, tra le montagne della Sierra Madre, ci concede qualche giorno di rilassato svago tra compere e “turismo culinario” nelle numerose boutique gestite dalle cooperative Zapatiste.

Cascate e pozze ad Agua Azul, Messico [ph. Ginevra Latini – Tutti i diritti riservati]

GUATEMALA

L’arrivo in Guatemala ci vede entusiasti, ché subito visitiamo quello che sarà il nostro sito archeologico preferito: Tikal. Le alte piramidi troneggiano in una fitta giungla ricca di vita d’ogni genere, dalle gigantesche tarantole alle scimmie urlatrici; ci facciamo strada tra foglie immense, mentre coloratissimi pappagalli volano sopra di noi. E’ la volta di Semuc Champey, nell’Alta Verapaz, dove nuotiamo in un sogno fatto di piscine naturali verde smeraldo.

Ma è nei pressi di Antigua, vivace cittadina montana nel centro del Guatemala, famosa per le numerose scuole di spagnolo e l’architettura barocca ispano-americana, che viviamo una tra le più intense esperienze di sempre: scalare l’Acatenango, vulcano di quasi 4000mt. L’emozionante alba a cui assistiamo dalla vetta ci permette una vista spettacolare sul Lago Atitlan, dove nei giorni a seguire ci dirigiamo esausti per regalarci momenti di puro relax nei caratteristici villaggi costieri.

Alba vista dal vulcano Acatenango, Guatemala [ph. Ginevra Latini – Tutti i diritti riservati]

[In copertina: Piramide di Chichen Itza, nell’omonimo complesso archeologico maya, situato in Messico, nel nord della penisola dello Yucatan (ph. Ginevra Latini – Tutti i diritti riservati)]

Cooperazione al testo e fotografie di Ginevra Latini

Musica di conchiglie e desideri da ostrica sulla Petit Côte

Arriviamo a Mbur sul far della sera, macinati chilometri di asfalto impolverato di terra rossa a bordo di una station wagon da 10 posti, caricata di valigie e umani raccolti in una stazione autobus ai bordi di Dakar. Tra questi umani, Hamadou ed io, in cerca di una pausa dal caos della capitale nelle oasi della Petit Côte, che da Dakar si allunga fino ai confini con il Gambia, ci accoccoliamo nei posti più stretti sul fondo dell’auto, dove è possibile sonnecchiare tenendo un occhio sui bagagli, che a ogni cambio di passeggeri per cui più volte interrompiamo il viaggio, rischiano di esser dimenticati in strada o consegnati alla persona sbagliata.

Ci fermiamo in un parcheggio autobus non molto diverso da quello di partenza, senza un’idea precisa su dove alloggeremo: un amico di Hamadou lavora in città e accoglie il nostro arrivo con una naturalezza, che contrasta lo stupore sul suo viso, ma conferma le nostre speranze ben riposte. Veniamo guidati in vicoli stretti, i cui residenti si affacciano a osservare i nuovi arrivati dalla pelle così chiara, fino a sbucare su una via leggermente più ampia, dove sta la casa del nostro ospite, in tutto simile a quelle che l’affiancano. All’interno, molte stanze abitate da senegalesi sorridenti e gentili, che qualche giorno dopo copriranno le mie braccia di braccialetti come souvenir; docce ampie rinfrescanti e l’afa del giorno che qui non sembra trovare riposo. Salendo le scale, troviamo la pace per cui abbiamo lasciato Dakar: il tetto è un ampio terrazzo, coperto da una volta di stelle che solo il buio e il silenzio di certe notti africane riescono a far risplendere. Chiediamo di poter dormire qui e il nostro ospite, tra lo stupito e il divertito, allestisce per noi una stanza all’aperto.

Pochi minuti dopo l’alba a Mbur, Senegal
Saly, nella regione di Thiès, sulla Petit Côte del Senegal

Il nostro idillio d’oscurità e quiete è presto infranto dalla prima chiamata alla preghiera del muezzin, diffusa da un altoparlante sul tetto della moschea non molto distante da noi, che ci avverte dell’imminente arrivo dei primi raggi di sole, che presto si abbattono sulle nostre palpebre ancora semi chiuse. Ne approfittiamo per avviarci presto verso sud, lungo la costa oceanica di Saly, che è un susseguirsi di spiagge di granelli finissimi, su cui si affacciano resort massicci ed eleganti, dove scoviamo caffè italiano con cui far colazione. Prima che il sole sia troppo alto, cerchiamo un taxi e in meno di un’ora ci troviamo all’ingresso di un’oasi unica: Joal Fadiouth, l’isola creata dall’etnia serere, allontanata dalle sue terre forse dai berberi Almoravidi, forse dall’invasione da parte dell’Impero Kaabu.

Per accedere, è necessario acquistare un lasciapassare, che permette la traversata sull’ampio ponte di legno che collega l’isola alla terraferma e offre, incluso nel prezzo, la compagnia di una guida locale; a tale scopo, ci viene chiesto da dove veniamo, perché qui a Joal per qualsiasi lingua parlata, c’è un residente capace di esprimervisi. La difficoltà di descrivere il paesaggio che si mostra dai corrimani del ponte, sta nella sintesi perfetta già raccolta nel soprannome di Isola delle Conchiglie, attribuito a Joal: tutto ciò che la vista coglie è “conchiglia” nella sua essenza, dagli edifici costruiti impastando gusci di mollusco tritati, conservati a tale scopo in mucchi agli angoli delle strade, fino alle strade stesse; l’intera superficie dell’isola è infatti creata artificialmente accumulando da secoli conchiglie diligentemente svuotate e conservate. La nostra guida ci spiega che è questo uno dei motivi del lasciapassare, che permette un monitoraggio del numero di persone presenti sull’isola, evitandone l’affossarsi per sovraffollamento. Altrettanto importante è ovviamente l’aspetto economico, essendo il turismo una delle maggiori risorse di Joal, ma anche da questo punto di vista, la conchiglia rappresenta il cardine di questa comunità: accanto alla pesca, infatti, la raccolta dei molluschi, oltre a rappresentare la base dell’alimentazione, è il baluardo del commercio culinario.

Il ponte da cui si accede all’isola di Joal-Fadiouth
Joal-Fadiouth, l’Isola delle Conchiglie, nella regione di Thiès, Senegal

Se un’immagine fotografica può riuscire a trasmettere un’idea del candore che il riflesso del sole attribuisce al bianco dell’isola, solo passeggiando per le sue vie è possibile godere della melodia prodotta dallo scricchiolio dei gusci sotto i propri passi, al ritmo dei propri passi. È forse questo suono che arriva direttamente dal terreno che spinge a parlare abbassando un po’ la voce, spostandosi in una dimensione più raccolta e quasi fiabesca; assaporata e fatta propria questa nuova dimensione, si è nello spirito adatto a cogliere la poetica vista del cimitero di Joal.

Disposto su una seconda isola, di dimensioni più ridotte e collegata alla prima da un ponte più stretto, il cimitero è reso unico dal fatto di essere a religione mista: i ¾ della sua superficie sono come ammantate da un susseguirsi di croci bianche identiche tra loro, difficili da guardare nelle ore più calde, quando lo sguardo preferisce spostarsi sulle nere lapidi musulmane, tutte rivolte verso la Mecca, cui è destinata la restante parte del cimitero. Questa piccola isola, racchiusa in un paese musulmano, al cui primo presidente Sédar Senghor ha dato i natali, ha una popolazione al 90% cristiana, un’eccezione originata dalla penetrazione missionaria del XXVII secolo. È questo anche il motivo per cui, nelle ore di bassa marea, maiali allevati dai residenti cristiani sono lasciati sfamarsi del pattume organico lasciato per loro sulle coste.

Ponte che collega l’isola principale di Joal-Fadiouth all’isola minore che funge da cimitero
Croci cristiane nel Cimitero di Joal

Lasciata l’incredibile poesia dei paesaggi di Joal Fadiouth, sappiamo che solo la natura delle oasi più a sud può eguagliare la bellezza impressa nelle nostre iridi; nostra nuova meta è il Sine-Saloum, regione a nord del Gambia che prende il nome dal corso di fiume che la attraversa e che crea in prossimità dei suoi confini occidentali un labirinto di oltre 200 isole. Anche qui il nostro ingresso è vincolato a una guida locale, che trascina la mia mente in un volo pindarico tra mitologia greca e poetica dantesca: accogliendoci sulla sua piroga, infatti, il nostro traghettatore ci trasporta tra corsi del delta del Saloum, in cui si gettano le radici delle mangrovie, a fungere d’appiglio per le larve di ostrica. Appena cresce il guscio, ostricoltori locali spostano i giovani molluschi negli allevamenti, protetti degli europei golosi che ne hanno quasi provocato l’estinzione.

Cullati dall’acqua e rapiti alla vista degli stormi variopinti che vediamo muoversi sopra le nostre teste e poi adagiarsi sui vegetali che affiorano in superficie, Hamadou ed io quasi non ci accorgiamo che la piroga ha accostato alle mangrovie e il traghettatore ci sta invitando a scendere: siamo arrivati nel cuore magico di quest’angolo di Senegal, dove si nasconde un baobab che finge di essere una mangrovia. Come indicatoci, avvicinandoci scegliamo un guscio d’ostrica cui sussurrare un desiderio; un desiderio da lasciare qui, sui rami di questo baobab alto forse mezzo metro, nella speranza che le sue radici profonde possano farlo arrivare lontano.

Stormi d’uccelli nel Parco Nazionale del delta del Saloum, Senegal
Baobab, ricoperto di gusci d’ostrica, che si nasconde tra le mangrovie del delta del Saloum, Senegal

Pain de Route: una giovanissima viaggiatrice ad Est

Viaggiare è sempre un’esperienza molto personale. C’è chi ama il confort e la comodità sopra ogni cosa, località più che collaudate, hotel di lusso e viaggi organizzati e chi, come Eleonora, ha fatto dell’avventura, delle mete insolite e della frugalità uno stile di vita.

Eleonora ha 23 anni, è nata e cresciuta a Milano, e al momento si trova a Mosca da circa 5 mesi, per un Erasmus Overseas. Studia Linguistica Teorica ed Applicata e ha fondato un blog di viaggi molto seguito, Pain de Route, nel quale racconta principalmente dei suoi viaggi in mete inusuali per i più. E’ infatti una grande appassionata di Est, e la maggior parte delle sue peregrinazioni recenti si sono svolte in territorio russo e limitrofi. Le chiedo come è iniziata questa sua grande passione. «Mio nonno, un ingegnere in ambito chimico, ha sempre viaggiato tantissimo per lavoro, e mi ha sempre portato a casa piccoli regali dai suoi viaggi in territori lontani, sono cresciuta col mappamondo tra le mani, possiamo dire che ero destinata a viaggiare per genetica».

La moschea del Cremlino di Kazan’, Tatarstan, Federazione Russa, lungo la Transiberiana d’inverno. / Foto di Pain de Route / Tutti i diritti riservati.

Eleonora mi racconta che il suo primo viaggio è stato piuttosto classico, in Grecia con gli amici. Un viaggio organizzato un po’ a casaccio e in tenda: «Faceva un freddo tremendo, la tenda era aperta da due lati e ho dormito con il machete. Col tempo, ho imparato che l’organizzazione, prima di una partenza, è davvero importante». Durante il viaggio in Grecia, Eleonora e i suoi amici si sono ritrovati a riposare vicino ad un piccolo cimitero ortodosso. È lì che ha capito che per lei quel viaggio significava molto di più di quanto poteva immaginare all’inizio, e da lì è iniziata la sua ricerca personale. «Ho realizzato che volevo capire dove si spingesse il concetto di Europa. Passando i confini, riesci a vedere la differenza tra il reale e il geografico. L’Europa alla fine si spinge molto più in là di quanto vediamo su una mappa, ovunque gli europei sono arrivati e hanno lasciato tracce», mi racconta. «Bishkek, la capitale del Kyrgyzstan, è una città molto europea. Fin dove si arriva?».

La piazza rossa ghiacciata in un pomeriggio di gennaio, a -24°C. / Foto di Pain De Route / Tutti i diritti riservati

E così sono iniziati i suoi viaggi, sempre più a Est. Prima i Balcani, poi l’Est Europa, poi il Caucaso e infine la Russia e i territori ex-sovietici, che sta esplorando in questi mesi. I posti che le sono rimasti più nel cuore sono la Georgia e l’Armenia, paesi dei quali parla con un luccichio negli occhi.

Il blog l’ha aperto proprio dopo il viaggio dei 18 anni, nei Balcani, che le sono rimasti incisi nel cuore. «Dopo quel viaggio, avevo bisogno di depositare un pacchetto di emozioni. Le dovevo buttare fuori per sanità mentale». E così è nato il suo diario online, pieno di articoli sui posti che ha visitato, sulle emozioni che ha provato, e pieno di tantissimi articoli e consigli utili ai viaggiatori più intraprendenti. Eleonora riceve moltissime domande dai suoi lettori, alle quali è felicissima di rispondere. «Sta diventando quasi un lavoro», mi dice con orgoglio.

Un ristorante bruciato sul Mar Nero a Sukhumi, in Abkhazia, regione separatista della Georgia. / Foto di Pain De Route / Tutti i diritti riservati

Uno dei viaggi più intensi e decisamente oltre il limite del viaggiatore tradizionale che Eleonora mi racconta è quello in Abkhazia. È uno stato non riconosciuto dalla maggior parte del mondo, perchè faceva parte della Georgia, dalla quale si è staccato dopo una sanguinosa battaglia d’indipendenza. Non c’è alcuna assistenza diplomatica, il telefono non prende e la polizia può tranquillamente fermarti e chiederti molti soldi, solo per permetterti di passare da una certa strada. «È un posto meraviglioso, ma mi sono sentita completamente sola in Abkhazia. Ci sono cose che diamo totalmente per scontate nella vita e nei viaggi di tutti i giorni e non possiamo neanche immaginare che la legge del Far West possa regnare in posti così geograficamente vicini a noi».

Eleonora ha viaggiato tantissimo in autostop, con Couchsurfing, Bla Bla Car, tutti i mezzi più economici che permettono di risparmiare e allo stesso tempo di conoscere molte persone durante il viaggio. «Viaggio sempre con cifre ridottissime e ogni soldo che guadagno lo tengo via per un futuro viaggio. Borse di studio, mance dei parenti, soldi delle ripetizioni, piccoli lavoretti che faccio qua e là, ogni centesimo è risparmiato per voli aerei e attrezzatura adatta al posto dove andrò. I miei amici mi regalano solo cose che possono servirmi per viaggiare».

Notte in un furgone merci, da Bishkek ad Osh, in Kirghizistan. / Foto di Pain De Route / Tutti i diritti riservati

Come ogni viaggiatrice esperta, Eleonora ha imparato a ridurre tutto all’osso. Mi informa che a volte pensa che potrebbe partire solamente con un coltellino svizzero. «Se ho quello, sono a posto. Una volta ho dimenticato la spazzola e non mi sono potuta pettinare per tre settimane. Ero un disastro», mi dice ridendo. Ha viaggiato spesso da sola ed è una cosa che consiglia di fare a tutti almeno una volta. «La mia ragione è semplice: non mi piace fare compromessi e voglio fare e vedere quello che più mi interessa. Sono pochissime le persone con cui posso condividere i viaggi più intensi. Tramite Couchsurfing mi capita sempre di conoscere persone fantastiche che mi ospitano e non mi sento sola. Mi piace così».

Con i bambini del quartiere ebraico di Samarcanda, Uzbekistan: uzbeki, tagiki, kirghisi e russi. / Foto di Pain de Route / Tutti i diritti riservati

In questo post emblematico della sua filosofia di vita, Eleonora ci spiega che viaggiare è tutta una questione di priorità. Se vuoi davvero farlo, rinunci ad altre cose. Ed è quello che risponde a chi le chiede dove trovi i soldi per viaggiare. Le sue prossime mete? Mongolia e Cina. Sempre più a Est. Chissà se c’è Europa anche lì.

In copertina: Free Camping sul lungomare di Durazzo, Albania / Foto di Pain De Route / Tutti i diritti riservati.

Becoming Jake. Viaggio da un genere all’altro

Appena entro nel locale in cui ci siamo dati appuntamento, il mio sguardo inizia a scrutare i volti di chi è seduto ai tavoli finché non si posa sulle spalle di un ragazzo intento a leggere. Lui è Jake, Giacomo Arrigoni Gilaberte, classe ’91, nato in Brasile ma cresciuto in Italia. Jake è un giovane transessuale FtM (Female to Male, sigla per la transizione da un corpo femminile a uno maschile), che da circa due anni ha iniziato la terapia ormonale sostitutiva (TOS) per diventare colui che ha sempre sentito di essere: un uomo.

Durante l’inesorabile susseguirsi degli anni, ognuno di noi è soggetto al continuo rimodellamento della propria identità. Cruciale è il periodo a fine scuola elementare, quando dal corpicino di bimbo cominciano a spuntare i primi segni di una prosperosa femminilità o di una muscolatura virile. Jake non possiede un nitido ricordo che condusse colui che una volta era conosciuto come Jessica al desiderio di vivere come Giacomo. Ricorda tuttavia di essersi posto tantissime domande alle quali non trovava risposta: «A dodici anni non mi piaceva nulla del mio corpo. Pensavo comunque di essere un’adolescente come tante che si sentiva troppo grassa o troppo brutta… Ma con il passare degli anni mi sono accorto che non riuscivo a mostrarmi». Assieme alle prime esperienze, Jake si crede una donna e lesbica, incapace però di sentirsi a proprio agio nell’intimità sino ad arrivare al punto di considerare il sesso sopravvalutato.

La svolta avviene durante una puntata de “Il Testimone”, il programma di MTV Italia firmato da Pif, dove un gruppo di ragazzi si svela alle telecamere raccontando la propria transessualità. Sin da subito, Giacomo si ritrova nelle esperienze e parole degli intervistati e pian piano, assieme ai primi Pride e ai primi incontri, inizia cautamente a farsi strada l’uomo che c’è in lui. «Una sera, in discoteca, una mia amica mi presenta a un ragazzo transessuale (FtM come Jake, n.d.r.): mentre lui mi mostrava i vergini muscoli che si erano appena rafforzati su braccia e spalle (grazie alla terapia ormonale, n.d.r.), io rimasi rapito dal suo entusiasmo e capii che quella poteva essere la mia strada».
Una volta giunto allo Sportello ALA Milano Onlus, Giacomo incontra l’attivista e Responsabile Antonia Monopoli, che lo invita a iniziare un percorso psicologico: «Grazie alla bravissima Chiara Caravà, ho iniziato ad aprirmi e a parlare di tutto sino al fatidico giorno in cui mi ha detto “Per me, sei pronto”». Jake ha circa 22 anni quando si reca per la prima volta all’Ospedale Niguarda di Milano.

Giacomo ha fatto molti coming out nella sua vita. Il primo è stato per lo più taciuto: «Decisi di vivermi la mia identità da lesbica fregandomene del pensiero altrui, per poi scoprire che non mi bastava. Ciò che ero non rappresentava il vero me stesso… dovevo fare di nuovo coming out». E così Jake si è affidato al canale YouTube, grazie al quale l’involucro Jessica si è spezzato per far apparire per la prima volta Giacomo. Il timore maggiore era la paura che gli altri non riuscissero ad accettare il fatto che Jessica fosse stata sempre e solo mero rivestimento. Come a rimarcare il ruolo che i Social media detengono nella nostra società, Giacomo afferma che «condividendo il video sul mio profilo Facebook, mi sono tolto il peso di dover andare da ognuno e iniziare con “Ti devo dire una cosa”. Dopo la condivisione, invece, molte persone sono venute a chiedermi di parlarne assieme». In famiglia, Jake non ha fatto fatica a essere accettato e anzi, si ritiene fortunato poiché non pochi sono stati i casi di ragazze o ragazzi trans allontanati da casa.
«Il coming out lo vivo tutt’oggi – continua Giacomo – soprattutto con persone che ho appena conosciuto e in situazioni che non posso evitare. Ad esempio, se siamo in giro e mi scappa la pipì, non posso dirigermi in un angolo come qualsiasi uomo, quindi devo spiegare a chi ancora non mi conosce il perché debba cercare un bagno. E comunque anche nei bagni maschili ho le mie difficoltà: spesso le porte non si chiudono».

Non sono dunque i familiari o gli amici ad aver deluso Giacomo di fronte al suo presentarsi non più come ragazza ma come uomo: «Sono state le istituzioni e la burocrazia. Per iniziare la cura ormonale devi aver superato un percorso psicologico e avere l’approvazione dal Tribunale. Un giorno vado quindi in comune per ottenere l’atto di nascita da consegnare al Tribunale e inizio a compilare dei moduli di richiesta appositi per la transizione assieme alla signora dello sportello… la quale continua a chiamarmi “signorina”. Un’altra volta invece sono andato a fare i prelievi del sangue e un infermiere, leggendo la mia cartella e poi guardandomi, mi fa: “Ma sei un uomo o una donna?”. O ancora il medico di base, che durante il solito controllo della pressione, sdraiato sul lettino, mi alza i pantaloni e mi dice: “Ma sei sicura? È proprio un peccato”. Ma se ho bisogno di assistenza medica a chi posso far affidamento se non a un medico?!». Questi sono solo alcune delle violenze di genere che Jake ha dovuto subire da parte delle istituzioni pubbliche al servizio del cittadino.

In Italia non è difficile accedere alla procedura di transizione, mi confessa Jake, sebbene l’iter sia tremendamente lungo e lento. Giacomo iniziò il 3 dicembre 2013 le punture di testosterone e da allora un po’ di cose sono cambiate.
Nel successivo frizzante video, i cinque cambiamenti più significativi dei primi 9 mesi di terapia ormonale:

Ma a che punto siamo con il rispetto dei diritti delle persone transessuali in Italia? «Sulla carta sono sì rispettati, ma poi la realtà è ben diversa. C’è molta ignoranza in materia! Senza contare che la comunità trans italiana non si è ancora affermata definitivamente e questo è un peccato poiché potrebbe far tanto per sopperire alle lacune delle istituzioni. Certo è che ognuno di noi fa coming out quando può ed è pronto».

Dopo gli ultimi due sorsi di birra, lascio Jake partendo dalla prima domanda che gli feci: come stai? «Ah! Da due anni a questa parte sono solo gioie! Mi sveglio benissimo, sempre proiettato verso il futuro: domani è sicuramente un giorno migliore perché è un giorno in più verso quello che voglio essere. Verso Giacomo».

Fotografie di Giacomo Arrigoni Gilaberte

Case galleggianti sui laghi dell’Asia

Tra i primi messaggi inviatimi da Anna durante il suo viaggio in Cambogia, c’è la fotografia di lei stesa al sole su quella che sembra essere la prua di un’imbarcazione. Ad accompagnare l’immagine, la didascalia: «Arrivate a Siem Reap via fiume!».
Ritrovo l’entusiasmo del sorriso immortalato nella fotografia, ancora impresso sul viso di Anna, quando al suo rientro racconta della gita lungo uno dei corsi d’acqua che portano al lago Tonle Sap, che con i suoi 2700 km², appare come un mare a chi si affaccia sulle numerose foci che lo alimentano. Partite in tre ragazze alla volta della Thailandia, Anna e le sue compagne di viaggio hanno scelto di approfittare degli scali imposti dall’itinerario, per estendere gli orizzonti e visitare alcuni paesi dell’Indocina; tra le mete prescelte, i corsi cambogiani, raccolti sotto il nome di Tonle Sap in virtù della destinazione comune, diventati riserva della biosfera dell’UNESCO nel 1997, che ospitano complessivamente una sessantina di comunità galleggianti .

Lago Tonle Sap, Cambogia
Una comunità galleggiante sul Lago Tonle Sap, Cambogia

«L’escursione verso il lago Tonle Sap era comoda perché ci permetteva di spostarci verso Siem Reap, dove eravamo dirette; essendo arrivate nella stagione delle secche, però, molti dei corsi di fiume più gettonati durante la stagione turistica non erano percorribili. Noi abbiamo dovuto prendere un pick-up per arrivare al punto d’imbarcazione più vicino a dove ci trovavamo, nei pressi di Battambang, e per i primi 45 minuti di navigazione ci spostavamo senza motore, attraverso pali usati per fare leva, perché l’acqua era troppo bassa».
La scelta del percorso si rivela fortunata, perché permette ad Anna di immergersi nella realtà cambogiana e scoprire uno stile di vita totalmente nuovo: l’imbarcazione su cui si trova a viaggiare è un mezzo pubblico via mare, con fermate previste per far salire e scendere i passeggeri, che abitano e lavorano in edifici galleggianti, attraccati sulle coste del fiume. «La prima cosa a stupirmi è stata proprio l’abilità di identificare il punto esatto d’attracco! Non riuscivo a capire con quale criterio stabilissero di fermarsi in un determinato punto, all’interno di quello che a me sembrava un paesaggio tutto uguale, anche se straordinario».

L’imbarcazione su cui ha viaggiato Anna a una delle fermate
Abitazioni galleggianti sul Tonle Sap

Straordinaria è la scelta di vivere in un ambiente naturale così atipico, che costringe la fantasia a pensare architetture che si adattino all’elemento acqueo e siano funzionali alle attività che esso impone: «Pur essendo sempre lo stesso, il paesaggio ha una varietà di strutture che incuriosiscono lo sguardo di chi lo visita: molte aree sembrano degradate, soprattutto quelle che ospitano villaggi di case modeste, baracche in lamiera issate su piccole barche; altre hanno invece immobili grandi, imbarcazioni ampie attraccate attorno a palafitte ben organizzate. Anche le tecniche di pesca, che è l’attività principale se non l’unica, contribuiscono a rendere vario il paesaggio, con reti intrecciate in forme particolari o issate su grandi strutture».
Non da meno è l’influsso che l’ambiente ha sullo stile di vita dei suoi abitanti, vincolati ad attività marittime, sulla loro crescita e conformazione fisica: «Ero stupida dell’abilità a navigare anche dei bambini più piccoli, lasciati liberi di muoversi da soli sul corso d’acqua. Ho però anche notato che assumono presto una postura incurvata, probabilmente dovuta al fatto di trascorrere molto tempo in barca e camminare poco».
Nella memoria di Anna, il viaggio lungo il Tonle Sap porta con sé il brivido di un’escursione immaginifica, un’immersione nell’incontaminato confermata dalla reazione dei suoi abitanti: «Chi vive nelle comunità è disturbato dal passaggio di imbarcazioni a motore di grandi dimensioni, perché smuovono l’acqua in modo innaturale, spezzando i ritmi dettati dall’ambiente e confondendo i pesci».

Tra le tecniche di pesca, caratteristiche in Cambogia sono le reti a forma di cilindro
Un’altra tecnica di pesca, prevede l’uso di strutture in rete e bambù, come quella in fotografia

Completamente diverso è l’approccio a imbarcazioni a motore e flussi turistici da parte degli abitanti del lago Inle (72 km²) , in Myanmar. Beatrice, di rientro da un viaggio organizzato tramite agenzia in terra birmana, racconta del tour previsto in questa riserva naturale, da cui sono banditi tanto l’uso di sostanze chimiche quanto l’ingresso a lance di portata superiore ai cinque passeggeri: «L’attività turistica attorno al lago Inle è molto sviluppata: vi si affacciano molti torrenti navigabili, alcuni dei quali portano a località vicine, altri a monumenti come la pagoda delle cinque statue d’oro del Buddha (portate annualmente in processione a bordo di una sfilata di lance), altri ancora permettono l’accesso diretto agli alberghi costruiti su palafitta, che solitamente hanno un doppio ingresso, via acqua e via terra. Quasi tutte le strutture, abitazioni private o luoghi pubblici che siano, sono costruite su palafitte, a volte nettamente separate dalle strade d’acqua che attraversano i villaggi, altre volte collegate tra loro da ponti o parzialmente ancorate alla terra ferma».

Ingresso affacciato sul Lago Inle, Myanmar
Abitazione su palafitta nel Lago Inle, Myanmar

Fondamentale, anche qui, è acquisire, fin dalla più tenera età, abilità e disinvoltura nella navigazione, di cui gli abitanti locali danno prova in età adulta nella perizia con cui si spostano tra i canali del lago Inle: «Per superare i numerosi dislivelli – spiega Beatrice – sono state costruite dighe in bambù che permettono la creazione di gradinate d’acqua, formate da scalini bassi e lunghi, attraverso cui le lance riescono tanto a scendere, evitando di cascare in modo brusco, quanto a salire, affrontando il cambio di livello progressivamente. I passaggi attraverso le dighe sono molto stretti, esattamente quanto le lance, e la forma a imbuto non agevola la prospettiva, ma i locali li affrontano con sicurezza».
Ancora più maestria, poi, serve per la realizzazione di quella che Beatrice descrive come la più affascinante delle attività svolte sul lago Inle: «Tutta la distesa d’acqua è intervallata da orti galleggianti, composti da zolle dalla forma stretta e allungata e attraversati da strade d’acqua, che permettono l’accesso ai contadini. Sono i contadini stessi a creare l’orto: raccolgono le radici dei fiori di loto che proliferano nel lago e, ancorandole con pali al fondale, creano zolle alte una trentina di centimetri, di cui la metà immersa in acqua; marcendo, il fiore di loto si trasforma in humus fertile per coltivare. Il lavoro negli orti è davvero faticoso, sia perché tutte le attività sono svolte accucciandosi e sporgendosi dalla lancia, sia perché la zolla ciclicamente si consuma e va ricostituita raccogliendo nuove radici».

Diga sul Lago Inle; lo stretto spazio lasciato al centro dai tronchi di bambù è il passaggio per le imbarcazioni
Orto galleggiante sul Lago Inle, Myanmar

Proprio la fragilità delle zolle è il motivo del divieto d’accesso al lago a imbarcazioni di grandi dimensioni, il cui passaggio potrebbe danneggiare l’ancoramento degli orti e, quindi, rendere impossibile un’attività che si sviluppa in perfetta sintonia con l’habitat in cui si svolge e rappresenta, pur nei limiti delle sue dimensioni ridotte, un modello di sviluppo ecosostenibile.

 

Orto galleggiante con magazzino su palafitta sul Lago Inle, Myanmar
Contadino intento alla raccolta delle radici di fiore di loto sul Lago Inle, Myanmar

Fotografie di Anna Innocenti e Beatrice Bortolotti

I messaggi nascosti nei colori dei tessuti africani

Sbarcare sul continente africano significa anzitutto lasciarsi avvolgere da un tripudio di stimolazioni sensoriali: primo solleticato è l’olfatto, invaso di un’aria pregna di spezie, gas di scarico, incensi e sudore umano misto a profumi dolci; segue l’udito, come martellato da un accavallarsi di idiomi diversi, di suoni nuovi pronunciati da labbra carnose; infine la vista, che s’apre su orizzonti privi di confini, ma ricolmi di colori che il sole caldo accende in tonalità sempre più vivaci.

Quei colori restano impressi nelle iridi, grazie alle movenze sinuose che le donne africane nascondono tra le fantasie dei loro pagne e ai gesti ampi delle braccia con cui gli uomini agitano il boubou, sullo sfondo di un cielo d’una limpidezza unica, che incontra una terra asciutta e ramata.

Inevitabile è innamorarsi del wax (o ankara), tessuto per antonomasia attribuito dagli europei alla popolazione africana, che nasconde una storia molto più complessa: le sue origini risalgono infatti all’isola di Java, in Indonesia, dove nell’Ottocento i coloni olandesi inviarono un esercito composto in maggioranza di guerrieri ghanesi; affascinati dalla tecnica a noi nota come batik, tipica delle regioni indonesiane e consistente nel ricoprire di cera (wax, appunto, in olandese) le parti di tessuto che di volta in volta si sceglie di non tingere, i soldati la importarono in patria, dove ben si adattava all’uso che le popolazioni africane facevano degli indumenti. Un abito in wax non è infatti solo una copertura del corpo, ma un messaggio che chi lo indossa sceglie di trasmettere; ogni colore ricalca uno stato d’animo, che abbinato alle forme di volta in volta impresse sulla stoffa, comunica un contenuto specifico: così, ad esempio, un abito molto colorato con motivi a spighe di mais può simboleggiare ricchezza e abbondanza oppure le difficoltà della vita matrimoniale; il motivo della chioccia coi pulcini sottolinea il ruolo della madre nella coesione domestica; gli uccelli in volo sono invece di buon auspicio per chi si mette in viaggio. Nella loro capacità comunicativa risiede il successo di queste stoffe, diffuse in tutto il continente africano, spesso con varianti locali nelle tecniche di tintura: in Sud Africa, ad esempio, è popolare lo shweshwe, tessuto di cotone stampato a rullo; sulla costa orientale gli abiti tradizionali (kanga o kitenge), composti da due drappi di stoffa quadrata, sono spesso in bark, un tipo di tessuto stampato in cui sono inserite frasi e aforismi, per lo più in lingua swahili; dall’altra parte del continente, in Benin, è invece possibile ammirare l’abomey apliqué, una tecnica che permette stampe floreali e faunistiche in colori sgargianti.

Esempi di wax o ankara

Ben prima dell’invasione coloniale, si attestano nell’Africa subsahariana tecniche di confezionamento dei tessuti, che prevedevano l’imprimitura del colore tramite immersione nei pigmenti colorati, previa la copertura delle parti che si voleva lasciare intonse. A spopolare sono i toni del blu e dell’azzurro, che prendono forma nei cosiddetti indigo clothes, diffusi soprattutto negli stati centrali; due etnie, dislocate per lo più in Nigeria, spiccano nella produzione di questi tessuti: gli Igbo realizzano gli ukara, stoffe decorate con simboli rituali detti nsibidi; gli Yoruba applicano invece una tecnica simile al wax per ottenere i tessuti adire, in cotone o raffia con stampe geometriche. Forme simili e simili simbologie si ripetono in numerosissime stoffe della tradizione africana più ancestrale; in tutto il continente, infatti, materiali economici e resistenti come la canapa o la raffia, sono intrecciati e tinti con terra e argilla, per realizzare arazzi e vestiti pesanti vivacizzati dal variegato sfumare di marroni, dal nero ebano all’ocra sabbioso, passando per il rosso ramato.

Maestri indiscussi di questa tecnica di tintura sono i membri dell’etnia Bakuba, discendenti di un antichissimo impero dell’ Africa centrale, nell’attuale Congo; le donne di questo popolo producono i tessuti kuba, decorati con forme geometriche ripetute, spesso non progettate, ma spezzate da variazioni sul tema date dall’ispirazione del momento. La personalizzazione dei tessuti è fondamentale tanto per chi li indossa quanto per il produttore, ma la maggior parte dei segni impressi su stoffa ha un significato simbolico decodificabile in gran parte del continente; per questo motivo tanto i colori, quanto le texture di alcuni indumenti si ritrovano pressoché invariati in stati tra loro molto distanti. Simile nell’aspetto, nei materiali e nei disegni delle stoffe kuba, è ad esempio il bogolan (letteralmente: “vestito di terra”) prodotto dall’etnia Bambara, insediata sulla costa occidentale e originaria del Mali; a sud, in Botswana, si possono invece ammirare i tessuti mashamba stampati dalle donne WaYeyi, discendenti dell’etnia Bantu.

Una donna vestita con uno shuka maasai mostra un kanga dal Kenya, recante la scritta in swahili “Mama ni malkia hakuna atakae mfikia”, letteralmente “La mamma è una regina che nessuno può eguagliare”

 

Altrettanto antica in Africa è la tradizione della tessitura, come attestato dai reperti trovati in tutto il continente; interessante è il preservarsi di alcune tecniche di tornitura e intreccio nel corso di secoli e imperi: il tessuto kente, ad esempio, è prodotto dall’etnia Akan almeno dai tempi dell’impero Ashanti e della sua sostituzione all’impero del Ghana, caduto nel 1200. Il kente si ottiene dall’intreccio simmetrico di fili di cotone, le cui colorazioni vivaci ancora una volta trasmettono un messaggio o un augurio: il marrone, colore della terra, simboleggia ad esempio la salute; il giallo regale richiama fertilità e bellezza; il blu è segno di pace e armonia. La tecnica degli Akan è stata assimilata anche nei paesi limitrofi a quelli di insediamento dell’etnia, in cui si trovano tessuti in tutto somiglianti al kente: molto diffusi sono djerma e hausa, prodotti in Niger; gli Yoruba della Nigeria lavorano la stoffa aso oke; mentre in Mali l’etnia Fulani produce i khasa blankets, in cui i fili colorati sono sovrapposti a una base bianca, e i monocromatici dogon.

Simili a quest’ultimi sono i filati etiopi, tra cui spiccano gabior gabi, tessuto pesante usato per abiti e coperte, e natella, una stoffa leggera simile alla garza, decorata con bordi colorati. Sulla stessa costa, tra gli altopiani di Kenya e Tanzania, il popolo Maasai ha ereditato dai soldati inglesi la tradizione di avvolgersi nei kilt, coperte in cotone rosso, blu e nero, che qui sono filati e tessuti artigianalmente e prendono il nome di shuka.
Nel profondo sud del continente africano, infine, i discendenti dell’etnia Bantu ancora cardano le fibre dei baobab e le intrecciano nei tessuti gudza, diffusi soprattutto in Zimbabwe; mentre nel vicino Oodi Village, in Botswana, l’abilità artigianale delle donne sul telaio è tale che sulle loro stoffe è possibile ammirare splendidi ricami, lavorati direttamente nella trama del tessuto.

A sinistra sullo sfondo: un bogolan dal Mali; al centro e in basso a destra: due filati senegalesi; in alto a destra: una natella dall’Etiopia

Paesaggi e storie della provincia italiana

C’è una leggenda nel paese cui sono legate le radici materne di Sara, a spiegazione di una buffa donazione che dal 1500 a oggi fa mostra di sé, non senza polemiche e dispute teologiche, nel Santuario della Madonna delle Lacrime, all’ingresso di Ponte Nossa, nascosto tra le montagne bergamasche: la leggenda del coccodrillo. «Il coccodrillo appeso in Chiesa- racconta da anni la nonna di Sara ridendo -viene dall’Adriatico e ha risalito il Po prima, il fiume Serio poi, arrivando fino a qui. Ma mangiava solo giovani vergini e a Ponte Nossa è morto di fame».
Straordinario è che trovi il racconto divertente, anziché offensivo; Antonella, sua figlia, spiega così le origini di un pensiero tanto emancipato: «Il paese è formato soprattutto da forestieri, persone nate in paesi più o meno limitrofi e arrivate qui per lavorare nelle industrie fiorite ai margini del fiume. Quando ero bambina, Ponte Nossa era limitato alla via del centro e poche altre case sparse, circondate da distese di campi e boschi; negli anni ’60 sono apparsi i primi condomini e il paese ha iniziato a trasformarsi in un villaggio operaio, anche se un po’ atipico per via della dislocazione montana».
La fissità che gli occhi di Sara hanno sempre attribuito al paesaggio di Ponte Nossa è molto meno datata di quanto avesse supposto: «Dagli anni ’50 il paese è cambiato molto. –continua Antonella- Pensa alla strada provinciale, su cui le case un po’ vecchie si affacciano a strapiombo: da ragazza vedevo passare soprattutto carretti, le macchine erano poche e lente; oggi le sue due corsie non bastano più e quotidianamente è intasata dal traffico».

Ponte Nossa (BG), area industriale [ph. Ago76 /CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons]

A preservare Ponte Nossa è il suo isolamento, la distanza da grandi centri urbani e la collocazione geografica che ostacola una cementificazione eccessiva; negli stessi anni in cui esso assumeva le sembianze di un ameno centro abitativo montano, altri paesi di provincia perdevano il proprio aspetto caratteristico, inglobate da un’urbanizzazione incipiente. «La zona dove abitavo a Mestre, nei pressi di via Garibaldi, è ora parte del centro, ma all’epoca, negli anni ‘60, era quasi in periferia, proprio al limitare della città. –racconta ad esempio Raffaella Rossin- La mia realtà era un misto di città e campagna. Abitavo in un condominio, ma appena dietro casa mia iniziavano i campi, dove andavamo sempre a giocare.
Diversi ragazzini del centro venivano apposta nella nostra zona il pomeriggio o la domenica, attirati dai grandi spazi che permettevano più libertà di movimento e di svago; la maggior parte dei nostri giochi si svolgeva all’aperto e in gruppo: mosca cieca, pescatore (una sorta di “lupo”, ndr), campanon, calcio. Spesso ci facevamo dare delle cassette vuote dal fruttivendolo del quartiere e le usavamo di volta in volta come fortino, casa, negozio, a seconda del gioco che si faceva.
Da questi campi in cui da bimba scorrazzavo, oggi passa la tangenziale interna».
Della stessa drastica trasformazione, Raffaella racconta quando parla della campagna ferrarese, dove da bambina trascorreva le vacanze, ospitata dai nonni: «I miei nonni materni vivevano in un’enorme casa nei pressi di Ro Ferrarese, piuttosto isolata e vicina a un pioppeto, concessa loro in usufrutto per il lavoro di mio nonno, che faceva il taglialegna. La casa era poco funzionale, non aveva elettricità, né acqua corrente, con il bagno in cortile e la stufa a legna per riscaldarla, ma per noi bambini era stupenda, piena di stanze misteriose e con tutto lo spazio per giocare e correre. C’erano inoltre pulcini e conigli da rincorrere e cui dare da mangiare, nonché i giochi in legno costruiti da mio nonno, semplici, ma che a noi bastavano. Gli animali non mancavano anche nella casa dei miei nonni paterni, che abitavano in un borgo di campagna ed erano agricoltori. Qui davamo da mangiare a galline e maiali e spesso aiutavamo i nonni nei campi, raccogliendo la frutta, il frumento e dando una mano nella stagione della vendemmia.
Tutti questi luoghi oggi non esistono più: l’enorme casa patriarcale dei miei nonni e il pioppeto sono stati rasi al suolo e rimpiazzati da abitazioni moderne; il borgo agricolo è abbandonato e in rovina.
Quando ritorno nei luoghi della mia infanzia, mi si stringe il cuore e non li riconosco più: restano solo i miei ricordi, che mi tengo ben stretti».

Tangenziale di Mestre (Autostrada A57) [ph. Luca Fascia via Wikimedia Commons]

Una campagna che si preserva uguale a se stessa è, invece, quella che descrive Pacifico parlando della casa dei nonni, in provincia di Benevento: «Il casolare è ancora lo stesso in cui è cresciuto mio nonno e io giocavo da bambino, circondato da distese di campi; il terreno andrebbe tenuto meglio, coltivato e organizzato, così come andrebbe ristrutturata la casa, ma per farlo servono soldi che noi eredi non abbiamo. Un amico ha investito un piccolo capitale che aveva da parte in attività di questo tipo: acquista i casolari sparsi nella campagna beneventina e li rimette in funzione, sia recuperando le attività tradizionali sia integrando con il turismo».
Ben preservato è anche il paese di Faicchio, dove Pacifico ha trascorso la sua infanzia, che dal monte Acero si affaccia su queste campagne, conservando memoria delle origini sannitiche nella cinta muraria che ne cinge la vetta: «Nel corso del Novecento, il numero di abitanti e case è ovviamente aumentato anche qui, ma fino alla fine del secolo ha mantenuto pressoché lo stesso aspetto, caratterizzato da monumenti delle diverse epoche storiche: dall’acquedotto romano in cui da bambino mi infilavo per attraversare il centro del paese, al Castello Ducale, con le sue cappelle affrescate e gli arredi settecenteschi».
Le nuove normative edilizie hanno però comportato rimaneggiamenti per la messa in sicurezza di alcune aree, portando a restauri talvolta molto discussi; Pacifico riporta l’esempio del Ponte Fabio Massimo: «Era un ponte bellissimo, basato su una struttura fatta dai sanniti: qui i sanniti hanno respinto l’attacco dei romani, Fabio Massimo ha frenato l’avanzata di Annibale e la stessa strategia è stata adottata in uno scontro tra un contingente tedesco e una divisione statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 2008 un architetto l’ha restaurato e adesso è orribile: ha una copertura moderna che nasconde tutto il fascino della struttura in pietra, che mostrava i restauri stratificati delle diverse fasi della repubblica romana».

Ponte Fabio Massimo, Faicchio (BN) [ph.Adam91 /CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons]

Di un’attenzione particolare alla conservazione dello stile del proprio paese racconta Gabriele, nato a Polizzi Generosa, Comune alle porte di Palermo: «La Soprintendenza alle Belle Arti impone una certa attenzione a qualsiasi rimaneggiamento del ricchissimo patrimonio artistico e culturale del paese, per il quale però spesso mancano risorse. Negli ultimi anni si nota una concentrazione degli sforzi su alcuni punti di maggior interesse: piuttosto che far poco per tanto, si è scelto di fare tanto per pochi. L’esempio più lampante sono i lavori di restauro della Chiesa Madre, che hanno permesso di completare la pavimentazione (assente da che ho memoria), rinnovare la sacrestia e creare un piccolo museo, e quelli del Palazzo Comunale, che hanno riportato alla luce i resti di una necropoli greca, oltre che fatto emergere il vecchio cortile. Dal punto di vista dell’attività edilizia, il paese sembra invece essersi fermato con l’avvento del nuovo millennio: non ci sono più cantieri e anche l’economia sembra aver subito un brusco rallentamento».
Il paese di Polizzi, figlio di ventisette secoli di storia, fondato dai sicani e influenzato poi dalle dominazioni greca, araba e normanna, ha fatto della preservazione del proprio patrimonio un baluardo, forse memore di un episodio storico che Gabriele dice tramandato nella memoria popolare fino ad oggi: «Fino al Settecento, il fonte battesimale della Chiesa Madre era retto da una statua della dea Iside ritrovata in uno scavo; nel 1771 il vescovo di Cefalù, ritenendola blasfema, ne ordinò la distruzione, nonostante le proteste degli abitanti, che fino a oggi ne conservano ricordo nell’etimologia di Polizzi: la Polis Isis, la Citta di Iside».

Polizzi Generosa (PA) [ph. Neekoh.fi /CC 2.0 via Wikimedia Commons]
Articolo scritto da Sara Ferrari e Lucia Ghezzi
Si ringraziano per la disponibilità Antonella Ferrari, Raffaella Rossin, Pacifico Ciaburri, Gabriele Brancato.

[In copertina: Faicchio, vista panoramica da monte Erbano
(ph. Adam91/CC BY-SA3.0 via Wikimedia Commons)]

Sul confine: ai margini della vita nuova

Questo viaggio vede come protagonisti l’entusiasmo di una giovane, una città di confine, un progetto d’amore e fedeltà.

Sara, studentessa e figlia di immigrati integratisi a Milano, aspira a una carriera nelle organizzazioni internazionali, per provare a correggere dall’interno quello che lei coglie come uno scemare di credibilità negli anni. Attraverso l’evento Nuit Debut Milano e una serie di incontri presso il centro sociale Ri-Make, viene a conoscenza del neonato progetto 20K.

Ventimiglia, comune della provincia di Imperia conosciuto come “Porta occidentale d’Italia” in quanto territorio di confine con la Francia, è lo scenario ospite in cui un gruppo di attivisti che credono nel diritto alla libera circolazione hanno organizzato un campo autogestito dove svolgere attività plurime per assistere i migranti che tentano d’attraversare la frontiera.

All’ordine del giorno il costante monitoraggio della situazione, il supporto materiale (distribuzione di beni di prima necessità) e la trasmissione di informazioni relative ai diritti e alla sicurezza di viaggio ai migranti, piuttosto che riguardo la cronaca degli avvenimenti di Ventimiglia al mondo.

L’anno scorso una simile iniziativa era stata condotta per qualche mese presso la spiaggia dei Balzi Rossi (sito archeologico che vede un complesso di grotte ornare la falesia calcarea) dove No borders, solidali e migranti avevano stanziato presidio; sfrattati da quel ritaglio di terra ch’erano riusciti a organizzare, i migranti hanno ricreato quasi spontaneamente un nuovo “campo informale”.

Sara, desiderosa di superare la semplice forma dell’assistenzialismo ed essere parte attiva nella realizzazione del progetto a stretto contatto con questa realtà di “ricerca di vita ”, poche settimane dopo la nascita di 20k parte alla volta dell’estrema punta ligure.

«Il 17 Luglio, assieme a altre due ragazze e una buona dose d’ansia, mi sono messa in viaggio.
Ventimiglia, solcata dal fiume Roja, si è presentata per un istante nelle sue due metà: quella medievale, ch’è secondo centro storico ligure per estensione dopo Genova, e quella più moderna (edificata dall’800 in poi).
Abbiamo proseguito per la valle sino all’ex parco ferroviario dove, nelle vicinanze della struttura d’accoglienza di Croce Rossa e Caritas, sorgeva il campo autonomo».

«Arrivata a destinazione, ho potuto vedere in prima persona la drammaticità della situazione: gli chabeb (“ragazzi” in arabo; termine che preferiamo a “migrante”) che non si fidavano delle procedure identificative al centro della Croce Rossa si riversavano in massa da noi. Ogni giorno abbiamo contato un flusso di 250/300 persone; alcuni tentavano la sorte provando ad attraversare il confine e altri, sfiniti da immensi viaggi o rispediti indietro dalla frontiera Francese, giungevano a momentaneo riparo».

In questo panorama di terra cocente e rotaie, di monti che s’ergono attorno e treni merci che scherniscono al loro passare inscenando una improbabile fuga, il campo era ben organizzato: in 6 strutture (ex stalle) situavano i dormitori, un efficiente info point con libreria che elargiva informazioni legali su questioni principalmente legate alle richieste d’asilo politico, una cucina-dispensa dotata di fornelli, pentole e prodotti per l’igiene e, infine, un ambulatorio per visite mediche dove dottori volontari prestavano quotidiano servizio. Anche gli spazi aperti venivano adibiti a funzioni sociali: segnaletiche in arabo indicavano le zone del parrucchiere, quelle adibite al gioco del pallone e alla preghiera.

«In breve abbiamo avviato dei corsi introduttivi di lingua inglese e francese e trovato il modo di installare una doccia funzionante, anche se l’allaccio all’acqua ci è stato tolto poco dopo».
Dalla sua nascita, il campo informale ha avuto sempre rapporti difficili con le istituzioni e il vicino centro della Croce Rossa, così che i tentativi di sabotaggio dell’iniziativa sono stati molteplici e continui: dai piccoli furti e danni materiali, all’ordinanza della prefettura di bloccare la raccolta dei rifiuti.

«Queste le risposte al fatto che i migranti preferissero stazionare al campo informale piuttosto che a quello istituzionale dove la procedura di registrazione era sempre più simile a un’identificazione: per accedere alla mensa, alle docce e al servizio medico era necessario un badge con codice a barre e fotografia al posto del precedente tesserino nominale. Dei 180 posti disponibili all’interno della struttura solo una sessantina erano occupati».

Sara ricorda con amarezza gli ultimi giorni di Luglio: nonostante i viglili del fuoco avessero decretato, in seguito ad un sopralluogo, la sicurezza della cucina del campo, polizia e digos hanno smantellato tutto, giustificandosi con la supposta inutilità del locale, in quanto il cibo per i migranti era già messo a disposizione dalla Croce Rossa.

Questi i preludi del definitivo sgombero dell’intera zona avvenuto il primo Agosto. Le forze di polizia hanno fatto incursione la mattina presto e gli chabeb, dopo una breve resistenza, hanno ceduto alla paura e sono stati trasferiti obbligatoriamente all’interno del campo governativo. Espulsioni dal Paese e fogli di via per alcuni attivisti italiani ed europei a coronare la disfatta.

«Vivere a stretto contatto dell’alternarsi tra solidarietà quotidiana, repressione, speranza, deportazioni è stata una palestra di conoscenza immensa. Mi spaventa questa intolleranza per il diverso, questa gestione seriale delle vite applicata dall’occidente.

In Dicembre sono tornata a Ventimiglia per un breve periodo: la notte, in stazione, i blindati detengono il bottino della continua “caccia al nero” e chabeb dai visi coperti sgattaiolano terrorizzati dove possono per non farsi catturare.
Vi ho trovato anche l’infelice sorpresa di un’ordinanza che vieta la distribuzione di cibo per le strade della città.

Ora noi siamo quelli che stanno nascosti a sfamare i “mostri”».

Fotografie di Sara/Progetto 20K

Il viaggio superato. Calabria e India in due fughe “all’altro millennio”

Il battesimo del volo lo presi ch’ero bimbo, a 5 anni, nell’Agosto del ’95.
Per quel che i miei ricordano dovette essere anche il primo reale viaggio dopo il mio “arrivo”.
Al tempo la trama era quella di un’Orio al Serio che timidamente si approcciava alla scena aeroportuale nostrana, di tratte aeree low cost comparse sporadicamente solo oltreoceano e in nord Europa e assolutamente nessun cenno di velivoli RyanAir sopra i cieli italiani.
Così, l’esordio di questa “gita” fu: Milano Linate- Lamezia Terme.
200.000 lire a capo per la traversata del paese. Erano bei soldi all’epoca!

Il primo computer, a casa, lo vidi non prima dei 12 anni; perciò, senza ausilio di scatole onniscienti (per altro la linea internet approdò in Italia soltanto nella seconda metà degli ’80 e ancora pochissimi erano i fruitori del world wide web), il babbo organizzò il soggiorno a Vibo Valentia con l’appoggio di quell’entità capace ch’era l’agenzia turistica.
Non si parlava pressoché mai di “Online”; di conseguenza l’agenzia di viaggi operava esclusivamente in un luogo fisico, uno spazio contenitore che tutto offriva in soluzione alla smania organizzativa di itinerari e permanenze, elargendo depliant e guide turistiche per ogni angolo del globo.

Certo, io ero solo un marmocchio prima del nuovo millennio e poco ricordo del nostro peregrinare estivo; tanto meno delle strategie organizzative che permettevano la buona riuscita del viaggio.
Inoltre, per i miei (da giovani) le spedizioni lontane erano assai sporadiche. All’epoca erano poche le famiglie che si permettevano viaggi extracontinentali, mentre i più preferivano le vicine coste del belpaese.

Volo Alitalia

Assai più esaustivo l’episodio indiano di Bobo, incallito (ex)amante dell’Asia meridionale incontrato sui colli della Maremma. Ragazzo, nell’81, parte per quello che si rivelerà essere il viaggio più duraturo nel suo bagaglio d’esperienze.
Ha indicativamente un concetto vasto di meta (India e dintorni, per l’appunto), un visto di 6 mesi, qualche bottiglia di whisky (poi capirete perché mai) e un biglietto sola andata per Nuova Delhi reperito tramite una delle suddette agenzie: viaggio e avventura risultavano spesso sinonimici.
Nel Nord del paese le giornate si spendono tra l’esplorazione, la ricerca di ospitalità o alloggio e gli spostamenti. Spostamenti tramite mezzi pubblici locali o -tadadadam- Autostop!

Obbligo di aprire una parentesi su questa pratica universalmente riconosciuta come hitchhiking (letteralmente: lunga escursione fatta a tratti).
In particolar modo negli anni 70, per ristrettezze economiche, ambientalismo (pare…) e ricerca d’avventura, la gioventù (e non solo) tendeva a optare per questo canale di trasporto facendo volentieri buon viso all’espansione notevole delle tempistiche di “crociera”.
Già dalla seconda metà degli ’80 però, con l’aumento del tenore di vita e la conseguente diffusione dell’automobile, il pollice alzato si ammoscia cadendo in uno stato di stasi.
All’avvento del nuovo millennio è addirittura una pratica osteggiata, diffondendosi i timori per i rischi legati allo salire su automobili sconosciute.
Solo oggi un parente stretto dell’autostop sembra tornare alla ribalta, proprio grazie allo sviluppo della rete di una realtà virtuale, che ne permette forma organizzata: BlaBlaCar e simili. Il “nipote” s’è fatto anche furbo e prevede solitamente un esiguo contributo economico da parte del passeggero. Ricomparsa di ristrettezze?

Tornando all’India: dal Rajasthan alla città di Patna dove, mediante dritte giunte per passaparola, Bobo sa di poter racimolare la quota necessaria del biglietto aereo per Kathmandu (Nepal) rivendendo a ottimo prezzo il whisky portatosi dall’Italia. (Questa mi è particolarmente piaciuta).

A questo punto noi infileremmo un what’suppino o una chiamata alla famiglia lasciata dall’altra parte del mondo però… incredibile! Fino a 20 anni fa non solo Internet non era diffuso ma pure il telefono portatile era in una sacca amniotica!
Mantenere contatti con casa, in generale, era tanto raro quanto più s’era lontani; ecco che il ruolo della cartolina si rivelava essere molto più sensibile ed essenziale di quello attribuitole oggi.
All’alba del 2000 ancora il mondo non era attraversato da onde wi-fi che permettessero di acchiappare conversazioni nell’aere; per avvisare casa era ancora necessario collegarsi alla rete telefonica, che si affacciava ad alcuni angoli di strada nella forma di cabine pubbliche. Oggi queste hanno l’aura dell’archeologico residuo di un passato recente.

Rientrando dalla divagazione: giusto il tempo necessario a perlustrare il nuovo stato ospite e via per il trekking sull’Himalaya. Nessuna guida per Bobo, perlomeno in carne e ossa: solo un minuscolo Lonely Planet, testo sacro e perenne compagno del viaggiatore, unica fonte d’informazioni oltre il sopracitato passaparola.
Il salvifico dispensario accompagnava chiunque in ogni tipologia di viaggio: lo trovavi in mano alla madre milanese in visita con famiglia a Firenze come in saccoccia al fricchettone danese volutamente “perdutosi” in Guatemala.
E allora, spaziando, rivedo paragrafi nella memoria dove sul cruscotto della Opel Kadett attende, spiegazzata, la tanto fedele quanto criptica mappa stradale. Quel leggendario menomato tomtom cartaceo che, combinato alla segnaletica per la via, era la fonte primaria d’orientamento.
E mi fa sorridere pensare che meno di una ventina d’anni fa, spesso, si sbagliava ancora strada; ci si affidava alla capacità (e all’azzardo) di decifrare un disegno intricato di colori, parole e linee e si sbagliava strada.
Non è che fosse piacevole in sé: ci scappava anche qualche moccolo, ma ti lasciava quella sensazione di avere una compartecipazione col tempo, che il tuo andare era anche uno smarrirsi e ritrovare, rispecchiando la romantica insicurezza che ci muove.

Telefono Sirio – Gratuitamente distribuito dalla SIP nelle case degli italiani tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000

In una fuga come quella di Bobo certamente vi era una dose di “spartanità” in più rispetto a una vacanza canonica di allora ma c’è da considerare che milioni di giovani optavano per viaggi similari; ne concentravano le caratteristiche, esasperandole. Scandagliavano l’adattabilità coi pochi agi e mezzi disponibili. Pochissima stabilità, la costante dell’imprevedibile.

Per tornare a Vibo Valentia e a una manciata di estati successive la situazione fu molto meno audace; ma mappe stradali, cabine telefoniche e sorprese erano nella quotidianità dello spostarsi.

Rimugini una volta ancora su quanto cambi tutto nel tempo, in miriadi di ambiti delle nostre vite.
Viene naturale guardar su.
Stelle.
Altrove nel trascorso, in cammino, erano loro le guide.

Cinque perle della costa israeliana

Quando si parla di “viaggi natalizi”, le prime mete che vengono in mente sono maestosi paesaggi innevati, villaggi di montagna illuminati, confortevoli chalet riscaldati da un bel caminetto scoppiettante. Tuttavia, a ben pensarci, il primo vero viaggio natalizio è avvenuto in una zona che di innevato ha ben poco: Israele. E’ in Palestina infatti che, in base alla tradizione cristiana, Maria e Giuseppe hanno intrapreso il loro viaggio da Nazareth a Betlemme, la città dove è nato Gesù.
Oggi, per percorrere la stessa strada descritta nei Vangeli occorre passare attraverso diversi checkpoint israeliani, dato che l’intera area della Cisgiordania è contesa tra Israele e lo Stato Palestinese. Non meno affascinante è l’itinerario che percorre la costa israeliana; praticabile in pochi giorni, il “viaggio natalizio” di Pequod tocca 5 tappe imperdibili nello stato d’Israele: dalla vivace Tel Aviv fino alle meravigliose grotte di Rosh Hanikra, al confine con il Libano.

1. Tel Aviv
Tel Aviv è una tappa obbligata di ogni viaggio in Israele che si rispetti, in parte perché la maggior parte dei voli internazionali arriva all’aeroporto di Ben Gurion, a soli 25 km dalla città, ma soprattutto perché è un centro culturale d’eccellenza, perfetto miscuglio tra tradizione e modernità. Imperdibile è una passeggiata lungo Rotschild Boulevard per ammirare i numerosi edifici Bauhaus edificati dai primi sionisti negli anni ‘20, che hanno portato Tel Aviv ad essere dichiarata Patrimonio Unesco nel 2003 e le hanno valso l’appellativo di “città bianca”. Se siete affamati di storia antica, invece, potete recarvi a Giaffa, la città vecchia posta su un piccolo promontorio a sud del centro, che secondo la leggenda è stata fondata dal figlio di Noè, Jafet, al termine del diluvio universale. Importante porto egizio del Mediterraneo, con i suoi vicoli tortuosi e la sua storia millenaria risalente al 7000 a.C., Giaffa è un piccolo gioiello di grande fascino. Se aspirate a qualcosa di decisamente più moderno, però, non rimarrete delusi. Tel Aviv viene infatti anche paragonata a Miami per le sue lunghe spiagge attorniate dai grattacieli, come ad esempio Frishman Beach, costellata da caffè e locali alla moda. Se invece questi ultimi non fanno per voi e cercate un posto più alla buona per mangiare un boccone, Carmel Market, il più grande mercato della città, è il posto giusto. Tra le sue bancarelle si possono comprare le più disparate e deliziose specialità gastronomiche locali, tra cui falafel, pane artigianale, olive e spezie esotiche. Per chiudere in bellezza, non si può non citare la vita notturna di Tel Aviv, anche chiamata “la città che non dorme mai”, famosa per essere vivace e gay-friendly.

Tel Aviv, lungomare [foto di Lucia Ghezzi]

2. Cesarea
Proseguendo lungo la costa verso Nord, a 60 km. da Tel Aviv ci si imbatte nella nostra seconda tappa, Cesarea, una delle città più grandi dell’antichità. Il Parco Nazionale di Cesarea è uno dei siti archeologici più imponenti e famosi di Israele e vi si trovano resti architettonici risalenti a diversi periodi, dal III secolo a.C. fino al XII. Le gemme del Parco sono l’immenso anfiteatro romano che si innalza di fronte al mare e le imponenti fortificazioni della città al tempo dei Crociati.

Cesarea, rovine del teatro romano [foto di Berthold Werner]

3. Haifa
Sebbene sia il principale centro industriale del Paese, nonché sede delle avanzate aziende high-tech israeliane, Haifa è ben lontana dall’immagine tipica di una città industriale – grigia, inquinata e poco attraente. Al contrario, sorge su di un’ampia e soleggiata baia alle pendici del Monte Carmelo, da cui si godono stupendi panorami, ed è caratterizzata da splendidi giardini. I più celebri e spettacolari sono i giardini sospesi Bahai, costruiti su 18 terrazze lungo la china del monte, che culminano con il tempio del Bab, principale luogo di culto della fede Bahai, una religione abramitica monoteistica nata in Iran durante la metà del XIX secolo. Più del 10% della popolazione di Haifa, inoltre, è composta da arabo-israeliani, aspetto evidente nel pittoresco quartiere arabo di Wadi Nisnas, che vale una visita per le sue case caratteristiche, le sue stradine tortuose e il profumo di spezie misto a quello del delizioso pane arabo appena sfornato.

Haifa, giardini sospesi di Bahai [foto di Marcus Ronen]

4. Akko
Da Haifa si può proseguire 25 km a Nord per raggiungere Akko (o Acri), una cittadina in pietra fortificata unanimemente considerata tra le più belle e ricche di atmosfera del Paese. Crocevia di civiltà e culture, ad Akko si può ammirare la Moschea ottomana El-Jazzar, centro spirituale per la comunità musulmana in Israele, dagli interni imponenti e magnificenti. Il fiore all’occhiello della città vecchia, però, è indubbiamente la Città Crociata Sotterranea, opera dei Cavalieri Templari nel 1300, che si estende sotto la città ed è collegata da un tunnel di 350 metri dalla fortezza al porto. Le maestose sale sotterranee, costellate da imponenti archi e colonne, vi lasceranno senza parole. Dopo la visita, se siete dei buongustai non vi potete perdere l’hummus di “Hummus Said”, un ristorante molto spartano dove però potrete gustare l’hummus più buono che avete mai assaggiato. Non lasciatevi spaventare dalla lunga coda che arriva in strada, né dall’idea di dover mangiare allo stesso tavolo con degli sconosciuti: ne varrà la pena!

Sala dei Cavalieri nella Città Crociata Sotterranea di Akko [foto di Ian e Wendy Sewell – GNU Free Documentation License]

5. Rosh Hanikra
Raggiungendo l’estremità nord-occidentale del Paese fino al confine con il Libano arriveremo all’ultima tappa del nostro itinerario: le scogliere di Rosh Hanikra. Le scogliere, di colore bianco e a picco sul mare, sono di per sé una bellezza, ma la vera attrazione sono le grotte marine createsi alla loro base per effetto dell’erosione delle onde. Le diverse gradazioni dell’acqua e i forti contrasti tra luci e ombre all’interno, che si possono ammirare percorrendo degli stretti tunnel scavati nella roccia, garantiscono un’esperienza unica. Le grotte sono raggiungibili esclusivamente in barca o con la funivia che dalla scogliera scende per circa 650 metri, rendendo la visita ancora più emozionante.

Grotte di Rosh Hanikra [foto di Chmee2 – GNU Free Documentation License]
In copertina: La vecchia città di Giaffa, Tel Aviv [foto di Noam Armonn].

Turisti a Cuba: tra danze e colori, fiesta y revolution!

Il clima di festa è il primo ricordo di Cuba di cui parla Mary, sbarcata sull’isola nell’Agosto 2016, in coincidenza con il novantesimo compleanno di Fidel Castro: «Le strade erano piene di festoni, i cui colori si mescolavano a quelli già molto accesi delle facciate, mentre i locali erano decorati con immagini del leader della rivoluzione, posti accanto agli altari domestici caratteristici della Santería. In realtà, al di là dell’incredibile mole di fiori e frasi d’auguri sparsi per l’isola, molti dei decori che colpivano coi loro toni accesi, a Cuba rappresentano l’arredo tipico di una cultura che ama circondarsi di immagini votive e idoli».

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Santiago De Cuba

Non meno caratteristico è lo spirito festaiolo dei cubani, le cui giornate sono ricche di musiche e balli, in cui amano coinvolgere le belle turiste europee: «Le cubane ci hanno subito messo in guardia sui giovani locali: “L’uomo cubano non è affidabile anche se molto passionale!” – riferisce ancora Mary – In effetti, il numero degli “Hola chica guapa!” che risuonano nelle strade è gratificante, ma spesso si accompagna a piccole richieste in denaro o baratti. L’accoglienza cubana è però davvero incredibile: sono molto solari, disponibili nel dare consigli e desiderosi di parlare della loro patria».
Della stessa accoglienza e della stessa solarità raccontano Franco e Cecilia, che hanno visitato Cuba nel 2008, quando ancora non si affacciavano le possibilità di risoluzione del bloqueo, aperte da Obama nel 2014: «I cubani sono molto orgogliosi della loro storia, di cui amano parlare con i turisti e di cui conservano memoria nei numerosissimi “santuari” della Rivoluzione: monumenti, musei, luoghi storici permettono di capire la storia di questa nazione, che per il fatto di essere recente si differenzia dagli altri stati del Centro America. I locali danno indicazioni e concludono affari con i turisti senza chiedere la propina; fatto che ci ha colpiti, dopo che avevamo incontrato quest’abitudine in buona parte del mondo latino». Un’abitudine che si è forse inserita solo in seguito a contatti significativi con i turisti europei e che comunque rimane in sordina, se posta a confronto con la sua diffusione nei paesi del terzo mondo.

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Cuartel Moncada, Santiago. La caserma venne attaccata da un gruppo di ribelli guidato da Fidel Castro il 26 Luglio 1953. L’assalto fallì, ma segnò l’inizio della rivoluzione cubana. Sull’edificio si conservano i segni dei primi colpi sparati dai rivoluzionari.
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Mausoleo di Che Guevara, Santa Clara. Il monumento funebre ospita i resti di 30 compagni rivoluzionari, tra i quali si suppone vi sia Ernesto Che Guevara (1928-1967), ritrovati in una fossa comune in Bolivia nel 1997.

In effetti, inquadrare Cuba da un punto di vista economico non è così semplice: «L’economia a inizio secolo era essenzialmente agricola, con stabilimenti industriali piuttosto arretrati; – spiega Franco – attualmente l’industria turistica ha assunto un’importanza notevole, ma che penso sia anche fonte di forti contraddizioni: di fronte ai cubani che, in base a un sistema di stipendi fissi nazionalizzati e tessere per le derrate, possono avere senza problemi l’essenziale di che vivere, ma solo l’essenziale, lo spreco dei turisti è un pugno nello stomaco». Osservazioni al contempo confermate e smentite dall’esperienza di Mary: «La differenziazione della moneta in CUC per i turisti e Pesos National per i cubani fa sì che anche gli indigeni possano permettersi di acquistare beni destinati principalmente ai turisti, ma a cifre più contenute; lo abbiamo sperimentato su una spiaggia per cubani a Santiago: i prezzi delle baracche in lamiera che vendevano cibo non erano neanche paragonabili a quelli spesi ad esempio sul Malecón de L’Avana, diventato famoso grazie ai videoclip musicali e punto di ritrovo prediletto degli habaneros. Lo stipendio in proporzione è comunque molto basso! Soprattutto nelle periferie che sono ancora molto povere, si cerca di sfruttare la presenza dei turisti per ottenere modeste mance o piccoli doni».
Ritratto emblematico dell’evoluzione della realtà cubana è la città di Varadero, ai primi posti nell’offerta turistica grazie ai numerosi resort all inclusive che si affacciano sulle sue splendide spiagge. Cecilia e Franco ricordano lo spreco esorbitante dei turisti europei di fronte ai succulenti buffet; nel 2016, Mary racconta di come i cubani in vacanza abbiano interiorizzato quest’atteggiamento consumistico: «L’ambiente era molto sporco, ma proprio per la maleducazione dei turisti, che a Varadero sono per lo più indigeni».

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Santiago De Cuba
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Malecón de L’Avana

Dal Vecchio Continente, i turisti sbarcano a Cuba alla ricerca dell’essenza dell’isola, delle espressioni contemporanee di una cultura radicata e pregnante, di colori e sapori che parlano di tradizione; i cubani rispondono assimilando il più possibile e poi ricostruendo ad hoc gli scenari folkloristici dell’immaginario europeo. Questo sincretismo culturale ed epocale, che mai arriva a una sintesi definitiva, trova espressione nella polifonia della vita notturna cubana: celeberrime le Case della Musica che offrono spettacoli della più fedele tradizione cubana, ma che sfalsano la natura modesta delle balere che si affacciano sugli sterrati periferici, dove anziani ancora arzilli si offrono alle turiste per mostrare loro qualche passo di rumba o per degustare un rum, mentre lungo la via si accendono piccoli falò attorno cui le famiglie si raccolgono a chiacchierare. Se si vuol essere turisti onesti, però, e incontrare la realtà della gioventù cubana, non sono le balere né gli spettacoli d’orchestra la vera attrazione delle notti di Cuba, ma le discoteche reggaeton dove i giovani non indossano foulard, non suonano chitarre, ma cantano hip hop e vestono all’occidentale.

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Balera a L’Avana
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Pool Party a Varadero

L’occidente si fa strada come richiesta di nuovi consumi, nella musica, nel vestiario, nell’alimentazione; eppure il paesaggio dell’isola riesce a restarne intaccato: «Quello che mi ha stupito è che nel marasma di colori dei paesaggi cubani, tutti caratterizzati dall’abitudine di ridipingere piuttosto che restaurare le case (molte splendide ville di epoca coloniale) o riparare le auto (spesso pickup risalenti agli anni ’20 tenuti insieme a spago), non comparissero cartelloni pubblicitari. A Cuba la pubblicità non esiste! In compenso, su molte facciate si leggono frasi propagandistiche o riproduzioni dei leader della rivoluzione.» racconta Mary. La memoria storica oppone ancora una forte resistenza all’ingresso del capitalismo sull’isola, forse anche a causa dell’onnipresente censura: «Ogni tre case si incontra un CDR – spiega ancora Mary – che si occupa di verificare le voci attorno al regime, denunciando gli oppositori; una sorta di polizia in borghese. Non è facile fare domande sui Castro ai locali; una cameriera si è allontanata dalle colleghe per sussurrarci che “in effetti, Fidel è un dittatore”».

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Comitato della Difesa della Rivoluzione; sistemi di vigilanza collettiva istituiti nel 1960 con compiti di sorveglianza, assistenza sociale, promozione culturale; di fatto rappresentano gli occhi e le orecchie del regime.

Anche la cameriera, però, finito il turno, si unisce con gioia ai festeggiamenti, seguita dal figlio che cresce da sola, su quest’isola dove gli uomini amano passionalmente, ma abbandonano a cuor leggero; dove non manca nulla ma ci si deve accontentare di poco; dove le ferite recenti di una guerra civile seguita da infinite restrizioni non hanno intaccato l’orgoglio patriottico di un popolo che ha realizzato una rivoluzione unica nella storia; dove il clima mite regala il ristoro di un mare caldo e la vegetazione caraibica si offre a palcoscenico di danze intervallate dall’intramontabile slogan: “Hasta la victoria siempre!

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Un giorno da predone

Dall’alto delle sue colline, possenti e accoglienti al contempo nella dolcezza delle loro curve maestose, la Toscana è un’illimitata distesa di sfumature verdi, che muta di tono alla svolta d’ogni rilievo e seguendo i capricci del tempo, gli spostamenti del sole, l’agire delle intemperie e il ciclo delle stagioni. Lo sguardo si perde nel tentativo di definire le tinte e si aggrappa alla ricerca di pochi dettagli; la presenza umana, sincronizzatasi ai ritmi della terra e adattatasi alle sue esigenze, si è mimetizzata tra il succedersi di boschi da legna e colture d’ulivi, prati per il pascolo e terreni agricoli.
La mattina poi, il sole giocando a intrecciare i raggi di luce ai fili d’erba confonde le pupille, illudendo che sia giorno prima del tempo, prorompendo in un cielo che è solo per lui, limpido e sgombro, asciugando coltri di rugiada, sollecitando la fauna a cantare in versi il ritorno alla veglia. È in un mattino così soleggiato che Davide sorprende le mie palpebre, impegnate nella ricerca dentro una tazza di caffè della forza di alzarsi, con una proposta che non mi aspettavo di ricevere qui a Ripacci, in questo ritiro sulle colline maremmane: «Se hai voglia, oggi andiamo a vedere i resti di una villa romana, dopo aver portato le mucche al pascolo».

Con facce pulite e scarpe comode entriamo e usciamo dalle stalle. Accompagnati dal ciondolare lento delle anche bovine, muoviamo i nostri passi su quei paesaggi di cui all’orizzonte è impossibile delimitare i confini: scendiamo attraverso il bosco che con il deposito di legna si affaccia su un piccolo lago artificiale; circumnavighiamo la schiera ordinata di ulivi, che d’inverno si lasciano coccolare dal letame caldo adagiato ai loro piedi; arriviamo a una radura vergine su cui le mucche si disperdono, contaminando la pace mattutina. Lasciamo gli animali liberi di pascolare e torniamo sui nostri passi.
All’altezza del piccolo specchio d’acqua, Davide mi indica di svoltare e per qualche passo sembra, in effetti, che seguiamo un sentiero, ma presto la natura prende il sopravvento e noi ci troviamo a passeggiare in un campo di erba incolta da tempo. Mi perdo facilmente dietro il volo di un lepidottero, nel frinito di una cicala, al punto che quasi non mi accorgo di Davide che mi sta prendendo in giro: «Ehi! Almeno entrando in casa chiedi permesso!». Abbasso lo sguardo, scoprendo che mattonelle rosse sbucano dalla terra e via via si fanno sempre più spazio tra i ciuffi d’erba, che s’insinuano tra le intercapedini e slanciandosi verso il cielo nascondono le tracce di quello che un tempo era un pavimento. Indovinando le fondamenta di un angolo, inseguo con lo sguardo ciò che rimane del perimetro dei muri, supplendo con la fantasia le tracce che il tempo ha cancellato; qualche residuo di impiantito, evoca il fasto di un’antica pavimentazione ramata, ottenuta dall’incasellamento minuzioso di piastrelle squadrate con perizia manuale.
Davide sa darmi poche informazioni: «Costruita tra il 200 a.C. e il 200 d.C.», dice. Un lasso di tempo troppo vasto, troppo poco definito, che per un istante mi porta a dubitare delle sue parole e della storicità del posto in cui mi trovo; in fondo, si tratta di qualche mattonella e un po’ di cemento abbandonati a loro stessi, in balia degli eventi, senza nulla che ne segnali la presenza, a parte il fatto di esser lì, anonimi e silenziosi. Ad ammonire i miei pensieri, svoltando per avere una vista diversa sulla villa, interviene il basamento di una colonna ancorato a terra, all’incirca al centro dell’abitazione, con il suo stile inequivocabile, che attribuisce significato a tutto quanto lo circonda, rendendo giusto valore all’archeologia del paesaggio.

Sito Archeologico di Ghiaccioforte, Scansano
Sito Archeologico di Giaccioforte, Scansano

Sogno ad alta voce di poter scovare qualche antico reperto, provare l’emozione di spolverare un coccio di anfora romana o tastare un utensile rudimentale; Davide mi disillude immediatamente, facendomi notare con quanta probabilità il passaggio di altri visitatori prima di noi abbia fatto sì che oggi non ci sia più nulla da scoprire. Mi racconta di quanti siti si trovano così, sparpagliati tra un appezzamento e l’altro di terreno, dispersi tra la vegetazione collinare: fin dall’età arcaica, la Toscana ha accolto l’uomo con ospitalità materna nei suoi paesaggi gentili; oggi custodisce testimonianze del passaggio in diverse epoche storiche di diverse culture, dall’età del bronzo al Rinascimento, passando per le civiltà etrusca e romana. «Gli enti istituzionali si fanno carico solo dei siti dove le strutture sono meglio conservate; – spiega Davide – per le aree archeologiche meno significative non ci sono finanziamenti, così chiunque può accedervi e prelevare ciò che vuole. Capita di incontrare sulle colline qualche giovane archeologo, che sfrutta la mancanza di controllo su queste zone per provare a mettere in pratica ciò che ha studiato. Moltissimi ragazzi di Scansano sono laureati in archeologia, spesso proprio con l’obiettivo di recuperare il patrimonio dimenticato della loro terra».
Tra il perplesso e l’indispettito, metto ancora una volta in discussione le parole di Davide: possibile che una regione come la Toscana, capace nel corso dei secoli di rinnovare se stessa sempre nel rispetto della sua propria natura, passando ad esempio dall’estrazione di metalli pesanti alle colture d’eccellenza nella produzione dell’olio d’oliva, fino alla conversione negli ultimi anni di molti casali nei principali promotori di un turismo etico e sostenibile; possibile, dicevo, che una terra così rinunci al valore estetico e storico di queste oasi di archeologia? «La maggior parte dei turisti continua a preferire le capitali europee ai rilievi della Maremma, così come avviene per moltissimi centri storici della penisola italiana: bellezze architettoniche dimenticate. – costata Davide – Il comune di Scansano ha puntato molto sul turismo in questo senso, soprattutto nell’area archeologica etrusca di Ghiaccio Forte, ma operare su tutto il territorio è ancora impensabile».

Voglio una prova di questa assenza di controllo, della facilità di frode cui questo spazio si trova in balia: mi abbasso a raccogliere un paio di piastrelle, disancoratesi da terra ma ancora posizionate nell’ordine geometrico dell’incasellamento; le metto in tasca.
A letto la sera, riguardo il mio piccolo reperto archeologico, lasciato ancora impolverato sul comodino, all’apparenza muto. Lascio divagare lo sguardo come a sfiorare i bozzi che ne determinano la forma rettangolare; d’un tratto il mio reperto prende a parlare: racconta di uomini che inventavano forme nell’atto di scolpirle; di idee che si tramutano in progetti e diventano strutture; di persone che vivono in quelle forme, quei progetti, quelle strutture e lì pongono le basi per una storia che arriva fino a me. Una storia che solo il mio reperto, dalla nicchia nel pavimento cui l’ho rubato, può raccontare.
Domani torno alla villa, a rimettere nel suo disordine il mio angolo di impiantito.

Pedagogie d’altri continenti

«In metro, un bimbo di una ventina di mesi stava seduto sulle gambe della mamma e teneva in mano un gioco di gomma: si divertiva a gettarlo in terra, ridendo per il rumore prodotto, e il papà a ogni tonfo si abbassava a raccoglierlo. In un movimento monotono la scena continuava a ripetersi, il gioco cadeva e il papà si abbassava, ma a nessuno veniva in mente di innervosirsi e sgridare il bambino», un amico di rientro dal Giappone mi racconta di quest’episodio per spiegarmi la libertà totale di cui godono i bambini nel Paese del Sol Levante. Nell’immaginario occidentale, i piccoli giapponesi crescono addestrati fin dall’infanzia a essere parte di una società operosa e produttiva, alle cui regole è imposto sottostare acriticamente; in realtà, in età prescolastica il modello educativo giapponese è tra i più lassisti e liberali del mondo. Ne Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict dà un’immagine grafica di questo modello educativo: l’arco di vita dei Giapponesi segue una curva ad U (contrapposta al modello americano che ha forma Ո), «in cui i massimi di libertà e di indulgenza sono riservati ai bambini e ai vecchi, mentre le limitazioni all’autodeterminazione individuale aumentano lentamente dopo la fanciullezza per raggiungere il punto più basso della curva nel periodo che immediatamente precede e segue il matrimonio».

L’educazione degli infanti avviene quasi totalmente per mezzo di provocazioni psicologiche, di cui la Benedict offre interessanti esempi: «quando un altro pic­cino viene a far visita, la madre in presenza del proprio bambino, si mette a vezzeggiare il piccolo ospite e dice: “Ho intenzione di adottare questo bambino; desidero proprio un bambino così carino e così bravo. Tu invece non ti comporti come dovresti per la tua età” […] oppure la madre dice al bambino: “Tuo padre mi piace più di te: lui sì che è un uomo come si deve”». In questo modo si ottiene il risultato di far sorgere nel giapponese adul­to quel timore del ridicolo e della condanna sociale che è un elemento così tipico della sua mentalità e che trova il suo fondamento nel kimochi-fugi, che Azuma definisce come «la tendenza a dare importanza ai sentimenti degli altri, o a tentare di simpatizzare con i sentimenti degli altri e di percepire le loro intenzioni».

Sempre grazie a questa filosofia, i bambini sono educati a essere membri di una società imperniata sul gruppo, di cui presto dovranno imparare le gerarchizzazioni, riflesse per la loro importanza nel linguaggio quotidiano: le espressioni “fratello” e “sorella” esistono, infatti, in Giappone solo accompagnati da riferimenti all’età, ossia come ani (fratello maggiore) o otōto (fratello minore), ane (sorella maggiore) o imōto (sorella minore).

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Questa gerarchizzazione, data dall’ordine di nascita, che attribuisce un vero e proprio potere, una vera e propria autorità, mi ricorda in qualche modo quello che in Senegal ho osservato essere l’ordine che naturalmente si costituisce all’interno delle famiglie. In tutta l’Africa, l’età è motivo di vanto e la persona anziana considerata più saggia dei successori; questo principio è tanto radicato da diventare significativo anche tra individui della stessa generazione, soprattutto in età infantile, quando ancora non subentrano titoli acquisiti e meriti, a mutare la piramide voluta dalla cronologia di nascita.

Come in Giappone, in Senegal il bambino sotto i tre/quattro anni sembra in qualche modo escluso dalle interazioni sociali, quindi esonerato dalle norme che le regolano: trascorre gran parte del tempo fasciato sulla schiena della madre, viene preso in braccio ogni volta che piange, mangia e dorme quando decide. Crescendo invece, l’infante è tenuto a obbedire a qualsiasi richiesta l’adulto ponga e a rispettarne le regole, ma gode, a differenza dei giapponesi, di totale autonomia nella gestione del tempo libero, anche grazie alla presenza di una comunità priva di pericoli e coinvolta nell’educazione; è tipico veder correre per i vicoli tra le case dei quartieri di Dakar gruppi di bambini che liberamente giocano, entrano ed escono dai cortili, litigano, fanno pace e stabiliscono gerarchie entro le loro microsocietà. Totalmente differente è però l’approccio dei genitori all’educazione scolastica; un’altra similitudine emerge tra Senegal e Giappone: fin dai primissimi anni d’istruzione, fondamentale è il successo scolastico, che viene misurato attraverso una vera e propria classifica di confronto tra compagni di classe. In entrambi i paesi, inoltre, la distinzione tra periodo scolastico e vacanze è molto meno netta di ciò cui sono abituati gli studenti europei: sull’isola asiatica il periodo festivo è impegnato tra club sportivi, attività extrascolastiche e servizi volontari per i comuni; i bambini senegalesi trascorrono invece buona parte delle mattinate estive nelle scuole coraniche, dove imparano il testo sacro attraverso forme di educazione rigide, che non escludono la punizione corporale. Quest’attitudine all’obbedienza prende periodicamente forma rituale nelle cinque preghiere comandate, quando il richiamo del muezzin fa correre le bimbe a coprirsi il capo e i bambini a prendere i tappeti da stendere in direzione della Mecca, senza che gli adulti intervengano a sollecitare.

Le riflessioni pedagogiche sul bambino come adulto, che tanto hanno caratterizzato l’Europa tra ‘800 e ‘900, sembrano aver appena sfiorato la cultura senegalese, in cui i rapporti tra adulti e bambini sono regolati dalla mera interiorizzazione di una gerarchia, che giustifica l’autorevolezza dei primi sui secondi. Di quest’ordine i bambini non soffrono, perché hanno autonoma gestione del tempo non impiegato in attività necessarie. Diverso è il caso dei bambini di strada, numerosissimi a Dakar, che trascorrono gran parte del tempo elemosinando e chiedendo gli avanzi di cibo nelle case, per poi rientrare nella scuola dove l’imam impartirà la lezione coranica; o ancora dei bambini che sui marciapiedi lavorano con le madri, vendendo acqua, frutta di stagione, piccoli dolcetti. Nessuna legge vieta il lavoro minorile né impone un’istruzione obbligatoria, benché a Dakar si trovino moltissime scuole pubbliche.

Alla base delle numerose similitudini tra i due paesi, geograficamente tanto distanti tra loro, sta il comune denominatore di un’idea di società come di una comunità coesa, i cui membri interagiscono collaborativamente tra loro, a formare una sorta di estensione dell’ambito domestico, che si esprime nella creazione di gruppi all’interno della società giapponese e nell’idea del social living senegalese. Caratteristica di entrambi i popoli è il rispetto sempre dovuto all’infante, aldilà dell’estensione della possibilità di rivolgergli richieste. Nel bambino, infatti, entrambe le culture vedono un riflesso dell’adulto che sarà in futuro; entrambe le culture hanno considerazione dell’individuo che racchiude in potenza e che sarà un giorno il punto di riferimento dei genitori che oggi si occupano della sua educazione.

In primis, nel bambino, Giapponesi e Senegalesi vedono la speranza di una continuità nel tempo della stirpe famigliare.

Shanghai, la città più popolosa del mondo

Da anni al centro delle attenzioni internazionali, come modello delle possibilità d’intervento sull’incremento demografico, soprattutto per via delle numerose politiche di controllo nascite, la Cina continua a vantare il primato di stato più popoloso al mondo, con oltre 1,385 miliardi di abitanti. Distribuita sul vastissimo territorio nazionale, la densità degli abitanti non sfiorerebbe nemmeno quella di gran parte dei paesi europei; ma la maggior parte della popolazione cinese si concentra in 21 aree urbane.

Come si abita un mondo così densamente popolato? Come si vive in una megalopoli? Pequod ha incontrato Francesca Gotti, architetto bergamasco che ha trascorso undici mesi a Shanghai, la municipalità più estesa e popolosa del mondo.

«Mi sono trasferita in Cina per scrivere la mia tesi di laurea in architettura e ho vissuto sempre a Shanghai, in un quartiere tradizionale, costruito secondo un modello tipico cinese degli anni 50: quartieri con piccole stecche residenziali a quattro o cinque piani, abbastanza piccole se confrontate con i modelli costruiti oggigiorno. La metratura minima per persona è davvero scarsa: dividevamo una ventina di metri quadrati in due persone. Anche le case più moderne, costruite negli ultimi dieci anni, hanno comunque degli standard molto bassi rispetto a quelli europei, dovuti alla necessità di recuperare spazio: la scelta logistica del governo cinese di stipare la popolazione sulla costa e di non far progredire la vita delle campagne ha fatto sì che nascessero pochi centri urbanizzati densamente abitati.

La mia tesi prendeva in analisi i luoghi della collettività tradizionale che sopravvivono all’interno della megalopoli, attraverso lo studio di tre casi: un quartiere Lilong, una baraccopoli e una fabbrica dismessa sul tetto della quale era stato costruito un villaggio. In tutti i contesti, si ricreavano le dinamiche sociali ed economiche tipiche della vecchia Shanghai, ma in modi molto diversificati; li accomuna una prospettiva di abbattimento e di sostituzione: dagli inizi degli anni 90 ai primi del 2000, estesi quartieri di Shanghai sono stati rasi al suolo per fare spazio a blocchi di centri commerciali e grattacieli, al fine di densificare e cambiare la scala urbana. Si è creata nel tempo una bolla edilizia, perché Shanghai non smette di crescere e non interessano le peculiarità culturali: non ha la potenzialità turistica di Pechino e attrae stranieri per confusione, grattacieli e modernità. A essere rase al suolo sono le vie più vecchie, dove ancora esiste vita comunitaria; talvolta si vedono quartieri abbattuti solo per metà: le ditte recintano e demoliscono ciò che riescono ad acquisire, ma ci sono proprietari che non vogliono lasciare la loro vecchia casa, che si trova così circondata da attività edilizie. Spesso i motivi dei residenti sono di natura affettiva, ma più frequentemente pensano di non essere pagati abbastanza; di fatto il progresso oggigiorno attrae chiunque e spesso anche questi proprietari vorrebbero spostarsi nei grattacieli.

Si tratta di un cambiamento economico, sociale e culturale, quello che sta interessando l’odierna Cina, abbagliata dal progresso e affascinata dalla promessa di miglioramento sociale. Lo stesso fenomeno è avvenuto in Italia, nella Napoli degli anni ’50: risanamenti urbanistici a scapito delle antiche vie cittadine; erano tutti abbastanza contenti, in pochi si rendevano conto che stavano distruggendo anche uno stile economico e un modo di vivere».

Yongan Li, Shanghai

«Cosa significa, nella dimensione quotidiana, vivere in una megalopoli come Shanghai?»

«Quando sei dentro la città non ti rendi conto delle sue dimensioni effettive; ognuno dei luoghi frequentati rappresenta una realtà a sé stante, una sorta di bolla che ricrea una città in microscala e compatta.

Il mio soggiorno, ad esempio, mi ha dato una prospettiva su tre punti di vista. Il quartiere di residenza, con i negozietti sotto casa specializzati in un solo prodotto (uno che vende solo granchi, uno che vende solo verdure), direttamente collegati con la casa del proprietario, permette il conservarsi di una spiccata socialità tra le generazioni più vecchie. Nel condominio dove abitavo, gli anziani vicini di casa ci regalavano gamberi fritti. Offrivano cibo, chiedevano se avevamo bisogno di qualcosa, facevano domande. Shanghai è una città molto internazionale; il fatto che fossimo giovani e stranieri incuriosiva molto i vicini, ma nessuno ha mai avuto timore di noi.

Molto più basso è il livello di socialità dei giovani universitari; gli studenti escono raramente dall’ambiente universitario e ignorano la realtà circostante. Atenei, case, supermarket e ristorantini sono tra loro connessi, ma separati dalla città. Lo studio dove lavoravo, infine, si trovava in una concessione francese, una situazione totalmente europeizzata: case e negozi che imitano il modello europeo; città dentro la città costruite sul modello di quartieri esteri. Facilissimo socializzare tra stranieri; molto più difficile rapportarsi ai cinesi.

Socialità, sovrappopolazione e urbanizzazione hanno creato a Shanghai due dimensioni contrastanti: case piccole, in cui le giovani generazioni si rintanano, nelle poche pause dal lavoro; oppure case ugualmente minuscole, ma i cui abitanti, perlopiù anziani, vivono più nel cortile e nella strada».

Shanghai

«Dovranno pure spostarsi da una parte all’altra della città, no?»

«La metropolitana è il mezzo più utilizzato, ma è anche la realtà più alienante, in cui ti rendi conto di essere assorbito dalla densità di popolazione. Nessuno parla; i più sono immersi in realtà virtuali, concentrati a guardare film o videogiochi. Le nuove tecnologie e i nuovi modelli urbanistici stanno purtroppo isolando le giovani generazioni che non vivono più la vicinanza ad altre persone in maniera sociale.

I maggiori luoghi di aggregazione sono i centri commerciali, che si dividono tra popolari e di lusso, con gallerie d’arte e boutique. Attività aperte tutto il giorno, ritmi inesistenti; si mangia a ogni ora e c’é sempre qualcosa in moto, dalla persona che gioca a carte a quella che frigge un serpente, giorno e notte. La dimensione umana è molto ristretta: si ha tempo solo per lavorare e mangiare. Anche dal punto di vista urbanistico, c’è sempre qualcosa in costruzione e nessuno spazio è lasciato libero.

E’ un ritmo che stanca, ma al contempo carica. Non hai mai un momento di riposo e sei nel mezzo di una dimensione pazzesca».

«Il tuo viaggio in una parola?»

«Un’esperienza intensa».

L’isola degli schiavi e delle bouganville, Gorée

Ripescando tra i ricordi le immagini di Dakar impresse nella memoria, tra la frenesia di motori e clacson, la confusione dei venditori in strada, l’incanalarsi stretto delle vie dei quartieri di quest’enorme capitale, si aprono fotografie di oasi pacifiche colorate in modo acceso e vivace, profumate di fiori e brezza marina, rallegrate dai suoni della natura e di musicisti muniti di strumenti tradizionali: sono le isole di Ngor e Gorée, piccole perle ornate di bellezze floreali, custodite nel ventre dell’oceano e disvelate all’uomo come un dono.

Passare a Gorée a ogni rientro in Senegal è ormai come un rituale, che garantisce all’animo una scorta di serenità da riportare con sé in Europa. A ogni rientro in Senegal, prendo la strada per il porto e qui, a pochi metri dal mare e dal traghetto dove alle mie origini verrà dato un valore monetario (5000 cfa per gli occidentali, qualcosa meno i cittadini africani, solo qualche moneta per i residenti locali), mi sento ancora una volta sotto accusa e poi assolta. Mi fermo di fronte alla statua dei soldati che si abbracciano, francese uno e senegalese l’altro, uniti nel trionfo della fine della Seconda Guerra Mondiale. Mi fermo pensando a quanti “grazie” abbiamo scordato di dire a questa terra, troppo poco citata nei libri di storia, ma finisco sempre con il sentirmi irrisa dalla stazione che sovrasta il piccolo memoriale, che a fine ‘800 mi avrebbe portata a Saint-Louis, dall’altra parte del paese, e invece ora crolla pigramente, mentre decine e decine di tassisti riempiono di pessimi gas di scarico il cielo sopra il Senegal. Qui come nel resto del mondo, la tecnologia avanza e la modernità soppianta le scoperte del passato, lasciandosi il vecchio alle spalle e valutando in ritardo le conseguenze.

Il porto è stipato di vecchi cimeli che a ogni onda piangono in cigolii gli anni trascorsi in acqua, mangiati da ruggine e salsedine, assemblati in continue nuove forme, inesorabilmente galleggianti. Tra loro si fa strada il traghetto carico di varietà umane e di merci nostrane: la mattina forme femminili avvolte in pagne colorati affollano di chiacchiere e pettegolezzi il ponte; negli orari di punta, le voci allegre e giovani degli studenti dell’istituto Mariama Bâ, titolato a una delle più importanti scrittrici e femministe senegalesi, riempiono la brezza che arriva dal mare di scherzi e lezioni; nei periodi turistici, aumenta il numero di africani non senegalesi sull’isola, discendenti degli schiavi deportati tra il XVI e il XIX secolo, che come in pellegrinaggio vanno a visitare l’Isola di Gorée, l’Isola degli Schiavi.

I residenti locali cercano in ogni modo di distrarre le menti dei turisti, attraverso i cas-cas agitati a produrre un piacevole ritmo e le perline intrecciate in collane uniche, tentando di eludere i sorveglianti che vorrebbero garantire un viaggio senza il petulante chiedere che è una delle caratteristiche del folklore di questo paese. Non meno accogliente è l’approdo, quando Gorée si avvicina in un progressivo definirsi dei contorni di quell’esplosione di colori vivaci che la pitturano: dalle facciate pastello decorate di balconate delle ville coloniali, alle piroghe spennellate artigianalmente di scritte augurali e forme geometriche; dai giardini verso cui incanalano viali straripanti buganvillee rigogliose, ai tessuti e i quadri esposti dagli artisti del mercato artigianale Le Castel; ogni forma colorata e l’accostarsi dei diversi toni formano un insieme genuinamente gioioso.

Quest’isola così piccola e oggi così vivacemente accogliente, è stata per secoli teatro di incredibili orrori, uno tra i più importanti luoghi della più grave diaspora della storia umana, che ha qui lasciato tracce attraverso cui gli africani preservano oggi memoria storica di ciò che hanno subito. Scoperta dai portoghesi nel ‘400, passata ai Paesi Bassi che nel XVI secolo le attribuirono il nome Good Reede (“buon viaggio”; poi traslitterato in Gorée), divenne sotto il dominio francese un importante porto da cui partivano le navi dirette in America. A pochi metri dalla spiaggia che è oggi il punto di attracco dell’isola, nascosta tra fiori e abitazioni affacciate su ampi sterrati interni, la porta della Casa degli Schiavi apre su un cortile non troppo largo in cui impera una scalinata doppia di forma ogivale, che monopolizza lo sguardo, distraendo dalle piccole porte grezze che intervallano i massicci muri rosso intenso dell’edificio. La pelle ebano delle guide che gestiscono il museo oggi nella casa, si illumina dei sorrisi che aprono chiedendo quale lingua sia la prediletta per ascoltare i racconti delle atroci realtà di quella casa. Al piano superiore, dove un tempo gli schiavisti si affacciavano per godere della vista tanto della distesa oceanica, quanto degli schiavi in partenza, illustrazioni di dame imbellettate, che passeggiano con africani al guinzaglio o al seguito agitando ventagli e reggendo ombrelli, fanno da sfondo alle catene, le armi, gli strumenti di tortura conservatisi nel tempo.

Non si conta il numero di africani costretti nel corso di ben quattro secoli di schiavismo a respirare entro le possibilità di collari minuti, a camminare nello spazio concesso da pesanti cavigliere ferrose, a mangiare all’ingrasso rinchiusi dentro casse di legno, pur di non perdere il guadagno di una merce, persa per digiuno volontario. Non si conta nemmeno il numero di africani passati per il piano inferiore della Casa degli Schiavi, costruita negli anni 80 del ‘700 e rimasta in uso fino al 1848, i cui spazi erano organizzati per una comoda suddivisione dei beni da trasportare: dietro le porte affacciate al cortile, in stanze dalle dimensioni inspiegabilmente ridotte venivano stipate quantità inverosimili di esseri umani, distinti tra donne, uomini e bambini. Un’unica porta si affaccia su una vista che toglie il respiro: è la porta per l’inferno, che non può essere attraversata perché si affaccia su un fossato a strapiombo; unico modo per valicarlo è il pontile della nave negriera che attracca direttamente alla porta, senza lasciare il tempo nemmeno per un ultimo pensiero, un ultimo sguardo, un ultimo destino.

«Dem amoul dik. Andata senza ritorno.» mi sussurrano all’orecchio la prima volta che mi affaccio, l’orizzonte aperto al mio sguardo a suggerire che proprio lì finisca il mondo. Invece il mondo non finisce, l’orizzonte non si conclude e dall’Africa c’è ancora chi parte senza che lo sguardo raggiunga la meta, senza che sia concesso un ultimo respiro, talvolta senza ritorno.

Questa casa è un albergo!

Questa è la storia di un ragazzo che, circa un anno e mezzo fa, decise di aprire la sua casa ai turisti trasformandola in un bed and breakfast. Lo chiameremo Mario.

Innanzitutto occorre chiarire che questa operazione diventa da subito una “missione di vita”, come la definisce Mario: «Se qualcuno vuole cimentarsi nel farlo è giusto che lo sappia: deve sapere che a lungo andare si trasformerà in una colf. Aprirne uno in casa propria è un bell’impegno».

Ha preso questa decisione circa un anno e mezzo fa, quando a Utopia partiva una nuova ondata di airbnb. Un’esplosione pazzesca (anche nel mondo online) data probabilmente sia dall’aumento del turismo e dall’immediatezza della sharing economy, come mi suggerisce Mario: «C’è molta più gente che usa internet, tutti sono in generale più aperti, la maggior parte della gente parla inglese. Probabilmente l’insieme di queste cose ha fatto sì che ci sia stato il recente boom».

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La sua casa rimane nella zona centrale della città, in una cornice di tranquillità, verde e edifici antichi che credo colpiscano molto i turisti di passaggio. Mario ha girato il mondo, ha incontrato e provato ogni tipologia d’alloggio: dall’hotel al B&B, la tenda, l’amaca in spiaggia, i divani di Couchsurfing. Una volta tornato a vivere stabilmente nel Bel Paese, «mi mancava proprio l’idea di viaggiare e di avere intorno viaggiatori e mi sono buttato, ho provato a farlo così per ridere. L’ho fatto perché nella casa in cui vivevo c’erano due stanze i più che non usavo, nella realtà dei fatti, a lungo andare ti accorgi che mantenere un altro lavoro diventa ingestibile, soprattutto se hai due stanze da gestire. Fa si che i turisti arrivino davvero in ogni momento».

Chiaro è che l’impegno è direttamente proporzionale al servizio che si decide di offrire. Nella città la situazione è diventata molto competitiva: solo 200 sono i B&B registrati legalmente, aggiungendo il numero delle stanze affittate da privati e non registrate si potrebbe arrivare al doppio (queste le voci di corridoio del losco giro dei B&B fantasma).

Per sopravvivere alla spietata concorrenza occorre metterci la testa e dare all’attività un’impronta imprenditoriale, continua Mario: «Se decidi di farlo per hobby (come può essere couchsurfing) puoi decidere che, per 200 euro al mese, il turista che arriva in ritardo può aspettarti anche sotto la pioggia e chi se ne frega – anche della recensione negativa che ti faranno e del fatto che probabilmente da quel momento avrai due ospiti in meno. Oppure decidi di farlo seriamente e in maniera professionale, quindi di farne il tuo lavoro a tempo pieno».

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Come mi spiega il giovane albergatore, l’entusiasmo iniziale è un sentimento comune: il pensiero di avere intorno tanti viaggiatori da conoscere, l’intesa che si crea con le persone abituate a viaggiare nella realtà dei fatti tutto questo non esiste. Meglio, esiste in una dimensione marginale che può creare situazioni molto piacevoli; sta di fatto che gestire l’arrivo e la quotidiana accoglienza di turisti crea stress, non è più un piacere. La verità è che passerai tutti i giorni a pulire, sistemare la casa, rifare i letti e stirare tutti i giorni della tua vita. «In realtà avere un B&B vuol dire “fare la colf”, questa è la realtà dei fatti. Chiaramente esistono mille modi per affrontare questa cosa: penso a coloro che hanno la fortuna di avere una (o più) case di proprietà, quindi senza affitto da pagare, che possono permettersi di avere un addetto alle pulizie».

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L’elemento chiave di questa forma di ospitalità sono diventate le recensioni: su siti, quali Booking, Trip Advisor, Expedia, Airbnb ognuno registra il “profilo” del proprio B&B con la sua offerta e le recensioni di coloro che in quel letto han già dormito. C’è da dire che tante recensioni sparano a zero un po’ su tutto, spesso risultano non veritiere come l’esempio di Mario: «C’è della gente che, veramente, viaggia e non capisce. Dei turisti sono riusciti a scrivere nella recensione che il mio corridoio “è spoglio”! Cosa vuol dire che un corridoio è spoglio?!». Il corridoio in questione è un corridoio bianco con appese alle pareti delle mappe geografiche. Questo per farvi capire quale “cappio al collo” siano le recensioni per un’attività di questo tipo. Sono estremamente rigide e questo influisce molto sull’avvio dell’ airbnb.

Aggiungete a questo l’ansia dei turisti in ritardo. Qualche volta colpevoli, qualche volta semplicemente in balìa dei mezzi di trasporto, hanno la capacità di scombussolare totalmente la tua giornata e i programmi che ti eri fatto. «Non puoi farci nulla. Ne succedono di ogni sorta: gente che si perde tra la stazione e Porta Nuova, gente che “Arriviamo alle 17.00”, alle 17.00 non arriva, provi a contattarli e scopri che  “Ci siamo fermati a mangiare qualcosa e arriveremo alle 18.30”. Poi magari si scusano, però va così». Il segreto è prenderla con positività, incastrare al meglio il lavoro e i propri impegni tenendo sempre in considerazione il fattore imprevedibilità.

Questa è la storia di Mario e del perché non aprire un B&B in casa propria.

 

 

In copertina, ph. Stevepb (CC0)

 

Guardare oggi la storia nei paesaggi di Varsavia e Berlino

Beatrice atterra in aeroporto, di ritorno dalla Polonia; la vado a prendere con una punta d’invidia e molta curiosità: dovevo essere con lei ad esplorare una tra le più famose città teatro della Seconda Guerra Mondiale, ma gli impegni lavorativi me lo hanno impedito.
Così appena sale in macchina, la investo di domande; non vedo l’ora di sapere: «Com’è Varsavia?»
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Mi aspetto racconti di monumenti e memoriali, essendosi nella sua breve gita concentrata sulla Città Vecchia, invece Beatrice inizia descrivendomi parchi e palazzi:
«Il parco Lazienki è un’immensa distesa di verde al centro della città, intervallato da architetture sei/settecentesche. È come un giardino incantato in cui appaiono palazzi da fiaba, laghi e statue; tra cui il monumento a Chopin, uno dei più famosi di Varsavia.»
La interrompo subito: io voglio sapere del sapore di storia della città, del suo ghetto e di come i suoi abitanti ci camminino. «Ma il ghetto è rappresentato soltanto da una linea tracciata a terra che ricorda le mura che lo cingevano; puoi camminare da una parte all’altra, ma anche passarci sopra, e puoi non accorgertene nemmeno! All’interno c’è la Via della Memoria, con alcuni monumenti dedicati agli ebrei.»
«E quindi che impressione dà muoversi tra le case di Varsavia?» «La città è molto bella, ricca di palazzi colorati, di giardini e piazze; ovunque si posi lo sguardo, s’incontrano attrazioni esteticamente indiscutibili: dall’impeto della Statua della Sirena ai caldi mattoni del Castello Reale, dalla maestosità della Cattedrale di San Giovani Battista al fiabesco Barbacane. Se però cerchi un riscontro all’immagine della città di cui raccontano i libri di storia, allora ciò che ti circonda appare come un grande parco giochi: tutto è stato ricostruito, fino a non lasciare traccia dei bombardamenti subiti.»
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La mia mente, con un breve volo pindarico, si sposta alla città di Berlino, dove io e Beatrice abbiamo passato qualche giornata assieme, un po’ di mesi fa. Ovviamente penso al gigantesco Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa e al Museo Ebraico, ma soprattutto la mia memoria si concentra sull’atmosfera che aleggia nella città: su quei segnali di passaggio della storia e di continuo rinnovamento dei tempi che parlano in tutte le strade. Massima espressione del sincretismo epocale è l’East Side Gallery, quotidiana reinterpretazione del concetto di libertà, ma anche ultimo tracciato di un muro che sollecita la memoria storica. Con un sorriso ricordo il travagliato viaggio che abbiamo intrapreso per raggiungere il quartiere russo, dove aveva sede una collettiva di performer provenienti da tutta Europa, e i pasti a base di noodles cinesi vegetariani, mentre Beatrice si gettava nell’ennesimo kebab turco; ripenso all’accoglienza dell’ostello francese e dei suoi piccoli letti in legno e al pessimo caffè americano preso per scaldarsi dal vento di Alexanderplatz.
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Due modi diversi di interpretare la storia, due modi diversi di rapportarsi al presente: Varsavia si è raccolta in se stessa ed è oggi un piccolo gioiello settecentesco entro l’Europa del XXI secolo; Berlino si è aperta all’esterno, diventando baluardo europeo dell’internazionalità, dell’integrazione e dell’innovazione. Entrambe sono città che raccontano una storia e che si fanno emblema di come l’estetica di una città influenzi gli orizzonti anche interiori di chi la abita.
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Transmongolica – un incredibile viaggio al contrario

Fotografie di Ettore Schiavi e Moira Surini.

Da Pechino a Mosca, passando per la Mongolia: la Transmongolica, una delle versioni della più famosa Transiberiana, il percorso che in treno attraversa praticamente da un capo all’altro l’Asia.

Solitamente fatto dalla capitale russa a quella cinese, questo è un viaggio al rovescio, da piazza Tienanmen alla piazza Rossa.

In mezzo, un carosello di immagini e culture, dall’infinita muraglia cinese e le effigi di Mao, alle steppe e ai cavalli della Mongolia, a notti passate dento a una ger, le grandi tende mongole che spesso vengono ancora usate come abitazioni, a Ulan Bator, l’imponente capitale dello stato mongolo, difesa al suo esterno da un ancora più imponente colosso argenteo di Gengis Khan, padre dei popoli; dal lago Baikal, patrimonio dell’Unesco, a Ekaterinburg, considerata città di confine tra l’Europa e l’Asia, un’isola di civiltà circondata da taiga e foreste.

Mosca è la tappa finale di questo insolito viaggio al contrario, un percorso che incontra facce e lingue diverse, luoghi differenti tra loro visti dal finestrino di un sedile di terza classe, da un vagone che sa di noodles, anatre e fumo, da treni che come lunghi serpenti attraversano un pezzo di mondo diviso fra l’Europa e l’Asia.

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GoCambio: cambia il tuo modo di viaggiare

“La gioia di vivere deriva dall’incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell’avere un orizzonte in costante cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso…”

(dal film Into the Wild)

Viaggiare. Si può viaggiare per lavoro, per esigenza, oppure per cause estranee alla nostra volontà. Si può viaggiare per sentirsi liberi, per sentirsi in vacanza, lontani dalla vita di tutti i giorni. O ancora, si può viaggiare per conoscere nuove persone e nuovi posti, per imparare da nuove e diverse culture, per capire meglio il mondo che ci circonda.

Tuttavia, viaggiare, soprattutto per i giovani, può essere difficile e impegnativo, in particolar modo sotto l’aspetto economico. Ed è sostanzialmente per superare questo ostacolo che, negli ultimi anni, sono nate diverse piattaforme online il cui scopo è quello di permettere, a chiunque voglia viaggiare, di trovare un’alternativa economica per farlo.

In quest’ottica si inserisce GoCambio, una piattaforma online gratuita che mette in contatto persone che vogliono viaggiare, con altre che mettono a disposizione una stanza libera e che vogliono imparare una lingua straniera, o altre competenze (culinarie, ad esempio) tramite il loro ospite.

Di GoCambio ci parla Tiziana Volpe, country manager per l’Italia: «Il progetto è nato quando Ian O’Sullivan e Deirdre Bounds, i fondatori di GoCambio, si sono chiesti come mai, per imparare una lingua straniera, bisognasse pagare costi molto alti, quando in realtà ognuno di noi conosce una lingua che qualcuno vuole imparare. Quindi, perché non combinare l’universo del viaggio con quello delle lingue straniere: tu mi insegni la tua lingua, e io ti ospito!»

In un mondo dove il viaggio è sempre di più all’insegna della condivisione (basta pensare a Airbnb, Couchsurfing…), GoCambio si inserisce nella tendenza del momento e permette non solo di risparmiare sull’alloggio, ma anche di fare esperienze autentiche sotto la guida di gente del posto.

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La difficoltà maggiore nell’avviare l’attività è stata far fronte alla carenza di conoscenze tecniche nella gestione e promozione dell’attività stessa. Tiziana, che in qualità di country manager si occupa di strategie di marketing online e offline, ha contatti con blogger e riviste per diffondere GoCambio e segue l’animazione dei social media, ci racconta: «Il problema principale è stato quello di convertire l’idea in un progetto concreto: i fondatori di GoCambio non sono esperti di IT strategy o development, quindi la sfida principale è stata quella di utilizzare conoscenze tecniche che, in realtà, alla base non c’erano. Anche scegliere la giusta tecnologia è stata una sfida importante. Inoltre, è arduo farsi strada in un universo dove ci sono concorrenti già affermati e dei quali la gente si fida.»

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Attualmente, la piattaforma di GoCambio, dopo soli tre mesi, può contare ben oltre 2mila membri in 85 paesi di tutto il mondo, e il numero è in crescita continua. Questo perché, oltre a basarsi su un concetto che alla gente piace, come l’idea del viaggio e della condivisione, insieme alla possibilità di imparare lingue straniere e aspetti diversi di altre culture, la piattaforma di GoCambio è gratuita.

Per il futuro, inoltre, si sta lavorando ad una versione 2.0 del sito, con molte nuove opzioni. Il tutto dovrebbe essere pronto per Agosto, assieme all’app di GoCambio. L’obiettivo principale è quello di continuare a crescere, sia come numero di membri all’interno della piattaforma, sia come team di gestione e promozione di GoCambio; una sorta di internazionalizzazione dell’attività, in modo tale che, nel più breve tempo possibile, a questo nome, all’espressione “cambioing” e a questo nuovo modo di viaggiare sia associata l’idea del viaggio stesso!

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