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Mese: Giugno 2016

Fuga da una democrazia negata: il viaggio di Abdul dall’Eritrea all’Italia

Primavera milanese, scende la sera e la prima folata di vento viene a stuzzicare Hamadou e me, seduti alla pensilina di Lambrate, in attesa del treno per rientrare a casa. Un africano dalla carnagione opaca e il naso stretto si avvicina per chiedere una sigaretta. «Da dove vieni?» chiedo. «Eritrea».

Istintivamente Hamadou si alza a prendere un caffè caldo dalla macchinetta, lo porge al ragazzo che gli si siede accanto e domanda di lui, della salute, della famiglia, secondo i convenevoli in uso nei paesi musulmani. Abdul si presenta e racconta la sua storia.

Asmara - Capitale d'Eritrea
Asmara – Capitale d’Eritrea

«Fratello, non ho notizie da più di un anno della mia famiglia. Mia madre è deceduta mentre ero in viaggio; mia sorella forse è ancora giù, forse partita anche lei».

Da più di un anno, Abdul vive in strada; dal giorno in cui è scappato dal centro di prima accoglienza in Sicilia, ha conosciuto pensiline e stazioni in tutta Italia, attraversando la penisola sui binari e fermandosi su sollecito dei controllori, che di volta in volta lo trovano sprovvisto di biglietto.

«Non potevo più aspettare i documenti nel centro accoglienza: era come una seconda prigionia, dopo quella in Libia. In più c’era il rischio che mi dessero l’asilo umanitario, anziché quello politico: vuol dire che hai passaporto e documenti per viaggiare; da noi è vietato possederli prima dei 50 anni. Il governo eritreo viene informato dei cittadini all’estero che prendono passaporto e può punire le loro famiglie».

L’Eritrea è oggi una delle più terribili dittature: da 21 anni Isaias Afewerki, eletto poco dopo il voto per l’indipendenza, ha imposto un governo assolutista e fortemente militarizzato, che ignora le leggi della pur approvata Costituzione del 1997. La popolazione è totalmente privata dei propri diritti civili, l’informazione è controllata e la leva obbligatoria, estesa per legge a uomini e donne in età dai 18 ai 50 anni e spesso anticipata, è prevista non solo in caso di guerra, ma anche per programmi di lavoro statali.

Incontro tra il Segretario della Difesa Donald H. Rumsfeld e il Presidente Isaias Afwerki ad Asmara, Eritrea, il 10 Dicembre 2002 [ph: by Helene C. Stikkel]

«Sono partito la settimana dopo la morte di mio fratello maggiore, entrato nel campo di servizio militare a 17 anni. Mio padre ci aveva lasciati da meno di un anno per una malattia, quando sono venuti a portarlo via; pochi mesi dopo sono venuti a cercare me e mio fratello minore, perché mio fratello aveva tentato la fuga dal campo ed era stato fucilato. Fortunatamente nessuno era in casa quando arrivarono e fummo avvisati da conoscenti. Fuggimmo nel deserto, io e mio fratello lo attraversammo a piedi; mia madre si nascose per mesi insieme alla mia sorellina di pochi mesi presso una zia».

Abdul racconta molto dei giorni trascorsi nel deserto: il sole cocente sulla fronte, il cibo razionato condiviso, i predoni da cui fuggire nascondendosi sotto la sabbia calda. Racconta del fratello e delle chiacchiere e di come la notte si sdraiassero pochi minuti a osservare la volta stellata:

 «È l’ultimo ricordo felice nella mia terra».

Dopo il deserto, la sua voce trema. Ci racconta sottovoce d’aver perso il fratello nelle prigioni libiche: «Mi sono imbarcato da solo. E sul gommone ogni giorno moriva un fratello».

Il suo racconto s’interrompe e mi fissa con sguardo intenso, duro e fiero:

«Voi europei vi dimenticate spesso delle fortune che avete e di quanto sono costate. Le ricchezze e i diritti che avete ottenuto sono anche grazie allo sfruttamento delle colonie. Noi continuiamo a subire le conseguenze della politica coloniale: gli europei hanno stabilito prima di cedere l’Eritrea all’Etiopia, poi di sostenere la nostra indipendenza. Ora anziché intervenire perché si rispettino i diritti umani, stringe accordi con Afewerki, come fosse un presidente democratico aperto al dialogo. Costerebbe troppo intervenire militarmente e non ci sarebbe nulla da guadagnare».

Vorrei chiedere scusa. Vorrei fargli sapere di come anch’io vorrei che il mio paese aprisse gli occhi e guardasse oltre le frontiere, per accorgersi che una vera democrazia non può esistere finché ci sia anche un solo popolo cui è negato il diritto a parlare, soprattutto quando quel popolo è stato tuo compatriota e ancora bussa alla tua porta per chieder aiuto. Non ci sono parole e forse non servono.

Stringo la mano di Hamadou; guardo il cielo, dove ormai sono apparse le stelle.

This Machine Kills Fascists: la musica è l’arma dell’uomo

Da sempre la musica tradizionale è stata un mezzo di descrizione del quotidiano, un modo accettato dalla società per esprimere le proprie opinioni. I supporti tecnologici hanno fatto il resto: alla fine della Grande Guerra l’altoparlante diventò centrale per la diffusione della produzione musicale; ma contemporaneamente il disco e la radio permisero ad una grande varietà di produzioni locali di arrivare all’orecchio del grande pubblico.

Negli gli anni ’20 e ’30 in America si sviluppano dei nuovi generi musicali aventi come comun denominatore la musica tradizionale: ai grandi successi del blues classico si affiancano gli omaccioni del country blues, cantanti e chitarristi afroamericani che mettono in musica il loro background di miseria, disordine sociale e dissolutezza. Si crea uno stile vocale e chitarristico che sarà la base del successivo rhytm and blues e del rock. Invece Hillibilly erano i montanari degli Stati del sud, e questo diventò il termine per identificare il loro genere musicale. Il “country dei bianchi” vedeva come protagonista assoluto il banjo, così come il violino suonato con la tecnica “popolare” (appoggiato sull’avambraccio invece che sotto il mento).

Dopo la Grande Depressione masse di migranti si spostano a ovest degli Stati Uniti per scappare dalla siccità e dalle tempeste di sabbia che tanto avevano tediato gli stati centrali. Woody Guthrie (1912-1967) è con loro e canta i drammi, lo sconforto e le illusioni, in una combinazione di lucidità e di realismo che caratterizza i testi delle sue canzoni. Arrivato a Los Angeles, canta le sue critiche sociali e politiche alla radio; la diffusione è capillare e persegue a cantare del New Deal e dell’antifascismo unendosi ad altri cantanti impegnati politicamente: Guthrie è il vero padre della musica cantautoriale, che avrà un’influenza decisiva sul movimento successivo del folk revival e sui cantautori sessantottini.

Il mondo stava cambiando, soprattutto nel secondo dopoguerra, quando nel pieno dell’ “americanizzazione” di usi e costumi del quotidiano, c’era chi sentiva il bisogno di contrapporsi alla banalità e alla mistificazione ideologica della musica leggera. In Italia la goccia che fece traboccare il vaso furono Sanremo e le sue Casette in Canadà. La contrapposizione alla leggerezza musicale venne portata avanti dal gruppo Cantacronache di Torino e il collettivo del Nuovo Canzoniere Italiano, a cui aderirono anche le menti poetiche di Italo Calvino, Franco Fortini e Umberto Eco. Particolarmente ignorati dalle case discografiche, trovavano accoglienza tra le menti meno pretenziose di circoli operai, gli ambienti letterari e le case del popolo: l’elemento fondamentale del loro lavoro fu la riscoperta del mondo popolare (sulla scia delle ricerche etnografiche ed etnomusicolgiche di Ernesto De Martino e di Alan Lomax). Durante i loro concerti, per esempio, veniva chiesto al pubblico di riportare alla memoria canzoni popolari, canzoni di lotta e denuncia sociale o dell’esperienza partigiana con l’obbiettivo di dare voce a quelle che venivano considerate culture subalterne, creando così una primordiale idea di repertorio in questo senso.

Cantautori di stampo sanremese si avvicinarono a questo spirito musicale: Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Luigi Tenco esordirono in un contesto più vicino alla popular music e al rock’n’roll di matrice americana per poi diventare i primi rappresentanti della canzone d’autore impegnata, insieme all’anticonformista Fabrizio De Andrè. Con il ’68 (che in Italia durò fino a oltre la metà degli anni ‘70) il cantautorato s’infiamma di critiche politiche e sociali: arrivano i primi album di Francesco Guccini e la svolta di autoanalisi collettiva sui clichè e i limiti della società italiana di Gaber.

Da qui in poi la canzone d’autore italiana si riempie di sfaccettature e sonorità provenienti da influenze di ogni sorta, con una vena poetica, politica e sentimentale ereditata da questi grandi artisti che magistralmente hanno unito musica e poesia diventando i padri cantautori della popular music. Rimane il fatto che la musica di tradizione popolare è la base più intima da cui partire, il nostro background tradizionale che troppo spesso viene preso alla (musica) leggera.