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Cosa significa fare rock sul serio?

di Lisa Egman e Miriam Viscusi

Il 18 e il 21 luglio hanno calcato il palco di Rock Sul Serio il duo I’m not a Blonde e il cantautore Scarda. Pequod ha fatto loro alcune domande per scoprire il mondo del rock e l’atmosfera del festival.

Chi sei e cosa suoni?

I’m not a Blonde: «Sono Chiara Castello, voce, loop station e rumoristiche varie di I’m not a Blonde. È molto difficile dare una definizione al nostro genere, ultimamente lo definiamo electro-art-rock».

Scarda: «Sono Nico, in teoria un cantautore, quindi in teoria faccio il cantautorato ma mi piacciono i ritornelli forti, quindi tendo a essere anche abbastanza pop, dove pop non significa “musica leggera”, significa Pop».

Cosa è il rock?

Scarda: «Ecco, ricollegandomi, certo Rock può definirsi Pop, ma resta Rock, tipo gli Oasis o tipo il fatto che in una certa epoca, di FATTO, il pop erano i Led Zeppelin ecc. In generale è un’attitudine, in generale c’è una chitarra elettrica in mezzo, in pratica può essere di tutto… Anche gli U2».

I’m not a Blonde: «Il rock è principalmente un’attitudine energetica, sia nel modo di scrivere che nel modo di suonare. Oltre che un sound è qualcosa di intenso, un’attitudine di pancia, emozionale».

Come si trasforma il rock a un festival?

I’m not a Blonde: «Esattamente in questo tipo di energia, che ai festival non coinvolge solo chi sta sul palco ma diventa mutuo scambio con chi ascolta e restituisce energia a chi sta suonando. O almeno, così ci piacerebbe che fosse sempre. È proprio questa la magia che può succedere ai festival, un rock in questo senso, denso di questa materia. Si sente l’entusiasmo e il calore, sensazioni fortemente palpabile sia dalle band che dal pubblico».

Scarda: « Chiamando a suonare gente che piaccia ai giovani e abbia carisma sul palco».

Perché Rock Sul Serio?

Scarda: «Perché chiamano a suonare gente che piace ai giovani e che ha carisma sul palco».

I’m not a Blonde: «Sul serio proprio rispetto a sposare una causa, a metterci tutto questo tipo di energia e di non risparmiarsi.

Quando abbiamo vinto “Musica da bere” tre anni fa, nella giuria c’erano anche ragazzi di Rock sul Serio, e lì ci siamo innamorati. Finalmente abbiamo avuto l’occasione per suonare “sul Serio”».

Hai comprato un cactus?

I’m not a Blonde: «Ne ho talmente tanti e stanno figliando, più che comprarlo potrei regalarne io!».

Scarda: «Sto facendo l’intervista nel backstage. Finisco di fare il check e vado a comprarlo».

In copertina: I’m not a Blonde sul palco di Rock Sul Serio [ph. Monelle Chiti].

I Folkstone a Rock Sul Serio: un’esplosione di energia

Ieri sera è esplosa una supernova a Villa di Serio!

Un’energia e una carica travolgente si sono propagate dagli strumenti e dalla voce dei Folkstone, investendo il pubblico sottostante.

Nessuno di quelli che erano sotto il palco è rimasto impassibile: da chi si è lanciato nella ressa, a chi è rimasto ai margini della folla; dal ragazzino con la birra al sessantenne che aveva appena terminato la sua sacrosanta porzione di casoncelli ognuno ha partecipato, a modo suo, a un’esibizione trascinante e coinvolgente.

L’unico rammarico: che non sia potuto andare avanti tutta la notte, che come quando esplode una stella, quello che resta alla fine è un vuoto, come la sensazione che manchi qualcosa a riempire il buio.

 

Rock sul Serio 2019_Pequod Rivista

Rock – volontari – sul Serio: la voce dei volontari dell’edizione 2019

È iniziato da questa settimana il festival più cool dell’estate bergamasca, Rock sul Serio. Dal 17 luglio fino alla notte del 21 luglio a Villa di Serio concerti e non solo arricchiscono le calde serate bergamasche.
Rock sul Serio è un festival che porta avanti idee green e, come viene ribadito nel sito internet, «ha deciso di intraprendere la strada della sostenibilità ambientale, per promuovere una cultura nella quale crediamo e per offrire un segnale di rispetto verso il nostro territorio»: è un vero eco-festival a tutti gli effetti. Potete trovare il programma sul sito www.rocksulserio.it, dove vi consiglio di guardare le meravigliose Sunset Sessions: un vero spettacolo di musica e pura poesia.

Rock sul Serio 2019_Programma_Pequod Rivista

In queste cinque giornate non solo ci sarà musica per tutti i gusti, ma non mancheranno workshop, mercatini, aperitivi, merende all’aperto, lezioni di yoga, e per i più piccoli il concerto di Dulco Granoturco & Chitarra Scimitarra. E tutto è reso possibile anche grazie al lavoro di numerosi volontari, che hanno deciso di dedicare il loro tempo a questa coinvolgente iniziativa.
Ne abbiamo intervistato qualcuno per capire cosa significa per loro Rock sul Serio. Chiara Noris, Fabio Prestini, Alessandra Cortesi e Simone Tribbia collaborano al festival ormai da tanto tempo e ne hanno visto i cambiamenti di anno in anno. Ma come descrivere questo festival con una canzone?

«Certamente Don’t leave I lonely dei Mellow Mood», risponde Chiara Noris, volontaria da ormai sette anni, «è la canzone giusta per questo festival, unico nel suo genere perché racchiude molti aspetti per me basilari nella vita umana: accoglienza, ambientalismo, tutela dei diritti civili uniti verso un fine comune di uguaglianza e divertimento, con musica sempre ricercata e mai banale».
«La canzone è Tir nel cortile dei Verdena», dice Fabio Prestini, designer: «come canta la band, “ci sono cose che pesano, ci sono cose che schiacciano”, ma solo dopo il duro lavoro ne vedi i frutti e solo allora capisci il valore che ci sta dentro».
Simone Tribbia a gran voce risponde che «non può che essere We are the world: forse sarà banale, ma prima ancora dell’artista e del palinsesto e del genere musicale, quello che si respira a Rock sul Serio è l’unione delle persone che sono presenti, sia i volontari, sia gli allestitori, sia tutti coloro che partecipano e collaborano; è questo senso di unità e appartenenza che mi stimola continuamente ogni anno a essere qui».

Il cactus di Chiara Noris

Alessandra Cortesi, invece, cerca disperatamente il titolo di una canzone, ma poi risponde «non riesco proprio a trovarla. È nel 2013 che inizia la mia esperienza di volontaria e continua tuttora. Perché partecipiamo e continuiamo a partecipare? Secondo me è semplice: la gioia. Anche se in quei giorni siamo praticamente operativi per 16 ore al giorno, l’idea di avere poche ore per dormire non è sicuramente allettante, ma l’atmosfera che si respira, la compagnia degli altri ragazzi, le iniziative che gli organizzatori portano avanti e la consapevolezza di essere parte attiva di tutto questo, spazza via ogni fatica e rende Rock sul Serio una festa prima di tutto per noi stessi».

Rock sul Serio 2019_Pequod Rivista
Il cactus di Alessandra Cortesi

Come ci spiega anche Chiara Noris, «tutto ciò è possibile perché c’è una passione e un credo profondo che proprio come un cactus 🌵, simbolo del festival di quest’anno, resiste anche nelle situazioni difficili, fiorendo e ingrandendosi anno dopo anno».
Il simbolo di questo festival ecofriendly, che ha dedicato la sera del 18 luglio alla lotta Contro le differenze 🌈, è il cactus, che diventa persino il tema di un gioco online (che anch’io ho tentato di fare, ma ahimè ammetto che non sono ancora arrivata al dodicesimo e ultimo livello…). Il cactus è anche il soggetto del concorso fotografico, a cui tutti possono partecipare: basta scattare una fotografia alla piccola pianta grassa e postarla sui social. Ma anche i volontari l’hanno comprato e parteciperanno al contest?
«Ne ho comprato uno durante l’ultimo “Waiting Rock sul Serio”», ci racconta Fabio Prestini. «È un mini-cactus con tante piccole spine che non pungono quasi mai. Le volte che lo fa, però, te le ricordi bene! I suoi migliori amici sono una pianta di basilico ed una di menta.»
Chiara Noris, invece, ne ha più di uno: «Adoro questa pianta, sia per l’aspetto che per le sue caratteristiche. E poi, è pure acquistata in una serra piena di amore, amicizia e nutrita tutte le sere con una melodia diversa che la renderà ancora più speciale».

Rock sul Serio 2019_Pequod Rivista
Il cactus di Fabio Prestini

Alessandra Cortesi ha preferito adottarne uno e portarlo in ufficio, sulla scrivania così anche durante il lavoro può dedicarsi alla piccola pianta e pensare al festival! Simone Tribbia, invece, ridendo spiega «certamente devo ancora comprare il cactus, perché è l’unica pianta che, come single, posso permettermi di tenere!»
Rock sul Serio è un festival che, grazie proprio ai suoi volontari, riesce a fare la differenza e, con il suo ricco programma attira un pubblico eterogeneo, che vuole non solo lasciarsi trasportare dalla musica, ma anche partecipare attivamente. Come scrivono gli organizzatori di Rock sul Serio sulla loro pagina Facebook, questo è il vero e unico obiettivo del festival: «Spread good vibes, diffondere buone vibrazioni. Vogliamo farvi stare bene. Vogliamo che ci facciate stare bene».

Malpensata site-specific e Trasfigurazioni di quartiere

Nel settembre 2018 la Compagnia Trasfigura presentava Doppi sensi. Il gioco delle parti, uno spettacolo comico-poetico che parla della “lotta” degli organi più nascosti del corpo, pene e vagina, contro il giudicante e mascherante cervello: una produzione autonoma che si rifà ai linguaggi dell’assurdo e del teatro fisico, che gioca con l’immaginario del corpo per parlare con seria leggerezza di tematiche legate al rapporto tra femminile e maschile e alla sessualità del nostro tempo.

Questo approccio e questa ricerca si protraggono nel tempo sia «per piacere che per percorsi di studio affrontati nelle rispettive carriere. È questo ciò che ci differenzia un po’ dalla semplice compagnia teatrale. Nella creazione di uno spettacolo, ci piace molto la costruzione culturale, la commistione di arti visive: abbiamo una forte passione per la progettazione culturale». Queste le parole di Serena Gotti, regista di questo spettacolo e co-fondatrice di Compagnia Trasfigura, insieme ad Alice Laspina.

Capiamo ancora meglio la direzione della giovane compagnia parlando del loro format progettuale Trasfigurazioni che nella sua prima edizione, per tutto il mese di maggio 2019, animerà il quartiere della Malpensata, nella città di Bergamo. Continua Serena: «La produzione teatrale e la progettazione culturale si sposano con la nostra passione per il lavoro site-specific, pensato per le caratteristiche di un particolare territorio, arrivando all’ideazione di progetti che valorizzino il territorio attraverso forme artistiche, non solo teatrali. Nel format Trasfigurazioni, infatti, vengono incluse musica, fotografia, videomaking. Parlo di “format” e non di progetto nel senso che Trasfigurazioni non si concluderà con l’esperienza della Malpensata: il nostro intento è svilupparlo in altri comuni della bergamasca, con sfumature e declinazioni diverse, per esplorare nuove forme di possibili narrazioni artistiche condivise».

Trasfigurazioni_Pequod Rivista

Questa connessione tra forme artistiche e territorio aveva già visto la compagnia impegnata nella sua penultima produzione teatrale: Segrete stanze, una performance specificamente pensata per l’ex Carcere di Sant’Agata di Bergamo. Continua Serena: «Ci piace l’idea della costruzione immediata e la sua fruizione, lavorare su uno spettacolo che non per forza deve avere vita lunga, che non per forza trovi una forma chiusa in cui definirsi. Visti i nostri studi e la nostra formazione, adoriamo lavorare sul site specific, al di là della semplice produzione teatrale, soprattutto per le nostre esperienze di teatro fisico. È questo il lato del teatro che più ci ha interessato e ci ha portato di conseguenza ad arrivare a un progetto come Trasfigurazioni».

Trasfigurazioni_Segrete stanze_Compagnia Trasfigura
“Segrete stanze” (primo studio), presentato da Compagnia Trasfigura all’interno della rassegna Per amore o per forza 2017.

La partenza del progetto nasce dal bando “Legami Urbani”, che al meglio si sposava con le idee delle due artiste, seguite da sei intensi mesi di processo artistico e lavorativo. «Quattro laboratori per quattro tematiche, quattro arti per quattro narrazioni differenti del quartiere: i laboratori di sperimentazione sono il cuore pulsante di Trasfigurazioni, per approfondire la storia che ha contraddistinto la Malpensata attraverso le forme del suono, del video, del teatro e della fotografia. Abbiamo pensato a un progetto il più possibile inclusivo, con attività dedicate ai bambini e agli adulti, dedicate a specifiche fasce d’età».

Trasfigurazioni_laboratori_Pequod Rivista

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Alcuni scatti dai laboratori dalla prima edizione di Trasfigurazioni.

La scelta del quartiere della Malpensata per lo sviluppo delle attività è forse uno dei punti di forza del progetto: da sempre considerato come quartiere “di secondo livello”, ma ricco di storie e culture da rivelare all’intera città. Trasfigurazioni si presenta quindi come una proposta per rivalutarne e raccontarne nuovamente la storia, per donare una veste artistica a un quartiere cittadino ma marginale, trasfigurando. Trasfigurazioni è anzitutto arte partecipativa e relazionale, che si inserisce nei contesti sociali quotidiani per intrecciarsi con essi e creare nuovi punti di vista.

Sono in programma due interessanti giornate conclusive del processo artistico di Trasfigurazioni: sabato 25 e domenica 26 maggio verranno condivisi gli esiti dei laboratori, le narrazioni collettive strutturate nelle forme delle performance musicali e teatrali, della mostra fotografica e della proiezione video; a conclusione, gli interventi di Nicola Feninno (direttore di CTRL Magazine) e Renato Ferlinghetti (Università degli Studi di Bergamo) negli incontri informali a cura di Conversas Bergamo

Ph. credits: Compagnia Trasfigura 

Stravolgere gli schemi per mettersi InAscolto

Chiacchieriamo di musica underground con Andrea Greco, uno dei fondatori del  collettivo bergamasco InAscolto: attivo da circa due anni e mezzo a questa parte,  è composto da Andrea Greco, Luca Brembilla, Andrea Manzoni e Michele Gambarini. «Ai tempi in cui io e Luca eravamo coinquilini, ci si ritrovava spesso a parlare del mondo musicale di Bergamo, delle sue caratteristiche e peculiarità, senza criticarlo o accusandone i diversi aspetti. Ci siamo sorpresi con il desiderio di poter riuscire a trovare delle proposte che, all’interno di contesti preesistenti, purtroppo non esistevano, sia per questioni di mercato che regolano l’ambiente musicale dei concerti dal vivo o dalla presenza di determinate realtà che non se lo possono permettere», spiega Andrea durante la nostra intervista a quatr’occhi. Partendo da questi presupposti, decisero di riunirsi come collettivo e muoversi per realizzare le loro idee, organizzare eventi su scala ridotta con un dialogo aperto non solo alla musica, ma anche alle altre arti come la poesia, il cinema, il teatro.

Delle realtà preesistenti che hanno ispirato il progetto di InAscolto, possiamo sicuramente citare Sofar Sounds e Invisible Show.«Rispetto al contesto bergamasco il nostro riferimento più vicino è Invisible Show, con cui si stanno creando delle buone connessioni a livello di collaborazione artistica e logistica. Per quanto riguarda Sofar Sounds, inteso come Sofar Sounds Italia, ha uno stile e dei presupposti che non condividiamo particolarmente, se non per la modalità dei “concerti casalinghi”».

Inizialmente venivano sfruttate case di privati messe a disposizione per i concerti, successivamente e in maniera abbastanza naturale, il collettivo ha iniziato collaborazioni con altre associazioni trovando intriganti proposte di setting. Abbandonato marginalmente l’house concert, cercano di trovare ogni volta nuovi contesti in cui inserire la proposta musicale. «All’interno degli spazi, ultimamente stiamo iniziando a lavorare anche sulla disposizione dei performers e del pubblico, cercando di rompere gli schemi e le classiche barriere d’ascolto. Un esempio può essere il concerto che organizzammo in una sorta di piccolo hangar: su tutti i lati di questa stanza cubica venivano proiettate delle visual di grande suggestione, che facevano da scenografia al Coro Polifonico Adiemus. Il fatto di avere davanti a sé un coro ma non essere in una chiesa, con un bicchiere di vino in mano o seduto ai loro piedi scombinava tutte le pratiche di fruizione musicale a cui siamo abituati. Quello è stato uno dei momenti in cui mi sono sentito molto vicino all’obbiettivo che ci eravamo originariamente prefissati».

Il collettivo punta molto all’ambito della musica underground e sperimentale, con generi e artisti di nicchia, anche se non è assolutamente un elemento discriminante per il collettivo: gli organizzatori si sono prefissati non solo di proporre esclusivamente delle performance di musica sperimentale, c’è comunque un fare divulgativo che prende in considerazione la realtà contestuale: «Siamo partiti con delle proposte molto orecchiabili e fruibili per arrivare anche alle orecchie del pubblico meno esperto, meno avvezzo all’ascolto musicale sperimentale. Questo per riuscire a creare delle proposte che semplicemente non esistevano nel contesto come bergamasco».

InAscolto dà spazio al pubblico e ai musicisti: spesso accade che un musicista affermato, avvezzo a festival internazionali, abbia poche occasioni in cui riuscire a suonare in contesti ridotti e intimi, costruiti apposta per l’ascolto, con proposte musicalmente originali ma non necessariamente “complicate”. «Succede che a volte gli artisti vengano a suonare ai nostri eventi prendendo solo la metà del loro cachet, solo perché consci del fatto che avrebbero trovato un ambiente e un pubblico capace di ascoltare fino all’estremo delle sperimentazioni. Il pubblico, però, è forse una delle nostre soddisfazioni più grandi, non per i numeri sicuramente, quanto per l’alta sensibilità artistica di chi viene ad ascoltare: più si va avanti con gli eventi, maggiore è la consapevolezza del contesto e del mood generale degli appuntamenti di InAscolto. È per questo che penso che la città di Bergamo abbia reagito in maniera positiva alle nostre proposte».

Un grande passo del collettivo è stato quello di costituirsi in associazione, quindi partecipare a bandi e affrontare un nuovo tipo di percorso «che poi, altro non è che la conseguenza naturale del voler portare gli eventi in spazi più suggestivi, interessanti o altrimenti inaccessibili, nonché riuscire ad avere la presenza di artisti con un più alto chachet o che semplicemente arrivano da più lontano». Il livello comunicativo rimane sempre underground: molto drastici sull’utilizzo dei social network, i ragazzi utilizzano come passaparola eventi privati sulla pagina Facebook, e-mail, SMS, WhatsApp. Questo per preservare l’anima intima e raccolta del progetto: l’intenzione di seguire gli appuntamenti di InAscolto arriva con la partecipazione ai concerti o il passaparola. Rimanete InAscolto!

Se vorrete mettervi InAscolto, ecco dove potrete lasciare il vostro contatto al fine di seguirne gli eventi futuri: < inascolto@inascoltoconcerti.it>

Per curiosare tra quelli che vi siete persi: < http:/inascolto-concert.trumblr.com/ >

Ritorno in fattoria: storia di un Festival di “altri tempi”

Amanti della musica folk, tenetevi pronti. Sabato 14 luglio 2018 partirà “Back to the farm”, un festival interamente dedicato alla particolare sonorità americana dell’Old-Time Music presso il locale Alberodonte di Rodengo Saiano, in provincia di Brescia.

BACK TO THE FARM FESTIVAL 2018

Non vedevamo l'ora di poter condividere con voi il nostro video promozionale di cui andiamo veramente fieri! ???Grazie di cuore al nostro Daniele Chiari per le splendide riprese e grazie ai mitici Jim and Jennie & the Pinetops per averci permesso di usare il loro bellissimo brano "Cider Press"! <3ps: ascoltare al massimo volume!!!ORA CONDIVIDIAMO COME NON CI FOSSE UN DOMANI!! ?

Posted by Back to the Farm Festival on Tuesday, June 12, 2018

Alisocia, liutaio e musicista di banjos, violino Fiddle e dulcimer, e Andrea Zampatti, fotografato naturalista e suonatore di banjos per passione, sono gli organizzatori del primo festival di musica Old-Time in Italia. Appena rispondono alla telefonata per questa intervista e iniziano a raccontarmi cosa significa per loro Old-Time Music, ho iniziato subito a immaginarmeli seduti in riva al fiume, durante una soleggiata pigra domenica d’estate, in un quadretto perfettamente calzante alle sonorità musicali del loro Festival.

Ma “Back To the Farm” non è solamente una scaletta di gruppi musicali… ce lo raccontano oggi, su Pequod, i due organizzatori.

Cosa è “Back to the Farm” e come si svolgerà la giornata?

“Back to the Farm” è un festival musicale di una sola giornata estiva. Inizierà alle 14:00 del 14 luglio all’Alberodonte e finirà… quando ci sbatteranno fuori dal locale! Il programma proposto andrà a toccare non solo le sonorità dell’Old-Time Music, ma tutti i retaggi culturali che la circondano e proprio per questo abbiamo deciso di organizzare alcuni workshop sugli strumenti tradizionali di questa particolare musica e sulla Square Dance, un tradizionale ballo di gruppo. Ma non solo! Durante l’arco della giornata, numerosi artigiani lavoreranno il legno per mostrare le loro maestrie di intagliatori e insegnare come si costruisce un cucchiaio di legno.

Tutto molto bello. Ma che cosa è l’Old-Time Music, nello specifico?

L’Old-Time Music nasce come stile musicale negli Stati Uniti d’America verso la fine della guerra di Secessione. In italiano, potremmo tradurla come “Musica dei vecchi tempi” e difatti, viene suonata su suolo americano fino agli anni ’20.

È una musica che nasce dall’incontro forzato di diverse culture: da una parte, gli abitanti delle isole britanniche, come colonizzatori, e dall’altra gli schiavi neri che dalle coste africane venivano venduti come schiavi sulle coste degli Stati Uniti d’America. Musicalmente parlando, i neri hanno portato con sè l’antenato del banjo, mentre i bianchi la melodia. L’Old-Time Music è insomma l’espressione di questo incontro, nei secoli adattatosi alle esigenze dei suoi suonatori, e che mai ha smesso di arricchirsi attraverso la cultura di chi la suona.

E come è arrivata in Italia?

In Italia, l’Old-Time Music è arrivata dopo la seconda guerra mondiale, mentre ha avuto il suo boom durante gli anni ’70, all’epoca dell’amore per il folk. Basta pensare a Bob Dylan o il successo di Francesco Guccini di quegli anni. Esistevano inoltre alcune riviste dedicate proprio a questa tematica. Poi è arrivato Internet e le soronità di sono ulteriormente espanse.

La band “Rough Barking”, con i fondatori del Festival. Da sinistra a destra: Valerio Pennati, Andrea Zampatti e Alioscia.

Ritornando in fattoria, vi chiedo: quali esigenze vi hanno portato a creare questo Festival?

Prima di tutto, la passione per l’Old-Time Music, un genere musicale ancora poco conosciuto in Europa e in Italia. Abbiamo notato come a molte persone piaccia oggigiorno la musica folk americana, ma pochi riescono a riconoscere la specificità musicale dell’Old-Time Music. Noi vogliamo dunque divulgare il più possibile questo genere musicale, aiutando nuovi orecchi a riconoscerlo e, al contempo, creando un luogo di ritrovo per i fan più affezionati. In Italia, difatti, tra noi appassionati è quasi impossibile incontrarsi perché non esistono ancora concerti… ma tranquilli, da quest’anno in poi ci pensiamo noi!

È stato difficile organizzare “Back to the farm”?

Come dicevamo, Internet ha ricoperto un ruolo fondamentale per la diffusione della musica. Nell’organizzazione del Festival, ci ha inoltre permesso di metterci in contatto con gruppi internazionali. È stato difficile trovare i puristi dell’Old-Time Music, in alcuni casi abbiamo dovuto chiedere ai gruppi di limitare il proprio repertorio alla proposta musicale del nostro Festival.

Anche il passaparola, però, è stato fondamentale! Gli amici Michele Dal Lago e Alberto Rota, ad esempio, verranno a fare un intervento musicale per ripassare la storia dell’Old-Time Music. Non solo Italia, però: usciamo dai confini, dando una sfumatura internazionale al festival assieme al gruppo “Three Cent String Band”, che ci ha contattato dopo aver sentito parlare di noi e del progetto musicale. Rivelatosi totalmente all’altezza del festival e delle nostre aspettative, li abbiamo invitati a esibirsi da noi.

A questo punto, una curiostà scaturisce spontanea. Come vi è saltato in mente di proporre un festival di Old-Time Music a Brescia?

I fratelli Montini che gestiscono il suggestivo Alberodonte non solo sono nostri amici di vecchia data, ma gestiscono una location perfetta per il nostro festival. La cascina del locale richiama l’atmosfera descritta nelle canzoni dell’Old-Time Music, sonorità che richiamano alla mente le montagne e la vita rurale che oggigiorno sembra essere dimenticata. Non potevamo proprio chiedere di meglio!

I fratelli Arianna, Simone, Vita e Bruno (ovvero i fratelli Montini, n.d.r.) sono soliti vederci finire le serate al loro locale con violino, banjo e birra in mano… a forza di sentirci, ci hanno dato fiducia e per questo noi li vogliamo oggi ringraziare. Forse gli abbiamo anche rotto un po’ le p***e.

La band “Three Cent String Band”.

Si sente come siete appassionati di questo genere! Ma, in poche parole, cosa significa “Old-Time Music” per voi?

Divertimento fatto a ritmo. La bellezza di questa musica è che non cerca raffinati virtuosismi, l’anima dell’Old-Time Music si trova nella melodia, nella riproduzione di suoni arcaici che fanno riaffiorare ricordi lontani.

È una musica semplice, sia nell’ascolto che nella suonata. Una musica d’istinto, di pancia, che ti permette di lasciarti andare con la gente che incontri per strada, lungo un cammino.

Dopo il 14 luglio, cosa dobbiamo aspettarci? Sentiremo ancora parlare di “Back to the farm”?

“Back to the farm” è nato come festival e come ogni festival che si rispetti ci aspettiamo di organizzarlo ogni anno a seguire! Questa è la prima edizione e speriamo di vedere tanta gente arrivare bella carica. Speriamo anche di rafforzare il passaparola e che possa andare oltre le Alpi, diventando internazionale. Se così fosse, possiamo anche sperare di aumentare i giorni, per poter proporre le numerose ricchezze di questa sonorità folk.

E per finire, con “Back to the farm” vorremmo anche sfatare il mito degli italiani poco curiosi e col culo pesante: venite all’Alberodonte per conoscere un nuovo stile musicale!

Nel blu dipinto di blues

Un blu intenso e profondo è il colore che avvolge gli Stati Uniti a cavallo tra Ottocento e Novecento. Già nel XVII secolo gli anglofoni erano avvezzi all’uso dell’espressione to have the blue devils (“avere i diavoli blu”), riferita ad uno stato d’animo di agitazione, depressione e tristezza provocato dallo stato allucinatorio che segue la crisi di astinenza da alcool – un bel post sbronza con i fiocchi (e con i diavoli blu). Sempre blue era un sinonimo gergale per indicare un ubriaco, così come blu erano le leggi che vietavano la vendita domenicale di alcolici, le Blue Laws.

Dopo la guerra di secessione americana (1861 – 1865) il blu rimane ma le espressioni gergali assumono tutto un altro significato, sempre legato a sentimenti di malinconia, sofferenza e tristezza (to be blue, “essere blu”; to have the blues, “avere i blu”) ma completamente distaccati dall’accezione alcolica precedente. Teniamo in considerazione che questa forma poetico-musicale nasce nel Sud degli Stati Uniti negli anni appena precedenti la guerra di secessione, quindi dal combinarsi di elementi appartenenti alla cultura proletaria rurale afroamericana e quelli derivanti direttamente dalla tradizione musicale colta europea. È da questo momento che l’associazione tra il sentimento blues e il genere musicale in sé diventa inscindibile: l’espressione del sentimento costituisce l’essenza della musica blues.

Il blues non come colore primario, ma una sonorità ibrida che trova le sue radici nei campi di cotone, nei porti e tra la manovalanza nera, tra il rammarico e la nostalgia. I canti di lavoro avvolgono gli Stati Uniti anche negli anni successivi alla guerra, in cui le condizioni degli ex schiavi rimangono in un clima di povertà e soggezione nei confronti dei bianchi (ma quanti colori!). Canti che donano la struttura di chiamata e risposta, call and response, di impronta africana come l’uso di particolari melismi, l’intonazione nasale e l’uso delle note blues: tutti elementi che ci riportano alla musica dell’Africa occidentale e centrale. La “messa in armonia” di questo nascente genere musicale avvenne grazie al contatto con i musicisti neri colti che, nell’Ottocento, cantavano e suonavano nelle chiese e nei templi: è qui che vennero a contatto con l’armonia classica, proprio grazie ai canti religiosi di cui venivano a conoscenza.

La codificazione del genere avviene tra il 1870 e il 1930: una forma musicale e poetica che prevede una sequenza di 12 misure, divisa in tre segmenti ciascuno di quattro misure, con un battito regolare (il più delle volte ternario). La struttura verbale va di pari passo con quella musicale, con strofe che seguono lo schema AAB che prevedono: A – un’affermazione o una domanda, A – una riaffermazione o una nuova domanda, B – la conclusione o la risposta a tutte queste domande. Il tono rimane sempre molto malinconico, intenso, molto emotivo e spesso sarcastico ma mai e poi mai sentimentale; questo anche perché i temi rimangono fortemente legati alla discriminazione razziale, alla povertà, alle gesta di eroi e alle gioie e ai dolori dell’amore, sempre strettamente legate al vissuto del cantante-autore. Per dare enfasi a tutte queste sfaccettature, sono molti gli escamotage utilizzati dai musicisti per rendere in musica tutta questa emotività, come il vibrato, il portamento, il canto “parlato” o addirittura gridato – tutte tecniche vocali atte a caratterizzarne l’efficacia espressiva. In sostanza un tipo di musica vocale in cui i testi devono esprimere insieme disperazione e sollievo nell’esprimere questa pena, dove è il testo a guidare il progredire della frase musicale, spesso a scapito di una sottolineatura ritmica precisa.

Un altro elemento fondamentale di riconoscimento di questo genere è l’uso delle blue notes, a cui le linee melodiche restano fortemente caratterizzate, ossia l’impiego esclusivo di un modo che corrisponde a una gamma maggiore con tre gradi mobili: il 3° maggiore o minore, il 5° giusta o diminuita e il 7° maggiore o minore. Le scale che vengono utilizzate dal cantante, o dagli strumenti solisti sono quasi sempre la scala pentatonica minore – Do, Mib, Fa, Sol, Sib, Do – e la scala blues – Do, Mib, Fa, Solb, Sol, Sib, Do. Questi elementi tecnici fanno sì che si crei una dissonanza tipica del blues tra l’armonizzazione e la melodia che comporta una delle caratteristiche tipiche di questa musica.

Tra gli strumenti che hanno accompagnato i blues man troviamo inizialmente un elastico inchiodato ad una tavola, utilizzato dai primi musicisti neri freschi di liberazione dalla schiavitù; segue la cigar box, una scatola di sigari con una manico e dalle due alle quattro corde. Scatola di sigari o qualsiasi altro contenitore che fosse in legno o in metallo, con corde abbastanza alte che permettevano un uso particolarmente agevole con la tecnica dello slide (spesso utilizzando un collo di bottiglia per scivolare su e giù). Con questi strumenti rudimentali tutto era lasciato letteralmente in mano al musicista, ai suoi gusti e al suo più o meno buon orecchio musicale. Il passaggio alla chitarra è pressoché naturale.
Un altri strumento principe di questo genere è l’armonica a bocca: i generale parliamo sempre e comunque di strumenti di facile reperibilità e molto economici.

Un’ulteriore evoluzione musicale del blues è dovuta all’utilizzo degli strumenti a ottone da parte dei musicisti neri, così come di generi musicali derivanti direttamente dalla tradizione europea.

A seguire, in un processo del tutto naturale, le pubblicazioni e le prime incisioni danno l’avvio al fenomeno degli standard blues; si avvia anche la commercializzazione che però trova i suoi riscontri solo nel secondo dopoguerra: Memphis e Chicago diventano i due grandi centri musicali, le blues cities. Si moltiplicano gli artisti e con loro gli stili, fino allo sconfinamento del blues nel rhythm and blues e nel rock and roll.

La musica fresca passa per Babylon. Intervista a Marta Tripodi

L’informazione viaggia veloce a portata di click e le sonorità nascenti sgomitano per arrivare ai più o semplicemente alle orecchie giuste. Dirigerne il traffico è controproducente, meglio lasciare che la musica sia libera di combinarsi assecondando la sua natura caleidoscopica dai toni, colori e forme mutevoli. Nuove Premesse salta lo steccato per parlare di giovani e radio con chi la bellamusica è abituato ad ascoltarla e a selezionarla per noi: Marta ‘Blumi’ Tripodi. Oltre a dirigere Hotmc.com, il più longevo portale della cultura urban in Italia, in questi anni l’abbiamo vista autrice o regista di diverse trasmissioni in onda su Radio2 (dISPENSER, Traffic, RadioBattle, Stay Soul, Nessuno Mi Può Giudicare) tra cui Babylon, uno dei prodotti più autentici e vibranti delle nostre frequenze.

Parliamo con lei del programma e della caccia ad artisti emergenti:
La Radio italiana come può aiutare e aiuta i musicisti underground a farsi conoscere?
Rispondo a questa domanda con un appello: cari musicisti underground, aiutateci ad aiutarvi. Per ragioni di mercato, l’80% delle trasmissioni radiofoniche non può scegliere le canzoni da mandare in onda e deve attenersi alla cosiddetta playlist, che è una lista di brani più o meno mainstream in rotazione per tutto il giorno. Esistono ancora poche isole felici in cui si possono sperimentare sonorità diverse, e molte di esse sono ovviamente legate al servizio pubblico (su Radio2, oltre a Babylon, ci sono parecchi programmi musicali che godono di grande libertà, di cui siamo tutti molto orgogliosi: Stay Soul, Mu, Radio2 In The Mix, RadioBattle, Musical Box, Back 2 Back, Rock’n’Roll Circus…). Più queste trasmissioni hanno peso, importanza e diffusione, e più gli editori privati e pubblici crederanno nel loro valore e apriranno nuovi spazi per la musica underground. Ascoltateci, seguiteci, supportateci, fate sapere in giro che vi fa piacere ascoltare anche cose diverse dalla solita decina di dischi in testa a tutte le classifiche: in questo modo ci saranno sempre più opportunità per i musicisti emergenti e di nicchia.

Babylon è una delle creazioni più riuscite in questo panorama. Come è cambiata la trasmissione nel corso delle sue 7 stagioni?
Innanzitutto grazie per le belle parole! Sicuramente la trasmissione è cresciuta e noi siamo cresciuti con lei: siamo un team molto giovane, eravamo quasi tutti nei nostri vent’anni quando è andata in onda la prima puntata. Credo che però lo spirito sia rimasto sempre lo stesso: Carlo Pastore, che ha creato Babylon e le dà voce ogni weekend, ha voluto battezzarla così pensando alla torre di Babele e alla sua confusione di lingue e personalità. Ci piace mescolare stili e generi diversi, portare alla luce artisti ancora sconosciuti e paragonarli a chi invece ha già sfondato, creare contrasti, utilizzare formati opposti (dal mix al live passando per l’approfondimento e l’intervista), ma sempre con un ritmo serrato e un tono di voce amichevole e informale: non vogliamo fare una lezioncina ai nostri ascoltatori, vogliamo esaltarci con loro per la musica che ogni settimana scopriamo insieme.

Carlo Pastore intervista Mark Ronson

Quali sono le sfide più ardue di una regia come quella di Babylon?
Precisazione: il regista, per come è inteso in Rai, è una figura diversa rispetto ai suoi analoghi nelle radio private. Diciamo che non si tratta di un fonico che gestisce la parte tecnica, ma di una via di mezzo tra una figura di produzione e un autore (tant’è che io sono approdata alla regia dopo aver fatto l’autrice per anni, cosa che faccio ancora), e le sue mansioni variano molto da programma a programma. Babylon è una trasmissione complessa, quindi le sfide sono molte. È importante dare un certo stile, ritmo e sound anche alle interviste che montiamo o ai tagli che ogni tanto dobbiamo fare, perciò avere dimestichezza con la musica diventa fondamentale. Bisogna conoscere molto bene l’inglese, perché molti dei nostri ospiti sono stranieri e seguire un soundcheck o trattare per un’intervista in una lingua che non è la tua è ostico. Bisogna essere flessibili, perché capita spesso di fare cose che non c’entrano nulla con il proprio ruolo (vedi alla voce “aiutare le band che passano a trovarci a scaricare i furgoni degli strumenti”). E bisogna essere concentrati e pronti a reagire, perché lavoriamo sul prodotto per molte ore di seguito e, per essere sempre sul pezzo, capita che all’ultimo minuto si decida di cambiare in corsa e di ricominciare da capo. È impegnativo, ma è bellissimo essere parte di un processo creativo così stratificato.

Quali sono le realtà radiofoniche che interpretano meglio la missione di promuovere musica nuova?
In Europa sono soprattutto le radio del servizio pubblico a farlo: in Italia RadioRai, soprattutto Radio2, e all’estero BBC, Radio France, Rtè, Radio Wave, SRG SSR e via dicendo. Possono farlo perché la loro missione è l’innovazione e non devono per forza inseguire gli ascolti e gli investimenti pubblicitari, quindi possono permettersi di rischiare di più. C’è da dire, però, che al di fuori dell’FM stanno nascendo anche molte realtà online particolarmente interessanti, come Casa Bertallot o AkaSoulSista. In America, invece, il panorama è più vario, ma a livello di sound le radio più sperimentali sono quelle satellitari/digitali, le trasmissioni in podcast e le radio universitarie.

Beth Hart live a Babylon

Quali sono le dinamiche con le quali i programmi come Babylon operano?
Sono dinamiche molto democratiche! Ad avere l’ultima parola è ovviamente Carlo Pastore, che è conduttore e capoprogetto, poi ci siamo io, Gianluca Quagliano (autore) ed Elisa Bee (dj e producer) a dare input e a collaborare ciascuno nel suo ambito; completano il quadro il nostro curatore Renzo Ceresa e il tecnico del suono che ci segue nella maggior parte dei nostri impegni, Toni Faranda. Diciamo che nelle nostre scelte al 50% pesano i nostri gusti personali (musica che ascoltiamo volentieri, che ci piace, che ci conquista, che cantiamo e balliamo mentre registriamo le puntate e per fortuna nessuno ci vede!) e al 50% pesa l’attualità o, ancora meglio, la futura attualità (artisti o dischi che stanno emergendo e di cui tutti parleranno di lì a poco). Come dicevo abbiamo grande libertà, e cerchiamo di sfruttarla al massimo.

Ascoltando Babylon si ha davvero l’impressione di allargare il proprio panorama sulla musica contemporanea. È importante allentare la divisione dei generi oggi? Ritieni che il pubblico italiano sia allenato/pronto a cogliere stimoli nuovi o sia un po’ restio nell’apprezzare le novità?
Secondo me quello dei generi è un falso problema: l’importante non è smetterla di classificare la musica che ascoltiamo, ma ascoltare tutto senza pregiudizi. Un sacco di gente si nasconde dietro la divisione in generi per evitare di mettersi in gioco: “Mi piace solo il rock, per cui questo disco hip hop non provo neanche a sentirlo”. Il pubblico di casa nostra è molto abitudinario: una larga fetta di ascoltatori italiani preferisce andare sul sicuro quando ascolta musica, ma è anche colpa dei media e del music business, che non li stimolano ad allargare i loro orizzonti e continuano a riproporre prodotti sempre simili per non rischiare.

Come si fa a snidare qualcosa di davvero originale? Ti è mai capitato di arrivare prima degli altri a cogliere le potenzialità di un artista emergente o di un genere?
Innanzitutto ascoltando tonnellate di dischi, vecchi e nuovi, perché se non hai una buona cultura musicale di base è impossibile capire cosa è originale e cosa non lo è. Sugli artisti emergenti a Babylon ci è capitato spesso di arrivare prima di altri, e forse il caso più eclatante è stato quello di Lana Del Rey, che abbiamo iniziato a suonare ben prima che ottenesse un contratto discografico, quando ancora si limitava a pubblicare da sola le sue canzoni sui vari social. La nostra costanza ha dato i suoi frutti, perché quando finalmente nel 2012 ha firmato con Universal ed è arrivata in Italia a presentare il suo primo album Born to die, ci ha premiato con un live e una lunga intervista in esclusiva!

Da Babylon (18/9) ti riporto le parole di Henry Giroux: “Il capitalismo attorno alla cultura è un assassinio; elimina la magia, la qualità, tutto ciò che stimola l’immaginazione e impedisce al vero talento di emergere” – sei d’accordo?
In parte è sicuramente vero, ma non tutto il male viene per nuocere: se la musica non fosse un business, gli artisti sarebbero costretti a fare altri lavori per mantenersi e non avrebbero tempo per dedicarsi alla propria creatività. L’importante è che la cultura prevalga sempre sulla questione economica.

Qualche nome che tieni a citare in questo inizio di ottobre 2016 per Pequod?

Per non fare un elenco lunghissimo, di musicista ne scelgo uno solo: la rivelazione del 2016 per me è e resta Anderson.Paak, che tra l’altro sta per uscire con un progetto in collaborazione con il producer Knwxledge dal titolo NxWorries. A Babylon ne siamo tutti innamorati.

Anderson Paak

Caravan Orkes-tour: il nostro viaggio musicale

È finalmente il giorno della partenza! Prepariamo tutti i bagagli per bene, riempiamo le custodie degli strumenti e ci dividiamo i “pesi massimi”. Siamo in nove all’aeroporto, tutti con le nostre magliettine colorate e i cappelli da ceffi balcanici: la Caravan Orkestar è pronta per questa nuova avventura. Tre concerti in pochi giorni e 3000 kilometri da percorrere.
Un tour che in realtà è cominciato molti mesi prima: persone, bagagli, strumenti musicali e aerei sono complicati da gestire (soprattutto quando si tratta di “un bandone” composto da più di venti persone), anche se ciò non ha fatto altro che alimentare in noi l’impazienza e l’emozione per questa esperienza tutta da provare. Per questioni logistiche siamo partiti in nove, appunto, direzione Soisson: un angolo di verde e magia nella regione francese della Piccardia.

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Qui siamo stati amorevolmente ospitati da la Lanterne Magique, una compagnia circense che ha sede fissa in un’antica corte con tanto di pista per i cavalli, un grande chapiteau, vecchi caravan (!) restaurati nel cortile e un centinaio di bambini e ragazzi, arrivati per un campo scuola sulle discipline circensi. La cordialità, i sorrisi e la grande attenzione nei nostri confronti ci hannno fatto sentire protagonisti!

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Nelle giornate francesi per nulla ci sembrava di lavorare: quello che era lavoro, cioè il concerto, arrivava sempre alla fine di ore condivise ed era al contempo una naturale prosecuzione di quel che vivevamo prima e un anticipo di quel che sarebbe successo dopo l’esibizione. Anche a divertirci la notte in cui non abbiamo potuto dormire, siamo riusciti a divertirci: dopo il secondo concerto francese ci siamo fiondati in aeroporto, direzione Cagliari. Ormai svegli e “caffeinati”, abbiamo impiegato le ore di ritardo un po’ vagando per l’aeroporto, un po’ suonando un pianoforte scordato, un po’ giocando, per poi finalmente raggiungere il resto del gruppo giusto per l’ora di pranzo. Abbiamo caricato noi stessi e tutto l’ambaradam su un pulmino diretto a Sant’Antioco.

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In un gruppo composto da così tante persone normale è che ci si separi in gruppetti più piccoli: chi si è goduto blu del mare sardo, chi si aggirava curiosando per le viuzze del paese, chi dormiva; il concerto diventa il momento comune, richiede maggior concentrazione e attenzione a quel che ti succede attorno, quello che fanno gli altri. Non è una situazione migliore o peggiore, solo diversa e più slegata dal prima e dal dopo esibizione.

Anche l’accoglienza di Sant’Antioco è stata molto partecipata, ma le lunghe prove pomeridiane, il lunghissimo sound check e la presenza del maestro Jovica Jovic (con cui avremmo suonato di lì a poco) non han fatto che aumentare la tensione e l’adrenalina. Ciò ha inevitabilmente portato ad un concerto spettacolare, sentito e apprezzato, nella location mozzafiato dell’Arena fenicia: una bomba di emozioni che di certo faticheremo a dimenticare.

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Un viaggio diverso dal solito in cui l’attenzione verso gli altri, la condivisione degli spazi, delle tempistiche e dei problemi logistici hanno solidificato il senso di gruppo. La vacanza da musicoturista è davvero qualcosa di speciale, ma che sicuramente richiede allenamento!

Intervista’l’musicista: La tromba del Bon vecchio Piero

Eccezionalmente per Pequod si rivela a noi Marco Pierobon: uno dei musicisti italiani più affermati sulla scena internazionale. Ammaliata dalla sua musica e dalla sua tromba vi consiglio di starvene seduti comodi e far partire i consigli musicali che ci ha lasciato Marco.

Led Zeppelin,Whole lotta love (Link)
W.A. Mozart: Symphony No. 41 (Link)
Skrjabin, Poema dell’Estasi (Link)

Chi si cela dietro questa magnifica tromba?

Marco Pierobon, 40 anni (sigh!), nato e cresciuto a Bolzano (fino ai 18). Poi emigrato in giro per il mondo, ma di base, ora, in provincia di Parma. Nebbia e Zanzare.

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Qual è in tuo primo ricordo musicale?

Primo ricordo musicale? Il mio maestro di solfeggio che mi dettava le lezioni da imparare sul quaderno. Fotocopie? Ciclostile? Mah…

Quale è stato il tuo percorso come musicista? Parlami delle tue origini, dei tuoi primi ascolti, le band del liceo, i gruppi in cui hai suonato che più han significato per te e per la tua crescita musicale.

Ho iniziato a 8 anni alla scuola elementare, in un corso “casuale” di musica. Subito dopo, a scuola della banda, a Bolzano. Alle medie mi sono convertito al Metal (!!!) per cui Iron Maiden, Bon Jovi, Guns’n Roses. Vinili e musicassette. CD? Ancora non pervenuti…

Ho fondato gli “Universe” alle scuole medie, suonavo la batteria. Poi al liceo il salto di qualità: “Five Faces”, una cover band degli Zeppelin (sempre batteria) e “Alfio e gli Apodi” (chitarra), Doors e co. Ma anche gruppi di musica latino americana con la tromba. Poi è stata la volta del conservatorio, l’Orchestra Giovanile Italiana a Fiesole, concorsi vinti, l’Orchestra Toscanini di Parma,  il Maggio Musicale Fiorentino, l’ Accademia di S.Cecilia di Roma e una capatina alla Chicago Symphony Orchestra. Ora solo conservatorio, il quintetto d’ottoni (GomalanBrass Quintet) e concerti da solista.

 

Come ricordi gli anni di studio in conservatorio/scuole di musica? Qualche aneddoto particolare?

Ho degli splendidi ricordi del Conservatorio. Molto lavoro, tanti concerti, molta esperienza. Ma ho visto volare anche qualche sedia in sala orchestra, per fortuna non ero io il destinatario.

Ora la situazione è ribaltata e potenzialmente sei tu quello che può lanciare le sedie. Cosa significa per te insegnare musica? Come lo affronti, quali sono i valori che vuoi trasmettere  e le delicatezze da tener presente?

Insegnare è un’esperienza intensa. Voglio trasmettere la mia intenzione di comunicare attraverso la musica, cosa non scontata. E non lo posso fare suonando in prima persona, ma ispirando i miei studenti. La cosa più bella non è far suonare un allievo come me, ma farlo suonare al meglio delle sue possibilità, nel suo stile. Accantonando le mie idee musicali. Suggerendo e guidando, non imponendo. Mi riesce quasi sempre. Quasi.

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Uno strumento musicale che avresti voluto imparare a suonare?

Banale. Il pianoforte. Suonicchio, ma da schifo.

Lasciami un pensiero musicale per salutare i nostri lettori.

La vita senza musica sarebbe un errore (non è mia…). Quindi non sbagliate. E non fate sbagliare i vostri figli. Non tutti devono diventare musicisti. Ma saper ascoltare è una delle regole basilari della musica. Pensa se la applicassimo ai rapporti fra le super-potenze mondiali.

Qualche consiglio dascolto?

Tutto, senza preconcetti. Se io ho ascoltato Led Zeppelin e Mozart contemporaneamente (Mozart era più Heavy Metal di tanti rockettari di oggi, btw) si può fare. E da tutto si può apprezzare e cogliere il bello, l’energia:

Led Zeppelin,Whole lotta love

W.A. Mozart: Symphony No. 41 “Jupiter” in C major

Skrjabin, Poema dellEstasi

 

 

A Zadar chi suona è il Mare

“L’imprevedibilità del mare con la sua forza, moto, direzione e marea crea un concerto perpetuo, irripetibile nelle sue variazioni musicali. L’autore di questa sinfonia è la Natura stessa”

Zadar, Croazia. È qui che il 15 aprile 2005 venne inaugurato l’Organo Marino (Morske Orgulje) ad opera dell’architetto Nikola Bašić: situato nella banchina che circonda il centro storico, in un luogo da tempo abbandonato, quest’opera venne concepita come luogo di riqualificazione e attrazione. Alla creazione di questo immenso strumento musicale collaborarono Vladimir Androšec (professore all’Università di Ingegneria e Architettura di Zagabria) come consulente per il sistema idraulico marino, Goran Ježina (del laboratorio di produzione d’organi Heferer di Zagabria) che si occupò dell’istallazione delle canne e della produzione dei 35 labium finemente accordati dal professor Ivica Stamać.

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Io ci sono capitata un po’ per caso, un po’ per destino una sera di fine agosto. Di primo acchito altro non sembra che una serie di gradinate che danno direttamente sul mare ma, man mano ci si avvicina si viene avvolti dalla magia!

Al di là della magia e della suggestione, rimane una grande opera di ingegneria che, mio malgrado, tenterò di spiegarvi al meglio: ci sono sette sezioni di gradinate da 10 metri ciascuna; al di sotto di queste, posizionate parallelamente alla riva e al livello della bassa marea, si trovano 35 canne di polietilene di varie lunghezze, diametri e inclinazioni che si alzano trasversalmente fino alla pavimentazione della riva per terminare nel canale, allo scopo di far passare l’aria e l’acqua producendo un suono diverso a seconda delle condizioni del vento e del mare.

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L’onda del mare spinge l’aria attraverso la canna, il cui diametro va pian piano ristringendosi; il suono nelle canne è prodotto dall’accelerazione dell’aria che fa vibrare i labium (labbro, dal buon vecchio latino – si tratta della parte interna all’imboccatura di flauti dolci, ocarine, fischietti che permette la produzione del suono facendo infrangere l’aria su di essa; nell’organo avviene la stessa cosa con la differenza che l’aria viene spinta meccanicamente e il suono viene prodotto dalla vibrazione interna delle canne ad anima, o labiali). Questi labium, dicevamo, sono situati praticamente sotto i nostri piedi e il suono esce da dei buchi nella pavimentazione del marciapiedi.

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I suoni prodotti da questo strumento sono continuamente diversi e modulati secondo sette cluster (sono gruppi di note vicine – da tre a cinque – che vengono suonate simultaneamente) e cinque toni tipici della musica tradizionale dalmata a cappella.

Al di là di questo affascinante funzionamento che unisce magistralmente la forza della natura alla sublime meccanica organistica, sedersi su quelle gradinate è stato un momento che, a mio avviso, farò fatica a dimenticare. Metteteci il mare a metà tra il tranquillo e l’arrabbiato tipico di una sera ventosa, una luna quasi piena, isolate il vociare dei turisti e nascondetelo alle vostre orecchie e avrete un momento speciale.

Il ritmo e la melodia dipendono in tutto dal moto ondoso e dal vento, sparisce il classificato concetto di musica – dei suoni a caso, come se trentacinque persone suonassero una nota di un flauto tutti nello stesso momento o quando gli pare. Fatto sta che è qualcosa di veramente bello, studiato e fine: c’è la riqualificazione di una parte snobbata di una cittadina marittima, c’è il rispetto e il vero coinvolgimento della natura, c’è la musica.

Se mai passerete da Zadar fermatevi ad ascoltare.

In copertina: Organo marino di Zadar [ph. Böhringer Friedrich CC-BY SA 2.5/Wikimedia Commons]

Michael Nyman: lezioni di piano a parte

 

Creare qualcosa di bello, a volte, è più una condanna che una fortuna. Chi crea un’opera di grande rilievo spesso nutre verso di essa sentimenti contrastanti: l’odio per un persecutore, il senso di ingiustizia per il resto della produzione, l’amore del genitore per un figlio. Deve essere frustrante sentirsi sempre chiedere la stessa cosa, quando si è consapevoli di aver fatto anche altro nella vita, altro di ugualmente bello; come un attore che si fonde con un personaggio. Eppure, quando si ha un grande dono come questo, si finisce per vivere di lei e pace a chi non capirà.

Questo è il problema di Michael Nyman, che ho avuto l’occasione di ascoltare dal vivo presso il Palazzo Trecchi di Cremona, in un concerto dal titolo Acqua Armonica, all’interno del festival Acque Dotte, alla sua prima edizione. Già ospite della città nel 2014 per il festival Mondomusica, Nyman ha partecipato con un’esibizione da solista il 12 luglio scorso, nell’elegante cortile del palazzo nobiliare. La sua è soltanto la seconda del festival, ma anche l’ultima prima delle vacanze estive: il suo prossimo concerto, infatti, sarà l’8 settembre a Napoli.

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Sottotitolo del festival è Music flow, la musica scorre. Un chiaro riferimento, questo, assieme ad Acqua Armonica, alla presenza solenne e potente del fiume Po, sulla cui riva lombarda  sorge Cremona. Il Grande Fiume è scenografia e protagonista della vita quotidiana della città e la rassegna si propone di esaltare questo arcaico rapporto tra i due: ogni concerto, infatti, ha nel titolo l’acqua, l’elemento liquido.

Nyman, nella sua performance, ha mantenuto la promessa che gli è stata chiesta, collegando ogni brano al successivo, senza interruzione: perché se il Po scorre, la musica fluisce e così le sue note.

Le colonne sonore e gli spartiti sono stati accostati l’uno all’altro, seguendo quasi il movimento dell’acqua. Il maestro ha attinto soprattutto dai dischi The Piano Sings e The Piano Sings 2, e dopo un’ora di attesa, ha eseguito il brano che lo ha portato al successo di pubblico, ma anche all’assimilazione con un film, uno dei tanti in cui ha lavorato: si tratta di The Piano (1993, tradotto Lezioni di piano) di Jane Campion, vincitore di tre premi Oscar e vero film cult.

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L’ovazione era d’obbligo, ma sul volto del compositore londinese si è dipinta un’espressione amara. Tutti conoscono quel brano, ormai; tanti hanno visto il film, ma altrettanti sembrano ignorare cosa altro egli abbia composto.

Oltre che compositore, Nyman è anche musicologo e fra i primi rappresentanti del minimalismo musicale della fine degli anni ‘60; è pianista e performer di carattere, oggi anche fotografo e regista (il suo album fotografico Sublime non potrebbe avere altro titolo), infine scrittore di storia della musica. Non stupisce che sia chiamato anche Renaissance Man, perché la sua creatività, il suo desiderio di sperimentare e la sua forte curiosità sembrano non avere davvero limiti.  Inoltre, se proprio dobbiamo di continuo relegarlo al mondo delle colonne sonore, si citino almeno altri film in cui ha collaborato: Gattaca-La porta dell’universo (1997) e La stanza del figlio (2001).

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Quel che però non convince del concerto è l’atmosfera che si crea una volta che Nyman si siede al pianoforte. Quando gli occhi gli cadono sullo spartito e le dita sfiorano i tasti, il pubblico sembra escluso, come se non ci fossero che lui e il piano. Per questo, l’impressione che mi ha dato è che egli abbia un’immaginazione lirica, del tutto rara, ricca di poesia e dolcezza, ma che si trovi più a suo agio in un luogo privato, più consono alla creazione, piuttosto di un piccolo palco su cui suonare da solo.

Forse, però, si tratta di un senso di rivalsa. Da solo, Nyman non può essere soltanto Lezioni di piano, ma un artista di enorme talento, un grande teorico e un poeta. Il pubblico pagante in parte pareva essere lì esclusivamente per ascoltare quelle note romantiche che lo ha commosso.

Nyman non è una nota sola, ma una fragorosa onda di note che sono tutte quante degne di essere udite, e ognuna ci racconta una storia diversa.

 

 

Nabucco: l’annunciato successo di Giuseppe

Nabucodonosor è il titolo originale della terza opera di Giuseppe Verdi, il primo grande capolavoro che decretò il suo successo (poi, in realtà sui cartelloni il titolo, essendo troppo lungo, veniva scritto Nabucco e, a capo, Donosor – anche Giuseppe finì per usare il titolo abbreviato).

«Con questa opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica». Lettera autobiografica a Giulio Ricordi, 1879.

Un dramma lirico in quattro atti basato sul libretto di Temistocle Solera che venne rappresentato per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 9 marzo 1842.

Ve ne parlo perché  è una delle opere in programma all’Arena di Verona in queste settimane: tre ore e mezza circa (intervalli inclusi) di sublime godimento con l’orchestra dell’Arena sotto la direzione di Riccardo Frizzi e una regia ideata nel 1991 da Gianfranco de Bosio, con le scene di Rinaldo Olivieri.

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Non ricordo le esatte parole dell’aneddoto raccontato da Giuseppe su come si sia deciso ad accettare l’ingaggio dell’impresario Bartolomeo Merelli, ma fu una sera in cui l’impresario della Scala spazientito (il libretto che tentava di proporre era già stato rifiutato da Otto Nicolai, un giovane compositore prussiano) piombò nel suo appartamento scaraventando il libretto sul tavolo (c’erano stati degli screzi precedenti) per poi andarsene sbattendo la porta. Giuseppe un po’ stizzito e un po’ incuriosito si avvicinò al libretto che s’era aperto e iniziò a leggerlo: decise che si, avrebbe composto lui la musica.

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Nella prima parte la scena fingesi in Gerusalemme, nelle altre in Babilonia.

Naturalmente la prima fonte del libretto di Temistocle è la Bibbia e in particolare le parti che riguardano il regno di Giuda e la sua invasione da parte del re babilonese Nabucodonosor nel 587-586 a.C., quando venne saccheggiato il tempio di Gerusalemme, con la conseguente deportazione dei vinti in Babilonia.

Considerata una delle opere più risorgimentali di Verdi, ebbe un grande successo in Italia perché gli spettatori dell’epoca potevano immedesimarsi e riconoscere la loro condizione politica in quella degli ebrei soggetti al dominio babilonese. Questo era il grande potere dell’opera: un momento di musica (e non solo) condivisa dove la coralità e l’empatia erano elementi fondamentali, vissuti e interiorizzati dagli spettatori.

Quella di Nabucco è una trama complicatissima: c’è la politica, c’è l’amore, l’odio, la guerra e gli dei che s’impicciano negli affari terreni. Tutto inizia al Tempio di Gerusalemme dove i Leviti sono preoccupati per la sorte degli Ebrei, appena sconfitti da Nabucco; qui il gran pontefice Zaccaria risolleva gli animi facendo notare che Fenena, la figlia di Nabucco, in realtà è loro prigioniera.

Ismaele, nipote del re di Gerusalemme, è però innamoratissimo di Fenena e fa di tutto per farla fuggire. A ciò si aggiunge Abigaille, anch’essa figlia di Nabucco e innamoratissima di Ismaele, che scopre il piano dei due amanti e minaccia Fenena di raccontare tutto a papà. Il buon cuore di Ismaele fa ricongiungere l’amata al padre, scatenando l’ira degli Ebrei (anche se poi si scoprirà che Fenena è ebrea e quindi Ismaele ha fatto la cosa giusta).

 

Nel frattempo Abigaille scopre un documento in cui si attestano le sue origini da schiava (venne adottata da Nabuccodonosor) che non le permettono la successione al trono – si, perché nel frattempo ci sono in giro voci per cui il re dei babilonesi sarebbe morto in battaglia. Fenena prende il potere e ordina che gli ebrei vengano liberati: da qui il putiferio.

Questa non è nemmeno metà dell’intera trama, ma forse vi siete fatti già un’idea della complessità, dei colpi di scena e del brivido della storia!

 

In copertina: Nabucco a Masada (Israele), regia di Daniel Oren [ph. Hanay CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

Intervista’l’musicista: Jonathan, il chitarrista del Giovedì

La crescita personale di un musicista da sempre autodidatta che sfocia nella realizzazione di un disco è la storia che io e Jonathan Locatelli vi raccontiamo oggi. Chitarrista di nascita, polistrumentista per passione, classe 1988 e nativo della valle Imagna (BG): «Dico sempre di aver iniziato a suonare a dodici anni anche se ho sempre ascoltato tantissima musica, l’ho sempre amata sin da bambino grazie ai miei genitori».

Consiglio di lettura: accomodatevi in un prato scintillante, respiratene il profumo e mettete in sottofondo i consigli musicali di Jonathan che trovate a fine articolo –  Third Ear Band, Earth e Comus, Diana.

FOTO1 (1)       Foto di Monelle Chiti (link)

Quali sono state le tue prime passioni musicali: le musicassette e i cd che hai consumato?

Sicuramente Tracy Chapman! L’ascoltavo quando ero piccolissimo, a sei anni ed era una cassetta che era proprio mia: me la mangiavo con il mio walkman. Così come Legend di Bob Marley.

Parlami del tuo percorso musicale: quando hai iniziato a suonare, le band del liceo, le esperienze che ti hanno fatto crescere come musicista e che ti hanno portato alla realizzazione di Giovedì con i Rich Apes.

Sono un autodidatta: mio zio Claudio Iacchetti (il disco è dedicato a lui!) fu il primo a mostrarmi i primi accordi; quando iniziava a suonare la sua chitarra rimanevo completamente affascinato. Già alle superiori mi mettevo in mostra suonando per affascinare le ragazze– non serviva, ero troppo sfigato! A diciassette anni ho iniziato a suonare in un tributo molto “grezzo”  a Jimi Hendrix, fu un’esperienza bella e suonammo davvero tanto. Poi con i Violaspinto (link), per circa un anno. Diventai più disciplinato: ero un “cane sciolto”, molto chitarristico, egocentrico e con loro ho imparato la dimensione di gruppo: “sacrificare” il proprio strumento per incastrarsi con gli altri e puntare al bene del risultato finale. Successivamente con Sakee Sed (link) ho provato per la prima volta l’ebbrezza di un tour (penso di aver perso tre anni di vita per colpa, o grazie a loro).

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Ora sei approdato in questo nuovo progetto tutto tuo, con un nuovo gruppo.

Si, è qualcosa che avevo dentro da tantissimo tempo ma che ho sempre rimandato perché non mi sentivo pronto. Il gruppo si chiama Rich Apes (Scimmie Ricche): è la definizione dell’essere umano, una scimmia con i soldi. L’album s’intitola Giovedì, il giorno dei matti (link).

I brani sono stati tutti composti da te?

Sì. In primis ho registrato, con Luca Mazzola alla batteria. Successivamente sono stati aggiunti i bassi, gli arrangiamenti e le voci.

Ci sono anche strumenti abbastanza inusuali per una “classica” band.

Sì, abbiamo avuto Matteo Muscas alle launeddas, Stefano Armati al contrabbasso e Jacopo Moriggi al didgeridoo, ma sempre sotto il mio indice vigile (sono molto zappiano e autoritario, geloso dei miei brani).

Esiste un filo conduttore all’interno del disco?

No! È musicalmente incoerente, poliedrico, non ricorda nulla in particolare ma tante cose diverse; credo rispecchi la mia formazione musicale e il modo in cui ho imparato a suonare: non prendendo lezioni da qualcuno ma “rubando” da ciò che ho ascoltato. Diciassette brani: nove cantati in italiano e otto strumentali – alcuni sono dei “caroselli” – dei ponti musicali tra un brano e l’altro – brani cortissimi, alcuni di questi cantati con un linguaggio inventato che ricorda il Grammelot.

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Come è avvenuta la scelta dei musicisti per questo progetto?

Ho registrato tutto insieme a Luca. Suoniamo insieme da molto tempo, soprattutto in loop, ma non mi sentivo più di usare questa tecnica: troppo meccanica, con troppe difficoltà anche nel gestire la linea vocale. Volevo avere più libertà d’interpretazione. Da qui l’idea di chiedere ad altri musicisti e allargare il progetto a Gabriele Ferreri, un amico con cui si è creata sin da subito una bella sintonia musicale e non solo. Poi, ad un concerto degli Attribution ho visto il chitarrista Marco Pasinetti suonare e ho pensato “Oh! Finalmente qualcuno che sa suonare e che suona!”.  Questo perché noto che spesso i musicisti investono tempo, soldi ed energia in cose che non riguardano la musica in sé, ma va bene! Perché anche l’ufficio stampa, le recensioni, i curriculum sono importanti, questo però deve portarti su un palco e se la parte suonata viene meno all’aspettativa che hai creato è triste; va bene l’attitudine ma il punk è finito! Bisogna saper suonare.

Uno strumento che avresti voluto imparare a suonare? Un tuo “rimpianto musicale”?

Da piccolo volevo suonare la batteria ma i miei genitori non volevano fracasso. Rimpiango di non aver iniziato prima a cantare, perché è diverso da qualsiasi strumento e occorre avere una buona base tecnica.

Lasciami un tuo pensiero musicale.

Ho capito che la chiave è il ritmo. Hai una chitarra, ti si spaccano cinque corde e te ne rimane una? Puoi comunque creare musica se ti avvali del ritmo.

Un consiglio d’ascolto per i nostri lettori?

Earth, dei third ear band

Diana dei Comus

 

Perché gli inni nazionali sembrano tutti uguali?

Avete mai ascoltato attentamente, durante le premiazioni di varie manifestazioni sportive, gli inni nazionali? Vi siete mai chiesti per quale motivo risultino essere un po’ tutti uguali e soprattutto suonati con gli stessi strumenti di derivazione sinfonica e bandistica occidentale? Gli inni nazionali rimangono un genere musicale snobbatissimo che rientra nel grande pentolone di quella che si considera world music.

In realtà si tratta di una questione molto seria e questo tipo di musica viene eseguito nei momenti di maggiore solennità, dedicato a mettere in scena l’essenza stessa di una nazione nei momenti di espressione pubblica dell’orgoglio patriottico, quindi ci aspetterebbe di sentire delle differenze musicali notevoli e rappresentative della tradizione  nazionale. Colpisce il fatto che le musiche degli inni nazionali sembrino incredibilmente tutte uguali. Per esempio, anche per quanto riguarda gli inni di composizione più recente, creati o adottati dalle nazioni africane e asiatiche post-coloniali, suonano paradossalmente simili a quelli che siamo abituati ad ascoltare da secoli.

C’è da ricordare che, nella storia degli inni nazionali, molti di questi brani sono nati durante crisi e momenti di grande subbuglio delle nazioni. Per quanto riguarda i motivi per cui spesso risultano essere molto simili tra loro, c’è da ricordare che molti dei “nuovi” inni nazionali si basano su pezzi preesistenti, anche quando servivano per fungere da composizioni transitorie al fine della creazione di un nuovo inno. Sicuramente e storicamente i modelli più inflazionati sono stati God Save the Queen (Inghilterra), La marseillaise (Francia) e il Kaiserhymne di Franz Joseph Haydn, che fu l’inno dell’impero Austro-Ungarico fino alla Prima guerra mondiale, e poi della Germania a partire dal 1922.

Inoltre, sebbene gli inni nazionali facciano parte di generi diversi, come gli inni (propriamente detti), marce, fanfare, in pratica sono eseguiti secondo le stesse modalità per produrre un alto grado di omogeneità, usando per esempio insiemi di ottoni al fine di dare rilievo alla solennità. E poi, diciamola tutta, gli inni suonano simili anche perché vengono suonati  sempre nelle stesse occasioni come le cerimonie di stato o inseriti in trasmissioni radiofoniche e televisive nazionali e internazionali. In generale testi e melodie sempre piuttosto noiosi non aiutano.

Rimane affascinante la storia di questo genere musicale che segue di pari passo quella del nazionalismo: si inerpica attraverso una serie di fasi, partendo nel XVIII secolo con l’Illuminismo, proseguendo con il Nazionalismo romantico del XIX secolo (soprattutto in Europa e in America Latina) e con l’espansione coloniale tra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale, giungendo alla fase post-coloniale che va dalla seconda metà del Novecento fino ad oggi. Tutte queste diverse fasi gli inni nazionali hanno assunto significati diversi, così come sono stati composti per esprimere idee di nazioni diverse: i primi inni, per esempio, erano riconducibili a melodie di canti folklorici, mentre nella fase intermedia erano orientati marcatamente verso generi di musica religiosa e militare; infine, nell’epoca post-coloniale gli inni mostravano una tendenza a incarnare la storia della nazione moderna.

Immaginate quanta complessità nel momento in cui si doveva scegliere un canto che desse voce all’intera nazione! Il procedimento che ci è più familiare è quello per cui la nazione decide di affidare la realizzazione di un canto rappresentativo ad un compositore o un letterato: il processo di valutazione e approvazione era di una complicatezza estrema e il problema è che sono state sempre seguite le ragioni ideologiche più che quelle musicali e che le proposte più interessanti musicalmente sono state spesso scartate per via della scorrettezza ideologica. Un esempio è il Va pensiero vs Inno di Mameli (al di là di tutte le recenti polemiche e similitudini), dimenticatevi di tutto e ascoltate soltanto.

 

Mirliton: che kazoo suoni?

Il mirliton è uno strumento riconducibile alla categoria dei membranofoni (come i tamburi) in quanto è caratterizzato da una membrana vibrante, necessaria per la produzione del suono. Un effetto simile si può facilmente ottenere con un pettine e della carta ripiegata su di esso: basta appoggiare le labbra sul pettine ricoperto dalla carta e cantare (o semplicemente mormorare) contro di esso. Si otterrà un suono ronzante, tipico di questo strumento, grazie alla vibrazione della carta.

Un esemplare primordiale di questo strumento è il cosiddetto corno nigeriano: un semplice corno di bue che veniva usato per modificare il suono della voce umana; la membrana di questo mirliton è ricavata dalla sostanza che i ragni producono per proteggere le uova. È uno strumento molto povero e molto diffuso nell’Africa occidentale dove, da secoli, è protagonista durante i rituali tribali.

In Europa questi strumenti sono stati sempre legati al mondo dei giochi dell’infanzia e intorno al XVII e XVIII secolo andavano molto i flauti da eunuchi, conosciuti anche come onion flutes (flauti a cipolla). In questo caso la membrana vibrante era protetta da una capsula smontabile che copriva l’estremità superiore dello strumento; parlando o cantando nei fori della capsula veniva prodotto il suono.  Il trattatista Marin Marsenne (teologo, filosofo, matematico) ci ha lasciato un bellissimo e dettagliato disegno dello strumento con tanto di descrizione accurata, in cui afferma che le vibrazioni della membrana, oltre a riflettere il suono della voce, ne miglioravano la qualità del suono. Era lo strumento che riproduceva più da vicino il suono della voce umana.

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Il più famoso strumento di questa famiglia è probabilmente il kazoo: un semplice mirliton giocattolo che si suona cantando o parlando nel foro che sta all’estremità del tubo; la membrana è situata a metà del tubo stesso, sopra un foro laterale. Con la deportazione di schiavi africani negli Stati Uniti, arrivò anche il suddetto corno nigeriano e la povertà stessa di questo strumento ha permesso la sua capillare diffusione e la sua adozione in quei generi di musica “povera”: nei primi anni del Novecento era molto usato nel sud degli Stati Uniti dove spesso accompagnava i cantanti blues, fino ad arrivare ai primordi del jazz e in particolare nel dixieland (negli anni ’30 arrivarono a formarsi delle vere e proprie bande di kazoo).

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Sempre nello stesso periodo e sempre negli Stati Uniti, appare come novità lo zobo: da fuori può sembrare uno strumento convenzionale che prende le sembianze di pseudo trombe o pseudo cornette, ma che in realtà è sempre un mirliton camuffato da strumento “vero”. Addirittura, in questo caso, venivano studiate delle membrane vibranti speciali che riproducessero, nel modo più fedele possibile, il suono dello strumento raffigurato.

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Oggi, il kazoo è lo strumento più diffuso di questa famiglia e viene solitamente usato nella musica pop, folk e nelle colonne sonore di film o cartoni animati.

 

 

Tra 1° Maggio, EXPO e il teatro alla Scala di Milano: Nessun Dorma!

 

Invece che a Pechino, al tempo delle favole, Turandot quest’anno è a Milano, al tempo di EXPO. Molte sono state le polemiche riguardanti la festa dei lavoratori concomitante con la rappresentazione al teatro alla Scala di Milano – diretta da Riccardo Chailly nell’allestimento (rivisitato) che il regista Nikolaus Lehnhoff ideò per Amsterdam nel 2002: «Nei sei mesi di EXPO, per la prima volta nella sua storia, la Scala sarà aperta ininterrottamente dal 1° maggio al 31 ottobre. Il ruolo di istituzione culturale fra le più prestigiose del nostro paese, impone di offrire in questo modo il nostro contributo a questo grande evento per Milano e per l’Italia». Queste sono le parole di Alexander Pereira, il neo sovrintendente della fondazione.

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La prima rappresentazione dell’opera fu il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala di Milano, (il libretto a cura di Giuseppe Adami e Renato Simoni) sotto la direzione di Arturo Toscanini. È un dramma lirico composto da tre atti e cinque quadri: teatralmente parlando il quadro sta ad indicare una o più parti di un atto (è una semplice pausa con sipario aperto e palcoscenico vuoto – indica un cambio di scena) mentre tra un atto e l’altro avvengono cambiamenti ben visibili a livello narrativo e scenico.

Turandot è l’ultima e incompiuta opera di Giacomo Puccini (le ultime due scene, di cui non rimaneva che un abbozzo musicale discontinuo, furono completate da Franco Alfano, sotto la supervisione di Toscanini dopo la morte del compositore – 29 novembre 1924). In realtà c’è chi sostiene che non sia veramente incompiuta a causa della malattia, ma dalla difficoltà che l’autore incontrò con quel lieto fine: tutto quel trionfo d’amore (nonché l’elemento che aveva acceso il suo entusiasmo verso il soggetto) e la trasformazione della principessa Turandot da sanguinaria ad innamorata lo crucciava parecchio. Questo perché Puccini cercava di ottenere sempre un equilibrio tra azione scenica e musica: gli atteggiamenti dei personaggi e le situazioni dovevano avere delle motivazioni esplicite, nonché essere giustificate dalla logica per essere chiare al pubblico.

Turandot è una principessa sanguinaria dal cuore di ghiaccio che sottopone i suoi pretendenti ad una prova: se non riusciranno a risolvere tre enigmi irrisolvibili da lei proposti verranno decapitati. Ovviamente Calaf, il figlio del re dei Tartari, dopo essere arrivato a Pechino, dopo aver incontrato casualmente suo padre Timur e la fedele e innamorata schiava Liù (Carramba!), affascinato dalla principessa decide di affrontare la prova (ma tenendo bel celata la sua identità). Nonostante le avvisaglie dei dignitari reali Ping, Pong e Pang per farlo desistere, il principe belloccio affronta la sfida e ovviamente la supera.

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Data la sua infinita moralità non vuole sposare la principessa contro la sua volontà: se Turandot riuscirà a indovinare il suo nome prima dell’alba potrà condannarlo a morte. In nottata scoppia il putiferio in città, vengono catturati Timur e Liù (che essendo innamorata del principe si uccide per paura di rivelarne il nome sotto tortura). Nel frattempo Calaf, mentre tutti piangono, rimane solo con Turandot affrontandola con fermezza: con un bacio scioglie il suo cuore. All’alba egli rivela il suo nome mettendo la sua vita nelle mani della principessa squilibrata che dichiara:

 Turandot:

Padre augusto, conosco il nome
dello straniero!
Il suo nome è… Amor!

(I due amanti si trovano avvinti perdutamente, mentre la folla getta fiori e acclama gioiosa.)

La folla:
Amor!
O sole! Vita! Eternità!
Luce del mondo è amore!
Ride e canta nel Sole
l’infinita nostra felicità!
Gloria a te!… Gloria!

 

 

 

Il regime della Turbo Folk: la musica e l’arma della dittatura jugoslava

Il turbo-folk è un genere musicale nato in Serbia negli anni Novanta. Il termine venne coniato dal famigerato cantautore Antonije Pušić  – (Cattaro, 14 giugno 1963), in arte Rambo Amadeus, che ricordiamo come rappresentante del Montenegro per l’Eurovision Song Contest 2012 – per unire la musica folk tradizionale all’idea di modernità e potenza (“turbo”) delle basi elettroniche. Anche se strettamente legato agli stili e gli artisti serbi, questo genere è molto popolare anche in Bosnia-Erzegovina, Slovenia, Croazia, Macedonia, Albania, Bulgaria, Turchia e Montenegro.

Rambo Amadeus – Euro Neuro, 2012

Era la cosiddetta “novokomponovana muzika” (musica di nuova composizione), che poteva essere vista come il risultato dell’urbanizzazione della musica popolare. Inizialmente c’era un approccio molto tradizionale alla performance: venivano usati fisarmonica e clarinetto su canzoni d’amore tradizionali (insieme a temi lirici, monarchici e anti-comunisti). In una fase successiva, gli artisti più popolari come Lepa Brena, Vesna Zmijanac e Dragana Mirković utilizzarono le influenze dalla musica pop, musica orientale, e altri generi, che hanno portato alla nascita di turbo folk.

Lepa Brena – Jugoslovenka, 1989

Ma questo non è solo un genere musicale, fu infatti un forte alleato dei sentimenti nazionalisti nati dopo il disfacimento della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (1991-1995). La musica tradizionale si accompagnava a testi patriottici ispirati al mondo militare, mentre l’accompagnamento era quello tipico della musica pop e dance che stava spopolando nel resto d’Europa. Si aggiunsero in seguito altri temi, come l’amore e le questioni di vita quotidiana, facendo si che questo genere diventasse una moda abbracciata da molti giovani reduci dalla crisi economica: i video delle canzoni con i vestiti tamarri dei cantanti, le scenografie elegantemente kitsch, lo scintillio delle paillettes, i messaggi provocanti e le cantanti super sexy permettevano loro di evadere per un poco dall’arida sopravvivenza del dopoguerra.

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Se in principio questo genere veniva trasmesso solo da alcune emittenti private, in seguito venne abbracciato dalle forze politiche legate a Slobodan Milošević e ai suoi successori, che iniziarono a finanziare le emittenti, sostenendo questa nuova cultura emergente. Lo scopo era quello di farne un perfetto mezzo di diffusione delle idee nazionalistiche che andavano rafforzandosi nella popolazione (soprattutto dopo i bombardamenti NATO sulle città della Serbia). Questa musica nazional-popolare accentuava l’ambizione della gente verso i “modelli occidentali” del consumismo.

Severina – Moja štikla, 2006

Quello del turbo-folk era quindi un ambiente dal sapore nazionalista, mafioso e militare. I cantati legati a questo genere sono delle super star, seguitissimi sia nella loro carriera musicale che nella vita privata. Il caso più clamoroso è quello della cantate Ceca (nome d’arte di Svetlana Ražnatović – da nubile: Svetlana Veličković –  Žitorađa, 14 giugno 1973), nonché moglie di Željko Ražnatović, il noto Comandante Arkan.

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Più recentemente (sempre in Serbia),  dopo il cambio di governo – 5 ottobre 2000 – il turbo-folk è entrato nella sua propria fase di transizione: molti media serbi improvvisamente non erano più  “aperti”  come una volta. Per alcuni  si trattava di una risposta ad un’ autentica  mancanza di desiderio del pubblico di vedere e sentire qualcosa che ricordava gli anni Milošević , ma per molti altri, tra cui Pink TV, sembrava un tentativo opportunistico alla piaggeria con le nuove autorità. Molti artisti hanno risposto incorporando anche elementi più pop nel loro sound, rendendo il confine tra turbo folk e pop occidentale più sfocato che mai.

https://www.youtube.com/watch?v=OG_4q2TxV8o

Ceca – Da raskinem sa njom, 2013

 

 

Un’intervista a Madman col volume abbassato

Oggi Pequod ha avuto il piacere di fare una chiacchierata con Madman, classe 1988, rapper pugliese trapiantato a Roma prima e a Milano poi. Molti di voi lo conosceranno già, e soprattutto avranno in testa le sue strofe pungenti e i suoi ritornelli accattivanti. Può darsi anche che sia venuto proprio nella vostra città, dato che assieme al socio Gemitaiz i due stanno facendo sold out in tutta Italia con le date del loro Kepler tour. In occasione dell’uscita del suo nuovo singolo – Vai bro – abbiamo fatto a Madman qualche domanda, che però con la musica non ha nulla a che vedere.

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Ciao Madman, sappiamo che sei impegnatissimo con il tour, ed in generale con la musica. Noi però sappiamo anche che ti interessi di altre cose, di letteratura e di cinema ad esempio. Con tutti i tuoi impegni, trovi ancora il tempo per leggere? Se sì, che libri leggi? Chi sono i tuoi preferiti?

Sì, il tempo di leggere lo trovo sempre. Prevalentemente in aereo/treno. Leggo poco ma in maniera mirata. Prima leggevo quasi solo “classici” mentre ora preferisco qualcosa di più contemporaneo. Mi sono innamorato di Palahniuk. Al momento il mio libro preferito è Rabbia.

Parliamo invece di film: ti consideri un cultore di un qualche genere / regista? Ultimo film che hai visto?

Mah, amo in generale gli horror nella loro accezione più splatter / b-movie e tutto ciò che proviene dal quel gusto. A tal proposito adoro Tarantino e Rodriguez. Guardo con piacere anche i thriller psicologici ben fatti. L’ultimo film veramente fico che mi sento di consigliare è The Rover di David Michôd.

 

Serie tv: le ami, le odi, ci perdi le ore? Dacci un consiglio…

Prima sì, era una droga. Da un paio d’anni ho mollato il colpo perché dimentico sempre di riprenderle dopo la “pausa” tra una stagione e l’altra, oppure ne comincio diverse… Per poi abbandonarle. Diciamo che le prime 2 stagioni di Dexter ai tempi furono abbastanza shockanti. Al momento consiglierei poco di originale… Ho amato molto Boardwalk Empire, probabilmente l’ultima che ho visto per intero!

Ti capita di andare alle mostre? Hai un artista che ti piace, o anche solo un’opera che ti è capitato di vedere e che ti ha fatto dire “ca**o che bomba?” (Van Gogh ad Amsterdam non vale)

 No, sono completamente ignorante e incapace di apprezzarle. Manco Van Gogh ad Amsterdam.

Lasciaci con una massima che non sia una citazione musicale.

“You ain’t got the answers Sway”.

Ringraziamo Madman per aver condiviso con noi il suo lato intellettuale e per averci dato dei buoni consigli su come passare il nostro tempo lontano dal computer. Ora però un consiglio ve lo vogliamo dare anche noi di Pequod: se non conoscevate Madman prima di quest’intervista, andate ad ascoltarvi qualcosa sul suo canale youtube e sulla sua pagina facebook.

Charango, il simbolo di un ideale

Il charango è uno strumento caratteristico della musica sudamericana, in particolare dell’altipiano andino (ovvero l’area che comprende Bolivia, Equador, Perù e la parte settentrionale di Argentina e Cile).

Quando gli spagnoli introdussero nelle loro colonie l’antica vihuela de mano (italianizzato: viella. Era uno strumento musicale della famiglia dei liuti diffusosi verso la fine del Quattrocento), il termine distingueva lo strumento dalla vihuela de arco, sinonimo della viola da gamba o della viella medievale. Assomigliava molto alla chitarra e come questa, veniva suonata pizzicando le corde con le dita.

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Una volta arrivata in Sudamerica, insieme a liuti e mandolini, attirò moltissimo l’attenzione delle popolazioni locali tanto che gli indios, adattandola alle proprie esigenze espressive, iniziarono a costruirla utilizzando come cassa armonica la corazza del quirquincho: l’armadillo.

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Oggi, la corazza degli armadilli, essendo animali a rischio estinzione, viene sostituita con il legno. Lo stesso discorso vale per le corde: se prima erano realizzate in budello, ora si preferisce il nylon (che oltretutto permette di avere maggior precisione dell’accordatura). Inoltre, negli altipiani andini, è diffuso e caratteristico l’uso di charangos con corde metalliche sottilissime che danno allo strumento una sonorità molto particolare.

È uno strumento a cinque corde doppie (che non vuol dire dieci, ma “cinque coppie”; sulla scia del mandolino) che possono essere suonate con la tecnica punteada, a pizzico, o con la tecnica rasgueada, eseguendo delle ritmiche con accordi.

Nella tradizione boliviana e peruviana lo strumento viene suonato durante i corteggiamenti: i giovani suonatori attraverso un particolare rituale, apportano delle modifiche allo strumento per migliorarne il suono. In questo modo aumenterebbero le probabilità di conquistare il cuore della ragazza in questione.

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La popolarità del charango in Cile assume significato di simbolo: rappresenta la cultura stessa del popolo, i suoi aneliti di libertà, il desiderio atavico di restaurazione di una giustizia sociale.

Questo fatto ha procurato da parte del regime di Pinochet una censura contro chiunque suonasse questo strumento: nella prima settimana dopo il colpo di stato, l’esercito organizzò un incontro con i musicisti folk ai quali annunciarono che gli strumenti tradizionali (charango e quena – il flauto indio) erano, d’ora in avanti, vietati.

Per esempio, uno dei gruppi cileni più famosi, gli Inti Illimani, venne costretto all’esilio dopo il golpe del 1973: esuli forzati che in quell’anno fecero la loro prima tournèe europea dal sapore dolceamaro. Durò fino al 1888. Per tutto questo arco di tempo, ai membri del gruppo, l’Italia riconobbe il diritto di asilo politico: i musicisti vivevano a Roma, da dove continuarono ad appoggiare le campagne per la restaurazione della democrazia nella loro patria.

Si può quindi parlare del charango come di un “perseguitato politico” e ciò lo fa diventare ancor più il simbolo di un ideale che, se vogliamo, trascende la semplice cultura musicale.

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In copertina ph. Pugliesig [CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

Jukebox Umano: m’illumino di non-sense

«Siamo un duo musicale, composto da quattro persone».

Jonathan Locatelli e Antonio Capuzzo ci raccontano del loro originalissimo progetto: un mix esplosivo di musica, cabarèt e teatro. Un gioco intricato tra musica e parole, un puzzle di testi e musica di famose canzoni italiane, sta alla base del loro punto di forza: i medley.

Gli altri componenti di questo duo sono: Matteo Postini, il manager e Alessandra Beltrame, fotografa e videomaker. «Soprattutto sono il nostro punto di vista esterno: ci possono consigliare “dal fuori”».

Jukebox Umano non è nato dal nulla, si può dire che sia l’evoluzione del precedente duo musicale Goffredo&Joboaldo: riproponevano cover di canzoni italiane.

«Il progetto è nato perché io e Anto siamo così nella vita: ci piace scherzare, fare i burloni, storpiare canzoni, giocare con le parole e quando abbiamo visto che questo, oltre ad essere un divertimento, ci riusciva pure bene abbiamo pensato di proporlo a un pubblico (anche su consiglio di esterni).

Abbiamo iniziato proprio durante le nostre serate tra amici, dove a un certo punto prendevamo in mano la chitarra e iniziavamo a suonare un po’ di tutto, in maniera molto informale, nei parcheggi dei locali. Vedevamo che comunque c’era molta presa nell’eterogeneo pubblico che ci attorniava di volta in volta».

Per quanto riguarda il salto da Goffredo&Joboaldo a Jukebox Umano: «Siamo dovuti andare a Casa Blanca per un’operazione chirurgica e siamo diventati transessuali».

La differenza sta nell’impegno: da un duo di «Scappati di casa» (contenente già una bella dose di non-sense), nato da un’amicizia, a un progetto più strutturato in cui la differenza sta anche nella costruzione dei pezzi (tra cui i medley, cavalli di battaglia del duo).

Il passaggio è avvenuto in maniera molto spontanea, e soprattutto grazie all’intervento di Matteo Postini. Incontratisi a un concerto in una birreria, una sera in cui i due ragazzi erano particolarmente brillanti (Jonathan era vestito da donna), nacque l’idea di collaborare insieme: Jukebox Umano e CTRLmagazine (di cui Matteo e Alessandra fanno parte), il «Nostro papà» come dice il duo.

Il magazine si occupa di pubblicizzare le date, i grafici curano le locandine. «Ci vogliono bene tutti in redazione».

Jukebox Umano è, davvero, il carisma di due persone, che viene portato sul palco: credetemi, suonerebbero le stesse cose e farebbero gli stessi sketch in un qualunque venerdì sera tra amici.

Il loro mettersi completamente a nudo, come persone, per il pubblico è un rischio ma anche un grande punto di coraggio e di forza: «Noi abbiamo questa componente di VERITA’, mi piace dire, che secondo me arriva nell’animo più profondo di ogni singolo uomo (detto con voce grave e suadente). E poi facciamo ridere! C’è bisogno di ridere».

Dopo un anno e mezzo di attività? «Ci siamo sciolti perché non ci sopportiamo più», dicono ridendo sotto i baffi.

I ragazzi hanno iniziato a fare le prove da qualche mese, cosa che prima non facevano mai e si presentavano ai concerti improvvisando tutto: «Siamo più produttivi, curiamo i dettagli». Da poco hanno iniziato a concentrarsi maggiormente sulla parte teatrale, lavorando a dei corti assolutamente non-sense da introdurre durante i concerti, concentrandosi anche sulla dizione «E quelle altre cose da attori».

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Cacciate il grano per il Jukebox Umano!

Intervista’l’musicista: il percussionista mutante

Una valigia di percussioni e tanta sensibilità musicale: il giovane bergamasco Andrea Greco si svela per noi. Un percussionista a tutto tondo che si è sempre meno identificato nel ruolo di batterista “duro e puro”, andando in cerca della musica nella sua totalità.

Consiglio di lettura: accendete dell’incenso, sedetevi su un tappeto e mettete in sottofondo i consigli musicali che Andrea ci ha lasciato – Avishai Choen, Seven Seas e/o Anoushka Shankar, Traveller (trovate i video a fine articolo).

  

Ciao Andrea, parlami del tuo percorso musicale. Quello che più ti ha influenzato, le musicassette, il primo cd che hai comprato, le band del liceo, tutto quello che ha contribuito alla tua formazione musicale.

Ho iniziato a studiare batteria a sette anni alla banda (forse perché ero un bambino iperattivo: era il modo migliore per incanalare la mia tensione).

Tralascerei le musicassette: le uniche che avevo erano quelle di Fiorello, gli 883, una musicassetta di musica celtica e una di Jimi Hendrix; sono servite più che altro a capire cosa non mi sarebbe mai piaciuto. Il primo cd l’ho comprato con la paghetta dei sette anni ed è stato In Rock dei Deep Purple, seguito da Secret Story di Pat Methney.

Per sette anni ho continuato a studiare batteria alla banda (dove le mie Etnis rosse stonavano sempre con la divisa); sono stati anni preziosi di formazione musicale, dove ho imparato i principi di condivisione e d’ascolto della musica d’insieme. Dopodiché ho cambiato maestro: Federico Duende mi ha introdotto (forse prematuramente) al linguaggio del jazz, mentre riuscivo finalmente a comprare il tanto desiderato Iron Cobra (un doppio pedale per batteria)! Così, venivo inevitabilmente traviato dal groove dei Pantera, passando per i Led Zeppelin.

E fu così che mi ritrovai a suonare nei Morningrise. Facevamo trash-metal e suonavamo alle tristi e spoglie feste liceali di fine anno; un tuffo nel death-metal e un po’ di borchie dopo, passai bruscamente a suonare in una cover band di De Andrè. Ed è qui che iniziai a interessarmi ad altri tipi di linguaggio musicale, più affini alla mia personalità. Ciò coincise anche con l’avvicinamento alla musica elettronica (un momento, per me, importantissimo e fondamentale).

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A diciotto anni feci un viaggio in Africa come percussionista di un gruppo folk: è stata un’esperienza importante in cui ho potuto integrare le percussioni in un gruppo musicale. Inoltre, l’incontro con dei musicisti africani ha fatto scoccare le scintilla tra me e la musica etnica.

Successivamente, mi staccai temporaneamente dalla batteria per dedicarmi totalmente alla Millennium Marching Band (e quindi alla tecnica sul rullante). Con loro ho scoperto il potenziale del lavoro di gruppo, dell’allineamento fisico e sonoro, la forza del sincronismo e dell’unità musicale, dove nessuno prevale: non si abbatte la personalità dell’individuo ma la si valorizza per arrivare all’uniformità.

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Più recentemente (risedendomi sullo sgabello della batteria) ho ottenuto il diploma all’Accademia del suono di Milano, dove ho studiato con Max Furian e Marco Fadda (il quale mi ha dato un imput verso il mono delle percussioni). Inoltre, sto portando avanti una collaborazione con il collettivo di Kind of Bass come dj.

E per non farmi mancare nulla, suono nei Barabba Gulasch, un gruppo di musica italo-balkan in cui abbiamo un’interazione diretta con il pubblico: tutto quello che creiamo nei nostri spettacoli è incentrato sul donare un sorriso al pubblico. Ciò sintetizza al massimo quello che secondo me è il valore terapeutico che la musica racchiude in sé.

 

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Quali sono state, o quali sono le percussioni su cui ti sei maggiormente concentrato?

Principalmente la darbouka e il cajon. Con quest’ultimo ho iniziato anche un’esperienza di costruzione, in cui sono riuscito a innamorarmi e capire a fondo lo strumento. Da qui, la mia grandissima passione e connessione con il flamenco, nonché la decisione di fare un viaggio in Andalusia per capirne i linguaggi musicali, i volti, la tradizione da cui poi si sviluppa questo genere. Quello che più mi ha colpito è l’infinita gamma di persone differenti, le diverse forme musicali che lo compongono, originate da svariate culture.

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Uno strumento musicale che avresti voluto imparare a suonare, il tuo “rimpianto musicale”?

Assolutamente, il trombone a coulisse.

Lasciami un pensiero musicale per salutare i nostri lettori.

“Io voglio fare musica per mia nonna” Ellade Bandini. E aggiungo che non bisogna aver paura di fare schifo, non bisogna mai smettere di volersi sentire un’entità multiforme e pluralista; non bisogna mai smettere di assorbire dalle subculture contemporanee e dai loro immensi valori.

Un consiglio d’ascolto per i nostri lettori?

Seven Seas, Avishai Choen

Traveller, Anoushka Shankar

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