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Art Brut, arte di tutti e creata da tutti

Negli anni Sessanta prende piede il termine Underground per definire un movimento culturale e artistico, nato nel secondo dopoguerra in risposta alla società di consumi che si andava delineando, movimento che con forza, talvolta esagerata, si oppone al mainstream, alla cultura tradizionale e ufficiale, alle mode predominanti, e decide di utilizzare strumenti di comunicazione ed espressione alternativi, insoliti e anticonvenzionali, facendo propria l’idea della controcultura, ossia di una filosofia di vita contraria all’establishment dominato dal denaro e dal successo.

È così che esplodono l’arte, l’editoria, la musica, la letteratura e il cinema underground, mossi da un senso di ribellione, di protesta, dal bisogno di volersi esprimere liberamente senza regole, al limite del buon costume e della buona educazione con una nota di trasgressività mista a chiara e fredda provocazione.

Questa cultura sotterranea risponde a un bisogno umano e sociale: è la risposta di una generazione (e di generazioni) alla ricerca di un’area di appartenenza e di un’identità allargata e condivisa in cui potersi riconoscere per sentirsi partecipi della storia.

 

 

Il Graffitismo e l’Aerosol Art di Jean-Michel Basquiat e di Keith Haring, la cultura hip-hop, il fumettismo, la Street Art di Banksy, Blue, Ericailcane, JR sono alcuni dei tasselli che compongono le infinite sfaccettature dell’arte underground; un’arte che si fonda sul principio per cui chiunque è e può essere un artista in quanto l’arte è di tutti e creata da tutti.

Questo stesso principio era stato espresso nel 1945 da Jean Dubuffet con l’Art Brut, un’arte che opera fuori dagli schemi e al di fuori di ogni tipo di istituzione culturale ed economica e che trova la sua espressione autentica nella necessità di raccontare se stessi e il mondo nella più totale libertà, ignorando i linguaggi ufficiali dell’arte e della critica. Dubuffet era attratto dall’arte dei bambini, degli alienati e di tutti coloro il cui istinto creativo non era imbrogliato dalle norme della ragione. Guardava infatti tanto alla pittura infantile e primitiva di Paul Klee, quanto al pensiero antirazionalista di Jean Jacques Rousseau e al mondo dell’inconscio portato a galla dai surrealisti.

«Non soltanto ci rifiutiamo di portare rispetto unicamente all’arte culturale e a considerare inferiori le opere che sono presentate in questa mostra, perché anzi noi riteniamo che queste ultime, frutto della solitudine e di un puro e autentico impulso creativo (ove non interferiscano aneliti di competizione, di applauso e di promozione sociale), sono più preziose di ciò che producono gli artisti professionisti» scrisse Dubuffet in merito alla mostra che nel 1967 organizzò a Parigi al Musée des Arts Décoratifs.

Vennero esposte numerose opere di circa 135 “artisti” di Art Brut, “artisti” che erano malati di mente, vecchi, proletari, eremiti, pittori autodidatti che usavano metodi anticonvenzionali e lontani dal mondo accademico per creare quadri, sculture e composizioni.

 

Jean Dubuffet, Theatre De Memoire, 1977

 

 

L’Art Brut e Jean Dubuffet diedero in tal modo inizio non solo a un nuovo modo di fare e concepire l’arte, ma contribuirono ad aprire la strada all’arte terapia, un interessante e delicato strumento non verbale grazie a cui si può esprimere il proprio mondo interiore.

Questa tecnica ha due distinti pubblici a cui riferirsi: uno più generico in cui chiunque, dal pittore autodidatta all’appassionato d’arte, dalla casalinga al manager può rientrare; questo target durante il laboratorio viene chiamato a esprimersi in totale libertà, a elaborare creativamente le proprie emozioni con l’ulteriore scopo di eliminare ansia, stress e conflitti.

L’altro pubblico, invece, ben più complesso e fragile, è quello dei servizi psichiatrici e per le disabilità, delle strutture per l’adolescenza, dei centri di riabilitazione, degli istituti penitenziari e dei centri diurni di ricovero per anziani. Un esempio a tal proposito è l’Atelier di pittura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nato nel 1990 sotto la guida artistica di Silvana Crescini. I pazienti, ognuno col proprio tempo e spazio, dipingono tele, scrivono poche righe sull’opera, provando e successivamente imparando a esprimersi secondo il linguaggio non verbale dell’arte e a far emergere il proprio mondo interiore, i propri sentimenti e i propri pensieri.

Il laboratorio in tal modo si accresce di un valore terapeutico, riabilitativo, sociale e comunicativo grazie anche al continuo appoggio e sostegno di un’equipe di medici e psicologi con cui si collabora e si creano i programmi ad hoc. Di certo non è un lavoro semplice e rapido, bensì richiede tempo e fiducia non solo in se stessi, ma anche in colui o colei che guida l’atelier pittorico.

 

Le Fabuloserie a Dicy, Francia

 

Un collezionista che mostrò un certo interesse verso l’Art brut, tanto da dedicargli un museo, è l’architetto Alain Bourbannais, che realizzò “La Fabuloserie” a Dicy in Francia. Il museo nato nel 1983, contiene diverse opere d’arte realizzate da pastori, contadini, guardiani, persone comuni che, senza nessuna conoscenza accademica dell’arte e delle sue tecniche, crearono burattini, disegni, giostre, quadri, sculture ed “installazioni”.

Grazie anche a collezionisti come Bourbannais, l’Art Brut è riuscita a trovare un posto nella storia dell’arte, accrescendone il valore proprio del fare artistico e delle sue variegate possibilità di espressione. L’arte non è più un mondo per pochi e per addetti ai lavori, ma si fregia di una grande libertà, diventando così linguaggio di tutti, un medium creativo, istintivo e non verbale che chiunque può impiegare per esprimersi, parlare di sé e della propria relazione con il mondo.

Anno nuovo, mete nuove!

L’anno nuovo porta con sé sempre quella voglia di migliorarsi e di realizzare i propri sogni, e un viaggio cos’è se non un sogno che si realizza?

Ci sono però un sacco di posti meravigliosi da visitare, e decidere dove andare è una scelta difficile. Perciò, dove andiamo nel 2018? L’abbiamo chiesto a Tiziana Mascarello, editor dei titoli fotografici di Lonely Planet.

Ci racconta qualcosa sul suo lavoro?

Lavoro in Edt nell’area Lonely Planet e, oltre che dell’area marketing, mi occupo di selezionare i titoli fotografici che pubblichiamo durante tutto l’anno. Questi libri in genere sono tematici e contengono informazioni e foto di suggestione, che sviluppano da punti di vista diversi per aiutare il lettore a decidere quale meta scegliere. Meta che poi si potrà scoprire durante il viaggio che ne seguirà, sebbene queste pubblicazioni permettano di viaggiare anche rimanendo comodamente seduti in poltrona con il libro in mano.

Lisbona, Portogallo

Qual è stata la meta di maggiore tendenza del 2017 e perché?

Ogni anno a ottobre pubblichiamo Best in Travel, che contiene informazioni riguardanti le mete che Lonely Planet consiglia perché in quel determinato anno accade qualcosa in particolare. Al suo interno vi sono classifiche di destinazioni come i top 10 Paesi, città e regioni, le tendenze di viaggio per il relativo anno e le destinazioni più convenienti.

Nel 2017 le tra le destinazioni top c’era il Canada, perché festeggiava il centocinquantesimo anniversario della nascita del Paese, sancita dal Constitution Act che ne determinò l’autonomia. La meta è piaciuta molto ai nostri viaggiatori, come gli Stati Uniti, consigliati per il centenario dei parchi nazionali: c’erano infatti tariffe particolari, e sono state aperte zone in genere non accessibili al pubblico.

Tra le mete più gettonate negli ultimi anni c’è anche il Portogallo, con un occhio di riguardo per Lisbona che è la destinazione favorita dai viaggiatori all’interno del Paese. Inoltre, tra il 2016 e il 2017 hanno suscitato grande interesse Cuba e l’Islanda, per il fatto di essere entrambe isole molto particolari che incuriosiscono i viaggiatori.

L’Avana, Cuba

Quali saranno le mete da non perdere nel 2018?

Nel Best in Travel 2018 troviamo, per quanto riguarda l’Italia, Matera. La città diventerà Capitale della cultura nel 2019, ma è già pronta a ospitare i visitatori, poiché ha intensificato le attività culturali e, non essendo ancora troppo turistica, è meglio visitabile. Inoltre, a fine dicembre è uscita la prima guida delle Dolomiti, meravigliosa destinazione Patrimonio dell’Unesco, e tra pochi giorni verrà pubblicata la prima guida Piemonte, regione che sebbene poco conosciuta offre un connubio perfetto tra storia, arte e natura tutto da scoprire.

Il viaggiatore Lonely Planet è molto curioso e vuole visitare anche luoghi meno consueti: nel 2018 il Best in Travel consiglia la Georgia, che un secolo fa aveva avuto un breve periodo di indipendenza e festeggia quest’anniversario. Il Paese è ubicato in una regione che ha mantenuto uno spirito tradizionale molto forte, quindi c’è molto da scoprire all’interno di essa.

Per quanto riguarda l’Europa, l’Andalusia è una di quelle regioni che hanno una combinazione vincente tra clima meraviglioso, gente meravigliosa, arte e cultura. Siviglia si sta trasformando in una città sempre più vivibile ed ecologica, e dato che nel 2018 cade l’anniversario della nascita del pittore Murillo, ci saranno diverse mostre dedicate a lui stesso e all’arte barocca.

Un’altra città europea da visitare nel 2018 è Anversa, che quest’anno offre un mix di arte barocca, ospitando un’importante rassegna di pittura a cui prenderanno parte anche artisti fiamminghi. Inoltre, si stanno riqualificando gli spazi più periferici con opere d’arte e architetture particolari e interessanti: la città vuole allargarsi tramite iniziative culturali anche al di fuori del tracciato turistico classico relativo al centro storico.

Anversa, Belgio

Fuori dal continente europeo, la destinazione top del 2018 è il Cile, che festeggia l’importante anniversario dei 200 anni di indipendenza: per l’occasione, è aumentata la quantità di voli che raggiungono il Paese. Il luogo che il viaggiatore indipendente e avventuroso preferisce all’interno del territorio cileno è Valparaiso, città d’arte costiera, dove si respira un’atmosfera suggestiva tra il romantico e il bohémien.

I flussi turistici negli ultimi anni hanno subito anche il fascino del Giappone. Lonely Planet consiglia di visitarne i luoghi meno noti, specialmente la Penisola di Kii che ora è più accessibile e ancora poco turistica.

Ci sono mete che non passano mai di moda?

Una delle destinazioni top di sempre tra le città continua ad essere New York, la cui guida è in cima alle classifiche di vendita da moltissimi anni. In Italia invece è indiscutibilmente la Sicilia, che piace sempre ai viaggiatori.

New York, USA

Ci sono invece destinazioni che hanno riscosso interesse per tempi molto brevi?

La città di Stoccolma ha meno successo rispetto agli anni scorsi per l’emergere di altre destinazioni, e la stessa cosa succede in America latina per la Bolivia, ora meno visitata perché offuscata dal successo turistico di Cile ed Argentina.

Una delle guide meno vendute negli anni è stata quella di Seoul, ma era stata pubblicata anni fa, quando i tempi non erano ancora maturi. Anche la Tunisia era una destinazione molto amata dai visitatori, e oggi Lonely Planet non ha guide su di essa in catalogo.

Viaggi e sicurezza: c’è davvero paura?

La sicurezza inevitabilmente influisce sui flussi turistici, ma alcune destinazioni, come ad esempio Parigi e Barcellona, subiscono un contraccolpo nell’immediato e in seguito si riassestano. Da quello che vediamo e che i nostri viaggiatori ci comunicano attraverso i social e le mail, percepiamo che si continua a viaggiare, per fortuna. Il viaggio è sempre un elemento forte, va oltre alla paura.

Siviglia, Andalusia, Spagna

Cosa cerca oggi il turista?

I viaggiatori di Lonely Planet cercano luoghi particolari e viaggi in cui fare cose, vivere esperienze. È per questo che pubblichiamo anche libri tematici che danno indicazioni su come viaggiare alla scoperta di nuovi luoghi on the road, a piedi o in bicicletta. Si cercano viaggi d’esperienza, che permettano di conoscere un luogo non solo attraverso una visita di passaggio, ma anche tramite attività, per vedere tutto più da vicino. Il viaggiatore è consapevole, si informa e conosce i posti, li vive in modo più approfondito anche attraverso il contatto con i locali e la loro cucina.

Lei dove andrà nel 2018?

A Berlino, che non ho mai visto in estate, e in Asia Centrale, probabilmente nelle zone dell’Iran, ma il viaggio è ancora tutto da costruire.

Essere parigini nel 2017

Un tempo si diceva che le capitali europee come Parigi o Londra fossero città multiculturali. “- inserire un nome di qualsiasi città in Europa – multiculturale” sarebbe stato un titolo perfetto per qualsiasi articolo di un giornale di viaggi o per un pezzo in copertina di una rivista di moda che ritraeva modelle vestite con abiti con fantasie africane intente a posare su uno sfondo urbano.

Dopo gli attentati terroristici del 13 novembre 2015 nel cuore di Parigi, nonché cuore dell’Europa, il concetto di multiculturalismo non è più nominato solo in riferimento a una maggiore concentrazione di ristoranti etnici in alcuni quartieri di una città, ma ha assunto un significato ben più complesso. L’opinione pubblica ha iniziato a dare sempre più attenzione alle comunità straniere che vivono nelle città europee, molti membri delle quali sono cittadini europei.

Un angolo del quartiere Marais a Parigi (Wikimedia Commons).

In questo senso, Parigi è la città multiculturale d’Europa per eccellenza, con una tradizione di immigrazione che risale all’epoca coloniale. In tutto il mondo les Parisiens sono ritratti come snob, orgogliosi della loro città e dell’eleganza che la accompagna. Tuttavia, se si va oltre lo stereotipo, non si può fare a meno di riconoscere la vera natura degli abitanti di Parigi, abituati al multiculturalismo da ben prima che fosse cool e che vivono in quartieri storicamente abitati da diverse nazionalità. Probabilmente il più alla moda e sicuramente uno dei più esclusivi, il quartiere Marais è il centro storico della Parigi ebraica, mentre Rue du Faubourg Saint Denis è il fulcro della Parigi multiculturale. Per non parlare di Little India, le strade vivaci e pittoresche intorno a La Chapelle, e di Belleville, il cui multiculturalismo è stato reso famoso dai romanzi di Daniel Pennac.

Essendo abituati a convivere con la diversità, la maggior parte dei parigini non ritiene che la causa degli attentati terroristici sia da ricercare nei propri vicini stranieri, tant’è vero che, nel parlare dei fatti del 13 novembre 2015 e di come hanno influenzato la vita quotidiana, in genere la natura multiculturale di Parigi non viene citata come motivo di preoccupazione. Ne abbiamo parlato con Emeline, una ragazza francese di 26 anni che vive a Parigi da circa 2 anni.

Emeline (foto di Emeline, tutti i diritti riservati).

Ciao Emeline. Dov’eri il 13 novembre 2015? Ti ricordi cosa stavi facendo quella sera?

Ciao. Io vivo a République, il quartiere proprio al centro degli attacchi. Quella sera ero a casa, stavo facendo un riposino prima di uscire. In questo caso la mia pigrizia si è rivelata provvidenziale, facendo sì che non fossi già fuori casa a quell’ora. Non appena mi sono resa conto di quanto stava accadendo, ho iniziato a preoccuparmi per i miei amici e ho scritto subito ai miei coinquilini e al mio ragazzo per assicurarmi che stessero bene. Dalle finestre vedevo la gente correre. A un certo punto ho visto una persona che conoscevo e l’ho raggiunta nel bar sotto casa, che potevo raggiungere dal mio cortile senza dover uscire per strada. In quel momento preferivo stare con qualcuno invece che sola a casa.

Hai notato dei cambiamenti nella città da quel giorno? Dalle abitudini quotidiane al comportamento e alle relazioni umane?

In realtà non ho notato grandi cambiamenti. Semplicemente, quando si sente un forte rumore che potrebbe sembrare un colpo di pistola o una bomba, a volte la gente si mette a correre in cerca di un posto sicuro, oppure si ferma e cerca altre persone con lo sguardo, quasi a dire “E’ tutto a posto? E’ stato strano, no?”. A parte questo, però, non ho notato alcuna differenza nel comportamento della gente, neanche nei confronti delle comunità musulmane.

Vista dalla finestra di Emeline, République, Parigi (foto di Emeline, tutti i diritti riservati).

La tua vita quotidiana è cambiata? Hai mai pensato di trasferirti?

Non amo stare in mezzo alla folla, non mi sento sicura. Devo ammettere che non mi piaceva molto nemmeno prima, ma adesso sento che il motivo è un altro. Comunque, dal 2015 mi è capitato di essere in mezzo a una folla, ad esempio durante gli scioperi. E’ un’abitudine francese, non ci è proprio possibile farne a meno!

In quanto ragazza francese, come vedi l’Europa? Pensi che questi attacchi stiano in qualche modo minacciando il concetto di Europa unita?

A mio parere l’Europa è un concetto basato su un mercato e una politica comuni, nonché su leggi e cultura condivise, ma non penso che individualmente ci si senta parte dell’Europa. Intendo dire che personalmente non mi sento una cittadina europea, non è la mia identità. Credo che sicuramente gli attentati terroristici e la paura che hanno generato non aiutino le persone a sentirsi uniti, né a pensare alla questione della libera circolazione tra le frontiere a cuor leggero. Ciononostante, non credo che il terrorismo sia la causa principale dei problemi dell’Unione Europea.

Secondo Emeline, a Parigi la vita è andata avanti. Tuttavia, la paura di quella notte non può certamente essere dimenticata con facilità, e gli attacchi terroristici che si sono susseguiti in Europa dopo quelli di Parigi non hanno sicuramente aiutato i parigini, e gli europei in generale, a sentirsi al sicuro nelle proprie città. A darci speranza in questi tempi difficili, però, è il fatto che Parigi, la meravigliosa, multiculturale e accogliente Parigi, non ha perso la propria identità, né il suo orgoglio di essere una delle città più belle e multietniche del mondo.

Intervista di Francesca Gabbiadini; traduzione di Lucia Ghezzi.

Immagine di copertina di Martina Ravelli, tutti i diritti riservati.

Dall’11 settembre alle stragi di Parigi: il volto del terrorismo jihadista

È il pomeriggio del 13 novembre 2015. Due commando si preparano ad attaccare lo Stade de Franceil teatro Bataclan e un bistrot all’aperto, mentre un terzo gruppo è in attesa in un residence ad Alfortville, a pochi chilometri da Parigi. Il primo attacco, durante una partita di calcio, distoglie l’attenzione, il secondo assorbe i soccorsi e le forze di sicurezza tramite una serie di raid, mentre il terzo, quello del Bataclan, provoca una carneficina: 130 morti e 60 feriti, l’aggressione più cruenta in Francia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per la prima volta i nemici non sono dichiarati, non sono giornalisti satirici, musulmani apostati o infedeli. Il massacro è indiscriminato e i responsabili sono tutti francesi, di origine algerina. Poche ore dopo, il Presidente statunitense Obama condannerà “un attacco non solo contro Parigi, ma contro tutta l’umanità”, mentre Hollande annunciava lo stato di emergenza sul territorio francese, il tutto prima che l’ISIS rivendicasse gli attentati con un video su Youtube.

La domanda che sorse spontanea fu “Siamo in guerra?” e poco dopo risuonò l’eco di quella War on Terror, la guerra globale al terrorismo, proclamata dal Presidente Bush dopo l’11 settembre 2001. Da allora il terrorismo ha costretto l’Occidente alla contraddizione: siamo in guerra, ma non siamo in guerra. I confini tradizionali del conflitto vengono meno e si crea una sorta di zona grigia che attrae dentro di sé i concetti di pace e di guerra per restituirli deformati. È l’inizio di una nuova era che, per usare le parole del filosofo Heidegger, potremmo definire “Guerra Totale”. Un conflitto in cui non ci sono vincitori o vinti, perché l’intero globo è diventato guerra e la pace non ha più spazio per esistere.

Raduno spontaneo di cittadini davanti al ristorante Le Carillon, uno dei luoghi degli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi (Fonte: Citron / CC BY-SA 3.0)

La risposta al terrorismo islamista ha portato l’Occidente, dopo l’11 settembre, a rispondere alla minaccia jihadista con gli strumenti bellici del secolo precedente, fatti di invasioni militari, bombardamenti indiscriminati e raid delle forze speciali. Ma a poco a poco la paura e l’insicurezza hanno prevalso, tanto da far introdurre strumenti nuovi. Tra questi l’USA Patrioct Act del 2001, che ha permesso alle agenzie di intelligence americane di spiare chiunque ritenessero un pericolo per la nazione tramite intercettazioni a tappeto senza nessun controllo giurisdizionale, o l’USA Military Order del novembre 2001, con il quale si autorizzava la detenzione, al di fuori delle garanzie costituzionali e della Convenzione di Ginevra del 1949 sul diritto dei prigionieri di guerra, di qualunque soggetto non americano (classificato come combattente nemico illegale) che fosse dichiarato pericoloso per la sicurezza nazionale. Ma non solo. La paura ha portato una sorta di regressione sociale, permettendo la reintroduzione della tortura come strumento di lotta al terrorismo. Dopo che l’illuminismo l’aveva condannata come pratica aberrante e la Convenzione ONU del 1987 l’aveva espunta dal panorama giuridico mondiale, ecco che la guerra al terrore la ripresenta come una necessità. Gli orrori delle prigioni di Abu Ghraib e Guantanamo, per non parlare delle decine di siti segreti di tortura della CIA sparsi per il pianeta, raccontano come la smania di combattere il terrorismo abbia portato a cancellare il senso stesso di umanità che avrebbe dovuto differenziare i jihadisti da noi. E lì sta la vera vittoria del terrorismo: aver ridotto la democrazia ad uno stato di emergenza perenne, in cui le libertà civili ed i diritti umani devono cedere il passo alla sicurezza.

Osama Bin Laden, leader di Al Qaeda, esultò in un video dicendo: “Ecco l’America, piena di paura dal sua confine settentrionale a quello meridionale”. Era il 7 ottobre 2001 e gli USA invadevano l’Afghanistan dei Talebani. Ora Bin Laden non c’è più, è stato sostituito dallo Stato Islamico, ma la sostanza non è cambiata. Negli anni, l’uccisione di civili inermi durante i raid americani e le atrocità commesse nelle carceri segrete sono stati i migliori strumenti dati al terrorismo per fomentare l’odio e spingere i proseliti al martirio e alla Guerra Santa. Se la democrazia, rispondendo al terrorismo che viola le norme, le viola a sua volta, finisce per negare sé stessa, autodistruggendosi. I terroristi hanno usato la Francia, culla delle libertà civili, come paradigma di un mondo che considera le stesse irrinunciabili e hanno voluto colpire loro per colpire il mondo occidentale nel suo insieme. Questo vuol dire che, per battere il terrorismo, non bisogna agire solo sul piano militare, ma anche su quello culturale e, soprattutto, rimanere nel recinto della legalità. Solo affermando la legge e gli strumenti del costituzionalismo moderno occidentale, solo usando i diritti umani come scudo contro la barbarie, la democrazia potrà uscire dal buio spazzando via quella zona grigia che alimenta e legittima la ferocia del terrorismo. Ed è questo che ci auguriamo: il ritorno della pace così tanto agognata.

 

In copertina: le Torri Gemelle a New York prima dell’attentato dell’11 settembre 2001.

Viaggiare e scrivere accompagnati dalla Sindrome di Asperger

Navigando nei meandri del web capita, a volte, di imbattersi in siti interessanti, particolari. Succede quasi per caso: magari stai ascoltando una canzone su YouTube, sbirciando tra qualche social e, nel frattempo, vuoi compiere una breve ricerca su un argomento che hai poco chiaro. Succede che invece di aprire il primo link, il tuo occhio cada sul secondo e che, spinto dalla curiosità del nome, tu lo apra.

Ecco, questo è ciò che è capitato a me circa due settimane fa. Il sito in questione, o meglio, il blog si chiama Operazione Fritto Misto e, chiaramente, almeno un’occhiata l’ho dovuta dare! Perché… Perché nel nome c’è “fritto misto”; quindi, mi chiedo io: vuoi non aprire un link che ha “fritto misto” nel nome?

Le mie aspettative vengono subito deluse: ingolosito al pensiero di veder apparire sul monitor immagini di ciotole colme di verdure miste e piatti di carni e pesci rivestite di superfici croccanti, non appena lo apro scopro che il blog non tratta solo ed esclusivamente di cucina! Colpa mia che non ho letto tutto il titolo del sito: Operazione Fritto Misto – Ceci n’est pas un blog de cuisine. Causa la mia sbadataggine e forse l’appetito, non avevo colto l’originale punto di vista del blog, racchiuso nella bellissima citazione all’opera di Magritte, Ceci n’est pas une pipe. Di cucina e di ricette se ne parla, diciamo che c’è “Un po’ di cucina” (come titola la rubrica dedicata), ma gli argomenti di cui è possibile leggere spaziano dai libri alle serie tv, passando per i film e diversi viaggi. Insomma, un vero fritto misto!

A incuriosirmi, inizialmente, è più che altro il fatto di capire quale sia il collante, il filo conduttore di tutti questi post; così, esplorandolo un po’ scopro che la proprietaria, nonché unica autrice, si chiama Alice, ha 28 anni, è torinese di nascita e lavora come hostess d’hospitality allo stadio. Una blogger come tante, apparentemente, se non per il fatto che Alice è portatrice della sindrome di Asperger; un disturbo di scoperta relativamente recente, i cui sintomi, difficili da indagare sia per le loro molteplici sfumature sia per la mancanza di informazioni scientifiche circa le cause della sindrome, sono legati alla sfera sociale dell’individuo.

E come nasce l’idea di aprire un blog che parla di sé, in una persona che ha difficoltà nell’avere interazioni sociali? Non resisto all’invito “Contattami” che appare nell’elenco in menù, da cui Alice risponde a tutte le mie curiosità: «Come tutti i possessori di un blog ho iniziato a scrivere per puro piacere. A spingermi ad aprire Operazione Fritto Misto, però, è stata la difficoltà di comunicazione, il bisogno di una forma di socializzazione adatta al mio modo di essere, che conciliasse la necessità di condividere gli interessi alla facilità dell’espressione scritta. Per questo, scrivere, per me, vuol dire comunicare senza pressioni».

Il blog, nato come blog di cucina «vegetariana, simpatizzante vegana», presto si è aperto a una grandissima varietà di temi: «Stavo stretta in mezzo a sole ricette; così ho ampliato gli argomenti e si sono aggiunti i viaggi, Torino, libri e film. Un fritto misto, insomma», mi racconta Alice. E proprio sui viaggi di Alice ritengo opportuno soffermarmi, immaginando non sia facile cambiare ambiente e incontrare nuovi spazi, per chi come lei sente la necessità di vivere in una comfort zone, ossia un ambiente privo di rischi o fonti di ansietà, quanto più familiare possibile: «Per anni ho viaggiato in camper, il che mi ha dato l’opportunità di visitare moltissimo l’Italia, di cui ho amato il giro di tutta la costa sarda e la Puglia; ma anche il sud della Francia, la Svizzera (soprattutto Locarno, città d’origine di mio nonno) e l’Austria. Poi c’è Londra, che mi ha fatto innamorare ancora prima di visitarla, e Copenaghen, che nel periodo natalizio mi è entrata nel cuore».

Così, la sezione “Sì Viaggiare” del blog ha iniziato a prendere forma: in questo spazio, Alice racconta i suoi viaggi, di quelli passati ma anche di quelli che un giorno ha intenzione di fare. A tal proposito ha scritto un articolo, datato Gennaio 2016, dal titolo “Traveldreams 2016 Per Sognare in grande”, in cui stila una lista di quei Paesi che in futuro vorrebbe visitare; dalla Namibia alla Polinesia francese, passando per la Scozia, l’articolo racconta alcune delle fantasie di viaggio che Alice coltiva da tempo . Sorpresa: al punto 6 c’è l’Italia, perché, cito testualmente, «chi l’ha detto che i viaggi da sogno si trovino a distanze transoceaniche?». Nel sito non mancano consigli da viaggiatori: suggerimenti sui trasporti economici, tra cui particolare attenzione ottiene Megabus, cui Alice dedica un #diarioditrasferta su Instagram; innumerevoli recensioni culinarie, non senza riferimenti all’ambienti e all’economia; critiche sincere (irresistibili quelle al Balcone di Giulietta a Verona, la cui parete retrostante è «ormai cimitero di microbi e saliva») e commenti senza peli sulla lingua (ammette che «Parigi mi ha delusa», anche se per affrontarla impara ad apprezzarne il fascino, seguendo il suo principio di «curare la paura con la bellezza»).

Infine una certa attenzione è riservata a Torino, ai suoi eventi, ma anche ai suoi luoghi più nascosti e interessanti; immancabili sono i consigli su dove fermarsi a mangiare, mentre alcune curiosità sui piemontesismi più diffusi potranno aiutarvi nell’approccio ai torinesi.

Alla base di tutti questi viaggi c’è la sindrome di Asperger che la fa (quasi) da padrona. «I primi momenti – mi spiega Alice – non è stato facile perché partire senza i miei genitori, all’epoca parte integrante della mia comfort zone, si è rivelato psicologicamente tumultuoso: ero felice di andare ma inspiegabilmente ero terrorizzata, al punto di stare male per tutta la durata del soggiorno. Non mi sono voluta arrendere, così ho iniziato a cercare un modo per reagire, come faccio nella vita di tutti i giorni».

Ed è da quel momento che le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa, e il viaggio ha assunto, per Alice, un sapore nuovo: «Mi sono accorta che a spaventarmi erano gli imprevisti e l’ignoto come, ad esempio, un metal detector che suona, un quartiere sconosciuto, o persone che mi parlano in un’altra lingua, e che quindi la soluzione era prepararsi adeguatamente, cercando più informazioni possibili senza lasciare troppo al caso. Certo gli intoppi ci sono sempre, ma riderci su e viaggiare con qualcuno di cui mi fido aiuta sempre».

Fotografie di Operazione Fritto Misto

Parigi un anno dopo: guardare in faccia una strage

Cette planète fait encore un bruit douloureux” – questo pianeta fa ancora un rumore doloroso. E’ passato un anno da quando scrivevo queste righe a Parigi. In quei giorni il piccolo e freddoloso appartamento di Montmartre mi offriva rifugio più che mai mentre cercavo di nascondere ai miei occhi il volto straziato di Parigi, che perdeva sangue, colpita a morte da sei attacchi terroristici in una sola notte. Un volto che non avevo mai visto. Non è molto semplice fare mente locale su quanto accaduto: riportare qui vicino, su di un foglio davanti a me, una realtà che ho volutamente tenuto lontana chilometri e mesi, sepolta dal trascorrere dei giorni.
Non sono i bilanci che voglio fare, né fingere di raccontarvi come l’opinione pubblica avesse reagito allora e come lo fa adesso. Tuttavia, occorre essere onesti quando si trattano questi argomenti. Occorre avere il tatto di un medico, di chi con la freddezza e la professionalità della scienza sa di avere a che fare comunque con una materia calda e imperfetta, l’uomo, e con corpi fatti di carne, di ossa, di emozioni e paure. Occorre essere onesti. Fino ad oggi avevo sempre pensato che quel bacino di dolore e follia che è stato un anno fa Parigi non mi appartenesse, non fosse mio o non mi avesse mai sfiorato. Invece lo ha fatto e mi ha ferito. Ecco quindi cosa troverete nelle prossime righe: la storia di una ferita.

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La chiamano resilienza, la capacità degli uomini di saper reagire in maniera positiva ad eventi traumatici, di saper rispondere a esperienze stressanti. La chiamano così in psicologia. Ma questo termine nasce in un altro ambito, quello della tecnologia dei materiali, in cui indica la capacità di assorbire un urto senza rompersi. Come abbiamo detto però, gli uomini non sono oggetti e la loro materia è imperfetta, fatta di carne, di ossa e pure di emozioni. Gli urti magari non li spezzano, ma non possono non lasciare tracce sui loro corpi e ferite nelle loro anime. Gli uomini sono fragili e si frantumano, piano piano, di nascosto.
Ricordo la mattina dopo gli attentati. Era come quando da piccoli si passa la notte ad ascoltare nascosti e impauriti sotto le coperte il temporale che impazza ed imperversa fuori. La mattina però, quando si allunga incerti il naso fuori dal letto fino alla finestra, pronti a vedere esterrefatti ciò che resta della follia devastatrice notturna, tutto è calmo e tranquillo. Anche io con questo spirito scrutavo Parigi dalle tende bianche del mio salotto. Ricordo un’arzilla combriccola di anziani che faceva jogging, ricordo le signore che compravano la baguette e qualcuno persino al bar a fare colazione. Assurdo. Era stato solo un brutto sogno? Era stato tutto il frutto di un’allucinazione?
No, adesso lo so. C’è voluto un anno per avere le idee più chiare. Era solo iniziata la medicazione della ferita, quando ci si mette nell’ordine delle idee che il dolore c’è stato, quando si piangono i morti ma con la lapide pronta a coprire quello che è già un passato, quando la consapevolezza di essere vivi e sopravvissuti è giustamente più forte del dolore per i morti, anche se non lo si ammette, quando i punti sulla ferita tirano e fanno male ma si sa che oramai l’operazione è conclusa e da lì in avanti non si potrà che stare meglio. Tutto bene. Tutto questo è necessario per andare avanti, per darsi una prima spinta, per non affogare.

Il memoriale per le vittime degli attentati a place de la République a Parigi, il 16 novembre 2015. (Christopher Furlong/Getty Images/Internazionale)
Il memoriale per le vittime degli attentati a place de la République a Parigi, il 16 novembre 2015. (Christopher Furlong/Getty Images/Internazionale)

Alcune ferite, però, sono in profondità e non si rimarginano. Nelle viscere della nostra massa imperfetta, tenute a debita distanza, continuano a pulsare, a fare male. Ma il tempo passa scandito dai giorni, dai mesi e poi capita inevitabilmente che scocchi un anno. Un primo sigillo dal quale non ci si può sottrarre, non un giorno qualsiasi, non un metro più in là lontano dal disastro. Un anno a ricordare, un anno a riportare in superficie quella frattura. La verità è come il sole e la ferita che a lei si espone brucia e fa male. Non ci si può sottrarre al tempo, soprattutto quando questo ci chiama con le sue scadenze. E se non si può far finta di nulla allora io ripeto: che questo ci serva per essere onesti. C’è una frattura. Siamo tutti ammaccati. Tutti noi un anno fa abbiamo avuto un terribile incidente, ci hanno inferto una ferita. No, noi non siamo resilienti o, se lo siamo, lo siamo solo in minima parte. Cos’è Parigi un anno dopo? E’ il Bataclan che riapre con un concerto di Sting, perché dove rinasce la musica, rinasce la vita. Sono le commemorazioni per la città per dire e dirci che questo non deve accadere più, non può accadere più. E’ tutto vero. Ma un anno dopo, tutto questo è soprattutto sentire un dolore forte che non si pensava potesse presentarsi più. E’ soprattutto rendersi conto che il rumore doloroso del mondo non è a Parigi e non è fuori di noi, bensì è nelle viscere della nostra naturale e comprensibile imperfezione e ad esso non ci si può sottrarre.

 

Fotografia in copertina di Mstyslav Chernov  (CC-BY SA 4.0 via Wikimedia Commons).

Paris est magique!

Ben prima che l’“effetto farfalla” diventasse un cliché, mia figlia cantava con la sua voce stridula questa filastrocca dall’origine oscura:

Il gatto rovescia la tazza,

la tazza rovescia il tavolo,

il tavolo rovescia la stanza,

la stanza rovescia la scala,

la casa rovescia la strada,

la strada, la strada rovescia Parigi,

Parigi! Parigi! Parigi è rovesciata! 

I nostri padri vivevano a Parigi con il pericoloso gatto della filastrocca seduto davanti alla loro tazza, sul tavolo, nella stanza in cima alla scala che poteva rovesciare la strada. Conoscevano la fragilità della loro posizione, la rapidità con cui la strada poteva rovesciare i regimi: prestavano grande attenzione ai bruschi rivolgimenti di scala.

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Paris: Ville Invisible, Bruno Latour

La scala a Parigi si è rovesciata e da quel 31 marzo non si è più tornati indietro. Il tempo è stato sovvertito e di aprile e maggio non si è sentita la mancanza, ci raccontano gli amici dalla capitale francese. Il gatto ha rovesciato la tazza prendendosi le strade e le piazze. Di nuovo, un’altra fiammata di conflitto e rivendicazioni si accende nel cuore dell’Europa, proprio nella città dove la rivoluzione l’hanno inventata.

Da mesi l’opposizione alla Loi travail, riforma del lavoro presentata dal ministro El Khomri, assume forme diverse e ne chiede il ritiro. Sin dagli inizi di marzo gli studenti si son dimostrati determinati a gridare che il loro futuro non era in vendita, accendendo una miccia che ancora brucia. È stato un attimo e lavoratori, precari, disoccupati, migranti si sono trovati in strada insieme agli studenti, nella medesima lotta per una vita dignitosa. Manifestazioni non autorizzate, blocchi stradali e delle merci, flashmob, sanzionamenti, riot come non si vedevano da un po’, occupazioni, assemblee oceaniche, concerti, street art sono solo alcune delle situazioni che hanno preso vita in questo lungo marzo.

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La Nuit Debout ha saputo contenere e far scorrere la rabbia di una città e di un paese che ha contato più di sessanta piazze in piedi. Place de la République come motore propulsore di idee e azioni per rigettare tutti insieme la precarietà che la Loi travail porta con sé. Le piazze si sono subito ingrossate e hanno iniziato a far paura, tanto che le violenze della polizia, protetta dallo état d’urgence, non si sono fatte attendere. Il governo, invece di cercare un dialogo con la piazza, ha continuato a tirare dritto per la sua strada ricorrendo alla legge speciale 49.3 (con la quale può approvare la riforma senza passare per il voto del parlamento). Negli ultimi giorni il maggiore sindacato confederale francese, la CGT, ha annunciato lo sciopero di tutte le raffinerie di greggio del paese e altri settori stanno prendendo esempio, bloccando centrali nucleari, porti, raccolta dei rifiuti, metro, autobus e aerei.  La battaglia è ancora viva e incerta nei suoi esiti.

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Place de la République è lo spazio fisico dove la Nuit Debout ha trovato casa. Luogo simbolo della Francia ferita dagli attentati, ora è spazio comune restituito alla città. Lo sconforto che si trasforma in rabbia, una generazione in lutto che si mette a lottare. E non solo questo.

Uno spazio che si scopre seduti sul lastricato grigio scuro che ricopre l’intera piazza. Dalla polvere e dalle impronte che rimangono sulle mani e sui vestiti.

Uno spazio che si conosce dalle numerose commissioni che ogni giorno si moltiplicano e danno vita alle discussioni sulle ore di lavoro, sui diritti dei migranti, sul reddito di cittadinanza, sul riscaldamento globale e tanto altro. Si discute, ci si confronta, si mettono in comune le idee. Sembra ci siano settantadue commissioni che riportano i contenuti nell’assemblea generale che si tiene ogni pomeriggio alle sei.

Uno spazio che si capisce camminando e cogliendone le parti che la compongono. C’è la logistique che si occupa dell’allestimento, una mensa, un media center con una radio e una tv streaming, una biblioteca, un punto di assistenza giuridica, un’infermeria e numerosi banchetti informativi.

Cogliere l’insieme della piazza con un solo sguardo è impossibile, provare a darne un riassunto o una sintesi anche. È anche nella sua diversità e nelle sue contraddizioni che si esprime la sua potenzialità. Pian piano si capisce che è un agglomerarsi di azioni e situazioni che si sommano, si sovrappongono, si incastrano fino a dare l’idea di un insieme.

È  prima di tutto il desiderio di partecipazione di decine di migliaia di persone che l’hanno attraversata e la fanno vivere giorno dopo giorno, battaglia dopo battaglia. È  una palestra di politicizzazione per militanti e per chi si trova lì per la prima volta. È  la metafora vivente di quel processo di soggettivazione che Foucault ci ha spiegato bene nei sui corsi al College de France.

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La posta in palio è il ritiro della Loi travail, ma non solo. La richiesta che la piazza esprime chiaramente è il bisogno di una forma nuova di democrazia. Una democrazia che sia ora, radicale e partecipativa. È nello stesso tempo una lotta contro un capitalismo che esclude, privatizzando i rapporti sociali quanto gli spazi collettivi. È la lotta contro un processo di precarizzazione che si fa norma nel lavoro, a scuola come negli affetti. È una lotta transnazionale che deve essere perpetrata sempre più, in un’ottica europea. È  il grido di quelli che non sono rappresentati. A Place de la Nation nasce la voglia di costruire novità sociali, sperimentando forme nuove e rivoluzionarie di stare insieme

Vivere nella Parigi del terrore

Ieri sera, Venerdì 13, alle 22:30 mi trovavo nella zona di Marcadet Poissoniers. Non troppo lontano da uno di punti nevralgici degli attacchi terroristici. Stavo accompagnando a casa una mia amica in un quartiere che la sera non è uno dei più sicuri. Fermi al semaforo vediamo sfrecciarci davanti un mezzo della polizia ad alta velocità. Un incidente, pensiamo. Ma quando alla prima auto ne seguono altre due, poi tre, quattro e altrettante ambulanze, iniziamo a scartare tutte le ipotesi, dall’incendio alla rissa. ” Sono sicura che è un attentato”, mi dice la mia amica ma io non voglio pensare a questo. E’ troppo assurdo. Troppo impossibile. Non faccio in tempo a rincasare che ricevo una telefonata. E’ lei che mi dice con un tono a metà fra la disperazione e la paura che ci sono stati più attacchi terroristici a Parigi.

Entro in casa e mi precipito al computer. Verifico le notizie e ogni secondo di più rimango attonito e sconvolto. Il telefono, skype, facebook e tutti i mezzi che ho per comunicare col resto del mondo iniziano a squillare. Parenti e amici che ti chiamano per sapere se stai bene, se sei vivo. E’ insensato, penso, sono a Parigi, non in un territorio di guerra in Medio Oriente. Nel frattempo la situazione si fa sempre più chiara. Nel continuo susseguirsi di informazione il quadro si fa sempre più drammaticamente chiaro.

Decido, con un po’ d’incoscienza, di uscire di casa e raggiungere la mia amica per recarsi su uno dei luoghi e vedere cosa accade. L’atmosfera per le strade è surreale. Le stesse persone che avevo visto allegre discutere ai tavolini dei bar dieci minuti prima, rincasando, adesso sono attaccate ai telefoni; qualcuno corre, non si capisce perché o verso dove. E’ come l’effetto di un alveare scosso. Il silenzio della normalità viene in un attimo scosso e il primo effetto è quello di un ronzio continuo, un caos dove tutti si muovono disordinatamente.

Il nostro progetto di recarci in loco non ha avuto successo. L’unica possibilità è tornare a casa, e veloci. Correre, correre al nido. Per le strade, ormai deserte, quelle poche persone che camminano ti urlano “rentrez chez vous“. Ecco quelle api che prima popolavano i bar e si muovevano in maniera caotica e spaventata non ci sono più. Le serrande si abbassano. I tavoli si svuotano. I marciapiedi sono deserti.

Chiudo la porta di casa. Io sono stato fortunato. Io sono vivo, stavolta. Ma domani?

Parigi sotto attacco: loro, noi e i social

Ce la descrivono come una Parigi fredda, immobile, esanime. Esattamente come quei corpi (il numero è ancora incerto, ma le fonti sanitarie parlano di 127 morti) fotografati e apparsi sui canali di informazione di tutto il mondo, avvolti nelle coperte termiche o, in loro assenza, nelle lenzuola che i condomini lanciavano dalle finestre. Immagini, suoni, parole che riecheggiano nella piazza digitale di Internet e che giungono fino agli altri. Gli altri, nel cuore della notte, gli altri, distanti ma vicini, gli altri, che non possono essere là fisicamente ma che si stringono attorno a questa città ferita due volte e ai suoi cittadini stremati. Esattamente come stiamo facendo noi adesso. Rifletto su come sarebbe andata se non ci fossero stati i social, le dirette web, i giornali on line, se loro non ci avessero informati, secondo per secondo, di quello che stava accadendo ai parenti, agli amici o semplicemente a persone qualunque alle quali, tuttavia, ci sentiamo filantropicamente vicini. Forse sarebbe andata peggio, forse sarebbe andata meglio.

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Peggio, perché molti parigini non avrebbero potuto comunicare con le loro famiglie che, da casa, ascoltavano inermi le notizie dei sette attacchi terroristici. Dopo il primo assalto a un bar ristorante tra il X e l’XI arrondissement, avviene l’eccidio più grave, quello alla sala del Bataclan, dove era in corso il concerto degli Eagles of Death Metal. 100 morti, moltissimi i feriti anche gravi, mentre i sopravvissuti riescono lanciare l’SOS attraverso Facebook. È quello che è successo a Benjamin Cazenoves che dall’interno della sala per concerti posta sul suo profilo: “Sono dentro al Bataclan. Primo piano. Feriti gravi!”. E aggiunge “Fate in fretta!!!!”. Benjamin si salva e sempre su Facebook ringrazia: “Un pensiero per tutti coloro che non hanno avuto “fortuna” stasera . Un grande ringraziamento per il RAID [Recherche Assistance Intervention Dissuasion, ndr] e la BRI [Brigade de recherche et d’intervention, ndr]. Infine, grazie per tutti i messaggi. Un abbraccio”. Una ragazza italiana ai microfoni di SkyTg24 racconta: “Stavo per uscire. Volevo fare la solita passeggiata con il mio cane, qui nel X arrondisement, quando ho scorso il mio wall di Facebook. Sono rimasta impietrita e mi sono chiusa in casa”. E infine dall’altro lato della città, dove si gioca l’amichevole Francia – Germania, dei kamikaze si fanno esplodere fuori dallo Stade De France. All’interno il clima è surreale: migliaia di spettatori si riversano (per fortuna) in campo e non mancano le immagini di chi imbraccia il telefono per chiamare a casa o di chi picchietta sullo schermo del suo smartphone per postare foto e stati. Magari su Facebook, dove un’applicazione permette all’utente di fare sapere a tutti gli amici che è a Parigi ma che sta bene ed è al sicuro. Proprio come ha fatto il nostro Andrea Turchi, a Parigi per l’Erasmus ma vivo.

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Meglio, perché anche i sostenitori del terrore hanno usato i social, ma l’hanno fatto impunemente con l’unico scopo di fare la loro squallida propaganda, di diffondere basse sentenze di odio misto a fanatismo. “La Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i bambini, oggi beve dalla stessa coppa”, è quanto afferma il canale Dabiq France (la rivista francese dello Stato islamico) assumendo la paternità degli attentati. Non solo. Su Twitter si diffondono gli hashtag #Parisonfire e اريس_تشتعل# che inneggiano alla rivendicazione islamista sull’Occidente, accompagnati dal sinistro proclama “ora tocca a Roma, Londra e Washington”. Fino a toccare il fondo con “Ricordate, ricordate il 14 novembre di #Parigi. Non dimenticheranno mai questo giorno, così come gli americani l’11 settembre”. Lo scrive Rita Katz sul Site citando canali dell’Isis.

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Peggio, perché non ci sarebbe stato il modo di dimostrare la tanta solidarietà della popolazione. È notte quando qualcuno crea l’hashtag #PortesOuvertes per dare ospitalità a chi scappa e cerca un luogo sicuro in cui fermarsi: tempo un’ora e l’hashtag diventa trend topic, allargandosi in tutta la città. Così, come nel più improvvisato degli Airbnb, si offrono spontaneamente letti, divani o semplicemente si chiede alle persone affacciate alle finestre di aprire la porta del condominio.

 

Meglio, perché nell’evoluto Occidente ci sono figure, di ahimè grande visibilità mediatica, che non hanno ancora capito che di fronte alla morte le parole di rispetto sono l’unico gesto concesso. Tuttavia si ostinano a fare la loro bieca propaganda anche sulla pelle ancora calda di quei corpi macchiati di sangue, usando i social media come cassa di risonanza per le loro folli idiozie. Mi riferisco ad alcuni politici nostrani e a qualche editore loro amico (o servo): mentre la destrorsa Marie Le Pen ha avuto il buon gusto di tacere di fronte agli attacchi e, anzi, di fermare la campagna elettorale, i vari Matteo Salvini, Maurizio Gasparri, Vittorio Feltri e Gianni Alemanno non hanno perso occasione per strumentalizzare la tragedia e urlare, a suon di 140 caratteri, insulti e parolacce. “Sciacalli” li hanno definiti, e credo che sia il modo migliore per metterli a tacere. Quello che, invece, deve restare è il compianto per le persone morte, l’affetto per chi si trova in quella città e la determinazione a fare in modo che questi fatti non si ripetano mai, mai più.

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In copertina: Bataclan prima dell’attentato [ph.Parigi Sharing CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]

Parisien Graffiti

Parigi. Dimenticate i boulevard, la tour Eiffel, la chiesa di Notre-Dame, la baguette sotto braccio, il cancan e le altre mille cose, più o meno vere, più o meno note di questa città. Il viaggio di oggi non è di quelli che si fanno con la nonchalance propria della città degli innamorati. La strada di cui vi parliamo oggi non ha il profumo del pane fresco che esce dalle boulangerie e alle vostre orecchie non giungerà la boriosa erre moscia, che tanto fa penare nella pronuncia chi non è avvezzo alla lingua franca, ma una serie ripetuta di vocali aspirate e di fricative tipicamente arabe.

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Rue Dénoyez è una piccola via situata nel cuore del 20 arrondissement. La zona è quella di Belleville e può capitare che non sia la più sponsorizzata da guide turistiche o siti di viaggi. Alle 17 del pomeriggio il boulevard principale è già frequentato da prostitute asiatiche e spesso si ha la sensazione di sentirsi gli unici occidentali in giro, in un quartiere popolato soprattutto da nordafricani e cinesi. Le macellerie arabe, i ristoranti di cucina cinese, antillana, tunisina avvolgono la zona in un marasma di odori e colori che stordisce disorienta, inquieta. Si ha come la percezione che gran parte delle etnie del mondo siano state condensate a forza qui, in un mix di contrasti e armonie che non resta sterile. Rue Dénoyez ne è l’esempio.

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Il progressivo discendere dalle zone alte della città verso il variopinto quartiere sembra quasi una discesa dantesca. Le falle, i disagi e le problematiche di una zona che ha fatto da scenario a molti romanzi di Daniel Pennac si mostrano in tutta la loro crudezza. Il contrasto tra la prosperità della città alta e le ristrettezze del ghetto non si cela dietro gli angoli.

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Tra le tante vie abbandonate a se stesse, orfane di vita prima ancora che di cura e manutenzione, la piccola Rue Dénoyez è un’eccezione eclatante. A partire dal 2000 le pareti degli edifici qui situati sono diventate le tele di writers e artisti di strada. Spesso le bombolette sono legate con una corda o un pezzo di spago alle pareti per permettere a chiunque di lasciare una traccia. Non è l’odore di bomboletta che fa rimanere a bocca aperta, ma il tripudio di colori e forme che ci circondano immersi nella strada. Come è stato per i romanzi di Pennac, ancora una volta la scrittura, il segno, l’arte nella sua ibrida natura multiforme ha iniettato linfa vitale in una delle arterie anonime e degradate della realtà urbana. Le attività commerciali e i centri di aggregazione si sono moltiplicati. Le persone hanno sostituito il timore e il disinteresse alla curiosità e alla gioia della scoperta. La via è diventata il manifesto, l’emblema che la miscellanea e la diversità di idee se incanalate tra gli argini giusti, magari quelli di una strada, funge da coagulante di un tessuto sfibrato che si chiama città.

Tutt’oggi capita di camminare per questa via e incrociare una coppia anziana che scatta foto ai graffiti, o piuttosto l’ennesimo clochard che dorme davanti ad un portone. Nel fulcro del terreno fertile che è la multiculturalità, l’arte non ha sconfitto la povertà, ma sicuramente ha riportato la vita.

 

In copertina: Rue Dénoyez [ph. Sylyswiki CCA BY-SA 4.0/Commons Wikimedia]

Viaggio nel paese dei morti: Père Lachaise

C’è una piccola città all’interno di Parigi. Posta su una collinetta nel XX arrondissement, nella parte est della metropoli, è cinta da antiche mura, con numerose porte che affacciano sui diversi boulevard che la circondano; è immersa nel verde, la folta vegetazione e gli alti alberi sempreverdi invadono lo spazio. E’ ricca di monumenti storici e di pregio artistico. Dall’ingresso principale delle mura, percorrendo Avenue Principale, si arriva alla piccola chapelle, mentre proseguendo per Avenue Casimir-Perier si giunge fino a una delle piazze centrali, detta le rond point, da cui si dipanano un’infinità di vie e viuzze che portano ad esplorare questo caratteristico paesino. Nonostante l’altissima densità demografica, si può dire che la popolazione è tranquilla: vi abitano un’infinità di personaggi illustri e famosi, in numero molto maggiore in confronto a Hollywood o Beverly Hills in California. L’unico dettaglio è che tutti gli abitanti sono in realtà defunti.

Stiamo parlando infatti del cimitero di Père Lachaise, il principale cimitero civile di Parigi, il più grande di Francia, uno dei più famosi al mondo.

Con i suoi 44 ettari di terreno è notevolmente più grande del cimitero monumentale di Milano (25 ettari) e del cimitero monumentale di Staglieno a Genova (33 ettari). Per rendere meglio l’idea della vastità del luogo, prendete la Città del Vaticano e posizionatela nel centro di Parigi: quella è l’estensione del Père Lachaise.

Il perimetro del Père Lachaise.
Il perimetro del Père Lachaise.
Il perimetro del Père Lachaise sul centro di Milano (il Duomo riconoscibile in basso).
Il perimetro del Père Lachaise sul centro di Milano (il Duomo riconoscibile in basso).

Per quanto in generale possa sembrare macabro farsi una passeggiata al cimitero, il Père Lachaise conta ogni anno almeno 3 milioni e mezzo di visitatori. Più che le caratteristiche artistiche del luogo (comunque notevoli) sono i suoi “abitanti” ad attirare i turisti: qui Apollinaire è vicino di casa di Honoré de Balzac, il pittore Camille Pissarro è dirimpettaio della coppia Abelardo ed Eloisa, proprio come il tranquillo monsieur personne abita di fronte ad Oscar Wilde. E poi c’è la star, quello che gli appassionati di rock da tutto il mondo vanno a trovare in pellegrinaggio in occasione dell’anniversario di morte: Jim Morrison, qui vicino di casa del collega Georges Bizet. Trovarlo non è semplice; è nascosto in mezzo ad altri, nella parte nord del cimitero.

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Un po’ di coordinate storiche: in seguito all’editto napoleonico di Saint-Cloud, secondo cui, tra le altre cose, i cimiteri dovevano trovarsi all’esterno delle mura cittadine (qualche reminescenza di Foscolo?), il cimitero venne edificato sulla proprietà del gesuita Lachaise, e venne ufficialmente inaugurato nel 1804. La prima abitante di questo immenso terreno fu una bambina di cinque anni; ci vollero molte traslazioni di personaggi illustri per convincere i ricchi parigini a scegliere il Père Lachaise come propria dimora perpetua.

Oggi, invece, la lista d’attesa per assicurarsi un posticino per l’eternità (o almeno trent’anni) accanto al pittore Caillebot, a Moliére, a Modigliani, a Chopin o a Rossini è davvero molto lunga.

Se siete interessati, affrettatevi!

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Charlie Hebdo, Parigi due settimane dopo

Il colore di Parigi è il grigio. Lo sono i suoi tetti, visti dalla scalinata del Sacré Coeur, con cui la città assume quel color cenere di sigaretta che non ti scordi. É grigio il cielo invernale, livido con le sue nuvole che si specchiano nelle pozzanghere.
Ma non é grigio l’umore dei parigini, grandeur e orgoglio ancora intatti.
L’attacco alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo del 7 gennaio ha forse cambiato solo inizialmente le abitudini e i pensieri di chi a Parigi ci vive e ci lavora, o quelle dei turisti, ma dopo due settimane la città continua la sua solita vita.
Solo qualche segnale, qualche dettaglio, come quando un soprammobile viene cambiato di posto su una mensola, fa trapelare quanto accaduto.
Le edicole sono stracolme di copertine di riviste che ricordano l’attentato e la manifestazione di solidarietà dei giorni seguenti, mentre del giornale stesso nemmeno l’ombra, esaurito alla velocità della luce il giorno dell’uscita.
Il numero dei militari e dei poliziotti nei quartieri considerati a rischio, cioè quelli con il maggior numero di residenti di origine maghrebina o araba, come Belleville o Clignancourt, é calato rispetto ai giorni subito dopo l’attacco, ma qualcuno é ancora presente, mitra ben in vista, specialmente fuori dai luoghi di culto, mentre non se ne vedono proprio al parco di Buttes-Chaumont, noto per essere un luogo di ritrovo della cellula parigina di Al-Qaeda.
I canonici luoghi del turismo, come i musei o Notre-Dame, hanno incrementato la sorveglianza e ovunque, persino nei negozi sugli Champs élysées, campeggia il cartello del controllo anti terrorismo, che però nella maggior parte dei casi equivale a un’occhiata veloce nella borsa delle donne e nei casi più scrupolosi a una veloce tastata.

Segnale della vigilanza anti terrorismo
Segnale della vigilanza anti terrorismo

Place de la République, dove si é concentrata la manifestazione di solidarietà, porta ancora i segni della folla oceanica riunitasi per dire Je suis Charlie, la Marianna vestita di striscioni con Charlie, Charlie e ancora Charlie.

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Charlie in fondo è ovunque, impossibile non sentirne la presenza, impossibile non notarlo.
Eppure se cerchi di chiedere opinioni, pareri, alla parte meno Charlie di Parigi, la conversazione si fa schiva, il francese diventa stentato e lo sguardo sfuggente.
Parigi è divisa in due: da una parte il centro dove l’orgoglio e il dolore parigino sono ancora forti, e dall’altra i quartieri che si avvicinano alle banlieue, dove difficilmente senti parlare francese e dove Charlie sembra non sia mai esistito.
E intanto, alla fermata della metropolitana Hotel de Ville, i treni si fermano e vengono svuotati perché sono state trovate abbandonate a una stazione più avanti delle valige sospette.
“Succede tutti i giorni dopo gli eventi trascorsi” dice una bionda ragazza francese.
Ma Parigi è Parigi, la metro riparte e nessuno ha più paura.

Appeso sulla porta di un negozio
Appeso sulla porta di un negozio

Parigi in DUE GIORNI: breve visita sensoriale

In soli due giorni di visita Parigi si può conoscere solo di striscio, come se si fosse seduti su una trottola, che girando girando ti permette di vedere solo le potenzialità di questa città.

Perciò va vissuta con i cinque sensi bene all’erta.

 

Da VEDERE

Il centro di Parigi è dominato delle tonalità che vanno dal grigio/azzurro dei tetti con abbaini, al grigio/verde della Senna, al grigio/beige dei marmi dei monumenti gotici.

Questa città è spesso descritta come pittoresca: ebbene, un pittore può dipingerla avendo sulla tavolozza non più di tre o quattro colori.

Quartiere latino.
Quartiere latino.

Quest’idea però si smentisce quando si entra nelle cattedrali.

L’esempio più calzante è la Sainte-Chapelle con i suoi 680 metri quadrati di superficie ricoperta da vetrate in cui le storie bibliche dalla genesi all’apocalisse sono raccontate a vivide tonalità di blu, giallo, rosso e verde – entrandoci sembra di stare dentro un caleidoscopio. Venne costruita nel 1246 come Cappella  palatina pei il volere di Luigi IX.

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Sainte Chapelle.

Da SENTIRE

Sentire Parigi può essere fastidioso. Significa prestare attenzione ai rumori del traffico che è notevole anche nelle strade del centro, stranirsi per il suono delle sirene delle ambulanze e della polizia che è diverso da quello a cui siamo abituati.

Sentire Parigi può essere  scioccante. Se vi capita di affrontare il freddo parigino il 31 gennaio recatevi nel quartiere di Belleville:oltre che essere il quartiere del protagonista “pennacchiano” Benjamin Malaussène, è una delle due Chinatown di Parigi. In quel giorno vi capiterà di sentire i festeggiamenti del capodanno cinese: tamburi che battono il tempo senza sosta e accompagnano le mirabolati acrobazie di atleti travestiti da dragoni e sentirete esplosioni a catena di petardi che annunciano l’inizio del nuovo anno.

Belleville.
Belleville.

Sentire Parigi è bello. Per esempio nella Métropolitain  (che si distingue dalle altre metropolitane europee per le sue insegne in stile liberty e perché con le sue 14 linee è praticamente una città sotterranea) dove si possono incontrare musicisti  egregi. Può capitare di incappare in vere e proprie feste sotterranee con centinaia di passanti che si fermano per ballare ed ascoltare le performance.

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Da ANNUSARE

In questo senso (gran freddura!) non ho molto da condividere, poichè essendo cresciuta nella natura, tutte le grandi città puzzano. Hanno davvero un cattivo odore un miscuglio di inquinamento, escrementi, sudore.

Ma Parigi ha almeno la Senna che, nonostante non profumi e non appaia per niente limpida, rende però l’aria umida e densa, fresca nei polmoni, regalando profumo d’inverno.

Da GUSTARE

É proprio il caso di rimanere nei cliché quando si decide di gustare qualche specialità.

Pochi giorni e pochi soldi forse non consentono di gustare esempi di nouvelle cuisine, ma tutti possono e devono assaggiare almeno un croissant e una baguette.

Persino i cornetti serviti come colazione all’ostello erano fragranti e sì, non c’è nulla da fare, la lotta per il primato di bontà nella cucina mondiale è giustamente conteso con i nostri cugini francesi.

Ci sono migliaia di posti che preparano baguette di tutti i tipi, ma tra il V e il Vi arrondissement dove si estende il quartiere latino di Parigi, in una viuzza perpendicolare alla Sorbonne si trova questa una minuscola trattoria che merita una visita.  É un locale a tema marinaresco: ha quadri con barche e velieri, orologi a forma di faro e persino una gondola di plastica argentata sul bancone.Immaginate un ambiente casalingo gestito solo da un indiano dai capelli canuti e il sorriso sempre in volto che prepara con la proverbiale seraficità buddista panini indimenticabili.

Da TOCCARE

Nel film Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain tra i piccoli piaceri della vita di cui godeva la protagonista c’è l’immergere la mano in una cesta di legumi. Per gli amanti/feticisti di questo film è possibile replicare la scena recandosi al 56 di Rue des Trois Frères dove si trova proprio  il  fruttivendolo Marché de la Butte.

Amelie.
Amelie.

Un’esperienza tattile che si può fare sempre nell’affascinante quartiere di Montmartre è recarsi in uno dei mercati di vestiti che si trovano per strada. Qui potrete infilare mani e braccia in montagne di vestiti caldi, acrilici pelosi e ..chi più ne ha più ne metta. I prezzi vanno dai 0,99 euro al pezzo per calze fino ai 14,99 euro per reperti di abiti alla moda anni ’90. Un’esperienza imperdibile.

"Au revoir, Pequod!"
“Au revoir, Pequod!”

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