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Cosplay: indossare un costume e sentirsi più sicuri

Si dice che l’abito non fa il monaco, ma quanto influisce quello che indossiamo su come ci comportiamo e sull’espressione della nostra personalità? Può un costume, paradossalmente, fare in modo che un individuo lasci cadere la sua maschera?

Pequod ha deciso di fare qualche domanda a riguardo a chi in ambito di costumi è molto informato: una doppia intervista alla premiatissima Sabrina, 30 anni, in arte Sylesia Cosplay, e a Luca 32 anni, che si definisce cosplayer amatoriale, ma già organizza raduni molto attesi.

Sabrina nell’abito da Gladiatrice di Aion, ispirato al videogioco Aion: The Tower of Eternity [ph. Roberto Donadello/Tutti i diritti riservati]

Quando hai iniziato a interessarti al mondo Cosplay e cosa ti ha spinto a farlo?

S: Ho iniziato a interessarmi al mondo del Cosplay nel lontano 2010, quando per puro caso mi sono imbattuta in una delle più grandi fiere del settore in Italia, il Lucca Comics. Sin da piccola sono appassionata di anime, manga e videogiochi, tanto che spesso giocavo a travestirmi dai miei personaggi preferiti, ma non immaginavo che ci fossero degli eventi dedicati proprio a questo: a Lucca, mi si era aperto un mondo. Da quel momento ho deciso che sarei diventata una cosplayer a tutti gli effetti ed è subito diventato il mio hobby preferito!

L: Sono sempre stato interessato al mondo dei fumetti e dei videogiochi, ma vengo da un piccolo paese dove non era facile trovare qualcuno che condividesse questo interesse. Poi ho incontrato una persona della zona appassionata come me di questo mondo, con cui sono andato al Cartoomics, quattro o cinque anni fa, e ho deciso di provare anch’io il Cosplay. È un fenomeno che negli ultimi anni sta diventando sempre meno di nicchia, perché ci sono tanti piccoli eventi e si diverte non solo chi si veste, ma anche chi guarda!

Sabrina vestita da Jennefer di Vangerberg, personaggio del videogioco The Witchers Wild Hunt [ph. Massimiliano Pellegrini/Tutti i diritti riservati]

Come avviene la tua preparazione-tipo?

S: La mia preparazione inizia dalla scelta del personaggio che voglio interpretare. Deve ovviamente essere un personaggio che mi piace e in cui riesco a immedesimarmi. Una volta scelto, cerco foto e modelli in 3D per avere la massima visibilità di ogni dettaglio del costume. In seguito, scelgo materiali e tessuti e da lì inizio con il progetto vero e proprio.

L: Mi piace preparare tutto con le mie mani. Scelgo un personaggio per affinità, per come si comporta, e faccio anche una selezione estetica: sono magro e asciutto, non andrò a vestirmi da Hulk! Quando ho scelto il personaggio, stampo le immagini, valuto come arrangiarmi e inizio la parte sartoriale e la costruzione degli accessori. Sono abbastanza pignolo nei dettagli: cerco le stoffe adeguate; spesso faccio, disfo, rifaccio. Alcuni costumi più popolari si trovano anche in vendita; ci sono persone che non fanno Cosplay, ma commissioni, e sono bravissime a creare anche i costumi più difficili e particolari.

Sabrina nelle vesti di Tyrande Soffiabrezza dall’Univeso di Warcraft [ph. Roberto Donadello/Tutti i diritti riservati]

Sei sempre te stesso o ti immedesimi nel personaggio, non solo con il costume?

S: Ho iniziato da subito a fare Cosplay in modo serio e a partecipare a molte gare. Quando si gareggia i metodi di valutazione non comprendono solo il lato puramente esecutivo del costume, ma anche l’interpretazione: per questo motivo, immedesimarsi nel personaggio è fondamentale.

L: Dipende dai momenti. È bello immedesimarsi perché quando si interpreta bene il personaggio i fan apprezzano. Inoltre, ho notato che interfacciarsi con altri cosplayer è più facile che con sconosciuti nella vita ordinaria: se uscissi per un aperitivo con gente che non conosco, non mi sentirei così a mio agio. Il fatto che stiamo interpretando vari personaggi spesso ci rende più facile essere spontanei.

Luca e Ambra, la sua ragazza, negli abiti di due personaggi di Yu Ghi Ho: il Mago Nero e Black Magician Girl [ph. jack.th3.4rist/tutti i diritti riservati]

Qual è il rapporto tra la tua identità e il costume che indossi?

S: Quando indosso il costume che realizzo, improvvisamente non sono più la ragazza timida e un po’ insicura che sono ogni giorno, ma divento il personaggio bello e forte che tanto amo. Posso quindi essere un’altra persona per un giorno e ciò mi fa sentire più sicura di me stessa. È anche questo il bello del Cosplay, ti permette di diventare ciò che desideri essere!

L: L’ambiente Cosplay è fatto da tante persone diverse, non mancano l’invidia e le critiche, soprattutto nelle gare, ma se trovi le persone giuste ti permette di essere te stesso al cento per cento. Nella vita quotidiana siamo sempre sotto alla lente del giudizio altrui e abbiamo tanti piccoli freni, mentre in questo contesto il contatto è molto spontaneo e istintivo. A lungo andare ciò aiuta a comportarsi con più naturalezza anche nelle situazioni di ogni giorno.

Si tratta di interpretare un personaggio, divertirsi e stare bene: posso fare quello che voglio, anche interpretare Hulk pur essendo magro! Il giudizio degli altri non è importante. Vedo tanti ragazzi molto giovani che fanno Cosplay e dopo le prime fiere noto (e anche i loro genitori lo notano) che acquisiscono sempre più sicurezza in loro stessi. I loro costumi li aiutano a esprimere quello che sono, senza remore, più liberamente.

Ambra nelle vesti di Regina Elfaria, personaggio del videogioco Odin Sphere [ph. Chiara Zambarda/Tutti i diritti riservati]

Qual è tuo cosplay preferito o meglio riuscito, e perché?

S: È una domanda a cui mi è difficile rispondere perché amo tutti i miei costumi e ognuno di loro mi ha dato grandissime soddisfazioni. Probabilmente in vetta c’è il mio costume da Gladiatrice di Aion, molto complicato perché composto di parti meccaniche e armatura. La sua realizzazione è stata davvero una grossa sfida per me ma mi ha dato la possibilità di realizzare il mio grande sogno: andare in Giappone, grazie alla vincita di una gara importante.

L: Il mio cosplay preferito è il Mago Nero di Yu Ghi Oh. Mi è sempre piaciuto molto sia il suo outfit sia il suo ruolo nella storia, e ci ho messo davvero tanto tempo per realizzarlo: è infatti un personaggio con un’armatura molto complicata da creare e riuscirci mi ha portato molta soddisfazione.

Un altro cosplay molto ben riuscito l’ho creato per la mia ragazza, Ambra: il personaggio di Elfaria, del videogioco di Odin Sphere. Alcuni costumi danno proprio soddisfazione e anche il pubblico si esalta. Devo dire però che quello che ha riscosso decisamente più successo e che mi ha fatto davvero divertire è quello delle Tre Marie.

Vado molto orgoglioso anche del raduno di One Piece (in copertina,ndr) che organizzo ogni anno a Lucca insieme alla mia ragazza e tre amici, totalmente auto finanziato. Alla gente piace, mi fa un enorme piacere quando incontro qualcuno alle fiere che mi dice: “Ci vediamo al raduno!”.

Luca e due amici che riproducono il logo della marca dolciaria Tre Marie

Le fotografie nel testo sono gentilmente concesse da Sabrina e Luca./Tutti i diritti riservati.

Risvegliare i cinque sensi con i dolci tradizionali wagashi

Chiudete gli occhi. Immaginate di essere seduti sul pavimento in tatami di una piccola sala da tè a Kyoto. Una signora di mezza età vestita in kimono tradizionale vi porge una tazza fumante di matcha (tè verde), accompagnata da un piattino di intricati dolcetti colorati. Quelli che state per assaggiare si chiamano wagashi, dolci preparati seguendo ricette tradizionali giapponesi e il cui ruolo principale è quello di esaltare il gusto del matcha.

 

Wagashi servito con tè matcha [ph. Kuruman CC BY2.0 /www.flickr.com]

Per capire meglio la filosofia racchiusa dietro a questo piatto, basta analizzare i kanji della stessa parola 和菓子 wagashi, che si può suddividere in due parti:wa (armonia, pace) e 菓子 kashi (dolciumi). È interessante notare che il kanji 和wa, oltre al significato di “armonia”, indica anche in generale lo “stile giapponese”; la stessa cucina tradizionale giapponese, che nel 2013 è stata inserita nella lista Unesco come patrimonio intangibile dell’umanità, viene chiamata 和食 washoku.

La tradizione culinaria nipponica ha quindi alla sua base il concetto di armonia: armonia con la natura nelle sue svariate forme, che si riflette nella scelta di ingredienti stagionali e locali; armonia tra i sapori, che sono perfettamente bilanciati tra di loro per creare un’esperienza a 360 gradi; armonia tra le pietanze e gli stessi recipienti in cui sono serviti, i cui materiali e colori cambiano a seconda del tipo di piatto presentato.

 

Cerimonia del tè [ph. mrhayata CCA- BY SA 3.0 Unported/Wikimedia Commons]

I wagashi sono il perfetto esempio di arte nella cucina giapponese. Le forme, i colori e i gli ingredienti di questi dolci tradizionali ruotano attorno all’alternanza delle stagioni e vogliono celebrare la transitorietà e la mutevolezza del tempo in connessione con la natura. Ogni wagashi è un’opera d’arte in miniatura, da gustare in quello che diventerà un momento unico e irripetibile.

 

Wagashi e le quattro stagioni

I gusti e l’aspetto dei diversi wagashi sono strettamente collegati alla stagione in corso e alle festività tradizionali che cadono in un determinato periodo. Ad esempio, i ciliegi in fiore sono il simbolo della primavera in Giappone e anche i wagashi si tingono di rosa e verde per rappresentare questa stagione. Tra i più rappresentativi troviamo i sakuramochi, ripieni di marmellata di fagioli azuki e avvolti in foglie di ciliegio, e gli uguisu mochi, palline di pasta di riso ricoperte con polvere dolce al gusto edamame che celebrano la cettia del Giappone, un uccellino il cui canto segna l’inizio della primavera.

Sakuramochi, wagashi tipici della primavera al gusto di fiori di ciliegio [ph. ocdp CC0 1.0/Wikimedia Commons]

 

Durante la torrida e umida estate giapponese i wagashi hanno sapori e consistenze “rinfrescanti”, con colori che ricordano l’acqua. Il colore trasparente viene ottenuto grazie all’utilizzo di agar, una gelatina vegetale ricavata da alghe rosse, che ha un bassissimo apporto calorico.
Alcuni dei wagashi estivi più particolari sono i kuzukiri, tagliatelle fredde dolci preparate con farina di maranta (una pianta selvatica rampicante) da intingere in uno sciroppo di zucchero di canna, e i kingyoku, che rappresentano dei pesci rossi che nuotano in un laghetto.

Selezione di wagashi tipici della stagione estiva [ph. Douglas Perkins CC0 1.0/Wikimedia Commons]

 

Gli ingredienti che fanno da padrone durante l’autunno sono le castagne, le patate dolci e la zucca e si possono ritrovare anche nei wagashi di questo periodo. Tra i più gustosi ci sono i momiji manju, che rappresentano una foglia d’acero e sono originari dell’isola di Miyajima; quelli classici sono ripieni di marmellata di fagioli rossi, ma ne esistono variazioni con il ripieno di matcha, crema pasticcera, cioccolato, limone, mela e addirittura zucca e patate dolci! Un altro tipo di wagashi tipico di questo periodo è lo tsukimi dango, che viene mangiato in occasione delle notti di luna piena, in cui si contempla la luna e le si offrono doni per portare la buona sorte nella famiglia.

Tsukimi dango per celebrare la festa della luna [ph. evan p. cordes CCA 2.0/Wikimedia Commons]

 

Durante l’inverno, infine, molti dei wagashi assomigliano a fiori ricoperti dal ghiaccio, mentre in occasione della celebrazione del nuovo anno è tradizione consumare i mochi che compongono il Kagami mochi: una decorazione da esporre all’interno della casa durante le prime settimane di Gennaio, che l’11 di Gennaio (la fine del primo periodo dell’anno secondo il calendario tradizionale giapponese) sarà spezzata, cotta e mangiata in aggiunta a una zuppa di fagioli dolci chiamata ozenzai.

Kagami mochi, consumati in occasione del nuovo anno

 

Il design dei wagashi elevato ad arte

Poiché i wagashi sono un piatto così radicato nella cultura nipponica, esistono famiglie di pasticceri e artigiani leader nel settore, che lasciano la propria impronta nella cultura culinaria giapponese e internazionale proponendo la propria versione di un determinato tipo di wagashi. Alcuni esempi interessanti sono i manten wagashi creati dalla pasticceria Saiundo, nella prefettura di Shimane; questi wagashi sono dei cubi che rappresentano una notte stellata: la base è in pasta di fagioli anko, mentre la parte superiore è in gelatina di colore blu, decorata con oro alimentare in foglia per rappresentare le stelle.

Manten wagashi di Saiundo [ph. www.saiundo.co.jp]

 

Un tipo di wagashi reso famoso in tutto il mondo è la raindrop cake, che viene preparata in occasione del festival delle stelle del 7 luglio. Il Tanabata Matsuri celebra la leggenda di due innamorati, le stelle Orihime e Hikoboshi (Vega e Altair), i quali, travolti dalla passione che li univa e distratti dallo svolgere qualsiasi attività, vennero separati dal re degli dei, che pose tra loro la Via Lattea; da allora è loro concesso ricongiungersi soltanto durante il settimo giorno del settimo mese, ma in caso di pioggia, il fiume rappresentato dalla Via Lattea, straripando, impedisce alle due stelle di incontrarsi. La raindrop cake nasce come rappresentazione delle lacrime che i due innamorati piangono quando sono distanti l’uno dall’altra.

Sakura Raindrop Cake [ph. Megan Wong CC BY-NC-ND 2.0/www.flickr.com]

 

Chi ha portato l’armonia con la natura a un nuovo livello è la pasticceria Havaro, che realizza gli omonimi wagashi con gelatina vegetale e fiori edibili. Ogni fiore ha sfumature di colore diverse, per cui ogni Havaro sarà sempre unico al mondo, concetto che ci riporta al continuo trascorrere del tempo e al rituale di assaporare i wagashi come un momento unico e irripetibile.

Havaro Bouquet [ph. Havaro @HANAnoBABAROAhavaro]

 

I wagashi sono solo uno degli esempi dell’approccio estetico al cibo in Giappone e sono realizzati in maniera tale da stimolare tutti e cinque i sensi. L’aspetto invitante e la presentazione con estrema attenzione ai dettagli sono un piacere per gli occhi; l’olfatto e il gusto sono stimolati dai profumi delicati e dai sapori degli ingredienti di stagione; la consistenza al tatto e la sensazione nel tagliarli col coltello aggiunge un altro strato all’esperienza sensoriale; persino l’udito viene stimolato grazie alla scelta dei nomi che ricordano la stagione in corso. Chi avrebbe pensato che un dolcetto così piccolo avrebbe potuto essere così carico di significato!

 

 

In copertina: Wagashi di primavera: lysichiton asiatico, rosa di Sharon, ortensia e rosa [ph. Dougla Perkins CC0 1.0/Wikimedia Commons]

Consigli per un viaggio low-cost in Giappone

Il Giappone è da sempre una delle mete preferite di noi italiani. Siamo stati sempre affascinati da questa cultura così diversa dalla nostra, dai paesaggi da cartolina e dalle continue innovazioni tecnologiche arrivate dal paese del Sol Levante. Ma il Giappone ha anche la fama di essere uno dei paesi più costosi al mondo, quindi prima di sceglierlo come destinazione per un viaggio, ci si chiede: quanto mi costerà? Quest’articolo raccoglie una serie di suggerimenti per cercare di contenere al massimo le spese durante il vostro viaggio in Giappone, senza rinunciare però al comfort e alla scoperta delle bellezze che questo paese offre.

Kinkaku-ji o Tempio del Padiglione d’Oro, a Kyoto; costruito nel 1397 come villa per lo Shōgun Ashikaga Yoshimitsu in un giardino progettato secondo i canoni del periodo Muromachi e affacciato sul lago Kyōko-chi, fu convertito a tempio nel 1408 e custodisce nel suo padiglione le reliquie del Buddha.

Il volo e i trasporti

La maggior parte del budget per il viaggio in Giappone sarà sicuramente destinato al volo e ai trasporti, ma si può risparmiare qualcosina se si prenota il volo con largo anticipo e se si approfitta delle offerte relative ai trasporti locali.

Le stagioni più popolari e durante le quali i voli e gli alloggi hanno un prezzo più alto sono sicuramente quella della fioritura dei ciliegi (fine Marzo – inizio Aprile) e quella dei Momi-ji, quando i parchi giapponesi si colorano del tipico rosso delle foglie d’autunno (da metà Novembre a inizio Dicembre). Se però acquistate il biglietto aereo mesi prima della partenza, dovreste riuscire a spendere tra i 450 e i 600 euro. Vi consiglio di dare un’occhiata al sito di Skyscanner, che confronta i prezzi dei voli di diverse compagnie, per farvi un’idea di quanto costa un viaggio in Giappone, in base alle vostre date preferite.

Tempio Tofuku-ji, a Kyoto; costruito nel 1236, durante l’era Kamakura, su ordine del cancelliere imperiale Kujo Michiie, il quale affidò la progettazione del giardino a Shigemori Mirei, che applicò lo stile zen a scacchi di muschio e pietre, conservato fino a oggi nei giardini centrale e settentrionale, circondati da circa 2000 aceri.

Per quanto riguarda i trasporti in Giappone, mi sento di consigliare vivamente il JR Pass, un abbonamento ai trasporti della linea JR che include anche l’utilizzo dei treni veloci giapponesi. Può essere acquistato esclusivamente dall’estero sul sito Japan Rail Pass e costa 222, 354 e 453 euro per rispettivamente 1, 2 e 3 settimane. Il costo può sembrare abbastanza elevato, ma in realtà alla fine dei conti il JR Pass è davvero conveniente: basti pensare che un viaggio di sola andata in Shinkansen (treno veloce) da Tokyo a Kyoto costa 110 euro…circa la metà di quanto spendereste per viaggiare in lungo e in largo per il Giappone per un’intera settimana! Il JR Pass può essere ritirato direttamente in aeroporto e include anche il biglietto del Narita Express (che costa normalmente 3000 yen, pari a 24 euro), il treno che collega l’aeroporto con la stazione di Tokyo.

Ci sono ovviamente altre opzioni per i trasporti se decidete di non spostarvi molto da Tokyo o da Kyoto: le carte ricaricabili Suica e Pasmo offrono piccoli sconti sui biglietti della metro, il Kansai Thru Pass vi permette di viaggiare con i treni locali in Kansai (Kyoto, Osaka, Himeji, Nara), e gli autobus della compagnia Be-Transse vi portano da Narita a Tokyo per soli 1000 yen (8 euro).

Vista di Tokyo dall’alto.

L’alloggio

C’è davvero tanta scelta circa dove alloggiare: i classici alberghi; le ryokan (locande) tradizionali, il cui prezzo spesso include anche la colazione e la cena; i capsule hotel; gli Airbnb. Per esperienza personale, vi consiglio di prenotare tramite Airbnb, che vi da la possibilità di scegliere degli alloggi un po’ diversi dal solito e allo stesso tempo vi fa risparmiare rispetto all’albergo o alla ryokan. Con Airbnb, io e mio marito abbiamo avuto la possibilità di soggiornare in una casa tradizionale a Hiroshima, con tanto di tatami e futon, in un loft super moderno ad Asakusa, uno dei quartieri più antichi di Tokyo, e in una casa a due piani in stile giapponese a Kyoto. Il tutto per una media di 30 euro a testa a notte. Noi abbiamo sempre prenotato l’intera casa, ma i prezzi scendono ancora se vi va di prenotare una stanza privata all’interno di un appartamento. In questo modo avrete anche la possibilità di conoscere qualcuno del posto o fare amicizia con altri turisti. E una dritta importante: cercate di prenotare un alloggio che includa il Pocket Wi-fi, un modem portatile che potrete portare in giro con voi; riuscire a utilizzare Google Maps non ha davvero prezzo!

 

Attrazioni turistiche

La maggior parte delle attrazioni turistiche di Tokyo sono a cielo aperto e gratuite: alcuni esempi sono il tempio Senso-ji nel quartiere di Asakusa, la via pedonale Takeshita Dori ad Harajuku, il Parco di Ueno, i giardini del Palazzo Imperiale. La situazione è un po’ diversa a Kyoto, dove bisogna pagare un biglietto di circa 4 euro per entrare in ogni tempio, esclusi il fantastico Fushimi Inari Taisha e la Foresta di Bambù di Arashiyama.

Statue raffiguranti i discepoli di Buddha nella foresta di Bambù di Arashiyama (Montagna della Tempesta), un’area verde a ovest di Kyoto, destinata a passeggiate tra giardini e templi, ma che ospita anche attrazioni quali la villa dell’attore Denjiro Okochi e l’eremo del poeta Mukai Kyorai.

Se volete vedere Tokyo dall’alto senza dover pagare il biglietto per salire sulla Tokyo Tower o sul Tokyo Skytree, provate ad andare al Tokyo Metropolitan Government Building a Shinkuju (45esimo piano) oppure al Yebisu Garden Place a Ebisu (38esimo piano). Da qui potrete godere una vista che include anche la Tokyo Tower!

 

Cibo e dintorni

Ed eccoci arrivati a ciò che adoro del Giappone: il cibo! Sorprendentemente mangiare al ristorante non costa molto in Giappone. Quasi tutti i ristoranti hanno il menu fisso a pranzo durante i giorni feriali, che costa circa la metà dello stesso menu a cena. Quindi se volete provare un ristorante abbastanza ricercato senza spendere troppo,  andateci a pranzo e chiedete per il lunch set.

Menu Teishoku, di solito composto da un piatto principale, riso, sottaceti, zuppa e una serie di altri piattini a scelta dello chef.

Ci sono poi una serie di catene di ristoranti frequentatissime anche dai locali che sono specializzate in un particolare tipo di piatto e per questo motivo riescono ad offrire dei prezzi competitivi: Ichiran o Ippudo per il ramen (che in generale in tutti i ristoranti non costa più di 10 euro); Yoshinoya, Matsuya o Sukiya che si specializzano in gyudon, riso bianco con manzo e cipolle; Genki sushi o Katsu, due famosi Kaiten Sushi, ristoranti di sushi su nastro trasportatore.

Infine, numerosi sono gli immancabili convenient store (konbini), dove si possono acquistare snack, beni di prima necessità, bevande e anche molti piatti già pronti caldi e freddi. Se, ad esempio, siete in giro per templi a Kyoto e non saprete se avrete tempo per il pranzo o non volete fermarvi nei ristoranti carissimi delle zone turistiche, fate scorta di onigiri in un konbini e poi concedetevi una buona cena alla fine della giornata.

 

 

In copertina: Iyashi no Sato, un museo a cielo aperto che sorge su ciò che rimane di un villaggio agricolo che fu travolto da un’alluvione nel 1966. Il villaggio è stata ricostruito, incluse le 20 case con i tetti di paglia, che sono state convertite in negozi in cui vengono creati e venduti prodotti dell’artigianato locale.

Fotografie tratte dal mio blog Not the usual tourists: due italiani in Giappone & oltre  [Tutti i diritti riservati].

Lonely Planet: dalla prima guida underground al successo in tutto il mondo

Chi non ha mai programmato un viaggio con una guida Lonely Planet, o l’ha mai avuta tra le mani sognando posti lontani e sconosciuti? Sicuramente poca gente, visto il numero di lettori nel mondo. E pensare che la Lonely Planet è nata davvero “underground, in sordina…

Pequod ha chiesto a Tiziana Mascarello della Edt, casa editrice italiana di Lonely Planet, di raccontarci tutta la storia, dalla prima guida al successo mondiale.

«Come è nata la Lonely Planet e perché?»

«Lonely Planet nasce negli anni ’70, e la sua storia inizia quando i futuri fondatori, Tony e Maureen Wheeler, partono per un viaggio che da Londra li porta fino a Melbourne, percorrendo tutta l’Asia. In quegli anni si viaggiava ancora poco e in modo abbastanza indipendente: il viaggio era del tipo “fai da te”. Tony e Maureen scrivono la guida dopo aver terminato tutto il viaggio, proprio per incoraggiare le persone che volevano compiere quel tipo di percorso. La loro opinione era “chi fa il viaggio in aereo non sa cosa si perde”, perché avrebbe tralasciato tutta la parte riguardante la conoscenza e il contatto con altre culture. Inoltre, grazie ai loro consigli si sarebbe potuto viaggiare per più mesi con la stessa spesa del viaggio in aereo.

«Tony e Maureen scrivono quindi un libriccino sulla loro esperienza durata un anno, viaggiando con ogni tipo di mezzo: auto acquistate e poi rivendute, traghetti sul Bosforo, autostop. Proprio per fornire dei rudimenti di viaggio e mostrare come ce la si può cavare, rispondendo alle richieste di tante persone che chiedono informazioni, pubblicano Across Asia On The Cheap. Il libro diventa un riferimento e il percorso, in quegli anni dell’epoca hippie, era molto popolare: il Nepal, ad esempio, era la via della droga e della perdizione. Nel libro però passa anche il messaggio che viaggiare “con i piedi per terra” è molto importante per vedere molte cose e fare determinate esperienze. Tony e Maureen capiscono che c’è molta curiosità e bisogno di informazioni pratiche riguardo i viaggi fai da te, e la soddisfano con la loro voglia di viaggiare e trasmettere esperienze.

«È così che la coppia inizia a fare viaggi più approfonditi e dettagliati, soprattutto nel sud-est asiatico, scrivendo ogni volta una guida. Tony e Maureen restano a vivere a Melbourne, dove nasce la casa editrice ora conosciuta in tutto il mondo. Il modo di viaggiare dei fondatori resta sempre lo stesso: è importante informarsi prima, in modo che la scoperta diventi ancora più interessante, ed è fondamentale entrare in contatto con le persone, essere curiosi riguardo alla cultura e alle abitudini locali. Lo stile di viaggio è sempre quello “fai da te” di viaggiatori indipendenti, che in quel periodo utilizzavano qualsiasi mezzo».

Tony e Maureen Wheeler con il loro Across ASIAon the cheap

«Com’è cambiato il pubblico di Lonely Planet dalle prime guide a oggi?»

«Il pubblico si è allargato tantissimo sia perché le persone che viaggiano sono aumentate, sia perché in generale si viaggia di più. Molti di coloro che utilizzano una guida Lonely Planet riconoscono che il viaggio è terapeutico ma anche la guida stessa lo è. Averla infatti costituisce di per sé un’idea di viaggio, e dà conforto perché è una sorta di evasione dal quotidiano, oltre a dare la possibilità di iniziare a conoscere i luoghi che si andranno poi a visitare. È insomma il simbolo del viaggio che ognuno poi si costruisce.

«Oggi l’offerta è molto differenziata: oltre alla guida classica che ha tutte le informazioni necessarie, ci sono guide più specifiche, destinate ai viaggi più brevi, come le guide pocket. Non solo i viaggiatori “fai da te”, ma anche chi si sposta per studio o chi fa viaggi organizzati usa la guida. Le pubblicazioni hanno sempre seguito l’esigenza del viaggiatore che cambia, ma lo spirito rimane principalmente quello del viaggiatore consapevole e informato, che dedica molta attenzione ai posti che visita. Lonely Planet si rende conto di avere delle responsabilità nei confronti della salvaguardia del pianeta, e cerca di indirizzare i suoi lettori verso un turismo consapevole».

«Qual è stata la svolta per il successo di Lonely Planet

«La crescita di Lonely Planet è stata costante i primi anni, per poi diventare esponenziale negli anni ‘90. Nata nel 1973, si è fatta conoscere inizialmente con il passaparola, senza grandi investimenti pubblicitari. Si può dire che le persone che utilizzavano una guida erano soddisfatte e la consigliavano ai propri amici. Le strategie di marketing sono arrivate dopo, quando la casa editrice ha iniziato ad aumentare le proprie sedi e ora la diffusione è molto più facile grazie ai canali social. Si può dire però che il successo è stato determinato dalla necessità di un prodotto che dava informazioni molto pratiche su dove dirigersi, a chi rivolgersi per avere informazioni, dove reperire il mezzo adeguato, e altre piccole certezze che davano sicurezza a chi organizzava viaggi da solo in quel periodo».

«Quante persone leggono le guide di Lonely Planet

«Anche Lonely Planet viaggia, non solo i suoi lettori! I numeri parlano chiaro: la quota di mercato in Italia è del 50%, e ciò significa che una persona su due la utilizza.

«Le destinazioni pubblicate invece cambiano a seconda dei periodi storici, dei cambiamenti socioeconomici, dei pericoli: i flussi di viaggio cambiano, i lettori restano. In realtà resta anche una guida evergreen, quella di New York. In questo periodo anche il Giappone attrae molto!».

 «Qual è la chiave di Lonely Planet per continuare ad avere successo?»

«Non perdere il contatto con i viaggiatori, che è costante. Prima avveniva con lettere, appunti che i viaggiatori scrivevano per migliorare lo strumento di viaggio, approfondire o proporre alternative. Ora tutto ciò avviene tramite i social network, ma il contatto permane continuo e costante, ed è fondamentale per rispondere alle esigenze del pubblico.

«Possiamo dire che negli anni in cui iniziano a nascere le agenzie di viaggio e i viaggi organizzati, la Lonely Planet era un’alternativa. Adesso le offerte sono molto differenziate e personalizzate, offrono un ventaglio molto più ampio di scelta. La nostra proposta resta però sempre la stessa: fornire una guida da cui il viaggiatore può estrapolare il proprio itinerario».

«C’è ancora qualcosa di underground nella Lonely Planet di oggi rispetto ad altre guide?»

«Lo spirito che sopravvive è quello di dare indicazioni molto puntuali oltre alla continua ricerca di curiosità, di luoghi autentici spesso meno conosciuti perché fuori dai percorsi più battuti. Vengono segnalati ovviamente anche i luoghi assolutamente da non perdere e i punti di riferimento essenziali, ma anche tantissimi altri che danno un’idea più precisa del Paese o della città, ricercandone le parti meno turistiche e più “quotidiane”».

Anno nuovo, mete nuove!

L’anno nuovo porta con sé sempre quella voglia di migliorarsi e di realizzare i propri sogni, e un viaggio cos’è se non un sogno che si realizza?

Ci sono però un sacco di posti meravigliosi da visitare, e decidere dove andare è una scelta difficile. Perciò, dove andiamo nel 2018? L’abbiamo chiesto a Tiziana Mascarello, editor dei titoli fotografici di Lonely Planet.

Ci racconta qualcosa sul suo lavoro?

Lavoro in Edt nell’area Lonely Planet e, oltre che dell’area marketing, mi occupo di selezionare i titoli fotografici che pubblichiamo durante tutto l’anno. Questi libri in genere sono tematici e contengono informazioni e foto di suggestione, che sviluppano da punti di vista diversi per aiutare il lettore a decidere quale meta scegliere. Meta che poi si potrà scoprire durante il viaggio che ne seguirà, sebbene queste pubblicazioni permettano di viaggiare anche rimanendo comodamente seduti in poltrona con il libro in mano.

Lisbona, Portogallo

Qual è stata la meta di maggiore tendenza del 2017 e perché?

Ogni anno a ottobre pubblichiamo Best in Travel, che contiene informazioni riguardanti le mete che Lonely Planet consiglia perché in quel determinato anno accade qualcosa in particolare. Al suo interno vi sono classifiche di destinazioni come i top 10 Paesi, città e regioni, le tendenze di viaggio per il relativo anno e le destinazioni più convenienti.

Nel 2017 le tra le destinazioni top c’era il Canada, perché festeggiava il centocinquantesimo anniversario della nascita del Paese, sancita dal Constitution Act che ne determinò l’autonomia. La meta è piaciuta molto ai nostri viaggiatori, come gli Stati Uniti, consigliati per il centenario dei parchi nazionali: c’erano infatti tariffe particolari, e sono state aperte zone in genere non accessibili al pubblico.

Tra le mete più gettonate negli ultimi anni c’è anche il Portogallo, con un occhio di riguardo per Lisbona che è la destinazione favorita dai viaggiatori all’interno del Paese. Inoltre, tra il 2016 e il 2017 hanno suscitato grande interesse Cuba e l’Islanda, per il fatto di essere entrambe isole molto particolari che incuriosiscono i viaggiatori.

L’Avana, Cuba

Quali saranno le mete da non perdere nel 2018?

Nel Best in Travel 2018 troviamo, per quanto riguarda l’Italia, Matera. La città diventerà Capitale della cultura nel 2019, ma è già pronta a ospitare i visitatori, poiché ha intensificato le attività culturali e, non essendo ancora troppo turistica, è meglio visitabile. Inoltre, a fine dicembre è uscita la prima guida delle Dolomiti, meravigliosa destinazione Patrimonio dell’Unesco, e tra pochi giorni verrà pubblicata la prima guida Piemonte, regione che sebbene poco conosciuta offre un connubio perfetto tra storia, arte e natura tutto da scoprire.

Il viaggiatore Lonely Planet è molto curioso e vuole visitare anche luoghi meno consueti: nel 2018 il Best in Travel consiglia la Georgia, che un secolo fa aveva avuto un breve periodo di indipendenza e festeggia quest’anniversario. Il Paese è ubicato in una regione che ha mantenuto uno spirito tradizionale molto forte, quindi c’è molto da scoprire all’interno di essa.

Per quanto riguarda l’Europa, l’Andalusia è una di quelle regioni che hanno una combinazione vincente tra clima meraviglioso, gente meravigliosa, arte e cultura. Siviglia si sta trasformando in una città sempre più vivibile ed ecologica, e dato che nel 2018 cade l’anniversario della nascita del pittore Murillo, ci saranno diverse mostre dedicate a lui stesso e all’arte barocca.

Un’altra città europea da visitare nel 2018 è Anversa, che quest’anno offre un mix di arte barocca, ospitando un’importante rassegna di pittura a cui prenderanno parte anche artisti fiamminghi. Inoltre, si stanno riqualificando gli spazi più periferici con opere d’arte e architetture particolari e interessanti: la città vuole allargarsi tramite iniziative culturali anche al di fuori del tracciato turistico classico relativo al centro storico.

Anversa, Belgio

Fuori dal continente europeo, la destinazione top del 2018 è il Cile, che festeggia l’importante anniversario dei 200 anni di indipendenza: per l’occasione, è aumentata la quantità di voli che raggiungono il Paese. Il luogo che il viaggiatore indipendente e avventuroso preferisce all’interno del territorio cileno è Valparaiso, città d’arte costiera, dove si respira un’atmosfera suggestiva tra il romantico e il bohémien.

I flussi turistici negli ultimi anni hanno subito anche il fascino del Giappone. Lonely Planet consiglia di visitarne i luoghi meno noti, specialmente la Penisola di Kii che ora è più accessibile e ancora poco turistica.

Ci sono mete che non passano mai di moda?

Una delle destinazioni top di sempre tra le città continua ad essere New York, la cui guida è in cima alle classifiche di vendita da moltissimi anni. In Italia invece è indiscutibilmente la Sicilia, che piace sempre ai viaggiatori.

New York, USA

Ci sono invece destinazioni che hanno riscosso interesse per tempi molto brevi?

La città di Stoccolma ha meno successo rispetto agli anni scorsi per l’emergere di altre destinazioni, e la stessa cosa succede in America latina per la Bolivia, ora meno visitata perché offuscata dal successo turistico di Cile ed Argentina.

Una delle guide meno vendute negli anni è stata quella di Seoul, ma era stata pubblicata anni fa, quando i tempi non erano ancora maturi. Anche la Tunisia era una destinazione molto amata dai visitatori, e oggi Lonely Planet non ha guide su di essa in catalogo.

Viaggi e sicurezza: c’è davvero paura?

La sicurezza inevitabilmente influisce sui flussi turistici, ma alcune destinazioni, come ad esempio Parigi e Barcellona, subiscono un contraccolpo nell’immediato e in seguito si riassestano. Da quello che vediamo e che i nostri viaggiatori ci comunicano attraverso i social e le mail, percepiamo che si continua a viaggiare, per fortuna. Il viaggio è sempre un elemento forte, va oltre alla paura.

Siviglia, Andalusia, Spagna

Cosa cerca oggi il turista?

I viaggiatori di Lonely Planet cercano luoghi particolari e viaggi in cui fare cose, vivere esperienze. È per questo che pubblichiamo anche libri tematici che danno indicazioni su come viaggiare alla scoperta di nuovi luoghi on the road, a piedi o in bicicletta. Si cercano viaggi d’esperienza, che permettano di conoscere un luogo non solo attraverso una visita di passaggio, ma anche tramite attività, per vedere tutto più da vicino. Il viaggiatore è consapevole, si informa e conosce i posti, li vive in modo più approfondito anche attraverso il contatto con i locali e la loro cucina.

Lei dove andrà nel 2018?

A Berlino, che non ho mai visto in estate, e in Asia Centrale, probabilmente nelle zone dell’Iran, ma il viaggio è ancora tutto da costruire.

La sintesi in un fiore: storia d’una primavera giapponese

Primavera. Agli occhi dell’occidente è significante fidente in un crescendo di calore, luce e colore.
Nell’arcipelago nipponico, dove sembra che gli animi siano più melanconici, è allo stesso tempo annuncio di un inevitabile prossimo autunno.
Presentata così c’è da svenarsi, me ne rendo conto, ma con qualche approfondimento si può facilmente cogliere la raffinatezza e la lucidità della visione orientale.
Primavera quindi, o 春 (Haru) in “sol levantese”: è il periodo che crea lo scenario figurativo più diffuso dell’estremo oriente, la “cartolina” di idillio, un’armonia cromatica d’altro mondo. Ed è su un aspetto prettamente botanico che si fonda il culto della primavera giapponese e si sviluppa una profonda e sentita elucubrazione filosofica: la fioritura dei ciliegi.
Da Aprile a metà Maggio lo spettacolo della manifestazione floreale percorre le isole da sud a nord ammantandole di ogni sfumatura di rosa. La breve durata del fenomeno è valsa alla delicatezza del fiore di ciliegio (sakura in “gergo”) la qualifica di simbolo di bellezza fugace, di impermanenza e ciclicità di tutto ciò che esiste. Da qui la fine tradizione della pratica dell’Hanami (花見) ovvero “ ammirare i fiori”: attimi empatici dove tra l’occhio dell’uomo e il processo della corolla si crea un colloquio dolce e malinconico sull’arco della vita.

Per destreggiarci nell’argomento, utile è riportare tratti d’esperienza “su campo” di Ginevra: giovane romana, si ritrovò per casi di vita a condurre un viaggio di un mese in terra giapponese; caduta in preda al suo fascino, negli anni successivi ha continuato la frequentazione con assidua passione, assistendo al rivelarsi di tutte le stagioni e al viverle del suo popolo.
Una delle sue ultime scappate orientali ha visto una fortuita e fortunata partenza nella seconda metà di Marzo che è valsa, al suo giungere in Tōkyō, un’accoglienza da regina: «I parchi e i viali della città esplodevano di centinaia di tonalità di rosa, dal pallido al vivido, che coronavano il ritrovato verde primaverile. I boccioli si erano schiusi qualche giorno prima del mio arrivo. Ci sono migliaia di cultori e appassionati dell’Hanami che, da ogni parte del mondo, ogni anno monitorano le papabili date della fugace fioritura per poter prenotare il periodo di pellegrinaggio e presenziare all’evento con puntualità; io ho avuto una fortuna sfacciata continua dacché, nel mio muovermi dalla capitale a Kyoto, ho persino seguito involontariamente i momenti di sbocciatura partecipando quindi a due intere settimane di suggestione».
Tutte le varietà dei ciliegi, infatti, nell’arco di circa un mese e mezzo, vanno in fiore partendo dall’area sud-est del paese e continuando verso l’ovest e il nord; per cui ogni regione offre lo spettacolo in tempi differenti, in base alla posizione geografica.
«Invitata da Yuri, un’amica “autoctona”, al parco Yoyogi (nella zona di Harajuku, nel centro di Tōkyō) ho potuto celebrare il mio primo Hanami con tutti i crismi della tradizione: in un vasto spazio, gremito come una spiaggia italiana d’agosto, migliaia di famiglie, amici e colleghi hanno steso le loro tovaglie da pic-nic sotto l’arboreo tetto rosa. Petali cadono tra il vociare e il brulichio infinito, si posano sull’ebrezza generale. Cibarie e birra ad accompagnare i festeggiamenti. Noi cerchiamo un piccolo ritaglio di prato libero per goderci i nostri bentō (box da pasto) e la surreale gioia dilagante».

Un entusiasmo fugace, quello dei giapponesi, che esorcizza la paura del “terminare delle cose tutte” con un’ode tra l’apollineo e il dionisiaco, l’esaltazione del bello e l’abbandono all’euforia.
«Avrei dovuto spostarmi a Kyoto qualche giorno più tardi, ma l’enorme afflusso di turisti aveva già saturato le disponibilità di alloggio; così ho dirottato su Nara, città pressochè limitrofa e famosa per l’ampio parco che sorge nei suoi confini.
Anche qui la piena fioritura mi ha accolto, ma in uno scenario decisamente più suggestivo rispetto a quello della metropoli: nell’area verde, dove migliaia di cervi vivono liberi e sereni nei confronti dell’uomo, ho incontrato solo un numero contenuto di visitatori! Tra loro, i più passeggiavano in coppia in abiti da festa tradizionali (Kimono e Yukata) allungando biscotti ai cervi o presi da sessioni fotografiche da neosposi; essendo questo un periodo d’incanto e buon auspicio, la celebrazione di matrimoni è infatti molto frequente. Avevo dunque trovato la situazione favorevole per un approccio contemplativo intimo con il paesaggio naturale».
Dal campo base di Nara, Ginevra ha poi mosso in giornata verso mete vicine: a Himeji, il famoso castello bianco pareva una visione ultraterrena, incorniciato di fiori e scintillante di sole com’era!

Poi finalmente, Kyoto. In quest’ultima tappa, saliente è lo scenario che le si para innanzi nel preservato antico quartiere di Gion, celebre per essere stato ospite di bordelli e sale da tè: «Il rione è attraversato da piccoli canali che in quell’occasione erano riempiti da una distesa di petali; l’effetto era quello di un fiume rosa in movimento, un’essenza fluttuante, bellissimo! Poi, la sera, in più zone della città, gli alberi vengono illuminati dalla base verso l’alto dando inizio all’affascinante Yozakura (lett.: la notte dei ciliegi), ossia l’Hanami notturno».

In questo mondo
camminiamo sopra l’inferno
guardando i fiori.
(Kobayashi Issa)

[Fotografie di Ginevra Latini]

Pedagogie d’altri continenti

«In metro, un bimbo di una ventina di mesi stava seduto sulle gambe della mamma e teneva in mano un gioco di gomma: si divertiva a gettarlo in terra, ridendo per il rumore prodotto, e il papà a ogni tonfo si abbassava a raccoglierlo. In un movimento monotono la scena continuava a ripetersi, il gioco cadeva e il papà si abbassava, ma a nessuno veniva in mente di innervosirsi e sgridare il bambino», un amico di rientro dal Giappone mi racconta di quest’episodio per spiegarmi la libertà totale di cui godono i bambini nel Paese del Sol Levante. Nell’immaginario occidentale, i piccoli giapponesi crescono addestrati fin dall’infanzia a essere parte di una società operosa e produttiva, alle cui regole è imposto sottostare acriticamente; in realtà, in età prescolastica il modello educativo giapponese è tra i più lassisti e liberali del mondo. Ne Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict dà un’immagine grafica di questo modello educativo: l’arco di vita dei Giapponesi segue una curva ad U (contrapposta al modello americano che ha forma Ո), «in cui i massimi di libertà e di indulgenza sono riservati ai bambini e ai vecchi, mentre le limitazioni all’autodeterminazione individuale aumentano lentamente dopo la fanciullezza per raggiungere il punto più basso della curva nel periodo che immediatamente precede e segue il matrimonio».

L’educazione degli infanti avviene quasi totalmente per mezzo di provocazioni psicologiche, di cui la Benedict offre interessanti esempi: «quando un altro pic­cino viene a far visita, la madre in presenza del proprio bambino, si mette a vezzeggiare il piccolo ospite e dice: “Ho intenzione di adottare questo bambino; desidero proprio un bambino così carino e così bravo. Tu invece non ti comporti come dovresti per la tua età” […] oppure la madre dice al bambino: “Tuo padre mi piace più di te: lui sì che è un uomo come si deve”». In questo modo si ottiene il risultato di far sorgere nel giapponese adul­to quel timore del ridicolo e della condanna sociale che è un elemento così tipico della sua mentalità e che trova il suo fondamento nel kimochi-fugi, che Azuma definisce come «la tendenza a dare importanza ai sentimenti degli altri, o a tentare di simpatizzare con i sentimenti degli altri e di percepire le loro intenzioni».

Sempre grazie a questa filosofia, i bambini sono educati a essere membri di una società imperniata sul gruppo, di cui presto dovranno imparare le gerarchizzazioni, riflesse per la loro importanza nel linguaggio quotidiano: le espressioni “fratello” e “sorella” esistono, infatti, in Giappone solo accompagnati da riferimenti all’età, ossia come ani (fratello maggiore) o otōto (fratello minore), ane (sorella maggiore) o imōto (sorella minore).

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Questa gerarchizzazione, data dall’ordine di nascita, che attribuisce un vero e proprio potere, una vera e propria autorità, mi ricorda in qualche modo quello che in Senegal ho osservato essere l’ordine che naturalmente si costituisce all’interno delle famiglie. In tutta l’Africa, l’età è motivo di vanto e la persona anziana considerata più saggia dei successori; questo principio è tanto radicato da diventare significativo anche tra individui della stessa generazione, soprattutto in età infantile, quando ancora non subentrano titoli acquisiti e meriti, a mutare la piramide voluta dalla cronologia di nascita.

Come in Giappone, in Senegal il bambino sotto i tre/quattro anni sembra in qualche modo escluso dalle interazioni sociali, quindi esonerato dalle norme che le regolano: trascorre gran parte del tempo fasciato sulla schiena della madre, viene preso in braccio ogni volta che piange, mangia e dorme quando decide. Crescendo invece, l’infante è tenuto a obbedire a qualsiasi richiesta l’adulto ponga e a rispettarne le regole, ma gode, a differenza dei giapponesi, di totale autonomia nella gestione del tempo libero, anche grazie alla presenza di una comunità priva di pericoli e coinvolta nell’educazione; è tipico veder correre per i vicoli tra le case dei quartieri di Dakar gruppi di bambini che liberamente giocano, entrano ed escono dai cortili, litigano, fanno pace e stabiliscono gerarchie entro le loro microsocietà. Totalmente differente è però l’approccio dei genitori all’educazione scolastica; un’altra similitudine emerge tra Senegal e Giappone: fin dai primissimi anni d’istruzione, fondamentale è il successo scolastico, che viene misurato attraverso una vera e propria classifica di confronto tra compagni di classe. In entrambi i paesi, inoltre, la distinzione tra periodo scolastico e vacanze è molto meno netta di ciò cui sono abituati gli studenti europei: sull’isola asiatica il periodo festivo è impegnato tra club sportivi, attività extrascolastiche e servizi volontari per i comuni; i bambini senegalesi trascorrono invece buona parte delle mattinate estive nelle scuole coraniche, dove imparano il testo sacro attraverso forme di educazione rigide, che non escludono la punizione corporale. Quest’attitudine all’obbedienza prende periodicamente forma rituale nelle cinque preghiere comandate, quando il richiamo del muezzin fa correre le bimbe a coprirsi il capo e i bambini a prendere i tappeti da stendere in direzione della Mecca, senza che gli adulti intervengano a sollecitare.

Le riflessioni pedagogiche sul bambino come adulto, che tanto hanno caratterizzato l’Europa tra ‘800 e ‘900, sembrano aver appena sfiorato la cultura senegalese, in cui i rapporti tra adulti e bambini sono regolati dalla mera interiorizzazione di una gerarchia, che giustifica l’autorevolezza dei primi sui secondi. Di quest’ordine i bambini non soffrono, perché hanno autonoma gestione del tempo non impiegato in attività necessarie. Diverso è il caso dei bambini di strada, numerosissimi a Dakar, che trascorrono gran parte del tempo elemosinando e chiedendo gli avanzi di cibo nelle case, per poi rientrare nella scuola dove l’imam impartirà la lezione coranica; o ancora dei bambini che sui marciapiedi lavorano con le madri, vendendo acqua, frutta di stagione, piccoli dolcetti. Nessuna legge vieta il lavoro minorile né impone un’istruzione obbligatoria, benché a Dakar si trovino moltissime scuole pubbliche.

Alla base delle numerose similitudini tra i due paesi, geograficamente tanto distanti tra loro, sta il comune denominatore di un’idea di società come di una comunità coesa, i cui membri interagiscono collaborativamente tra loro, a formare una sorta di estensione dell’ambito domestico, che si esprime nella creazione di gruppi all’interno della società giapponese e nell’idea del social living senegalese. Caratteristica di entrambi i popoli è il rispetto sempre dovuto all’infante, aldilà dell’estensione della possibilità di rivolgergli richieste. Nel bambino, infatti, entrambe le culture vedono un riflesso dell’adulto che sarà in futuro; entrambe le culture hanno considerazione dell’individuo che racchiude in potenza e che sarà un giorno il punto di riferimento dei genitori che oggi si occupano della sua educazione.

In primis, nel bambino, Giapponesi e Senegalesi vedono la speranza di una continuità nel tempo della stirpe famigliare.

BeRevolution: raccogliere sogni dall’Italia al Giappone a bordo di una 500

Ho speso lungo pensare nella ricerca di una definizione di ‘Eroe’ che mi soddisfacesse. Per vedersi attribuire questa nomea il filantropo atto di coraggio è condizione prima, ma non risolutiva; reputo che l’appellativo d’eroe debba essere un’etichetta senza scadenza che non si conferisce per un singolo atto lodevole, quanto piuttosto per una costante condotta, uno stile di vita.

Il paladino evolve nell’impresa e, tramutato, riprende il mare per un’idea di luce; lo fa cambiando in positivo le vite degli uomini (di chi lo incontra e di chi ne sente raccontare) avventurandosi altrove, ovunque, smanioso di partecipazione. Così, nel movimento, diviene canale universale di bontà diffusa.

Ecco che nell’impresa itinerante, nel viaggio, si compie l’ideale metamorfosi.

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È circa metà luglio 2015 quando la mia curiosità viene stuzzicata da un logo scorto per caso tra mille finestre aperte su internet: le lettere della parola ‘revolution’ disegnano un’automobilina pronta a partire, sormontata da una valigia griffata “Be”.

BeRevolution, sii la rivoluzione, è il nome del progetto di due cugini di Chieri (TO), Luca e Andrea Bonventre, che in quei giorni montano su una piccola utilitaria Fiat 500 alla volta dell’estremo oriente.

14 stati da attraversare, 27000 km da percorrere, un anno di viaggio.

Tokyo come meta. L’epopea Euro-asiatica.

Vogliono assaggiare culture estranee, scoprire se «la macchinina può arrivare sin dove punta il Cuore di chi la guida» e, soprattutto, che questo loro azzardo risulti utile: l’intento è di raccogliere fondi e dar visibilità alla fondazione Forma Onlus di Torino, al fine di poter acquistare apparecchiatura d’eccellenza e introdurre nuovi progetti terapeutici nel polo pediatrico dell’ospedale infantile Regina Margherita.

In concreto i due avventurieri hanno visitato 13 ospedali, 3 scuole e 3 orfanotrofi, recando ai bambini incontrati l’invito a disegnare i propri sogni su centinaia di fogli che andranno presto a comporre la raccolta “500 sogni in 500”.

E’ un’esperienza di desideri che si intrecciano: quelli di chi ha osato il gesto rivoluzionario con quelli degli uomini di domani.

Nei mesi, l’impresa è stata raccontata tappa per tappa attraverso un diario di viaggio in costante aggiornamento sul sito ufficiale del progetto. L’itinerario si è concluso con il rientro a Chieri i primi di luglio 2016; i propositi invece proseguono nel tempo, grazie alle donazioni attive tramite il sito e l’allestimento della raccolta d’immagini.

Cogliendo l’occasione del rientro dei due, ho contattato Andrea per un’intervista a caldo su alcuni aspetti che hanno solleticato il mio interesse.

Come nasce l’idea del viaggio e quindi del progetto?

L’idea nasce scherzando. Nell’estate del 2014 Luca ha acquistato la 500 da amici in Sardegna. La spedizione dell’auto aveva un costo molto elevato, allora decise di andarla a prendere personalmente. Invita anche me e Riccardo, suo fratello minore. Ci dicevano che eravamo matti, che la macchina è vecchia, insomma tutto il solito bla bla di raccomandazioni cui storicamente siamo stati sempre sordi. Ne nasce un viaggio di una settimana, campeggiando liberamente per le meravigliose spiagge dell’isola. Eravamo felici di aver percorso 1000 km, e ci sembrava già un’impresa. Arrivati a Chieri, dove viviamo, ci siamo detti: «Non ho voglia di andare a casa, andiamo a Bangkok!». Poi Bangkok ci sembrava troppo vicina; il resto è la storia che già conoscete…

Volevamo inoltre che il nostro sogno fosse utile, quindi abbiamo scritto un progetto legato al viaggio: BeRevolution. Essere la propria rivoluzione, lavorare al servizio dei propri sogni. Dimostrare quello che avevamo sperimentato in molti viaggi: il mondo è la casa di tutti. E quali sono i sogni che costruiranno il mondo di domani? L’abbiamo chiesto a chi il futuro brilla negli occhi: i bambini. Ci siamo concentrati soprattutto sugli ospedali pediatrici, dove i sogni devono avere un’eco più forte.

-Come è stata la convivenza continua tra di voi?

Come due fratelli. Si condivideva tutto, si litigava (poco), si era gelosi, felici. Ci completavamo nelle nostre mansioni, insomma una squadra vera.

-Macinare tanti km con quella piccola vettura è già di per sé un’impresa quasi impensabile; come si è comportata?

Stupendamente! Luca quasi non la conosceva una volta partiti ed è arrivato a capirla in ogni minimo dettaglio. E’ sempre stato attento a qualsiasi suono (la 500 si guida a orecchio!) provenisse dalla vettura e ha fatto in modo che non si verificassero mai grossi problemi. Poi, in un’ottica di viaggio overland un’auto meccanica ha parecchi vantaggi dacché costruita da uomini per uomini, non da macchine per macchine. Inoltre, avendo la 500 un motore molto semplice e conosciuto in tutto il mondo, non ci è mai mancato il supporto di meccanici in ogni paese.

-Quali sono stati i momenti salienti del viaggio?

I momenti importanti sono stati tutti. Il tempo vuoto e il tempo pieno si alternavano, ognuno fondamentale. Abbiamo condiviso l’esperienza con numerosi viaggiatori, siamo stati ospitati da contadini, zingari, consoli, ragazzi e signori anziani. Il viaggio vero inizia nell’incontro, si cresce imparando e nello scambio avviene la magia.

-Ci regalate un aneddoto e una sensazione?

Mentre scattavamo una foto (500 + elefante) in India, si avvicina un signore sui sessanta. Ci guarda con occhi sgranati ed esclama: «Ah, ma allora non vi siete estinti!». Era Adriano, viaggia attraverso l’India tutti gli anni dal 79′. L’ha vista senza plastica e ci raccontava di come in quegli anni fosse molto comune arrivare con una 500 o un mezzo simile sino in India. Ci ha portato da un Baba esperto in omeopatia; ci ha illustrato i templi abbandonati dove vivevano gli Hippies (quelli veri). Ci ha aperto le porte di un mondo che fin lì avevamo solo sognato.

-Che evoluzione avete avuto durante l’esperienza?

Enorme! Ogni giorno, ogni tappa era un apprendere qualcosa. Non si può preparare un viaggio del genere, bisogna viverlo e basta. E vivendolo sperimentando siamo stati in grado di sviluppare capacità che non credevamo nemmeno nostre. L’evoluzione è stata tale da vedere ora tutto con occhi diversi, o meglio che vedono più elementi rispetto a prima.

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La carne è triste, ahimè,

e ho letto tutti i libri.

Fuggire! Fuggire laggiù!

Partirò!

[Mallarmè]

Fotografare fotografi: ritratti di turisti asiatici a Milano

Il turismo asiatico in Italia e in Europa sta acquisendo anno dopo anno una fetta sempre più ampia del turismo globale. L’importanza economica del fenomeno non è affatto marginale: molti Paesi europei hanno infatti scelto di investire in questo ramo del turismo, snellendo le procedure burocratiche per i viaggiatori e aumentando il personale parlante cinese-mandarino.

E fra le tante città europee visitate, Milano è da tempo una delle mete favorite. Un giro nel centro della capitale meneghina e si ha subito la conferma di questo trend, con insegne in giapponese e cinese nelle vetrine e commessi multilingue. Infatti, se in generale la Lombardia è la meta più ambita per lo shopping dagli stranieri, cinesi e giapponesi  fra tutti sono quelli che spendono di più durante le loro visite, specialmente nell’alta moda.

Ma a contraddistinguere il turista asiatico medio a Milano come altrove non sono soltanto le mille borse e pacchetti, frutto dello shopping nei negozi più costosi delle vie della moda, ma anche l’immancabile macchina fotografica. E soprattutto chi viene dal Giappone, patria di Nikon e Canon, sfoggia un’attrezzatura professionale da fare invidia, spesso impiegata per fotografare ogni singolo dettaglio, dal piccione di fronte al Duomo ai piatti di spaghetti. Questa frenesia nello scattare non è da imputare, come spesso si è detto malignamente, alla volontà di appropriarsi delle amenità occidentali per riproporle in patria attraverso l’imitazione: semplicemente lo sviluppo di rullini e l’acquisto di apparecchi fotografici è da sempre meno costoso in Asia, mentre in Europa soltanto l’avvento del digitale ha reso la fotografia meno proibitiva.

Abbiamo fatto un giro in Piazza Duomo a Milano, per immortalare i turisti asiatici intenti nella loro attività preferita. Che si tratti di una reflex o di uno smartphone con tanto di bastone per i selfie, la missione rimane sempre la stessa: scattare a più non posso per non dimenticarsi neanche un istante del proprio viaggio.

 

Da Shirakawa a Carpineti: un viaggio di 10000 km tra usi e costumi assolutamente identici

Arrivare nella cittadina di Shirakawa non è facile: posizionata a 500 metri di altitudine, è situata nella prefettura di Gifu, in una zona del Giappone poco popolosa poiché impervia a causa dell’abbondanza della vegetazione e delle precipitazioni che, nei mesi invernali, si tramutano in neve, la quale, scendendo copiosa, attacca al terreno fino a raggiungere un’altezza di tre metri.

E allora perché andarci? La storia potrebbe aiutarmi a rispondere alla lecita domanda: insediamento databile, presumibilmente, all’8000 a.C., non se ne sa nulla fino al XII sec. d.C. quando Kanenbo Zenshun, discepolo del monaco buddhista Shinran, vi introdusse tale religione. La sua storia continua dunque sulle orme di una normale cittadina di campagna fino a quando, dopo la guerra nel Pacifico, a seguito dello sviluppo economico, il villaggio di Shirakawa fu letteralmente assalito da una serie di lavori per la costruzione di dighe: fu per questo che gli edifici in stile Gassho divennero rinomati e cominciarono a essere venduti in tutto il Giappone, tanto che, con la costruzione di edifici contemporanei, le autorità locali chiesero il trasferimenti delle antiche case nel villaggio Gassho di Shirakawa.

Correva l’anno 1972. Non passò molto tempo prima che il villaggio fosse designato come un’area di conservazione per un gruppo di importanti edifici storici, divenendo, nel 1976, patrimonio Unesco.

Ma cosa sono le case in stile Gassho?

Per capirlo è necessaria una precisazione: la cittadina di Shirakawa è gemellata con quella di Alberobello. Il motivo è dato dal fatto che, come in Italia, anche in Giappone queste case hanno un tetto molto particolare che, al posto dei mattoni pugliesi, assembla giunchi di bambù per creare un tetto resistente alla pioggia e ai terremoti. L’azione del montaggio, poi, viene fatta in giornata da una squadra di circa 50 uomini che, in una divisione comunitaria del lavoro detta “yui” permette di rimuovere la vecchia copertura e posizionare quella nuova nel giro di una giornata.

All’interno, invece, i tetti sono sorretti da travi annodate (e non bloccate) tra di loro per permettere una maggiore oscillazione e flessione della copertura durante i terremoti. Le travi della soffitta, poi, sono compattate tra di loro dalla fuliggine che sale dal fuoco posizionato a piano terra, attraverso una serie di piani sovrapposti in cui si trovano il dormitorio, la cucina e l’essiccatoio, fino al sottotetto.

Un accorgimento intelligente ma non unico al mondo: la mia fida compagna di viaggio, la nonna, mi fa notare che anche al suo paesino d’origine, sulle colline reggiane, i “metati” per essiccare le castagne erano fatti allo stesso modo.

E, strada facendo, le cose in comune tra due Paesi così diversi si fanno sempre più numerose. Dalla “vasura” che, nel dialetto emiliano, indica quell’oggetto che anche in Giappone viene usato per dividere il frutto della castagna dalla sua buccia; alla “mina”, unità di misura prestabilita per conteggiare la quantità esatta di prodotti quali riso, farro, avena.

E che dire del rito del té, vera a propria filosofia di public relation? Come ogni emiliano che si rispetti, nel paese della nonna tale rito non si compie tuttavia col te ma con l’alcol: a Natale e alle festività è infatti uso offrire il vino o il liquore locale Sassolino ad amici e parenti in giro per le case.

Una forma di rispetto reciproco che si manifesta anche nel rapporto con gli animali: per il Giappone è il manzo che, durante la sua vita, viene accudito a base di birra e massaggi con l’intento di produrre una carne sopraffina, mentre per l’Emilia Romagna è il maiale che, alimentato con prodotti di alta qualità, viene usato davvero per tutto, al fine di non buttarne via niente. Un tuffo nel passato, insomma, durante il quale la nonna mi ha pazientemente spiegato usi e costumi di Carpineti, tanto vicino a Shirakawa nonostante i 10000 km che separano i due paesi.

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
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