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Il batik tra arte e vestiti di Sapsafart

Passeggiando tra i quartieri di Dakar, accade spesso, soprattutto la notte, di venire sopresi dal rullante rumore delle macchine da cucire. Basta seguire il suono e affacciarsi a uno degli usci dei laboratori per ritrovarsi immersi nel fruscio di stoffe e tessuti, che alla luce di lampade opache scorrono sotto gli aghi al ritmo dato dai movimenti sui pedali, per lo più avviati da giovani uomini.

Tra le decine e decine di laboratori, ce n’è uno, nascosto tra i vicoli sabbiosi del quartiere di HLM, che spicca invece per il suo silenzio, interrotto solo dal suono dello stereo che accompagna le lunghe ore di lavoro: è il Sapsafart Atelier, dove Daouda colora i tessuti che verranno trasformati in abiti, tovagliato, quadri e arazzi.

Daouda al lavoro nell’Atelier di Sapsafart.

Come molte delle botteghe senegalesi, anche Sapsafart è uno spazio ricavato all’interno di un’abitazione, in questo caso ne è il cortile, ma immerge fin dal primo ingresso in un’atmosfera artistica tutta sua: accanto alle immancabili icone religiose, quadri e bassorilievi si affacciano sulle pareti, su cui si addossano poltroncine un po’ bohémien raggiungibili solo dopo aver scavalcato vasche e stender. Qui non si cuce, si dipinge con una tecnica approdata in Africa nell’Ottocento, trasportata dai colonizzatori dalla lontana Indonesia, ma subito tradotta nei disegni e nei colori del continente nero.

Daouda Ndoye è il proprietario, l’artista del batik. Sulle stoffe traccia i disegni ispirati dalla sua immaginazione e all’estetica africana, quindi inizia la loro trasformazione in tessuti adatti a diventare vestiti: «A volte inizio a lavorare sulle pezze seguendo la mia fantasia – mi spiega – e solo dopo mi preoccupo di come tagliarle, in base all’uso che decido di farne; più spesso, chiedo alla sarta con cui collaboro di iniziare il confezionamento dell’abito con il tessuto grezzo e solo dopo mi occupo di dipingerlo, così che i disegni si adattino alle forme».

Daouda mentre dipinge; alle sue spalle, alcune camicie.

Come funziona la tintura attraverso la tecnica del batik?

«La prima fase riguarda il disegno; una volta tracciate le linee guida, queste vanno ricalcate coprendo con la cera calda le parti che non si vogliono tingere. Si tratta di un lavoro che richiede una certa precisione perché non può essere corretto: una volta che la cera è colata nel tessuto, lo impermeabilizza e quindi non può più essere tinto. Una volta che la cera si è asciugata si procede al bagno di tintura, che consiste nell’immergere la stoffa in una vasca piena di acqua e pigmenti colorati. La procedura si ripete poi tante volte quanti sono i colori scelti, andando di volta in volta a sovrapporre diversi strati di colore. Ogni passaggio richiede dei tempi di attesa, che servono per l’asciugatura della cera e poi del colore, quindi più complesso è il disegno e maggiore è il numero di colori impiegato, più sarà lungo il procedimento».

Da quanto tempo lavori con questa tecnica? Come l’hai imparata?

«Faccio lavori in batik dal 1989, ma solo dall’anno scorso ho fondato il Sapsafart Atelier. Ho frequentato una scuola in Casamance, nel sud del Senegal, dove mi hanno insegnato questa tecnica entrata a far parte della nostra tradizione e ho deciso di farla diventare la mia principale attività lavorativa. Ho sempre voluto avere un lavoro in cui poter esprimere le mie inclinazioni artistiche, infatti mi sono dedicato a lungo alla creazione di sculture e quadri e a questi ultimi ho deciso di provare ad applicare la tecnica del batik. I miei primi lavori erano pensati come arazzi, destinare a decorare le pareti, poi ho iniziato a lavorare la stoffe perché diventassero tovaglie o cuscini. Da qualche anno, ho iniziato a collaborare con alcune sarte e a usare il batik per creare abiti».

Tintura e asciugatura.

Perché hai scelto proprio il batik?

«Mi piace particolarmente creare abiti in batik perché sono pezzi unici e originali, imitabili ma non riproducibili in maniera identica. La tecnica del batik di per sé rimanda alla tradizione panafricana, anche se di epoca piuttosto recente, soprattutto se usata in modo artigianale come faccio io; le linee e i colori sono molto diversi rispetto al più moderno vax, che è la versione industriale del batik: le sfumature che si possono applicare ai pigmenti rimandano ai colori della terra e le forme dei disegni che scelgo si rifanno all’iconografia della cultura africana. Allo stesso tempo, sui tessuti posso esprimermi liberamente, pensare a disegni e composizioni sempre nuovi, spesso nati dall’incontro tra la mia immaginazione e quella della persona che mi ha commissionato l’abito e che poi lo indosserà. Questo fa sì che ogni vestito sia assimilabile a un’opera d’arte, pensata su misura del contesto in cui verrà esposta o, in questo caso, indossata».

Chi sono le persone che ti commissionano abiti batik?

«Ho una clientela molto varia, che include sia uomini sia donne. Confeziono spesso camicie da uomini, ma anche semplici t-shirt, mentre le donne scelgono soprattutto pagne e abiti con lunghe gonne. Anche i turisti sono attratti dal mio lavoro: possono portarsi a casa un pezzo unico di Africa, spesso pensato apposta per loro, e piace molto il fatto che possono assistere e partecipare alla tintura degli abiti che poi acquistano, cosicché l’abito non sia più solo un oggetto, ma un souvenir che porta con sé un ricordo delle loro vacanze. Questo entusiasmo da parte degli stranieri mi ha spinto a cercare uno sbocco per la mia attività anche nelle esportazioni: attraverso la pagina facebook di Sapsafart espongo le mie creazioni e grazie a una rete di amici che vivono in Europa riesco a confezionare abiti anche per chi non può raggiungermi fisicamente».

Due creazioni di Sapsafart: un abito da donna e una camicia da uomo.

Quali sono i soggetti che preferisci dipingere?

«Mi piace che le mie creazioni rimandino a sensazioni ed emozioni legate alla mia terra. Gran parte dei miei soggetti sono legati a oggetti di uso quotidiano di oggi o del passato, come i cauri, le conchiglie che un tempo fungevano da moneta, o le calebasse, le ciotole in legno di zucca; anche gli strumenti tradizionali, dai tamburi alla kora, sono un motivo che uso spesso, così come alcuni soggetti tipici del paesaggio africano, prima tra tutti la pianta del baobab. Molte volte mi ispiro a momenti della vita quotidiana, in cui il più delle volte le protagoniste sono le donne: una madre che porta il figlio nel mbotou (fascia portabebè, ndr) o una giovane che porta un otre in bilico sulla testa. A darmi maggior soddisfazione sono però le composizioni meno realistiche, ma in cui riesco a trasmettere un messaggio che va oltre l’immagine, che spesso nascono da un adattamento dei miei quadri».

Fotografie nel testo di Sapsafart / Tutti i diritti riservati.

Quando l’amore ha un prezzo. Viaggio in Senegal tra prostitute e ‘mbaraneuses

Aprile 2014, Dakar. Io e Hamadou ci aggiriamo per il quartiere di Fass, alla ricerca di un amico come noi tornato a casa a trovare la famiglia. Un passante ci indica una casa a cinque piani. Saliamo gradini sbilenchi su cui si affacciano ampi appartamenti e sbuchiamo su un tetto a terrazza, costellato di porte che nascondono stanzette in affitto. Dietro una di queste porte, Doudou ci aspetta con un piatto di riso fumante; seduta sul letto accanto a lui, una ragazza magra, avvolta in jeans stretti, si aggiusta il rossetto. Mi presento e la invito a mangiare con noi, ma lei distoglie lo sguardo e aspetta che noi siamo sazi per afferrare il piatto e ripulirne il contenuto con gesti lenti, ma che tradiscono un certo appetito.

Mariama, il nome appena sussurrato, ci segue per il resto della serata come una presenza discreta. Andiamo a ballare, beviamo, fumiamo e lei, nascosta in un angolo, risponde di no a qualsiasi invito, con occhi stanchi che reclamano il sonno. Anche se ha detto di non volerla, le porto una bibita e il suo sguardo si sposta dalla bottiglietta a Doudou, quasi a sottolineare che non è stata lei a richiederla. Chiedo spiegazioni di tutta questa circospezione: «È una domestica, -spiega il mio amico- viene dal villaggio per lavorare in una casa qui a Dakar, ma ha perso l’autobus per rientrare nel giorno di riposo. Stanotte dorme con me; in cambio, abbiamo contrattato per il letto e la cena».

Capisco all’istante che la stanchezza del suo volto e la pelle secca delle sue mani non sono solo un’impressione, ma i segni di una giornata di lavoro che non si concluderà quando noi andremo a dormire. Chiedo di andare a casa, fingendo sia mio il suo bisogno di sonno, mentre sento montare dentro me la rabbia per un trattamento ingiusto che trova ulteriore conferma all’arrestarsi del taxi di fronte al bar vicino casa di Doudou: una senegalese avvolta in un miniabito leopardato chiama Doudou con voce suadente. Scorgo appena il gesto di rifiuto del mio amico, ma la voce della donna si staglia chiara nella notte: «Ah stasera risparmi con la ragazzina, ma domani ti aspetto».

L’indomani mi presento anch’io all’appuntamento, incuriosita da tanta disinvoltura in un paese in cui la verginità è ancora un valore utile a ottenere un buon matrimonio. Perdiamo qualche minuto in giochi di sguardi d’indifferenza finché la ragazza non decide un approccio da finta offesa: «Ciao, piacere, Diara», dice rivolgendosi a me. E poi verso Doudou: «Non mi offri da bere?». Le pago una birra e cerco di intavolare una conversazione, ma dopo poche chiacchiere percepisco un’irritata agitazione: «Perdonami cara, ma io sono qui per lavorare». Scopro così che Diara è una prostituta a tutti gli effetti e solo quando mi offro di pagare il prezzo di una prestazione (5˙000 cfa, pari a circa 8 €), o meglio due visto che sono bianca, ottengo il diritto a fare qualche domanda.

Diara, 22 anni, mi racconta che è di Saint Luis, ma vive a Dakar, lontano dalla famiglia così da poter guadagnare facendo il mestiere senza disonore: «Se mai vorrò sposarmi, posso sempre tornare nella mia città, anche se non avrò più il valore di una vergine». Dalla borsetta estrae un documento: «È la mia licenza», spiega. E con sguardo soddisfatto aggiunge: «C’è scritto che sono pulita». Pulita, cioè non contagiata dal virus dell’HIV. La sua soddisfazione non è cosa di poco conto: si calcoli che nel 2017 nella sola Africa subsahariana si contavano poco meno di 26 milioni di individui affetti da HIV (dati avert.org); eppure il Senegal rappresenta un modello a dir poco virtuoso per gli stati confinanti. Lo stato senegalese ha infatti negli ultimi vent’anni intrapreso una battaglia serrata contro la diffusione del virus, le cui armi sono state tanto la prevenzione attraverso la diffusione di anticoncezionali e il monitoraggio delle fasce di popolazione più a rischio, quanto l’incremento di terapie sia in fase di evoluzione del virus in forma di AIDS sia a malattia contratta. Particolarmente efficace è stata la decisione di normare la prostituzione per le ragazze al di sopra dei 21 anni, le quali devono registrarsi presso le amministrazioni locali e in cambio ottengono preservativi e assistenza sanitaria gratuita, che prevede l’obbligo di controlli medici mensili. L’iniziativa ha presto dato i suoi frutti: dal 2010 al 2016 la percentuale di prostitute sieropositive è scesa dal 21% al 7%, mentre i casi annuali di HIV sono diminuiti del 75%. Le donne che risultano positive al virus non sono costrette ad abbandonare il mestiere, ma possono vedere rinnovata la licenza solo se assumono farmaci retrovirali, che non solo riducono la carica virale, ma allungano anche l’aspettativa di vita.

«Quindi tu hai rapporti protetti, usi il preservativo?», chiedo sorpresa, conscia di quanto gli africani siano tendenzialmente restii all’uso di anticoncezionali. E infatti Diara sorride sorniona: «Non sempre, però posso usarlo come motivo per aumentare il prezzo, anche perché io a differenza dei clienti garantisco sul mio stato di salute». Mi chiedo se il rovescio della medaglia non sia stato un aumento del numero di ragazze che offre il proprio corpo, ma Diara pensa che le cose stiano in tutt’altro modo: «Tante ragazze hanno paura di regolarizzarsi, anche perché spesso i poliziotti che si occupano di consegnare o controllare le licenze approfittano di noi; la soluzione più semplice è accettare di avere rapporti con loro gratuitamente, evitando almeno la violenza. E poi c’è la questione dell’onore: se fai la prostituta la società ti giudica, molto più comodo fare ‘mbarane».

Per capire cosa significhi questa parola, ‘mbarane, mi serve qualche giorno e un po’ di dimestichezza con la cultura locale; le prime donne cui chiedo la definiscono come l’abilità di seduzione femminile che permette di ottenere soldi e denaro, senza necessariamente concedersi sessualmente né perdere l’onore. ‘Mbarane è una capacità che quasi quotidianamente si vede applicare per le vie di Dakar: la si impara fin da bambine come abilità nello sgranare gli occhi per chiedere doni agli zii che vivono in Occidente, la si sfrutta da adolescenti per ottenere monili e vestiti dai ragazzi che sperano di far innamorare una vergine, la si applica da adulte per evitare che i mariti cerchino donne più giovani. All’origine però ‘mbarane definisce un comportamento che prende sempre più piede tra le senegalesi, sinonimo quasi di poliandria; le ‘mbaraneuses, infatti, collezionano fidanzati in numero pari alle loro esigenze, facendosi pagare abiti, cosmetici e gioielli, ma anche affitto e bollette. In linea teorica, non è previsto il sesso nei rapporti tra amanti e ‘mbaraneuse, ma conoscere come stanno realmente le cose è praticamente impossibile: le giovani nubili sostengono praticamente tutte di preservarsi per l’uomo che sposeranno, mentre i loro amanti si crogiolano nell’illusione che l’aver colto la loro illibatezza sia garanzia di esser già prescelti per la vita, quindi mantengono il segreto.

Il pensiero di una civetteria così ben calcolata mi spinge a osservare con nuovi occhi gli atteggiamenti dei giovani che passeggiano per Dakar: un velo che quasi casca, braccialetti che tintinnano al momento giusto, nuvole di profumi che avvolgono i pensieri; il più piccolo gesto basta ad attrarre per un istante l’attenzione, a illudere con sogni e desideri mai pronunciati, a garantire il prossimo, seppur modesto regalo.

Una Sala da Thè per l’integrazione

Laura e Lamin sono seduti di fronte a me, 20 anni entrambi, lei dinamica ed entusiasta, lui più timido e riflessivo; Laura è italiana e studia psicologia a Bergamo, Lamin viene dal Senegal ed è un cuoco. Hanno storie e origini molto diverse, ma entrambi fanno parte di Sala da Thè, il nuovo “gruppo informale multietnico” con sede a Bergamo, che, come recita la loro presentazione su Facebook, è “volto a comprendere i bisogni primari tanto quanto i desideri e le ambizioni profonde di migranti e non”. Laura mi spiega che il gruppo è nato a gennaio 2019 dall’esigenza di fare qualcosa di concreto per favorire l’integrazione e lo scambio con i migranti, vista anche la situazione politica attuale che decisamente non rema in questa direzione. «Molti di noi operavano già singolarmente come volontari in centri d’accoglienza, ma ci siamo chiesti cosa potessimo fare di concreto come gruppo, perché qualcosa bisognava fare, e abbiamo quindi deciso di creare Sala da Thè».

Un incontro di Sala da Thè a Bergamo (foto di Sala da Thè, Tutti i Diritti Riservati).

Un nome decisamente curioso, ma che serve a sottolineare il carattere informale e aperto a tutti del progetto: «La sala da thè è un posto informale dove chiunque può entrare, non serve essere “qualcuno” (…) e dove qualunque persona può esprimere liberamente le proprie idee e avanzare delle proposte riguardo la tematica dell’immigrazione». Il gruppo, composto per ora da una quindicina di ragazzi e ragazze italiane e una decina di migranti, è molto eterogeneo e ognuno fornisce il suo apporto personale mettendo a disposizione le proprie competenze: «C’è chi lavora in uno studio legale, chi in un CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria, ndr), chi fa l’educatore, ecc. Abbiamo cercato di raccogliere più esperienze possibili per dare un supporto ai migranti e sopperire alla mancanza di servizi e figure professionali che al momento non ci sono, ma dovrebbero esserci».

Lamin racconta che è stato proprio l’avvocato che lo segue nel processo di richiesta d’asilo a spingerlo a partecipare agli incontri di Sala da Thè e gli ha presentato alcuni membri. In particolare, Lamin si sofferma sull’aiuto che il gruppo fornisce con le pratiche burocratiche: «Quando uno [dei migranti] deve andare in questura, se c’è qualcuno [di Sala da Thè] che è libero lo accompagna. Così con loro va tutto bene».

Tuttavia, Sala da Thè non vuole fornire solo un supporto “pratico” ai migranti, ma anche e soprattutto essere un luogo di condivisione per permettere a tutti di sentirsi compresi e di realizzare i propri sogni e aspirazioni. Quando Laura mi parla di questo obiettivo tanto ambizioso, in un primo momento ammetto di sentirmi un po’ scettica sulla fattibilità del progetto, ma lei non esita a farmi un esempio specifico: “Ci sono due ragazze del gruppo che amano cantare e vorrebbero far conoscere il proprio talento su YouTube. Noi, allora, le abbiamo aiutate a girare un video di una loro canzone a Bergamo. Certo, ottenere i documenti è importante, ma noi crediamo ci sia anche dell’altro”.

Un momento della cena benefit del 16 marzo organizzata da Sala da Thè (foto di Sala da Thè, Tutti i Diritti Riservati).

È proprio con questo spirito che Sala da Thè ha organizzato diversi eventi per far conoscere il gruppo sul territorio e allargare la sua rete di contatti e relazioni. Il primo è stato una cena benefit di presentazione del progetto con un menù senegalese preparato dai ragazzi, tra cui ovviamente anche Lamin, cuoco di professione. È proprio mentre parliamo del “suo” cibo che Lamin, fino ad allora piuttosto timido, improvvisamente si anima e, mentre cerca di descriverci i piatti tipici senegalesi che ha preparato, gli si illuminano gli occhi. Fatica a trovare le parole in italiano, ma grazie a Google ci mostra delle foto davvero invitanti; alla fine, rinuncia a descriverceli a parole e si limita a esclamare con un gran sorriso soddisfatto: “Buonissimo!”.

Laura a queste parole sorride e mi spiega che la partecipazione alla cena è andata ben al di là delle loro aspettative e, per questo motivo, hanno deciso di riproporla in chiave di aperitivo anche per il prossimo evento del 16 marzo presso lo spazio Polaresco di Bergamo, che durerà però un’intera giornata e comprenderà diverse attività. I partecipanti di Sala da Thè proporranno infatti vari laboratori, interamente gratuiti e studiati in base alle competenze dei vari componenti del gruppo: un ragazzo abile con la macchina da cucire, ad esempio, terrà un piccolo laboratorio di sartoria, mentre altri con la passione per la pittura permetteranno a tutti di dare libero sfogo alla propria vena creativa dipingendo su tela. A seguire, ci sarà la presentazione del gruppo, l’aperitivo multietnico e la Jam Session musicale aperta a tutti: “In puro spirito Sala da Thè”, precisa Laura con un sorriso. Infine, la serata si concluderà con il concerto della band Ottocento, organizzato direttamente dal Polaresco. Non è tutto, però. Laura mi racconta con entusiasmo che stanno già lavorando a un nuovo evento per il 31 marzo, una partita interculturale di calcio a cui ci si potrà iscrivere durante la giornata di sabato 16.

Dalle parole di Laura e di Lamin capisco quanto credano nel progetto e quanto siano importanti questi eventi per loro e per tutto il gruppo. A me, in fondo, sembra che il senso del progetto di Sala da Thè stia tutto qui: nell’entusiasmo di Sara e nel “buonissimo!” esclamato da Lamin mentre parla dei suoi piatti con gli occhi luminosi.

 

In copertina: Laura e Lamin (Tutti i Diritti Riservati).

Quando raggiungere l’Italia era più facile

Negli ultimi articoli su Pequod abbiamo parlato molto dell’attuale sistema dell’accoglienza in Italia, intervistando chi nel nostro Paese è arrivato da poco e analizzando gli effetti dell’ultimo Decreto Sicurezza sulle politiche di integrazione. Ma com’era l’accoglienza dei migranti in passato? Come si arrivava in Italia in cerca di lavoro quando ancora non si parlava di “crisi migratoria”? Ne abbiamo parlato con Rosemary, 69 anni, senegalese arrivata in Italia negli anni ‘70 per seguire il marito italiano, e Deme, 40 anni, emigrato anche lui dal Senegal nei primi anni 2000.

Rosemary racconta di come all’epoca la migrazione fosse un fenomeno completamente diverso, in quanto ottenere un visto per l’Italia era ancora piuttosto semplice e il lavoro non mancava. Grazie al cambio conveniente, inoltre, «gli africani potevano costruirsi una casa al paese d’origine anche solo facendo i venditori ambulanti», mentre ora non è più così. Tuttavia, Rosemary precisa che non era tutto rose e fiori nemmeno in passato e che si è dovuta scontrare con la diffidenza che il suo matrimonio misto suscitava: «Quando sono arrivata io, ero la prima africana del paese e per di più sposata con un bianco, che era una vera rarità!». I pregiudizi nei confronti delle donne nere, infatti, non mancavano e Rosemary se lo ricorda bene: «Nei miei primi anni qui mi capitava che quando camminavo per rientrare a casa verso il tardo pomeriggio, c’erano uomini che mi accostavano con l’auto, dando per scontato che mi prostituissi».

Anche Deme sottolinea come vent’anni fa fosse molto più semplice di adesso trovare lavoro, ma, rispetto agli anni ‘70, ottenere dei documenti era già diventato molto più complicato e bisognava trovare delle strade “alternative”: «Quasi sicuramente trovavi un lavoro in nero, qualcuno ti prestava i suoi documenti, andavi alle cooperative e trovavi lavoro subito». Deme ricorda come fosse fondamentale il sostegno da parte della comunità di africani: i nuovi arrivati venivano accolti e ospitati da altri immigrati che poi li aiutavano a trovare un lavoro: «Dopo un mese di stipendio che rimaneva a te, iniziavi a contribuire alle spese della casa. Poi dal posto letto ti pigliavi una stanza, poi una casa in affitto. Era come una piccola comunità».

Deme (nome di fantasia) ha preferito non farsi ritrarre per evitare di essere riconosciuto.

Anche Rosemary concorda: «Vedrai sempre africani che si aggregano tra loro; superiamo insieme le difficoltà: dalla ricerca del lavoro, in cui saremo sempre la seconda scelta rispetto a un occidentale, all’aiutare chi di noi si ritrova senza documenti, magari dopo anni di presenza sul territorio». Questo spirito comunitario non si riscontra invece tra gli italiani, come ricorda con tristezza Rosemary, per cui lo scoglio più difficile da superare è stato proprio il loro atteggiamento freddo e individualista, ben diverso da quello senegalese a cui era abituata. A questo si aggiungevano le difficoltà linguistiche, che generavano a volte delle situazioni tragicomiche: «Mia suocera mi disse che per far brillare la cucina ci voleva “olio di gomito” e io girai tutti i negozi del paese per cercarlo, senza che nessuno si fermasse a spiegarmi che era un modo di dire».

Nei confronti dell’attuale sistema dell’accoglienza in Italia, Deme si dice piuttosto critico: «Da quello che vedo penso che ci sia troppa propaganda. (…) Dicono le parole, ma (…) i fatti non ci sono». Anche Rosemary, pur riconoscendo l’importanza di un sistema di accoglienza che all’epoca del suo arrivo era invece del tutto assente, nutre delle perplessità sulla situazione attuale, in particolare riguardo all’assenza di opportunità di crescita per i migranti: «Trovare un lavoro era d’obbligo negli anni ’80 se non si voleva diventare clandestini, mentre è quasi impossibile per questi ragazzi chiusi nei centri».

Tante cose sono cambiate rispetto al passato per i migranti che cercano di arrivare in Europa, ma il loro desiderio di scoperta e la voglia di riscatto sono ancora gli stessi di allora. Proprio per questo motivo sarebbe opportuno per noi europei tenere a mente le parole di Deme: «Quando uno parte (…) dal continente Africa per venire qua in Europa, lo fa per vedere con i suoi occhi, per capire e comprendere queste “altre realtà” che prima ha sempre solo sentito raccontare. Partendo da quella realtà africana, si porta dietro tutta la strada che ha fatto per arrivare fino a qua. Non è una strada proprio facile». No, non lo è per niente.

 

Articolo redatto da Lucia Ghezzi. Interviste a cura di Sara Alberti e Sara Ferrari.

Su richiesta dell’intervistato, è stato utilizzato il nome di fantasia “Deme” per proteggerne l’anonimato.

In copertina: foto di Antonello Mangano (CC BY-NC-SA 2.0).

Africa, Europa e sensibilità: cosa sta dietro alla parola accoglienza?

Quanto spesso di sente parlare di accoglienza in questo periodo e quanto spesso questa parola viene strumentalizzata, bistrattata, trasformata, sfruttata? Nella maggior parte dei casi non ci si sofferma a soppesarla, a guardare cosa c’è dietro la facciata di quelle undici lettere, a pensare a cosa è davvero l’accoglienza. A come la vive chi la offre e a come la vive chi la riceve, ammesso che la riceva e che la voglia ricevere.

Pequod ha parlato di accoglienza con Lamine, di origine senegalese, che ha avuto modo di viverla in prima persona, e ha fatto capire a chi scrive che “accoglienza” è una parola piena di significati soggettivi e di punti di vista differenti che spesso, egoisticamente, ignoriamo.

Dove lavori e di cosa ti occupi nel tuo lavoro?

Sono operatore di un centro d’accoglienza e faccio il mediatore culturale in altri progetti. Il mio primo lavoro in Italia è stato da mediatore culturale con l’associazione Arcobaleno, con cui ho girato per le scuole per svolgere dei laboratori sulla cultura africana. In questa intervista, però, parla il Lamine africano, non l’operatore del centro di accoglienza.

Cosa è per te l’accoglienza?

Accoglienza è dare uno spazio, ma non fornire elementi per essere in questo spazio. Ad esempio, se io vengo da te e non ci siamo mai visti prima, tu mi dai il mio spazio, mi metti a mio agio, mi lasci portare quello che ho e quello che sono. Se non sai niente di me, non mi puoi accogliere. Sai quante volte mi è capitato che delle persone volessero cucinare per me un piatto italiano, e ci tenevano parecchio, ma non sapevano che io non mangiavo maiale? In particolar modo una signora, che ha insistito alquanto e lo desiderava moltissimo. Pensa che io ero invitato per la domenica, e lei aveva iniziato a cucinare già il giovedì! Il piatto ovviamente era buonissimo, ma io non mangiavo maiale. La signora però mi aveva dato il suo spazio a casa sua, mi aveva aperto le sue porte e non potevo rifiutare. Ho mangiato, perché per me quel gesto era più importante di ogni credo. In Senegal si dice “Se ti dà uno, non prendere dieci”: lasciare la propria casa per andare a casa di qualcun altro impone lasciare qualcosa all’altro e prendere qualcosa da lui. Altrimenti, se vuoi che le cose vadano come vuoi tu, devi stare a casa tua.

Qual è stata la cosa più difficile da accettare nell’accoglienza che hai ricevuto? E la più soddisfacente?

La mia sensibilità non è stata accolta, perché si vede lo straniero soltanto come uno statuto. Non ci si pensa, ma se si dice a qualcuno “sei un imbecille”, lo si dice alla maschera che ci si trova davanti, senza considerare il fatto che dietro a questa maschera ci sia una persona con la propria personale sensibilità.

D’altra parte, sono riuscito invece a vendere un’Africa che credo che possa essere qui, dei valori che ho ricevuto e che sono vendibili qui, un modo di essere con cui sono stato cresciuto, il modo di vedere la vita che ho e che mi hanno insegnato. Sono il vincitore del premio Tirafuorilalingua 2017 (concorso e festival dedicato a produzioni artistiche che celebrano, promuovono e valorizzano la lingua madre, ndr) per il quale ho scritto una poesia e un racconto sull’introduzione senegalese in società, intitolati Tutti insieme intorno allo stesso piatto. Ho descritto cosa si imparava dalla tradizione di mangiare insieme comportandosi in un certo modo e il significato di ogni singola azione. Credo che questi siano insegnamenti che si possono condividere in tutto il mondo.

Lamine durante la presentazione della sua opera Tutti insieme intorno allo stesso piatto al concorso Tirafuorilalingua 2017.

Reputo che bisogna essere consapevoli del fatto che l’africano in contatto con l’Europa, cioè l’esperienza di un africano che parte dall’Africa e poi arriva in Europa e trova determinate cose, crei un nuovo individuo. Questo individuo non è né africano né europeo, e lui stesso a volte fatica a riconoscersi. Io mi ritengo fortunato e sento di dovere tutto all’Africa, all’istruzione e alla formazione che ho avuto là.

Hai compiuto tutti i tuoi studi in Senegal o anche in Italia?

Ho studiato in Africa e iniziato anche l’Università, ma non l’ho finita. Una volta in Italia, non ho proseguito gli studi, perché non percepisco il riconoscimento del mio bagaglio culturale e perciò ritengo che non mi serva un titolo “vuoto”.

Pensi che le strutture di accoglienza siano adeguate a fornire effettivamente accoglienza?

Il centro di accoglienza mette in pratica quello che c’è nel bando della prefettura, quindi l’impostazione viene dall’alto. Bisogna però capire se si vuole accogliere o no e, soprattutto, per quale motivo accogliere? C’è una grande differenza: se mi accogli in casa tua per una notte e al massimo mi lasci la colazione è un conto, se mi accogli per la notte e poi vuoi farmi fare un lavoro è diverso, devi restare a spiegarmi come si fa, rimanere presente.

Lamine all’evento del lancio dell’edizione 2018 del concorso Tirafuorilalingua.

Cosa può fare un normale cittadino per accogliere?

Tanti normali cittadini già accolgono. La nonna mi diceva che noi non siamo tutti sensibili allo stesso modo. La formazione culturale e intellettuale fa sì che non abbiate nelle vostre corde l’accogliere un africano. C’è una sorta di senso di superiorità, perché dal momento in cui ci si pone in alto e quindi si guarda l’altro da sopra, si definisce l’altro come vittima. Non tutti però si sentono vittima, ognuno ha la propria sensibilità e il proprio modo di vedere le cose in questo caso.

La situazione odierna deriva dal fatto che l’Africa per molto tempo è rimasta immobile. Ricordo benissimo il mio professore di terza media, quando per spiegare la Rivoluzione Industriale ha introdotto l’argomento con queste parole: “mentre l’Africa è affetta da immobilismo, l’Europa affronta una crescita economica senza precedenti”.  Da quel momento ho iniziato a farmi domande su questo immobilismo africano: dall’Indipendenza fino ad ora che cosa si è fatto? Nel 2018 il Senegal ha ancora il programma scolastico che era stato imposto dal colonizzatore! E come mai nelle scuole europee la schiavitù si insegna in modo marginale? Per quanto riguarda i campi di concentramento nazisti tutti si fermano a riflettere, ne mantengono la memoria in una giornata precisa, mentre per la schiavitù non accade niente di tutto ciò. Sai quanti anni, quanti secoli è durata la schiavitù, e quante persone sono morte per questo motivo? Questi dati non vengono approfonditi.

Il discorso è abbastanza semplice: ai dirigenti europei in fondo conviene che le cose stiano in questo modo, se no poi non possono parlare d’altro. Come fai a vincere le elezioni senza parlare di immigrati? Ai governi africani d’altra parte conviene che la forza lavorativa emigri, almeno i dittatori non li butta giù nessuno. Ho un solo desiderio: ai dirigenti africani che vorrebbero comprare armi, date i vaccini.

In copertina: Dia Mouhamadou Lamine alla premiazione del concorso letterario Tirafuorilalingua 2017.

Tutte le foto sono state gentilmente fornite dall’intervistato, tutti i diritti riservati.

Spiriti danzanti dietro le maschere africane

È un afoso pomeriggio di fine Agosto tra le vie di Dakar; mio nipote Ndiaw ed io passeggiamo soprappensiero, divincolandoci tra le bancarelle stipate di donne dalle formosità abbondanti del mercato di HLM e chiacchierando del più e del meno ci gettiamo nel quartiere successivo. Improvvisa boccata d’ossigeno: il caos delle voci di bancarellisti che trattano il prezzo in un infinito waχale s’interrompe e i vicoli tornano a essere percorribili, inaspettatamente quasi deserti.

Danze rituali in Ruanda

Faccio appena in tempo a chiedermi dove siano i bambini che riempiono dei loro giochi quasi ogni angolo di quest’immensa città, quando da un vicolo trasversale arriva un allegro e agitato vociare; infilo la testa nella stradina rumorosa e tra il polverone sollevato da decine di piedini scuri che scappano e grida di divertito spavento, vedo una massa di stracci e filamenti di corteccia rossa che si erge al di sopra di tutti quei corpicini vestiti di tuniche bianche. Una mano scura copre i miei occhi e il mio corpo è trascinato lontano; mentre cerco di divincolarmi dalla presa e tornare ad assistere allo spettacolo, una spiegazione giunge alle mie orecchie: non posso partecipare al rituale per almeno due motivi, sono una turista e sono donna.

Conosco bene il nome della maschera che il mio sguardo ha appena intravisto: il kankouran, evocato dalle madri ogni volta che un bambino combina qualche disastro o fa capricci; la versione senegalese del nostro babau, che porta via con sé i monelli di casa. La sua missione per le strade della capitale è però ben diversa, rievocando una tradizione mandinga, ancora forte nelle regioni di Mbur e della Casamance e che accomuna Senegal e Gambia: il kankouran arriva al termine del mese d’isolamento che segue al rito della circoncisione, incarnando l’ordine e le regole sociali ed esorcizzando le paure che accompagnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta; un corteo munito di bastoni, cui si mescolano gli spiriti dei nuovi circoncisi, lo accompagna al ritmo di tamburi sciamanici e nessuno dei membri che lo compongono osa alzare lo sguardo agli occhi del kankouran, che celano antichi segreti.

Sfilata di kankouran in Casamance [ph. Dorothy Voorhes CC BY-SA 2.0 Generic]

Di queste tradizioni è ricca l’intera Africa subsahariana, che proprio nel mascheramento riversa buona parte dei più antichi significati spirituali: i travestimenti, infatti, riservati a pochi uomini che godono della forza morale necessaria ad avere il privilegio di vestirsene, servono a evocare spiriti presenti e passati, energie che si celano dietro immagini simboliche; chi li indossa rinuncia alla propria identità, assumendo quella del soggetto o del significante rappresentato dalla maschera posta sul volto.

Numerosissime sono le raffigurazioni di animali, più o meno stilizzate: tra le più maestose, il serpente Bansonyi della Guinea, nato in seno all’etnia Baga, che alto fino a 2 metri, custodisce lo spirito del villaggio, protegge dal male e dona prosperità; le antilopi Bambarà, usate durante le danze tyi-wara in Mali, sono legate invece all’agricoltura, favorita dallo spirito di quest’animale erbivoro; acquatici sono i soggetti delle maschere Ijo, etnia nigeriana stabilizzata sulla costa del delta del Niger, che rappresentano in modo stilizzato teste di pesci; uno degli animali più gettonati, infine, è il bufalo, simbolo di forza virile, rappresentato in tutto il continente e soggetto prediletto delle maschere policrome dei Douala, in Camerun.

Non meno diffuse sono le rappresentazioni astratte o antropomorfe; impossibile non citare come esempio del primo caso le maschere nwantantay dei Bwa del Burkina Faso, che rappresentano in forme puramente astratte gli spiriti volanti e senza volto della foresta, ma anche le maschere a forma di torre degli Idoma di Benue State, in Nigeria. Maschere rappresentanti volti umani si incontrano con stili diversi in tutto il continente: dagli ovali bombati degli Yoruba nigeriani e dei Makondé della Tanzania, alle maschere elmo dei Batetela del Congo, dei Bayaka dello Zaire, dei Bobo del Niger. Molte di queste maschere, si accompagnano a indumenti che celano le fattezze umane e sono utilizzate in danze rituali che accompagnano eventi sociali, momenti della tradizione e riti d’iniziazione.

Da sinistra a destra: Maschera Bwa, Burkina Faso, rappresentante una civetta [ph. Raccolte Extraeuropee del Castello Sforzescho / CC BY-SA 3.0] Maschera Bobo, Burkina Faso, rappresentante un’antilope [ph. Sailko / CC BY-SA 4.0 International] Maschera Dogon, Mali, rappresentante una lepre [ph. Raccolte Extraeuropee del Castello Sforzesco / CC BY-SA 3.0]

Molte delle tradizioni dell’Africa ancestrale, si sono perse nella morsa di colonizzazione e decolonizzazione, ma grazie soprattutto all’attenzione rivolta alle maschere africane dal movimento cubista, il valore dell’arte subsahariana è stato rivalutato, sebbene talvolta il significato veicolato sia stato travisato in favore dei gusti di un pubblico si acquirenti. Di contro, la tradizione del carnevale europeo è stata assorbita da questi popoli, già dediti ai festeggiamenti in maschera, e non è forse un caso che la patria del Carnevale più famoso al mondo, Rio de Janeiro, sia caratterizzata da una popolazione nata dalla mescolanza storica di indios, europei e africani.

Nel continente africano non si contano i giorni e i colori delle feste di carnevale introdotte dai coloni: il più maestoso è sicuramente quello di Calabar, in Nigeria, caratterizzato da cortei fastosi e culminante nella premiazione della maschera più bella; mentre tra i più duraturi spiccano quelli delle capitali di Angola, Mozambico e Guinea, che per una settimana si riempiono giorno e notte di acrobati, maschere e giocolieri. In Costa d’Avorio, il Popo Carnaval è stato introdotto da reduci dell’esercito francese; quasi tutte le ex colonie portoghesi organizzano sfilate carnevalesche nei giorni di festa del patrono locale; in Sud Africa, a Città del Capo, il Minstrel Carnival, il giorno dopo la festa di Capodanno, rievoca i festeggiamenti degli schiavi, nell’unico giorno di libertà concesso loro dai padroni bianchi.

Danzatrici nigeriane a Calabar, River State, Nigeria. [ph. Akintomiwaao / CC BY-SA 4.0 International]
In copertina: Maschere antropomorfe Edo, Benin State, Nigeria. [ph. Sailko/CC BY-SA 3.0 Unported]

Touba, città di fede e resistenza

È già notte inoltrata quando mio nipote Ndiaw mi avvisa che è ora di raccogliere le nostre cose e partire per Touba. Mentre chiudo il libro tra le cui pagine ingannavo l’attesa, lancio un ultimo sguardo alla sagoma di Cheikh Ibrahima Fall, riprodotto in carboncino quasi a grandezza naturale sulla parete della stanza: il suo corpo possente rimane quello di un gigante anche nella ventina di centimetri che il ritrattista ha tolto alla sua altezza, la veste nera di una povertà spiazzante diventa maestosa in virtù della massa muscolare che riveste e la verticalità delle sue pieghe indirizza lo sguardo a posarsi sul volto, capace di esprimere la severa serietà della sua fede e al contempo l’idea di un sorriso.

Cheikh Ibrahima Fall (1855-1930), detto anche Lamp Fall (Lampada della Fede) con il titolo Babul Mouridina (Porta del Mouridismo) per essere stato il primo discepolo di Cheikh Ahmadou Bamba. Strinse con lo Cheikh un Diebelou, un patto che lo rendeva servo del Maestro prescelto, per il qual lavorava incessantemente; il suo esempio ha dato vita al movimento dei Bayefall: essi vivono seguendo le tradizioni precoloniali senegalesi, in comunità dove è bandito l’individualismo e lavorando gratuitamente la terra, dissodando ogni anni ettari di terreno destinati alla coltivazione di miglio e arachidi.

In quelle labbra appena arricciate verso l’alto, in quegli occhi luminosi si legge ancora la vivacità del giovane scapestrato che correva nel villaggio di Ndiaby Fall, approfittando spesso della straordinaria forza dei suoi grandi muscoli per creare un po’ di scompiglio, ma c’è soprattutto la serenità quasi ultraterrena di un uomo che per tutta la vita ha portato avanti una scelta radicale: spogliarsi dei beni della ricca famiglia e farsi servo di un Santo. È forse questa contraddizione tra la ferocia adolescenziale e la mansueta umiltà, che nell’82 lo mise in cammino alla ricerca di Cheikh Ahmadou Bamba Mbacké, a fare di lui la guida prescelta da tanti giovani senegalesi, un modello per chi, ancora pieno di vita, fatica a onorare i ritmi di una religione che chiede la rinuncia a ogni vizio e la costanza di una preghiera quotidianamente scandita.

Persa in queste riflessioni, seguo Ndiaw fuori casa, soffermando lo sguardo sulle innumerevoli riproduzioni di Cheikh Ibrahima Fall e del suo Maestro che decorano i muri delle case, le vetrine dei negozi, persino la carrozzeria dei veicoli per strada; seppure è vero che Dio stesso lo esautorò dalle cinque preghiere del giorno e dal digiuno del Ramadan, anche i mussulmani più tradizionalisti chinano il capo di fronte a quest’uomo, il cui canto sempre votato ad Allah saliva al cielo dai campi dove lavorava senza posa. Sotto una di queste immagini, ci fermiamo dal venditore appisolato tra il tepore che promana dalla grossa pentola di ghisa al suo fianco; i suoi occhi ciechi si schiudono appena il tempo di versare due tazze di caffè touba e sorridere ancora una volta di questa madame bianca che non vuole zucchero a lenire la piccante amarezza della bevanda, mentre con gesti da giocoliere aggiunge dolcificante per Ndiaw, travasando ripetutamente il liquido tra due tazze. Un’ultima sigaretta e saliamo sul bus che ci porterà a Touba.

Diversi oggetti tipici della tradizione senegalese precoloniale sono oggi simbolicamente legate alle figure dei Bayefall. Nella foto, accanto ad alcune immagini iconografiche di Cheikh Ibrahima Fall e Cheikh Ahmadou Bamba, si vedono appesi gli umili monili che spesso si trovano al collo dei Bayefall. I collari in pelle ricordano la scelta di povertà di Cheikh Ibra Fall, che indossava gli stessi abiti fino alla loro totale usura, quando di essi non restava altro che il collo; i colori intrecciati alla pelle nera permettono di identificare la guida spirituale prescelta dal Bayefall che li porta. Sulla destra, due cruss: anziché rispettare le cinque preghiere quotidiane, i Bayefall pregano recitando, anche più volte al giorno, il rosario mussulmano, scorrendo le perle in ebano senegalese.

All’arrivo, a svegliarmi è la mano di Ndiaw che stuzzica il mio viso; il sole ancora non si è fatto strada in cielo e noi ci avviamo, guidati solo dalla fioca luce delle ultime stelle, in direzione della moschea. Abbiamo appena il tempo di toglierci le scarpe e iniziare a godere del fresco sollievo del marmo che corre tutt’attorno all’edificio, quando i primi raggi di luce iniziano a infiltrarsi tra i vetri colorati delle finestre della più grande moschea subsahariana e la voce del muezzin rompe il silenzio della notte. Tra il vibrare del canto di chiamata alla preghiera e l’arcobaleno di luce che si dipinge ai nostri piedi, i nostri cuori ammutoliti trovano raccoglimento e le menti non possono che restare basite di fronte alla magnificenza non solo di questo luogo, ma più ancora della storia sua e del suo fondatore. Touba è simbolo non soltanto di fede, Touba è simbolo di pace e libertà: la sua moschea, inaugurata nel 1963, sorge come coronamento di una vita, quella del suo fondatore Cheikh Ahmadou Bamba, che è sì esempio d’ascetica preghiera, ma anche e soprattutto di resistenza non violenta.

Nato nel 1853 in una famiglia d’illustri mussulmani e consiglieri di MBacké Baol, a soli trent’anni Cheikh Ahmadou Bamba divenne una tra le più ascoltate guide spirituali del Senegal, fondando la Mouridiya, la Via dell’Imitazione del Profeta. Le autorità francesi, impegnate a imporre sulla colonia una nuova forma di dominio basata sull’assimilazione culturale, furono presto intimorite dalla forza predicativa di questo marabutto, che attirava folle di fedeli nella neonata città di Touba, e già nel 1895 ne disposero l’arresto, senza riuscire a piegarne la volontà: fin dal suo primo colloquio con il Governatore di Saint-Luis, infatti, Ahmadou Bamba diede prova del suo rifiuto a sottomettersi, prostrandosi in direzione della Mecca per rivolgere la sua preghiera ad Allah dentro l’ufficio del Governatore stesso. Fu così disposto il suo esilio prima a Mayumba, in Gabon, nella speranza che la malaria portata dalle mosche che infestavano la regione ponesse fine alla sua esistenza, poi sull’isolotto di Wir Wir che veniva sommerso dall’alta marea, ma da cui Cheikh Ahmadou Bamba fece miracolosamente ritorno prima ancora dei suoi trasportatori, approdando sulla spiaggia di Mayumba dove lo aspettava un plotone d’esecuzione, che però rifiuto di colpirlo perché preso dal panico alla vista di angeli che montavano cavalli. Si dispose allora il suo arresto nel carcere Lambaréné, nel nord del Gabon, dove rimase per cinque anni, e poi un nuovo esilio nel 1903 in Mauritania, dove gli stessi che dovevano essere i suoi carcerieri si prostrarono ai suoi piedi e chiesero per lui il rimpatrio. Confinato prima nel villaggio di Thiéyenne e poi a Diourbel, Cheikh Ahmadou Bamba fu riabilitato dalle autorità francesi solo nel 1916, quando il Governo dell’Africa Generale dispose di farlo entrare nella propria orbita d’influenza, offrendogli il titolo di membro del Comitato Consultivo degli Affari Mussulmani; onorificenza che lo Cheikh rifiutò, evitando di presentarsi mai in assemblea. Trascorse i suoi restanti undici anni di vita seguendo l’esempio del Profeta Muhammad e istruendo alla via della Mouridiya, attraverso le numerose trascrizioni di testi richieste ai suoi discepoli, primo tra tutti Cheikh Ibrahima Fall.

Sulle navi dei coloni la preghiera mussulmana era proibita, in vista di una totale sostituzione della fede islamica con quella cristiana all’interno dei territori conquistati. Cheikh Ahmadou Bamba (anche chiamato Khadimou Rassoul, il Servo del Messaggero), imbarcato sul piroscafo Ville de Pernambouc diretto in Gabon, non si oppose alla legge dettata dal comandante: non potendo assolvere al dovere della ṣalāt (la preghiera quotidiana ripetuta cinque volte) sull’imbarcazione, egli stese il tappeto di preghiera direttamente sulle acque dell’oceano.

Cent’anni dopo, il nome di Cheikh Ahmadou Bamba mette ancora in moto centinaia di senegalesi di ogni età, che ogni anno invadono le strade verso Touba per ringraziare Allah d’aver preservato l’Islam dalla forza distruttrice dei coloni; ogni anno le vie attorno alla città si riempiono di auto che procedono a passo d’uomo, motorini che sopportano tre, quattro adolescenti per volta, carretti che sfidano la fisica resistendo alle imperfezioni della strada e piedi che camminano indifferenti a polvere e fatica: è il Magal, la festa del rispetto e della celebrazione della magnificenza di Dio. Noi arriviamo a Touba in un giorno di relativa quiete, eppure qui le occasioni per una preghiera collettiva non mancano mai; tra qualche giorno sarà Tabaski, la più importante festa mussulmana, e i bayefall, i nuovi discepoli di Cheikh Ibrahima Fall, preparano gli animi attraverso il Magal Darou Salam, la festa Portatrice di Pace. Arriviamo in centro a Touba guidati dal profumo di carni che bruciano sui grandi falò di ebano, misto all’aroma dell’immancabile caffè, e trascorsi pochi minuti, ci raggiunge anche il suono dei primi sabar ad annunciare l’arrivo del taalibé che sarà a Touba quest’anno; ci alziamo in fretta per non essere travolti dalla folla danzante al ritmo dei tamburi, che si mescolano al tintinnare delle monete gettate in offerta nelle grandi calebasse che gli uomini agitano tra le mani, mentre giovani bayefall mostrano la forza e la tenacia della loro fede fustigando i muscoli scuri con mazze di legno pesante e affilate sciabole, la cui lama non oltrepassa mai l’invincibile pelle del fedele.

Mentre lo sguardo si perde, tra l’aleggiare di questi tessuti rattoppati con stoffe colorate, in memoria della scelta di povertà portata avanti dai due Sceicchi di Touba, l’animo inizia a distendersi nell’attesa d’ascoltare le preghiere che il califfo reciterà e si lascia trasportare dalle parole del canto di ringraziamento che i bayefall innalzano al cielo: « La ilaha illa Allah! Djeredjeuf Mame Bamba! Djarama Cheikh Ibra Fall! (Non c’è divinità se non Dio! Grazie Ahmadou Bamba! Grazie Ibrahima Fall!)».

Oltre ai cruss e alle immagini iconoclastiche, caratteristiche tipiche dell’aspetto dei Bayefall sono i capelli che liberamente prendono forma di dreadlocks, in memoria della scelta di Cheikh Ibra Fall di non tagliare i propri capelli se non quando Cheikh Ahmadou Bamba glielo avesse chiesto, e gli abiti ndiakhaas, vestiti composti da toppe (99 più una, come i nomi di Dio) e costituiti solitamente da due pezzi: i larghi pantaloni thiaya e la lunga tunica stretta da un alta cintura (zikar). Diverse sono le occasioni che spingono i Bayefall a incontrarsi in raduni più o meno numerosi; tra le attività principali di queste occasioni, vi sono la raccolta di offerte, poi devolute ai Califfi, e il canto: in gruppo e battendo il tempo con i piedi, spesso nudi, intonano gli zikar, canti della tradizione wolof, caratterizzati dalla ripetizione del nome di Dio e di ringraziamenti a Lui rivolti. [ph. Grazia De Laurentis /tutti i diritti riservati]
In copertina: Moschea di Touba (Fonte: Franco Visintainer/CCBY3.0)

Musica di conchiglie e desideri da ostrica sulla Petit Côte

Arriviamo a Mbur sul far della sera, macinati chilometri di asfalto impolverato di terra rossa a bordo di una station wagon da 10 posti, caricata di valigie e umani raccolti in una stazione autobus ai bordi di Dakar. Tra questi umani, Hamadou ed io, in cerca di una pausa dal caos della capitale nelle oasi della Petit Côte, che da Dakar si allunga fino ai confini con il Gambia, ci accoccoliamo nei posti più stretti sul fondo dell’auto, dove è possibile sonnecchiare tenendo un occhio sui bagagli, che a ogni cambio di passeggeri per cui più volte interrompiamo il viaggio, rischiano di esser dimenticati in strada o consegnati alla persona sbagliata.

Ci fermiamo in un parcheggio autobus non molto diverso da quello di partenza, senza un’idea precisa su dove alloggeremo: un amico di Hamadou lavora in città e accoglie il nostro arrivo con una naturalezza, che contrasta lo stupore sul suo viso, ma conferma le nostre speranze ben riposte. Veniamo guidati in vicoli stretti, i cui residenti si affacciano a osservare i nuovi arrivati dalla pelle così chiara, fino a sbucare su una via leggermente più ampia, dove sta la casa del nostro ospite, in tutto simile a quelle che l’affiancano. All’interno, molte stanze abitate da senegalesi sorridenti e gentili, che qualche giorno dopo copriranno le mie braccia di braccialetti come souvenir; docce ampie rinfrescanti e l’afa del giorno che qui non sembra trovare riposo. Salendo le scale, troviamo la pace per cui abbiamo lasciato Dakar: il tetto è un ampio terrazzo, coperto da una volta di stelle che solo il buio e il silenzio di certe notti africane riescono a far risplendere. Chiediamo di poter dormire qui e il nostro ospite, tra lo stupito e il divertito, allestisce per noi una stanza all’aperto.

Pochi minuti dopo l’alba a Mbur, Senegal
Saly, nella regione di Thiès, sulla Petit Côte del Senegal

Il nostro idillio d’oscurità e quiete è presto infranto dalla prima chiamata alla preghiera del muezzin, diffusa da un altoparlante sul tetto della moschea non molto distante da noi, che ci avverte dell’imminente arrivo dei primi raggi di sole, che presto si abbattono sulle nostre palpebre ancora semi chiuse. Ne approfittiamo per avviarci presto verso sud, lungo la costa oceanica di Saly, che è un susseguirsi di spiagge di granelli finissimi, su cui si affacciano resort massicci ed eleganti, dove scoviamo caffè italiano con cui far colazione. Prima che il sole sia troppo alto, cerchiamo un taxi e in meno di un’ora ci troviamo all’ingresso di un’oasi unica: Joal Fadiouth, l’isola creata dall’etnia serere, allontanata dalle sue terre forse dai berberi Almoravidi, forse dall’invasione da parte dell’Impero Kaabu.

Per accedere, è necessario acquistare un lasciapassare, che permette la traversata sull’ampio ponte di legno che collega l’isola alla terraferma e offre, incluso nel prezzo, la compagnia di una guida locale; a tale scopo, ci viene chiesto da dove veniamo, perché qui a Joal per qualsiasi lingua parlata, c’è un residente capace di esprimervisi. La difficoltà di descrivere il paesaggio che si mostra dai corrimani del ponte, sta nella sintesi perfetta già raccolta nel soprannome di Isola delle Conchiglie, attribuito a Joal: tutto ciò che la vista coglie è “conchiglia” nella sua essenza, dagli edifici costruiti impastando gusci di mollusco tritati, conservati a tale scopo in mucchi agli angoli delle strade, fino alle strade stesse; l’intera superficie dell’isola è infatti creata artificialmente accumulando da secoli conchiglie diligentemente svuotate e conservate. La nostra guida ci spiega che è questo uno dei motivi del lasciapassare, che permette un monitoraggio del numero di persone presenti sull’isola, evitandone l’affossarsi per sovraffollamento. Altrettanto importante è ovviamente l’aspetto economico, essendo il turismo una delle maggiori risorse di Joal, ma anche da questo punto di vista, la conchiglia rappresenta il cardine di questa comunità: accanto alla pesca, infatti, la raccolta dei molluschi, oltre a rappresentare la base dell’alimentazione, è il baluardo del commercio culinario.

Il ponte da cui si accede all’isola di Joal-Fadiouth
Joal-Fadiouth, l’Isola delle Conchiglie, nella regione di Thiès, Senegal

Se un’immagine fotografica può riuscire a trasmettere un’idea del candore che il riflesso del sole attribuisce al bianco dell’isola, solo passeggiando per le sue vie è possibile godere della melodia prodotta dallo scricchiolio dei gusci sotto i propri passi, al ritmo dei propri passi. È forse questo suono che arriva direttamente dal terreno che spinge a parlare abbassando un po’ la voce, spostandosi in una dimensione più raccolta e quasi fiabesca; assaporata e fatta propria questa nuova dimensione, si è nello spirito adatto a cogliere la poetica vista del cimitero di Joal.

Disposto su una seconda isola, di dimensioni più ridotte e collegata alla prima da un ponte più stretto, il cimitero è reso unico dal fatto di essere a religione mista: i ¾ della sua superficie sono come ammantate da un susseguirsi di croci bianche identiche tra loro, difficili da guardare nelle ore più calde, quando lo sguardo preferisce spostarsi sulle nere lapidi musulmane, tutte rivolte verso la Mecca, cui è destinata la restante parte del cimitero. Questa piccola isola, racchiusa in un paese musulmano, al cui primo presidente Sédar Senghor ha dato i natali, ha una popolazione al 90% cristiana, un’eccezione originata dalla penetrazione missionaria del XXVII secolo. È questo anche il motivo per cui, nelle ore di bassa marea, maiali allevati dai residenti cristiani sono lasciati sfamarsi del pattume organico lasciato per loro sulle coste.

Ponte che collega l’isola principale di Joal-Fadiouth all’isola minore che funge da cimitero
Croci cristiane nel Cimitero di Joal

Lasciata l’incredibile poesia dei paesaggi di Joal Fadiouth, sappiamo che solo la natura delle oasi più a sud può eguagliare la bellezza impressa nelle nostre iridi; nostra nuova meta è il Sine-Saloum, regione a nord del Gambia che prende il nome dal corso di fiume che la attraversa e che crea in prossimità dei suoi confini occidentali un labirinto di oltre 200 isole. Anche qui il nostro ingresso è vincolato a una guida locale, che trascina la mia mente in un volo pindarico tra mitologia greca e poetica dantesca: accogliendoci sulla sua piroga, infatti, il nostro traghettatore ci trasporta tra corsi del delta del Saloum, in cui si gettano le radici delle mangrovie, a fungere d’appiglio per le larve di ostrica. Appena cresce il guscio, ostricoltori locali spostano i giovani molluschi negli allevamenti, protetti degli europei golosi che ne hanno quasi provocato l’estinzione.

Cullati dall’acqua e rapiti alla vista degli stormi variopinti che vediamo muoversi sopra le nostre teste e poi adagiarsi sui vegetali che affiorano in superficie, Hamadou ed io quasi non ci accorgiamo che la piroga ha accostato alle mangrovie e il traghettatore ci sta invitando a scendere: siamo arrivati nel cuore magico di quest’angolo di Senegal, dove si nasconde un baobab che finge di essere una mangrovia. Come indicatoci, avvicinandoci scegliamo un guscio d’ostrica cui sussurrare un desiderio; un desiderio da lasciare qui, sui rami di questo baobab alto forse mezzo metro, nella speranza che le sue radici profonde possano farlo arrivare lontano.

Stormi d’uccelli nel Parco Nazionale del delta del Saloum, Senegal
Baobab, ricoperto di gusci d’ostrica, che si nasconde tra le mangrovie del delta del Saloum, Senegal

Nei mercati di Dakar tra ebano senegalese e bijiouterie

A restarmi impressa dal mio primo viaggio a Dakar, c’è un’osservazione che trova conferma a ogni ritorno in città, quasi a rassicurarmi che a ogni rientro ritroverò sempre la stessa umanità accogliente: qui sembra che tutto avvenga in strada, alla luce del sole.
Il pensiero mi ha sopraffatta alla prima delle passeggiate chilometriche che riempiono i miei giorni senegalesi, una volta riuscita a sbucare dal fitto intrico creato dalle bancarelle del Marché HLM e avviatami in Boulevard du General de Gaulle, su cui si affaccia Place de l’Obelisque e che sbuca nei pressi della Grande Moschea, attraversando longitudinalmente il centro della capitale.
Lungo tutta l’estensione del viale, di per sé ampio, i marciapiedi sono ingombri delle più svariate attività: dallo sfrigolare della carne d’agnello dalle macellerie dove sta appesa, ai pianti delle bambine sedute a farsi intrecciare i capelli dalle abili dita delle coiffures; dai beni come straripati dalle stipatissime boutique, agli pneumatici di ricambio dei meccanici. A colpire il mio sguardo furono soprattutto i mobili d’arredo, venduti anch’essi ai margini delle strade, adagiati sulla nuda terra dei marciapiedi; a calamitarmi fu la vista del lavoro, svolto alle spalle del mobilio già finito: i falegnami trasportano, infatti, grandi pezzi di legno dalle forme già abbozzate direttamente in centro città, dove le intagliano e piallano secondo le richieste degli acquirenti, che personalizzano così forme e colori dell’arredo di casa.
Ai miei occhi europei, la possibilità di avere un mobilio su misura sembra uno straordinario lusso, ma qui anche nella più umile delle case è possibile trovare un letto o un divano intagliato a mano, mentre alle tipiche sedie africane, diventate un must nell’arredo etnochic, è riservato lo stesso trattamento destinato in Europa alle sedie pieghevoli: usate in spiaggia, nei cortili o come sedute di scorta, rappresentano infatti il mobilio povero del paese.

Il legno, usato in Senegal fino ai giorni nostri nella costruzione di strutture che richiamano le forme delle capanne tradizionali, destinate principalmente alle adunanze collettive o a soddisfare le aspettative dei turisti, è una delle risorse di cui il paese è più ricco. Moltissimi oggetti, anche di uso quotidiano, sono tutt’oggi fabbricati in questo materiale: oltre a sedie e sgabelli, numerosissimi sono gli utensili da cucina tradizionali, come mortai e pestelli rigorosamente in legno, o le immancabili calebasses, ciotole ottenute dalle zucche svuotate.
Accanto alle elastiche palme bentamaré e al resistente bambù, alle acacie resinose e agli antichi baobab, cresce qui il granatiglio nero, l’ebano senegalese, in cui al tipico colore nero si intrecciano fibre che vanno dal bianco al rosso. Impiegato principalmente a scopi estetici, è il materiale più diffuso sulle bancarelle destinate ai turisti: nel Village Artisanal Soumbédioune, affacciato sull’oceano, è ad esempio possibile ammirare l’arte d’immaginare maschere variopinte e imprimerne le espressioni nel materiale legnoso, conservatasi dalla tradizione animista e trasposta in oggetti moderni. Statue e gioielli, scatole e oggetti d’uso sono intagliati, lucidati e laccati da gesti rapidi, nascosti tra le capanne chiuse nel cuore del mercato, dove il legno entra grezzamente ricamato di venature policrome ed esce con forme lisce ben definite.

Sono gli stessi artigiani/artisti di Soumbédioune a raccontarmi che i loro lavori d’intaglio più ispirati sono riservati a una categoria di oggetti che di moderno ha poco, se non la capacità di reiterare nel tempo il richiamo dei ritmi che risuonano nelle terre d’Africa: le loro cure più attente sono dedicate agli strumenti musicali tradizionali, la cui vibrazione si muove a tutte le ore nel vento di Dakar. Accanto a una batteria di percussioni difficili da distinguere per occhi e orecchi inesperti (ad esempio: sabar, neunde, tama, thiol), la musica tradizionale senegalese, tra cui spicca l’intramontabile mbalakh, è caratterizzata dalle armonie di kora (arpa a 21 corde) e balafon (xilofono con lamine di legno ricoperte di cuoio), entrambi ricavati dalle calebasses.
Perché questi strumenti della tradizione possano emettere il suono della loro vibrazione, è necessario che al lavoro degli intagliatori si accosti l’opera di un’altra categoria di artigiani, altrettanto versatile e intramontabile: quella dei lavoratori del cuoio, la cui maestria fa mostra di sé fin dall’esalazione dell’animale, spesso un montone ucciso reiterando i gesti di Abramo all’atto di sacrificare il figlio, da scuoiarsi prima che la pelle si raffreddi indurendosi. Quasi in un unico gesto, lo scuoiatore recide il capo dal corpo, apre il ventre, taglia i tendini e separa lo spesso strato cutaneo dai muscoli fibrosi, stendendolo ad asciugare al sole. La produzione ricavata dalla lavorazione delle pelli non è diversa da quella di qualsiasi conceria: oltre agli strumenti musicali, borse e calzari, selle e finimenti.

Tra i compiti dei conciatori, vi è anche quello di predisporre la pelle a un uso squisitamente africano, che ha radici nella tradizione vudù: moltissimi senegalesi indossano, infatti, i gri-gri, ossia amuleti costituiti da buste di piccole dimensioni, braccialetti o cinture rivestiti di cuoio, da tenere a contatto con la pelle per godere della loro protezione. Recentemente, l’abilità artigiana di lavorare il cuoio in gioielli e monili è stata applicata anche a ornamenti privi di poteri esoterici e alternata all’uso di stoffe colorate che imprimano uno stile esotico.
Come per l’arte povera in legno, gli acquirenti prediletti per questi monili, venduti sui banchi dei mercati artigianali da Sandaga a Colobane, sono senegalesi nostalgici migrati all’estero e, soprattutto, turisti stranieri; i senegalesi, infatti, pur possedendo spesso di questi manufatti, scambiati come beni di poco valore, prediligono gioielli in metallo a ornare le loro pelli scure. Enormi orecchini dorati, pesanti bracciali laccati, collane di perle intrecciate con rame e argento, da cingere al collo e alla vita, straripano dalle boutique dei mercati meno turistici come Ouakam, Parcelles Assainies e HLM. Tra una bancarella e l’altra di bijiouterie scadente, si affacciano le piccole botteghe artigianali che lavorano i metalli di valore, cui la popolazione locale commissiona gioielli, spesso dotati degli stessi poteri mistici dei gri-gri. Caratteristici sono i bracciali d’argento incisi con il nome del portatore o gli anelli molto alti, finalizzati a contenere piccole inscrizioni; tradizionalmente destinati agli uomini, spesso servono a proteggere chi si mette in viaggio e ad assicurarsi che torni a casa.

In cerca di birrette nei Paesi dell’Islam

«Ho sentito bar? Siete stati in un bar?» mia cognata mi guarda esterrefatta, mentre racconto uno dei tanti episodi capitati la sera a Dakar. Per lei, un’ultracinquantenne senegalese, giovanile e in splendida forma, sentirmi parlare di “bar” nella sua terra natia, oltretutto in compagnia di nostro nipote, è sorprendente: già immagina fiumi di alcol, prostitute e ubriaconi. Eppure qui in Italia, dove vive, non si fa certo problemi a ordinare un cappuccino a un bancone!
Mi affretto a rassicurarla: il mio racconto è ambientato in un locale “alcol free”, per dirla in modo trendy, “tradizionalista”, a voler essere più corretti; situato dalle parti di Almadies, tra le aree di Dakar che più hanno investito su turismo e divertimento, presentandosi anche nell’aspetto quanto più possibile simile a una realtà europea. «Ci hanno portato liste di succhi di frutta a dei prezzi livellati a quelli dei cocktail delle discoteche occidentali, tra gli 8 e i 10€; – spiego- allora abbiamo chiesto se potevamo avere qualcosa da mangiare. Essendo considerato un contorno, un piatto di patatine fritte costava solo 1000 cfa (circa 1.50€): ne abbiamo ordinati quattro con una bottiglia d’acqua e abbiamo speso meno che per un bicchiere di succo!»
Un’esperienza simile mi viene riportata da Beatrice di rientro dal Marocco, più volte ritrovatasi a elencare la lista delle proprie allergie, nell’impossibilità di comprendere gli ingredienti dell’incredibile varietà di frullati dei locali marocchini: «Tutti buonissimi, ma anche molto costosi! E la sera che siamo andati in una discoteca dove servivano alcol è stato anche peggio: quasi 20€ per un cocktail.»
Nelle famiglie musulmane l’alcol è spesso un tabu, per questo motivo difficilmente le attività che servono alcolici si integrano con quelle della realtà quotidiana e chi vi investe preferisce rivolgere la propria offerta a chi vive in occidente, turisti o espatriati, approfittando dei vantaggi economici del cambio monetario. Tanto in Senegal quanto in Marocco, tè e succhi di frutta fresca sono al centro dei rituali di accoglienza, ma è assolutamente vietato, salvo rarissime eccezioni, introdurre bevande alcoliche all’interno delle case musulmane!

Di fatto, in entrambi i Paesi acquistare alcol a poco prezzo è in realtà molto più semplice di quanto non sembri a una prima occhiata e i consumatori sono più di quanti si pensi. A Dakar le rivendite di alcolici sono principalmente di due tipi: alle stazioni di benzina di grandi dimensioni si trovano negozi simili ai nostri autogrill, forniti di varietà di cibi e bevande confezionati, spesso d’importazione francese; più caratteristici sono invece i piccoli negozi specializzati di quartiere, identici nell’aspetto alle attività vicine, davanti cui non è raro si fermino motorini arrivati da altre aree di Dakar per acquistare alcolici lontano da occhi indiscreti.
È Anna a descrivermi lo stesso tipo di attività in Marocco, scovate nelle vie secondarie di Marrakech: «Non sono negozi troppo in vista e hanno gli alcolici dietro il bancone, non puoi prenderli da solo. Ti vengono venduti in sacchetti appositi, più scuri in modo che non si veda il contenuto; però mi mettevano in imbarazzo perché così era più evidente che avessi acquistato dell’alcol!»
In Senegal la discrezione è la parola d’ordine e i sacchetti sono omologati per ogni tipo d’acquisto: la plastica nera intervallata dalle scritte bianche “Senegal” è in ogni mano che esce da un negozio, in ogni pattumiera, abbandonata in ogni angolo di strada, qualche volta portata alla bocca in un gesto dissimulato.


Il consumo di alcolici è però per lo più circoscritto a contesti notturni, che tanto in Senegal quanto in Marocco sono una realtà piuttosto recente, che le generazioni più adulte conoscono poco. A Dakar i locali che offrono musica la notte sono numerosissimi e d’ogni tipo: dalle costose discoteche della costa di Almadies, da cui ragazze fasciate in tubini all’europea escono correndo in direzione dei taxi, ai bar tanto temuti da mia cognata, frequentati da senegalesi attempati che offrono drink a bellezze più o meno giovani; dai discreti localini in legno a ridosso del mare dove fermarsi a chiacchierare, alle discoteche affacciate sulle spiagge attorno cui ronzano i motorini. Qui protagonista della notte è la bière Gazelle!
Venduta allo stesso prezzo di un litro e mezzo d’acqua (raramente in Senegal si vende il mezzo litro), in virtù tanto della sua bassa gradazione quanto del riciclo del contenitore: rigorosamente in vetro, non è raro che abbia l’etichetta incollata un po’ storta, lasciando intravvedere i residui della precedente, sopravvissuti al lavaggio.

Un’esperienza del tutto particolare è quella che ho avuto la fortuna di vivere a Dakar qualche anno fa, grazie a un amico che ha voluto portarmi a scoprire una realtà che sta ormai scomparendo. Una notte, ci siamo addentrati in un vecchio quartiere cristiano in una delle aree più vecchie e povere di Dakar; per accedervi era necessario scavalcare un basso muretto e scendere sotto il livello della strada, ritrovandosi in un labirinto di baracche in legno con decorazioni colorate. Abbiamo bussato a una delle porte che intervallavano le pareti legnose e questa si è aperta mostrandoci una stanza piuttosto ampia, totalmente ingombrata da una tavolata dove un gruppo di uomini discuteva bevendo birra. La padrona di casa ci ha fatti accomodare, portandoci da bere e prendendo qualche moneta dalle mani del mio amico. È questo il modo in cui un tempo i cristiani più poveri di Dakar riuscivano ad arrotondare: vendendo alcol ai musulmani nella discrezione delle loro case, dove nessuno ha mai considerato scandaloso trovare bevande alcoliche e i peccati dei musulmani potevano restare segreti.

Pedagogie d’altri continenti

«In metro, un bimbo di una ventina di mesi stava seduto sulle gambe della mamma e teneva in mano un gioco di gomma: si divertiva a gettarlo in terra, ridendo per il rumore prodotto, e il papà a ogni tonfo si abbassava a raccoglierlo. In un movimento monotono la scena continuava a ripetersi, il gioco cadeva e il papà si abbassava, ma a nessuno veniva in mente di innervosirsi e sgridare il bambino», un amico di rientro dal Giappone mi racconta di quest’episodio per spiegarmi la libertà totale di cui godono i bambini nel Paese del Sol Levante. Nell’immaginario occidentale, i piccoli giapponesi crescono addestrati fin dall’infanzia a essere parte di una società operosa e produttiva, alle cui regole è imposto sottostare acriticamente; in realtà, in età prescolastica il modello educativo giapponese è tra i più lassisti e liberali del mondo. Ne Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict dà un’immagine grafica di questo modello educativo: l’arco di vita dei Giapponesi segue una curva ad U (contrapposta al modello americano che ha forma Ո), «in cui i massimi di libertà e di indulgenza sono riservati ai bambini e ai vecchi, mentre le limitazioni all’autodeterminazione individuale aumentano lentamente dopo la fanciullezza per raggiungere il punto più basso della curva nel periodo che immediatamente precede e segue il matrimonio».

L’educazione degli infanti avviene quasi totalmente per mezzo di provocazioni psicologiche, di cui la Benedict offre interessanti esempi: «quando un altro pic­cino viene a far visita, la madre in presenza del proprio bambino, si mette a vezzeggiare il piccolo ospite e dice: “Ho intenzione di adottare questo bambino; desidero proprio un bambino così carino e così bravo. Tu invece non ti comporti come dovresti per la tua età” […] oppure la madre dice al bambino: “Tuo padre mi piace più di te: lui sì che è un uomo come si deve”». In questo modo si ottiene il risultato di far sorgere nel giapponese adul­to quel timore del ridicolo e della condanna sociale che è un elemento così tipico della sua mentalità e che trova il suo fondamento nel kimochi-fugi, che Azuma definisce come «la tendenza a dare importanza ai sentimenti degli altri, o a tentare di simpatizzare con i sentimenti degli altri e di percepire le loro intenzioni».

Sempre grazie a questa filosofia, i bambini sono educati a essere membri di una società imperniata sul gruppo, di cui presto dovranno imparare le gerarchizzazioni, riflesse per la loro importanza nel linguaggio quotidiano: le espressioni “fratello” e “sorella” esistono, infatti, in Giappone solo accompagnati da riferimenti all’età, ossia come ani (fratello maggiore) o otōto (fratello minore), ane (sorella maggiore) o imōto (sorella minore).

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Questa gerarchizzazione, data dall’ordine di nascita, che attribuisce un vero e proprio potere, una vera e propria autorità, mi ricorda in qualche modo quello che in Senegal ho osservato essere l’ordine che naturalmente si costituisce all’interno delle famiglie. In tutta l’Africa, l’età è motivo di vanto e la persona anziana considerata più saggia dei successori; questo principio è tanto radicato da diventare significativo anche tra individui della stessa generazione, soprattutto in età infantile, quando ancora non subentrano titoli acquisiti e meriti, a mutare la piramide voluta dalla cronologia di nascita.

Come in Giappone, in Senegal il bambino sotto i tre/quattro anni sembra in qualche modo escluso dalle interazioni sociali, quindi esonerato dalle norme che le regolano: trascorre gran parte del tempo fasciato sulla schiena della madre, viene preso in braccio ogni volta che piange, mangia e dorme quando decide. Crescendo invece, l’infante è tenuto a obbedire a qualsiasi richiesta l’adulto ponga e a rispettarne le regole, ma gode, a differenza dei giapponesi, di totale autonomia nella gestione del tempo libero, anche grazie alla presenza di una comunità priva di pericoli e coinvolta nell’educazione; è tipico veder correre per i vicoli tra le case dei quartieri di Dakar gruppi di bambini che liberamente giocano, entrano ed escono dai cortili, litigano, fanno pace e stabiliscono gerarchie entro le loro microsocietà. Totalmente differente è però l’approccio dei genitori all’educazione scolastica; un’altra similitudine emerge tra Senegal e Giappone: fin dai primissimi anni d’istruzione, fondamentale è il successo scolastico, che viene misurato attraverso una vera e propria classifica di confronto tra compagni di classe. In entrambi i paesi, inoltre, la distinzione tra periodo scolastico e vacanze è molto meno netta di ciò cui sono abituati gli studenti europei: sull’isola asiatica il periodo festivo è impegnato tra club sportivi, attività extrascolastiche e servizi volontari per i comuni; i bambini senegalesi trascorrono invece buona parte delle mattinate estive nelle scuole coraniche, dove imparano il testo sacro attraverso forme di educazione rigide, che non escludono la punizione corporale. Quest’attitudine all’obbedienza prende periodicamente forma rituale nelle cinque preghiere comandate, quando il richiamo del muezzin fa correre le bimbe a coprirsi il capo e i bambini a prendere i tappeti da stendere in direzione della Mecca, senza che gli adulti intervengano a sollecitare.

Le riflessioni pedagogiche sul bambino come adulto, che tanto hanno caratterizzato l’Europa tra ‘800 e ‘900, sembrano aver appena sfiorato la cultura senegalese, in cui i rapporti tra adulti e bambini sono regolati dalla mera interiorizzazione di una gerarchia, che giustifica l’autorevolezza dei primi sui secondi. Di quest’ordine i bambini non soffrono, perché hanno autonoma gestione del tempo non impiegato in attività necessarie. Diverso è il caso dei bambini di strada, numerosissimi a Dakar, che trascorrono gran parte del tempo elemosinando e chiedendo gli avanzi di cibo nelle case, per poi rientrare nella scuola dove l’imam impartirà la lezione coranica; o ancora dei bambini che sui marciapiedi lavorano con le madri, vendendo acqua, frutta di stagione, piccoli dolcetti. Nessuna legge vieta il lavoro minorile né impone un’istruzione obbligatoria, benché a Dakar si trovino moltissime scuole pubbliche.

Alla base delle numerose similitudini tra i due paesi, geograficamente tanto distanti tra loro, sta il comune denominatore di un’idea di società come di una comunità coesa, i cui membri interagiscono collaborativamente tra loro, a formare una sorta di estensione dell’ambito domestico, che si esprime nella creazione di gruppi all’interno della società giapponese e nell’idea del social living senegalese. Caratteristica di entrambi i popoli è il rispetto sempre dovuto all’infante, aldilà dell’estensione della possibilità di rivolgergli richieste. Nel bambino, infatti, entrambe le culture vedono un riflesso dell’adulto che sarà in futuro; entrambe le culture hanno considerazione dell’individuo che racchiude in potenza e che sarà un giorno il punto di riferimento dei genitori che oggi si occupano della sua educazione.

In primis, nel bambino, Giapponesi e Senegalesi vedono la speranza di una continuità nel tempo della stirpe famigliare.

Gni dem Magicland! Andiamo a Magicland!

Le mie mattine senegalesi hanno quasi tutte la colonna sonora di una sveglia polifonica: «Tata Sara! Tonton Pisquo!», dal cortiletto appena fuori la stanza da letto, il ritmo di tanti piedini scuri saltellanti sulle piastrelle richiama gli zii arrivati dall’Europa ad abbandonare l’abbraccio del sonno e accogliere l’arrivo del giorno.

Le membra si stirano, levandosi di dosso gli ultimi strascichi di sogni, e gli arti si allungano fino alla porta, giusto lo sforzo di sfiorare la chiave e imprimerle la forza d’un giro su se stessa. I primi raggi di sole si riversano nella stanza con la stessa curiosità della fiumana di ricci e perline colorate che si portano appresso, mentre manine golose si allungano in gesti di richiesta: «Mayma tangal, s’il vous plaît! Dacci le caramelle, per favore!».

Il rito si è stabilito in pochi giorni: le mie nipotine si raccolgono con le amiche del quartiere fuori la porta della stanza, in attesa di stiracchiare gli occhietti nella concentrazione di un’equa distribuzione dei dolci portati da oltremare, con lo zucchero dolce che però fa male ai denti. Poi via di corsa verso scuola, fino alle caramelle della merenda!

La domenica però anche in Senegal è riposo; non c’è lezione e i bambini si riversano più tardi fuori casa.

Il mio primo risveglio domenicale africano è un impatto con un silenzio inaspettato; per un istante mi chiedo se nel quartiere abbiano perso la golosità e mi sento tradita dai piccoli voraci che mi aspettavo avrebbero segnalato l’arrivo del giorno! Scopro presto che è già una manciata di minuti che dondolano le loro gambette sulla panca fuori dalla porta, troppo educati per disturbare gli adulti nel giorno di ristoro. Da inguaribile e incontrollabile ingorda quale sono, decido che ci vuole un premio per tanto autocontrollo!

Rifletto sulla semplicità dei loro giochi, fatti per lo più di fantasia e piccoli gadget venduti per strada, e stabilisco che l’unico vero modo per rendere la nostra presenza un ricordo indelebile è regalare momenti speciali, così propongo una gita: «Fan ngeen bëgga dem? Dove vorreste andare?».

Un coro di bambini risponde: «Magicland!».

La più felice di partire sono forse io, non appena mi spiegano che si tratta della versione senegalese di Disneyland: la mia immaginazione si nutre dei ricordi dei parchi giochi della mia infanzia e disegna nella mente un turbinio di gioiose voci urlanti, un saltellare di vestitini in vox dai mille colori, un tintinnare di perle e conchiglie intrecciate a ricci d’ebano. Chiamiamo un taxi e infiliamo quante più bimbe ci stiano dall’unica portiera sgangherata lasciata aperta dall’autista, onde evitare fughe di clienti che non vogliono pagare; qualcuna armeggia con le cinture di sicurezza, con cui è impossibile impacchettare il fermento e l’agitazione del numero troppo alto di piccoli passeggeri.

Lungo il tragitto ci avviciniamo alla costa e sorgono i primi dubbi: quanto saranno sicure le giostre in Senegal? Come gestiranno la manutenzione, nonostante la sabbia e la salsedine? Abituata al ferro smaltato e ai giochi di fontane nei giardini di Gardaland, all’animazione dei personaggi Disney, avvolti in imbottiture improponibili sotto il sole d’Africa… Avvicinandomi all’entrata, avvolta da una nube di commercianti che propongono palloncini e molle colorate, realizzo che le mie attese saranno inevitabilmente tradite.

L’ingresso costa davvero poco: con meno di 5 euro si hanno accesso al parco e 10 ticket per le attrazioni, che vanno pagate singolarmente; mentre l’accoglienza è degna della fama del popolo senegalese, che non risparmia sorrisi smaglianti, chiacchiere e convenevoli. In coda aspettando d’esser timbrate, le bambine non riescono a trattenere l’emozione ed esplodono in gridolini di gioia non appena varcano l’arco di soglia del parco. Io chiudo le fila e la mia aspettativa è in continuo crescendo; entro, mi guardo attorno e chiedo: «Ma è aperto? Dove sono i bambini?».

Dapprima penso di esser stata imbrogliata, di aver pagato per un parco divertimenti ed esser stata portata in una città fantasma: tutto è immobile, nessuna giostra gira e nessuna luce si accende; nell’aria non risuonano musiche dalla melodia sciocca né risate di bambini; le attrazioni da lunapark sono ricoperte da una sottile patina opaca. Ci viene incontro un ragazzo dal viso gentile e, dopo interminabili saluti, chiede alle bambine da cosa vogliono iniziare: non essendoci al parco tanta affluenza come in quelli europei, ci spiega che l’elettricità (che a Dakar non è sempre garantita e in alcuni quartieri può talvolta venir sospesa per ore se non giorni) viene risparmiata attivando le giostre solo quando qualcuno ci sale; conviene molto più dare a lui uno stipendio per interrompere l’innaffiatura delle piante e dedicarsi ai clienti. Uno dopo l’altro, il ragazzo avvia i giochi che le dita delle mie nipoti indicano: dal trenino alle tazze, dalla ruota panoramica al bruco… Finché i loro occhi si posano sulle montagne russe, che a loro sono vietate per limite d’età.

«Ma per chi le fanno?» chiedo un po’ sorpresa. È vero che il prezzo è basso per un europeo, ma è tutt’altra questione in moneta locale! E le giostre per adulti sono davvero due di numero! La risposta arriva presto dalle rotaie che ci siamo appena lasciati alle spalle: quattro surfisti inglesi, evidentemente alterati dall’alcool, hanno fatto ingresso nel parco, riempiendolo di risate chiassose.

Noi ci consoliamo con una merenda dolce: ci sediamo ai tavolini del bar e ordiniamo Vimto e popcorn. Il primo è la bibita senegalese per eccellenza: spacciata per la coca-cola africana, è una bevanda dalla dolcezza tanto intensa e innaturale da portare alla mente l’idea di una caramella gommosa sciolta al sole e poi gassata. «Ottima abbinata ai popcorn salati» penseranno i più golosi tra voi. Siate ancora più ingordi!

A Dakar infatti i popcorn sono serviti cosparsi di dolcissimo zucchero a velo, che s’infila tra i denti e impiastriccia le dita. Di quello zucchero a velo è il sapore delle mie merende senegalesi: condite di un eccesso di saccarosio e di innocenti sorrisi sporchi di polvere dolciastra.

Muoversi tra i suoni di Dakar: un racconto di multilinguismo africano

In partenza per Dakar, ancora una volta ripongo nel bagaglio a mano, come ancora di salvezza, i miei libri per imparare lo wolof, pur sapendo che il mio è soltanto un piccolo gesto scaramantico di fronte allo straordinario plurilinguismo del Senegal, che non si esaurisce certo nell’incontro tra l’ormai lingua ufficiale di stato e quella coloniale, il francese.

Ancora una volta, riempiendo lo zaino, alleno la mia mente a passare attraverso idiomi diversi, fiduciosa della comprensione che riceverò dal popolo del Paese dell’Accoglienza, come i senegalesi chiamano la loro terra.

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Già in aeroporto, sono travolta dai suoni della folla che cerca di richiamare l’attenzione del mio viso pallido sulle merci in vendita e i taxi in attesa: «Madame! Madame!» «Señora! Señora!» «Miss! Miss!».

Oltre il rumore, riconosco la voce di mio nipote Ndiaw; mi chiama nel suo tono “francesemente” dolce, ”africanamente” basso.

Scopro che la modulazione delle frasi che caratterizza i senegalesi è tra le cose che più mi sono mancate. Lo scopro ascoltando mia cognata Ndeye che in inglese mi indica dove mettere le valigie; è laureata e conosce la lingua dagli anni del liceo; non la parla con scioltezza, ma le nostre conoscenze sono bastate a stabilire tra noi una complicità. Con lei ho attraversato il mercato del quartiere, conosciuto le abitudini delle donne africane, scoperto i segreti di sapori e tessuti; e l’ho fatta ridere ascoltandomi scherzare con i due negozianti della zona che parlano spagnolo, convinti che sia italiano, perché hanno lavorato alle dipendenze di un portoghese.

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Con mio marito abbiamo incontrato anche alcuni senegalesi che l’italiano lo parlano davvero, pur non avendo mai messo piede fuori dal loro paese; mi stupisco del fatto che tutti mi diano la stessa spiegazione: «L’italiano è facile da imparare: basta leggere un libro e cercare di capire il senso comparandolo al francese. Parlare è semplice: si dice così come si scrive.»

Ho toccato con mano la facilità con cui questo popolo apprende nuove lingue: dopo pochi giorni trascorsi in famiglia, mia nipote Sanou, di sette anni, indicando il piatto da cui mangio, chiede: «È buono? Dafa neeχna?», prima in italiano, poi in wolof; spiegando e comprendendo allo stesso tempo. Ha semplicemente ascoltato mio marito tradurre per me nei precedenti pranzi.

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Con mia suocera è stato meno semplice: non parla wolof ma serere, la lingua del villaggio in cui è nata e dell’etnia cui appartiene tutta la famiglia; abbiamo passato molto tempo assieme, io imparando a riconoscere il modularsi della sua voce, lei ripetendo ritualmente le stesse espressioni e riempiendo i silenzi di rosari di buoni auguri, cui io possa rispondere con un internazionale: «Amine». È una lezione che più volte mi è tornata utile di fronte ad anziani che si esprimevano in una delle sei lingue nazionali del Senegal, tra cui la wolof è maggioritaria.

Mia suocera mi accoglie sempre nella lingua madre, con un dolce: «Nam fio? Soob a khamo sama goro, kam khalato gong rek!». (Come stai? Sei mancata mia nuora, ti ho pensato tanto!) Non sapendo rispondere in serere, ripiego sull’arabo, che è la lingua della preghiera e in Senegal, come in molti paesi a maggioranza musulmana, entra a far parte di diversi momenti e riti quotidiani: «Alhamdulillah! Ringraziando Dio!».

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Teranga: i miei venti giorni in Senegal

In wolof esiste una parola che indica il senso di ospitalità, di accoglienza e di rispetto verso l’ospite, una delle virtù fondamentali della cultura senegalese. Ne ho sentito parlare solo pochi giorni prima del mio rientro in Italia, e così ho potuto dare un nome alla sensazione che per i venti giorni che ho passato in Senegal mi ha accompagnato in ogni luogo e in ogni situazione: teranga.

Sono partita senza aspettarmi nulla, cercando di avere la mente sgombra da ogni immaginario preconcetto sull’Africa e la sua gente per riempirla della mia esperienza.

Ora il Senegal per me è l’odore speziato dell’aria, i tetti bianchi, le corse in taxi e le piogge torrenziali; è i rumori del traffico, i richiami del minareto e i versi degli animali; è i baobab di Mbour, le spiagge immense di Yoff, le conchiglie di Joal Fadiouth e i colori di Gorée; è la musicalità del wolof, le strette di mano e i colori dei vestiti delle donne, elegantissime; è il riso mangiato insieme da un unico piatto, il sapore forte dell’ataya (tè alla menta) ogni sera e delle guerté bou toy (arachidi tostate nella sabbia) sulla spiaggia, guardando il sole, grandissimo, tuffarsi nell’oceano.

Ma più di tutto il Senegal per me è teranga, e di come mi abbia fatto sentire a casa fin dal primo giorno.

 

In viaggio verso casa, un mese di vita a Dakar

Ripensando Dakar, i primi ricordi che sempre riaffiorano alla mia mente sono le sensazioni provate nei primi minuti, appena atterrata sul continente Africa: la presenza umana e l’odore speziato dell’aria. Sono anche le sensazioni che mi hanno accompagnata per il resto del viaggio,delle mie cinque settimane dedicate a capire e imparare ad amare il popolo di questo Paese, il Paese dell’uomo che ho sposato e della sua famiglia d’origine.

È soprattutto all’interno dei vari quartieri di Dakar che si ha la possibilità di vedere quella vita comunitaria per cui l’Africa è tanto rinomata. La capitale del Senegal è infatti divisa in 19 quartieri, a loro volta divisi in rioni numerati, i cui abitanti sono tendenzialmente accomunati dall’appartenenza ad etnie che da generazioni si tramandano gli stessi mestieri.  La mia tanta, ossia mia suocera, abita ad HLM, non ci è nata: viene da un villaggio, dove ha incontrato il marito che l’ha portata qui; la stessa storia mi racconta la domestica di casa Yacine, di cui i primi giorni non capisco la presenza, visto l’esubero di donne in casa: «Così mi aiutano -mi spiega Yacine- se ogni famiglia fa lavorare in casa una ragazzina dal villaggio, in cambio lei non solo mangia con loro, ma ha anche la possibilità di studiare e fare qualcosa di meglio un giorno».

L’istruzione in Senegal è un diritto imprescindibile e un dovere cui è difficile sottrarsi: gran parte dei bambini frequenta due scuole,una francese e una coranica, dove studia un numero per noi inimmaginabile di lingue: wolof, francese, inglese, arabo.

E i bambini in strada? Loro sono un pensiero fisso della mia prima settimana a Dakar: sono tantissimi, chiedono l’elemosina o vendono piccoli prodotti: noccioline, acqua fresca, arance… Ma mi insegnano che in Africa comunità è anche questo: non avendo un sistema assistenziale statale, la comunità pensa ai più deboli. Così i bambini studiano con l’imam, dormono nelle moschee o sotto le bancarelle dei mercati dove fanno da guardie, si vestono e mangiano di quello che le famiglie lasciano per loro la sera aspettando che bussino alla porta.

Venditrici di angurie

E lungo la strada ci sono tante iai (mamma/donna) pronte a tenere un occhio su loro. Di giorno infatti tutta Dakar sembra trovarsi in strada; tutto si produce e si vende alla luce del giorno: dagli alimenti ai divani, dalle borse alle stoviglie… e per tutto si deve fare waχale, ossia trattare sul prezzo. E così che le strade si riempiono di voci urlanti cifre, prezzi e ciniche battute delle donne senegalesi, che vanno a mescolarsi al caos prodotto dai motori, che qui sono un numero esorbitante. In pochi possiedono un’auto,ma nessuno cammina:Dakar è intasata dai mezzi pubblici,nelle forme più svariate: taxi regolari, taxi abusivi,taxi a 9 per lunghe tratte, dem ak dikk (letteralmente “andata e ritorno”, una sorta di bus di linea) e i cars rapides, pulmini le cui fermate e la cui destinazione si disegnano durante il percorso, a misura di chi ci è seduto o deve salire.

Solo la Grande Moschea può riportare il silenzio, battendo l’ultima chiamata alla preghiera, l’ultimo bagno, l’ultimo momento di ritrovo all’interno delle decine di minareti dispersi per Dakar; poi ognuno torna in famiglia, per sedersi attorno a un unico grande piatto in cui ognuno immerge il proprio cucchiaio. Nelle vie di Dakar resta solo quell’odore speziato, che è il mischiarsi dei fumi della benzina di scarsa qualità all’odore di tostatura delle noccioline, ed il suono portato dal vento di qualche gruppo di uomini in chissà quale quartiere della città che stanotte starà sveglio a cantare il nome di Allah.

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Bamba, an «African lion» struggling in Italy

Today on Pequod, we’ll tell you something about Bamba Dieye, a Senegalese arrived 17 years ago in Italy. He lives and works in Carrara, Tuscany, but his heart beats only for Senegal, the land of Teranga. However, he totally agrees to share his ideals and thoughts with all of us.

Hello Bamba, could you introduce yourself to Pequod’s readers?

Hi, my name is Bamba Dieye, I’m 38 years old and I come from Senegal. I was born in Dakar. Then, in 1998, I moved to Italy. Since then, I live and work in Carrara, where I own my business and I am a beekeeper.

Why did you decide to leave your country?

I decided to leave Senegal mainly for a childhood dream: I was attracted from Europe, from the idea of Europe. I wanted to grab the opportunity to change my life. At first I moved to France, for family ties. My sisters lived there. But I didn’t like France, so, almost by accident, I moved to Italy. Italy was not a choice, but a fortuity.

What’s your life like in Italy?

As I said earlier, in Carrara I work as a beekeeper and I have my own company of import of organic products. I also work at the computer, on our website, and I go to meetings with the customers. Moreover, I spend much of my free time at the association Culture Migranti, which is one of the few realities for immigrants run by immigrants in Italy. We try to be helpful for those people who are facing difficult situations in a new country – situations that each of us has experienced in the past. However, I have a lot friends outside the workplace and the association, but in Carrara there is not much to do. The historic center has suffered a sharp decline: cultural heritage is neglected, there’s a strong pollution, which creates environmental problems and damages to marble, which is famous all over the world.

I wish my city was better, it could be better! But there’s no cinema, no theatre… The city is simply careless.

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Bamba working as a beekeeper.

How is living in Italy different than living in your country?

Unfortunately, I have no terms of comparison. In Senegal my life was not bad, I left for a youthful dream, not for need. I came to Italy, I created my own job, my profession. I like my life as it is.

Which is , for you, the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far?

The biggest challenge was definitely the language barrier: at the beginning, it was difficult to deal with the others, the reception system isn’t efficient. For immigrants there is no effective aid, they don’t make your life easy, nobody tells what to do and how to success in being integrated. Those arriving in Italy uninformed are excluded, almost ghettoized. There are so many difficulties.

My regret is to be away from my family, away from my loved ones and my affections. Perhaps, I regret the fact that I’ve not created this work and this life in my country, too.

Often it seems to me that in Italy merit is not taken into account. They don’t take regards to the efforts of people. I feel a gap between immigrants and the others, I have to run after my rights!

Italy, your country and Europe. What do they mean for you?

Senegal is the land of Teranga, which means hospitality. In its own history Senegal didn’t have war! It is a secular State, and there are not religious issues.

On the contrary, Italy is like “Toyland”. Young people are anesthetized, while old men and ladies suffer from something that might be defined “politics of fear”.

At last, in my opinion Europe is supposed to be a response to the American and Asian imperialism, but it fails to be like that.

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Teranga means ‘hospitality’.

 

What would you say to someone to convince him to move abroad?

I would say to an African to leave his country to improve his life, to live well considering both the economic aspect and the social one. Also, to live to the fullest his family and his loved ones.

However, I do not recommend Italy. There’s no help for migrants. You can’t live well in a country if you don’t know the language and in Italy institutions are distant from the problems of migrants. They do not attempt in any way to facilitate your arrival in the country. Instead, I suggest Nordic countries. There the government and the institutions direct you to possibilities of a better life. They help you to try to achieve a comfortable life.

Instead, I say to young Italians to stay in their country, I tell them to fight for their country. Italians must give a strong response on the political level and on the social level. They must stick together for the love of their country!

Senegal VS Italy

Editing by Selena Magni.

Today Pequod had a long and deep conversation with Papis, a Senegalese man living in Italy. Sometimes living in a foreing country is not an exciting challenge, you simply have no other choice.

Your name, age, nationality, where are you from? Where do you live now? Which is your current occupation? 

I’m Papis, 33 years old; I live in Bergamo today and I’m from Dakar, Senegal. I’m unemployed.

Why did you decide to leave your country? 

I left Senegal for economic reasons: I have not finished my studies and in my country if you don’t have any  qualification it’s really difficult to find a job, make an asset or build a house. When I started my travel, I hoped to find something different in Europe, more possibilities to learn, a job and a better economic situation.

Why did you choose Italy? 
Actually, I didn’t choose Italy. At first I arrived in France and I liked it, but it was too difficult to stay there for me, so I left France and came to Italy. I have some brothers who have been living here for many years and they hosted me.

Describe your life in Italy (your occupation, your everyday life, social life, etc.). Tell us something about the city you live in (top 5 places to be, where to go, what to do – be our tourist information center!)

Actually, my life is a bit boring, because I have no job and no money. When I first came to Bergamo, I found a job as leafleter and I remembered that I had to get up very early and walk a lot, but I liked that work, because it allowed me to discover the country where I was living and it gave me money to live. Now I still get up early but I don’t have anything to do, so I have breakfast, watch international news and do something in my home; then I go out in search of some little business. I spend most of my time with Senegalese friends. We like staying at home cooking our traditional food all together. I try to spend as little time as possible at home, just to find something to do, but I regard my home as a peaceful place and when I go out I’m often worried, because I never know what I’ll find in the street.

I discovered the places that I consider as the most beautiful in Bergamo walking around in the city. Tourists who come to Bergamo always visit the same places: the center and Città Alta, a kind old Roman stronghold, and it’s great, yes! But I prefer the smaller cities, like Clusone or Stezzano: here you can see some historic villages with little historical centers that are really interesting and during the summer, there’s not much to do in Bergamo city, but out of it every village organizes events and sometimes you can hear a good concert or listen to an interesting conference.

How is living in Italy different than living in your country? 
The differences are many! Here everything is organized: public transport, business, health. The first thing that you learn when you arrive in Europe is that you have to regularize your position and your activity, and to keep your documents safe. In Senegal it is really different, especially for business: there isn’t any kind of regularization of economic activities, you just start it. For the documents it’s a little bit different, because in Senegal you always have to take your documents with you. If the police finds someone living illegally in Dakar, for example, they take him to jail or send him back to the border and if nobody searches him and he cannot prove his identity, he will stay there for a long long time. It happens rarely though, because the police controls take place during the night for the most part, during the day there are too many people in the streets to control! Here is different: policemen walk in the street day and night and control people identities. In Italy is easier than in other countries, there is more tolerance.

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Dakar, capitale del Senegal

 

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?

The biggest challenge is integration. It was not easy to stay with people from Bergamo, to have dinner with them, to have a conversation. Now there are some people here, with whom I like to stay and hang out; I have Italian friends and my wife is from Bergamo. My regret concerns my studies, in Senegal first and then in Italy: I suppose that if I had graduated in Senegal, I would not have come here and my life now could have been easier. I can say the same about my first years in Italy, when I was here with my Schengen visa. What  I miss the most is my mum, my home, my family, but I think that I just remember some better times. If I return now in Senegal, I won’t find what I miss, it’s just homesickness. I would like to stay in Senegal for a year or more to feel seasons changing, rediscover the wind of my country and be a real Senegalese again.

What does Europe mean for you? Do you perceive the existence of Europe as a community?

When I was a child, Europe for me was my promised land: I used to see on TV some fantastic images about your clean streets, your organized life and a lot of vegetables! I wanted to go there! Now I know that Europe is a bit different from what I imagined: I like it, yes, but it’s really self-concentrated. Europe has educated me: I know the importance of organization, how to manage money and be autonomous. I like observing old people who live in country or in the mountains: I like their lifestyle and their independence. But I don’t believe in the existence of a real European Community: Europeans are so different from each other, they have different values and habits. Africa is different: our cultures are similar. I could live in Congo or Ivory Coast without any problem, but in Europe it is difficult for most of the people to leave their country for another and there are countries that are regarded as non-European by a lot of people, while they are in fact European.

Italy, your country and Europe. Use three words to describe each of the previous. 

Bergamo – anxious

Italy  – pleasant

Europe – individualist

Dakar – cumbersome

Senegal – peace

Africa – promised land

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“Africa is my promised land”

 

What would you say to someone to convince him to move abroad? What’s the best thing you’ve got/you’ve learnt by your experience abroad?

I don’t think I could really convince someone to move abroad. I mean, what I’ve been learning in these long years of travelling and living abroad is that, despite all the difficulties, this is an experience that makes you grow and teaches you an important lesson, even if sometimes it’s even too hard than what you deserved. That’ why I think that travelling, living in a place which is different from your home is a fundamental experience, visiting new places, discovering new cultures and opening your mind. But still, your birthplace will be always your home, no matter what, that’s why the perfect thing would be to come back home, after living abroad, with a handful of experience that will complete your real life in your motherland.

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