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Outsport: combattere l’omofobia e la transfobia nello sport

Oustsport, la prima iniziativa a livello europeo creata per raccogliere documentazione scientifica sul fenomeno dell’omotransfobia nello sport, si pone l’ambizioso obiettivo di valorizzare il mondo sportivo come luogo di formazione e contrasto alle discriminazioni in continuità con la scuola e con la famiglia. Nata alcuni anni fa, Outsport è entrata a far parte del progetto Erasmus+, cofinanziato dall’Unione Europea. Abbiamo intervistato Rosario Coco, uno dei fondatori dell’iniziativa, che è anche project manager Erasmus+.

Quali sono gli obiettivi del vostro progetto?

Sin dall’inizio la nostra idea è stata quella di lavorare sulle discriminazioni contro le persone LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali) in maniera innovativa, dal punto di vista dei target, delle metodologie e di un approccio non più meramente identitario, ma concettuale, basato sulla radice sessista e maschilista del pregiudizio omotransfobico.

Come siete riusciti a coinvolgere l’Unione Europea?

Grazie a persone che avevano già esperienza, come per esempio Klaus Heusslein, ex co-presidente della European Gay and Lesbian Sport Association, che ci ha aiutato a individuare le associazioni partner, e a uno staff europeo e italiano che riassume diverse esperienze professionali e di attivismo. Nel maggio 2016, dopo due tentativi di presentazione della application, siamo riusciti a presentare il progetto con Gaycs, dipartimento LGBTI dell’ente di promozione sportiva AICS (Associazione Italiana Cultura e Sport), come promotore nell’ambito dell’azione Sport del programma Erasmus+. Ci eravamo dati l’ambizioso obiettivo di realizzare la prima ricerca europea sulle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere nello sport.

Si tratta di una ricerca molto importante: ci racconti come è nata?

Quando abbiamo scritto il progetto, nella prima versione del 2015, era da poco uscito “Out on the fields” (Fuori in campo), realizzato in Australia da Erik Denison, il primo studio specifico al mondo, che copriva principalmente Australia, Stati Uniti e Regno Unito. Oltre a quello c’era solo un dato sul sondaggio dell’Agenzia dell’UE per i Diritti Fondamentali (FRA) del 2012, per cui metà del campione (94mila persone in tutta l’Unione Europea) dichiarava di evitare determinati luoghi per paura di vivere apertamente la propria identità; tra loro, il 42% sosteneva di evitare gli ambienti sportivi. Data questa scarsezza di dati, abbiamo coinvolto la Deutsche Sporthochschule (Università dello sport tedesca) di Colonia, un’eccellenza mondiale nel settore, che dispone al suo interno anche di un dipartimento di sociologia e studi di genere.

Come si è svolta la ricerca? Quali risultati vi aspettate?

Abbiamo realizzato un questionario attraverso una consultazione molto fruttuosa tra tutti i partner. Ognuno ha fatto il suo, dall’esperienza accademica a quella dell’attivismo sul campo, passando per diverse professionalità. Tutto ciò ci permetterà di avere più informazioni sull’esperienza concreta degli atleti LGBTQIA e di chi, più in generale, ha subito omotransfobia nello sport (anche le persone eterosessuali possono essere colpite da questa tipologia di discriminazione). A febbraio inizierà la diffusione via web, con una specifica campagna social nelle diverse lingue del progetto.

Gli sport sono di certo una grande opportunità per promuovere il rispetto per le identità di genere e gli orientamenti sessuali. Tuttavia in alcuni ambienti sportivi, come quello del calcio, sembra difficile riuscire anche solo a vincere l’omofobia – anche se alcuni paesi come la Germania sono più impegnati di altri su questo fronte [Il Grande Colibrì]. Cosa si può fare?

Occorre rovesciare la prospettiva: intervenire non si può, si deve! Che lo si voglia o no, che si parli dei ragazzi che giocano per strada, dei campioni che sono un esempio per tutti o dei tifosi, lo sport è uno spazio di educazione – o di diseducazione. Outsport, concentrandosi sullo sport di base, ha individuato alcuni meccanismi di intolleranza e discriminazione che sono comuni a molte discipline.

E quali azioni avete sviluppato?

Prima di tutto abbiamo creato i Rainbow Tips (Consigli arcobaleno), uno dei primi risultati della campagna di sensibilizzazione. Successivamente gli obiettivi che abbiamo individuato per utilizzare lo sport come strumento educativo sono state la formazione dei formatori e la costruzione del Final Training Toolkit, strumenti utili per gli operatori dello sport. Infine, al termine del progetto è prevista una relazione per la Commissione europea. Nei prossimi mesi cercheremo poi di coinvolgere atleti e atlete celebri che sostengano la nostra causa, in particolare dando visibilità alla ricerca scientifica e al questionario che verrà lanciato a febbraio.

Il vostro progetto riguarda cinque nazioni: Italia, Scozia, Germania, Austria e Ungheria. Come mai avete scelto di proporre Outsport in questi stati, apparentemente molto distanti tra loro riguardo al rispetto nei confronti delle sessualità “non conformi”?

La filosofia generale della programmazione europea 2020, in cui si inserisce il programma Erasmus+, ci chiede in buona sostanza di mischiare le carte, di condividere abilità, culture e conoscenze, di metterci in gioco. L’Unione Europea ha diversi limiti, strutturali e politici, ma esperienze di questo genere sono molto utili in un periodo storico in cui si alzano muri, anzi forse sono anche un punto di partenza per provare a risolvere i limiti dell’UE.

Quali sono le realtà coinvolte?

Il partenariato è stato costruito a partire dall’ente capofila, AICS. Abbiamo subito individuato nell’università dello sport di Colonia il partner ideale per la riuscita della ricerca. Poi abbiamo pensato a un’associazione di grande esperienza sul tema e con diversi progetti all’attivo nell’ambito dello sport di base come LEAP Sport Scotland (Leadership, uguaglianza e partecipazione attiva negli sport per le persone LGBTI in Scozia). Abbiamo quindi trovato nel Vienna Institute for International Dialogue and Cooperation (Istituto per il dialogo internazionale e la cooperazione di Vienna; VIDC) un soggetto esperto in progetti contro le discriminazioni che hanno coinvolto le grandi istituzioni del calcio come l’UEFA. Infine, abbiamo scelto l’associazione ungherese Friss Gondolat Egyesület (Organizzazione per idee fresche; FRIGO) per contribuire allo sviluppo di questi temi in un paese in grave difficoltà sul piano democratico.

Come vi dividete i compiti?

Colonia si occupa della ricerca, LEAP del follow-up e dei nuovi progetti, AICS e VIDC insieme stanno curando gli Info Day, mentre FRIGO, aiutata da tutti noi, ha l’importante compito di organizzare la conferenza finale a Budapest a fine 2019.

Come pensate di agire in un’Ungheria che appare sempre più insensibile ai temi dei diritti?

In effetti FRIGO aveva organizzato gli Eurogames (i giochi LGBTI europei) nel 2012, ma da allora la situazione è notevolmente peggiorata, al punto che abbiamo avuto notevoli difficoltà anche a trasferirgli la quota di budget, per via della legge approvata la scorsa primavera che limita i finanziamenti dall’estero a enti e associazioni. Quindi partiamo dalle basi, per esempio, oltre ai Rainbow Tips [Outsport], fornendo alcune conoscenze essenziali e contestualizzate nel mondo dello sport [Outsport], ovviamente anche in ungherese. Inoltre abbiamo supportato la nascita di una rete: grazie al corso di formazione per formatori, gli attivisti di FRIGO sono entrati in contatto con una ricercatrice in psicologia sociale molto preparata sui nostri temi, con cui hanno già realizzato un evento lo scorso mese, e con Foldi Lazlo, formatore per il Consiglio d’Europa nell’ambito del No Hate Speech Movement (Movimento contro i discorsi d’odio).

Dopo le cinque nazioni coinvolte, pensate a una possibile estensione del progetto a tutti gli stati dell’Unione Europea?

Certo, il progetto si presta a più di un follow-up, a partire dai risultati della ricerca, che può essere estesa anche agli altri paesi. La comunicazione, che parla già quattro lingue, potrebbe svilupparsi fino alla realizzazione di un magazine tematico sull’argomento, magari aperto anche a prospettive extra-europee. Infine, dopo aver formato i formatori e aver realizzato il Training Toolkit, la formazione va messa in pratica a livello locale con le National Trainings, che richiedono nuovi sforzi di progettazione a livello nazionale ed europeo. Tra i nostri obiettivi finali c’è la presentazione di una relazione alla Commissione per promuovere il tema dell’omotransfobia all’interno del prossimo Piano Europeo sullo Sport. La lotta all’omotransfobia nello sport, ad esempio, interessa anche le donne eterosessuali, spesso “accusate” di essere lesbiche perché fanno sport: è un passo avanti rispetto alla semplice idea della “presenza” delle donne nello sport.

Scritto da Michele.

Immagine di copertina: Profilo Facebook di Outsport.

Fonte: Il Grande Colibrì

CILD Names Wajahat Abbas Kazmi Activist of the Year

As promotor of the “Allah Loves Equality” campaign, Italian-Pakistani film director Wajahat Abbas Kazmi traveled to Pakistan in November, along with fellow activist and member of Il Grande Colibrì association, Elena De Piccoli, to film a documentary that will be entitled like the campaign. The film will finally raise up the voices of gay, lesbian and transsexual people in Pakistan.

Defending Human Rights

Kazmi, who is also an activist with Amnesty International, returned from his recent trip to find a pleasant surprise. He was named Young Activist of the Year from the Italian Coalition for Freedom and Rights (CILD). The award is given to individuals who distinguish themselves in the promotion and protection of civil liberties, human rights and democratic principles in Italy. The director received the award Friday December 15 at 5pm during a ceremony at the “Biblioteca interculturale Cittadini del mondo” in Rome.

In addition to Kazmi, others will be awarded for human rights work in different fields, including: Swimmers Manila Flamini and Giorgio Minisini, former footballer Damiano Tommasi, Manlio Milani, the “Giulio siamo noi” Twitter account (set up following Giulio Regeni’s murder), lawyer Fabio Anselmo (in the forefront of trials for people who have died due to police brutality), recently deceased journalist Alessandro Leogrande, and public employee Franco Lorenzoni, who launched a campaign to approve the “ius soli” citizenship law for foreigners born in Italy.

“We are very pleased with the award given to Wajahat,” who is also one of the founders of association, said Il Grande Colibrì president Pier Cesare Notaro. “The ‘Allah Loves Equality’ campaign has been a great success from many standpoints. Many people have expressed interest, we have raised awareness in order to fight prejudice, and we’ve been able to support the making of a very important documentary film. None of this would have been possible without Wajahat’s courage and commitment, as well as that of other activists in our association. This award is an important milestone on the road to promote acceptance of LGBTQIA Muslims that started over 6 years ago in a climate of generalized skepticism and often open hostility.”

Wajahat Abbas Kazmi durante il Pride di Roma.

Kazmi’s Own Words

“I am very pleased with this award, even though I do believe that may other people deserve it as much or even more than me,” Wajahat Abbas Kazmi said. “It was great to be welcomed back to Italy with this award.” The director then spoke briefly about the four weeks he spent filming and gathering large amounts of material for the documentary, which now must be sifted through and edited. “My trip to Pakistan was exciting and we connected with a lot of activists and other people.”

“I think we have a lot to learn from these people”, Kazmi went on to say. “The vast majority told us that they do not want to leave their country because ‘if we leave this country, who will be here to bring change?’ We met people in Pakistan who were much more courageous in coming out than immigrants and second generation immigrants living in Europe – even though in Europe they experience less discrimination and do not risk their life at the hand of intolerant people who consider being gay to be a form of blasphemy.”

Documentary in Progress

Filming was aided by Kazmi and De Piccoli’s meticulous preparation and their network of contacts and friends who helped the small troupe optimize their time. “But we did have some difficult moments” the two activists explained. They found themselves in the middle of Islamic protestors demanding the resignation of Zahid Hamid, the Minister of Justice, who then started yelling at a transgender activist [Dawn]. “We were literally just a few feet from the protestors who were launching verbal attacks of blasphemy. Then checkpoints were set up at every road out of the city, but luckily the Minister’s resignation a few days later calmed things down.”

In the following days, we will be talking more about the progress in working on the “Allah Loves Equality. Can you be Gay and Muslim?” documentary. We would like to thank all those who have contributed to our crowdfunding so far. We would also like to remind you that contributions are open until the end of year on the Produzioni dal basso website. The minimum fundraising goal has been reached, but there are a lot of expenses and the post-production work has additional costs. So, if you have a bit of money left from holiday shopping, you know how to use it!

Article written by Michele. Translation by Peter Luntz.

Cover Image: LGBT Rainbow Flag, © 2008 Ludovic Berton (Wikimedia Commons).

Fonte: Il Grande Colibrì

Seconde generazioni LGBT – le bambole, la moschea, l’amore

Identificarsi, parlare di sé, scoprirsi. Sperimentare, valutare, sopravvivere. Cambiare, o almeno provarci, accettarsi. Ho provato spesso a comprendere la sottile linea che mi lega a ciò che sono, ma molte volte sono crollato giù, come un uomo da circo che perde l’equilibrio, e cade nell’oblio della dimenticanza, dell’errore, dei sensi di colpa. Quando affiora la curiosità, tu non puoi rifiutarla, puoi solo accettarla. Accetti il tuo essere in scoperta, in esplorazione, tra impulsi primordiali ed occhi che cercano una scusa a quelle strane sensazioni che provi.

Naturale o innaturale? Giusto o sbagliato? Chi sono io per giudicare me stesso, quando posso aspettare che siano gli altri a costruire quel che sono? Mille domande cercano di disarmarti, di renderti umano e nudo davanti a ciò che non puoi controllare: il tuo essere che avanza. Il mio nome è altro, è opposto, ma è anche profetico. Mohamed, profeta in cerca di risposte.

Sono cresciuto in una famiglia a maggioranza musulmana. Mio padre si è sempre identificato come musulmano, nei limiti della accezione occidentale, mentre mia madre ha sempre girato nel vortice di una spiritualità a metà tra cristianesimo, islam e amore per i suoi figli. Amare, secondo lei, è una religione che in pochi sanno professare. I parenti tunisini, luogo di nascita di mio padre, giocano a nascondino da quando ero piccolo, o forse hanno cambiato gioco.

Non sono mai stato legato alla mia terra di origine – parlando in termini arcaici di sangue e nazione – forse a causa del mio amore verso il cibo italiano, o forse perché non mi sentivo bene in quel posto che mio padre appellava come mio vero luogo di nascita. Il sangue rappresentava l’unico legame con quella terra piena di sabbia e ricordi tristi, ma mai dimenticati. In ogni viaggio mi annullavo, regredivo ad una fase embrionale dove mia madre rappresentava la sicurezza di casa, e mio padre il tiranno che tanto voleva fossi legato a quella terra che lui chiamava casa.

I parenti si mostravano, spesso ridevano di me tra di loro. Per loro ero troppo effeminato, e ne facevano presente a mio padre che con un tono arrogante ma scherzoso sottolineava la mia passione per la poesia. Deriso, non compreso, può un padre accettare una derisione piuttosto di una verità?. La mia costruzione, il mio essere in progressione silenziosa ha radici molto lontane.

A sei anni ho scoperto l’amore per le bambole, ma ciò che mi interessava di più era farle volare in aria, quasi distruggerle. Distruggevo qualcosa che non andava, di poco professionale. La professionalità di un bambino educato alla religione musulmana.

Amavo anche mangiare, ma fin qui nessun problema. Potevo prendere peso, ingrassare, ma mio padre continuava ad essere fiero di me: un piccolo ma futuro grande “maestro di moschea”. Con un nome come il mio hai delle responsabilità da rispettare, non puoi essere fuorviante, devi rispettare chi sei, o chi devi essere.

Amavo le bambole, amavo mangiare, ma amavo anche mio padre. Le bambole non gli andavano giù, per questo le ho abbandonate. Ho detto addio alle bambole di mia cugina con certo malincuore, ricordo ancora il loro profumo di fragole. Quel profumo fu sostituito dalla polvere arida e visibile della moschea di città, un luogo angusto per un bambino, silenzioso ma ricco di dettagli artistici. Può la religione considerarsi arte?

Per me, sin da piccolo, la religione era un rompicapo complesso, più cercavo di comprenderla e più mi mordeva la testa. In quei giorni di preghiera fissavo spesso il muro e mi chiedevo come mai fosse vietato giocare con le bambole. Il maestro di moschea parlava spesso di uomo e donna, di unione religiosa, ma mai di bambole. Nella moschea imparavo la religione, cercavo di prenderla tra le mani, ma non ci riuscivo. La cercavo inginocchiato sul tappeto, mentre muovevo le dita cercando una risposta, o quando sorridevo a mio padre che non poteva che essere fiero di un figlio tanto predisposto alla religione. Si può essere predisposti a qualcosa verso cui non si prova particolare interesse?

A 12 anni le bambole erano un lontano ricordo, a quell’età non potevo che pensare ai primi peli, alla voce più rauca, a quelle strane sensazioni che sperimentavo di notte, tra indignazione, curiosità, strepito e vergogna. Provavo simpatia verso i miei compagni di classe, nonostante mi chiamassero “finocchio” tutto il tempo. Forse non era simpatia se ci penso bene, ma sperimentavo una certa dipendenza nei loro confronti. Avevo bisogno dell’idea di loro per reprimere quelle strane sensazioni che non mi facevano dormire di notte. In moschea cercavo le risposte fissando il muro bianco, ma quel muro era invisibile e non vedevo altro che strani pensieri. Non è corretto, non va bene, non è giusto, non si può.

Qualche anno più tardi, a 17 anni, ho provato per la prima volta l’esperienza di un volo a capofitto. Mi sono gettato in quelle strane sensazioni che provavo e che mi facevano tremare le mani. Finalmente avevo capito. Avevo preso le mie responsabilità e mi sono lasciato andare.

La libertà è anche responsabilità verso se stessi. Avevo assunto il ruolo di giudice e di imputato, mi infliggevo colpe e le accettavo, ma non mi interessavano. Mi definivo gay, bisessuale, asessuato. Mi guardavo allo specchio, sorridevo, poi diventavo triste. Cercavo nello specchio la vergogna del mio essere, ma ormai c’era solo sicurezza. Provavo, studiavo e mi abbandonavo al mio corpo, a quello altrui, all’amore e alla sincerità dei sensi. Mi scoprivo per l’ultima volta, dicendo addio al rancore di non poter essere me stesso, alle paure che nessun corpo nudo può levarti, ai ricordi di un passato da ciclista che corre la sua corsa verso la verità, ma senso il casco di sicurezza.

Quella sicurezza è nata in me nel momento in cui ho imparato a dire sì. Sono diverso? Sì. Ma la diversità non è altro che scoperta di un mondo dove ogni cosa funziona al contrario, dove realtà ed immaginazione si incontrano, dove il bene ed il male sono discorsi troppo impegnativi, dove l’amore vince su tutto.

L’amore, in fin dei conti, non l’ho mai dovuto scoprire. È stato un dono offerto da mia madre, si è metabolizzato in me prima ancora che scoprissi il piacere delle bambole. Mi ha amato ancor di più il giorno in cui le ho lasciato una lettera in cui a cuore aperto le rivelavo l’effetto che l’amore aveva fatto su di me. Mio padre mi amava, ma amava di più l’idea di me. Aspetta ancora il giorno in cui sposerò mia cugina. Io mi sono amato, odiato ed ancora amato.

Quando condividi l’amore, lo fai perché è un gesto spontaneo, di natura. Perché allora siamo cosi innaturali agli occhi altrui? Si parla di amore come un sentimento altruista, non di egoismo sensazionale. Ho scoperto me stesso molto tardi, ma ho imparato ad amare presto. Rupaul sostiene: “Se non ami te stesso, come diavolo puoi amare qualcun altro?”. Ed è questo il coming out più duro da fare: dichiarare il proprio amore verso gli altri, e verso se stessi.

Scritto da Mohamed

Fonte: Il Grande Colibrì

Servizi contro gli stereotipi: il SAT di Verona e Padova

Innegabili i passi da giganti fatti nel XXI secolo dal movimento LGBT, che nella sua costante richiesta di diritti a istituzioni politiche spesso sorde, ha portato a trasformazioni di forte portata sociale, prima ancora che politica: dall’inserimento delle minoranze discriminate nel mondo del lavoro e della politica, al riconoscimento delle unioni civili, fino alla ridefinizione del concetto d’identità di genere. Quelle delle istituzioni italiane, sembrano però più risposte elaborate di caso in caso per far fronte a necessità (spesso già disagi) ormai innegabili, piuttosto che la presa di coscienza della varietà sociale e delle esigenze di una tale varietà. Ciò si traduce in un’assenza di politiche e soprattutto d’infrastrutture al passo con il progresso previsto dalla legislazione, sopperita solo grazie alla straordinaria capacità di coesione e associazionismo che in questi anni il movimento LGBT ha dimostrato possedere.
Un esempio concreto viene dal mondo del transgenderismo: già dagli anni ’80, la legge prevede il riconoscimento del sesso di transizione, ma lasciando ai tribunali discrezionalità sulle prerogative richieste e, nello specifico, sulla necessità o meno dell’intervento chirurgico adeguato ai dati anagrafici. Mentre si moltiplicano negli ultimi anni i ricorsi e le sentenze che riconoscono il genere acquisito senza intervento chirurgico, non sembra essere ancora in programma un sistema socio-psico-sanitario nazionale capace di operare nella realtà transgender. È ancora una volta il movimento stesso a dar vita a strutture che, oltre a offrire supporto medico e legale, accompagnino nel percorso di transizione, attraverso sportelli aperti, incontri di gruppo e sedute con psicologi. Un esempio concreto di questa cooperazione arriva dal Veneto, dove dal 2011 è attivo il Servizio Accoglienza Trans (SAT).

Promosso presso la sede del Circolo Pink (una tra le associazioni LGBT più datate della penisola: nata come circolo Arcigay nel 1985), il SAT è stato inaugurato prima a Verona e poi a Padova, accogliendo nell’arco di sei anni di attività le richieste di quasi 300 persone. A spiegarci l’attività del SAT è Ilaria Ruzza, responsabile del punto d’ascolto aperto a Padova nel 2015: «Il Servizio si rivolge alle persone trans, transgender e gender variant che ravvisano la necessità di trovare un luogo in cui le loro esigenze siano accolte e ascoltate. Per alcune persone si tratta di iniziare il percorso di transizione; per altri, anche solo il poter parlare in merito alla propria identità di genere e/o orientamento sessuale è utile per fugare alcuni dubbi. Tutti/e gli/le operatori/trici che prestano servizio nel SAT hanno il compito di accogliere chi a noi si rivolge, ascoltare necessità, incertezze, perplessità e cercare di dare una risposta pratica e concreta a queste esigenze».
Il Servizio affianca quanti vi si rivolgono dando rilievo a tutti gli aspetti e alle componenti coinvolti in un processo di transizione: oltre ai colloqui con operatori/trici, si propongono «gruppi di auto mutuo aiuto, gestiti da persone trans per persone trans, e momenti di incontro per i genitori di persone trans/transgender»; sono disponibili inoltre professionisti, «come una psicologa psicoterapeuta, un medico endocrinologo e due avvocati». Servizi non sempre facili da offrire, spesso proprio a causa di una politica che continua a nascondersi necessità impellenti: «La difficoltà più grossa che riguarda il Servizio –spiega ancora Ilaria Ruzza- è senza dubbio la mancanza di un finanziamento stabile e continuo: tutti gli operatori sono volontari, abbiamo le spese di una sede da mantenere (affitto, utenze, etc.), nonché quelle relative alla stampa dei materiali e ai rimborsi spese dei volontari. Inoltre, molto spesso ci scontriamo con una realtà estremamente bigotta e retrograda, soprattutto a Verona, che ci impedisce la realizzazione di alcune iniziative».
Tra gli esempi più recenti di questo ostruzionismo silenzioso, la mancata partecipazione di due operatori trans del SAT all’incontro previsto per martedì 16 maggio presso l’Università di Verona, in occasione della Giornata Internazionale contro l’OmoLesboBiTransfobia: l’invito, avanzato dagli studenti di medicina, è stato revocato all’ultimo per ragioni d’indisponibilità di aula e di procedure di comunicazione interna all’università; motivazioni che hanno sollevato diversi dubbi, in primis all’interno dello stesso Circolo Pink.

Del resto, sebbene molteplici siano i segnali di apertura, una forte discriminazione sociale continua a investire l’universo transgender, come ci spiega Ilaria Ruzza quando le chiediamo quali siano le maggiori difficoltà che una persona trans si trova ad affrontare: «Sicuramente le difficoltà provengono al 98% dall’ambiente sociofamiliare in cui la persona trans, transgender o gender variant è inserita. E’ innegabile che vi siano ancora una serie infinita di luoghi comuni negativi che riguardano il mondo T* (uno su tutti, il binomio che è quasi automatico tra donna trans e prostituzione), che molto spesso vengono introiettati dalle famiglie, dai parenti e dagli amici delle persone trans che, dunque, si mostrano ostili o poco disponibili nei loro confronti. L’immagine, poi, che viene restituita dai media non aiuta in tal senso, dato che frequentemente si associano le persone trans (e specialmente le donne) a episodi di violenza, tossicodipendenza o fatti di cronaca. La realtà del mondo trans, in verità, non è molto diversa da quella di tutti gli altri: fatta di quotidianità, difficoltà, affetti e amicizie».
Non molto diverso da quello di “tutti gli altri” è anche l’obiettivo che il SAT si propone e che Ilaria Ruzza spiega raccontando di uno dei momenti più felici vissuti lavorando nel SAT: «L’anno scorso, anche a Verona, è stato organizzato Mister T, un concorso di “bellezza” per ragazzi trans. Per noi è stato davvero entusiasmante vederli sfilare sul palco, orgogliosi, fieri, entusiasti e felici. Che poi, è come vorremmo fossero tutti i giorni!».

Spiegando le motivazioni per cui è entrata a lavorare nel SAT, accanto a uno spiccato senso etico sociale che altruisticamente anela a un continuo ampliarsi dei diritti, Ilaria Ruzza mette ancora una volta in luce la portata della rivoluzione cui il movimento LGBT ha dato avvio: «Personalmente, stare nel Sat Pink è il modo più concreto e efficace di fare politica: agevolando il non sempre facile percorso di transizione, in un paese per molti versi ostile come lo è alle volte il nostro. Inoltre, è un eccellente modo per potersi mettere in discussione su quelli che sono gli stereotipi legati al genere e al binarismo sessuale nei quali siamo cresciuti e che quotidianamente si ripresentano nella nostra vita».

Identità di genere, transessualità e diritti LGBT

Il tema che riguarda la comunità LGBT, che comprende lesbiche, gay, bisessuali e transessuali, è un tema assai sensibile, per via della visione, spesso distorta, che la società ha di questo fenomeno. Vero è che più il tempo passa e più la società (non con poca fatica) cerca di lasciarsi dietro le incrostazioni retrograde figlie di una concezione della vita spesso bigotta e conservatrice, per nulla al passo coi tempi. Per comprendere il fenomeno LGBT (e quello della transessualità nello specifico) è necessario introdurre il concetto di identità di genere. Essa è definita da come ciascun individuo sente di essere ossia il suo sentimento profondo di femminilità o mascolinità, in relazione al ruolo di genere ovvero ciò che è socialmente e culturalmente definito come maschile o femminile e che risponde alla norma sociale e alle credenze condivise dalla maggioranza. L’orientamento sessuale è invece definito dall’attrazione sessuale che ciascuno sente verso uno dei due sessi, o verso entrambi. È evidente perciò che questi tre caratteri sono presenti all’interno di ciascun individuo con combinazioni singolarmente differenti. Legata all’identità di genere è la condizione di “transessuale”, usata per indicare gli individui che sviluppano un’identità di genere definita (maschile o femminile), ma opposta al sesso biologico di nascita, che verrà quindi “corretto” con terapie ormonali o con la chirurgia per adeguare il proprio corpo alla propria identità.

Il processo di transizione è composto da molte fasi: prima fra tutte quella psicologica, con la quale si valuta la situazione e l’impatto che i passi successivi possono avere sulla persona, mentre la seconda fase, quella della terapia ormonale, ha lo scopo di modificare i caratteri sessuali terziari, per quanto possibile, ed inibire manifestazioni fisiche proprie del sesso biologico di appartenenza (erezione, eiaculazione e ciclo mestruale). Successivamente si avrà l’iter legale: la legge 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) prescrive che, nel caso la persona interessata richieda la riconversione chirurgica del sesso, trascorsi due anni dall’inizio del percorso psicologico, i professionisti che l’hanno seguita stilino delle relazioni sulla persona stessa e sul percorso effettuato. Queste verranno utilizzate a supporto della richiesta di autorizzazione all’intervento chirurgico che deve essere inoltrata al Tribunale. Successivamente è necessario un secondo ricorso, col supporto della cartella clinica che attesti l’avvenuto intervento, per ottenere la rettifica dei dati anagrafici, a cui segue la lunga attività di correzione di tutta i documenti (patente, titoli di studio, ecc. ecc.). Va però detto che la Cassazione, con la storica sentenza n. 15138 del 2015, ha statuito che il cambio di sesso di una persona non può essere determinato soltanto dall’intervento chirurgico. Anche in mancanza della demolizione e ricostruzione degli organi genitali “il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale”, onde per cui la rettificazione di sesso legale non è più subordinata in assoluto alla variazione anatomica del soggetto.

Fonte: Pixabay / CC0 Public Domain

Per quanto attiene la situazione delle coppie omosessuali, non è possibile non citare un altro storico provvedimento legislativo, quello della legge n. 76 del 2016 recante Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze. La cosiddetta legge Cirinnà prende spunto dagli annosi dibattiti che hanno spinto in tutta Europa all’approvazione (seppur non uniforme nel tempo e nei modi) di norme che recepissero le istanze della comunità gay. Ciò è avvenuto anche su impulso del Parlamento Europeo, che nel 2007 aveva invitato “tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso”. La legge Cirinnà ha introdotto quindi delle unioni fondate su vincoli affettivi ed economici alle quali l’ordinamento riconosce uno status giuridico analogo a quello attribuito al matrimonio e che possono essere costituite tra persone maggiorenni e dello stesso sesso effettuando una dichiarazione all’ufficiale di stato civile. La coppia assume diritti e doveri quasi del tutto simili a quelli del matrimonio (ad esempio l’obbligo alla coabitazione, all’assistenza morale e materiale, a contribuire ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanze e alla rispettiva capacità di lavoro, sia professionale che domestico), mentre sono stati espunti dalla legge sia l’obbligo di fedeltà che quello di collaborazione, che invece scaturiscono dal matrimonio.

Come previsto per il matrimonio, anche in tema di regime patrimoniale al momento della costituzione di un’unione civile la coppia è chiamata a scegliere tra quello della comunione e quello della separazione dei beni. Oltre a tutto ciò, l’unione civile si differenzia dal matrimonio per altri aspetti. Per prima cosa il cognome di famiglia viene scelto dalla coppia tra quelli dei due uniti, dichiarandolo all’ufficiale di stato civile. Inoltre lo scioglimento dell’unione ha effetto immediato, non essendo prevista l’equivalente della separazione. Altra fondamentale differenza rispetto al matrimonio tra coppie eterosessuali deriva dal fatto che, ad oggi, la legge non contiene l’adozione del figlio minore di un componente della coppia da parte dell’altro (la cosiddetta stepchild adoption), anche se la Cassazione, con la sentenza n. 12962 del 2016, ha dato il via libera all’istituto come garanzia di tutela dell’interesse preminente del minore.

Tanto altro ci sarebbe da fare, come ad esempio una buona legge contro la discriminazione di genere (nel 2013 era stato presento il cd. Ddl Scalfarotto per l’estensione della legge Mancino anche ai crimini motivati dall’identità sessuale della vittima, attualmente fermo al Senato dal 2014), ma come tutti i temi etici resta fermo l’assunto secondo il quale è la società, attraverso un percorso pedagogico, a dover attuare una rivoluzione culturale profonda. Puntare tutto sulle norme giuridiche, seppur importante tassello nel disegno globale, è spesso un approccio fallimentare. Ci auguriamo quindi che in un prossimo futuro la nostra società sia in grado di fare finalmente un salto di qualità sul fronte dei diritti civili e umani fondamentali.

 

Becoming Jake. Viaggio da un genere all’altro

Appena entro nel locale in cui ci siamo dati appuntamento, il mio sguardo inizia a scrutare i volti di chi è seduto ai tavoli finché non si posa sulle spalle di un ragazzo intento a leggere. Lui è Jake, Giacomo Arrigoni Gilaberte, classe ’91, nato in Brasile ma cresciuto in Italia. Jake è un giovane transessuale FtM (Female to Male, sigla per la transizione da un corpo femminile a uno maschile), che da circa due anni ha iniziato la terapia ormonale sostitutiva (TOS) per diventare colui che ha sempre sentito di essere: un uomo.

Durante l’inesorabile susseguirsi degli anni, ognuno di noi è soggetto al continuo rimodellamento della propria identità. Cruciale è il periodo a fine scuola elementare, quando dal corpicino di bimbo cominciano a spuntare i primi segni di una prosperosa femminilità o di una muscolatura virile. Jake non possiede un nitido ricordo che condusse colui che una volta era conosciuto come Jessica al desiderio di vivere come Giacomo. Ricorda tuttavia di essersi posto tantissime domande alle quali non trovava risposta: «A dodici anni non mi piaceva nulla del mio corpo. Pensavo comunque di essere un’adolescente come tante che si sentiva troppo grassa o troppo brutta… Ma con il passare degli anni mi sono accorto che non riuscivo a mostrarmi». Assieme alle prime esperienze, Jake si crede una donna e lesbica, incapace però di sentirsi a proprio agio nell’intimità sino ad arrivare al punto di considerare il sesso sopravvalutato.

La svolta avviene durante una puntata de “Il Testimone”, il programma di MTV Italia firmato da Pif, dove un gruppo di ragazzi si svela alle telecamere raccontando la propria transessualità. Sin da subito, Giacomo si ritrova nelle esperienze e parole degli intervistati e pian piano, assieme ai primi Pride e ai primi incontri, inizia cautamente a farsi strada l’uomo che c’è in lui. «Una sera, in discoteca, una mia amica mi presenta a un ragazzo transessuale (FtM come Jake, n.d.r.): mentre lui mi mostrava i vergini muscoli che si erano appena rafforzati su braccia e spalle (grazie alla terapia ormonale, n.d.r.), io rimasi rapito dal suo entusiasmo e capii che quella poteva essere la mia strada».
Una volta giunto allo Sportello ALA Milano Onlus, Giacomo incontra l’attivista e Responsabile Antonia Monopoli, che lo invita a iniziare un percorso psicologico: «Grazie alla bravissima Chiara Caravà, ho iniziato ad aprirmi e a parlare di tutto sino al fatidico giorno in cui mi ha detto “Per me, sei pronto”». Jake ha circa 22 anni quando si reca per la prima volta all’Ospedale Niguarda di Milano.

Giacomo ha fatto molti coming out nella sua vita. Il primo è stato per lo più taciuto: «Decisi di vivermi la mia identità da lesbica fregandomene del pensiero altrui, per poi scoprire che non mi bastava. Ciò che ero non rappresentava il vero me stesso… dovevo fare di nuovo coming out». E così Jake si è affidato al canale YouTube, grazie al quale l’involucro Jessica si è spezzato per far apparire per la prima volta Giacomo. Il timore maggiore era la paura che gli altri non riuscissero ad accettare il fatto che Jessica fosse stata sempre e solo mero rivestimento. Come a rimarcare il ruolo che i Social media detengono nella nostra società, Giacomo afferma che «condividendo il video sul mio profilo Facebook, mi sono tolto il peso di dover andare da ognuno e iniziare con “Ti devo dire una cosa”. Dopo la condivisione, invece, molte persone sono venute a chiedermi di parlarne assieme». In famiglia, Jake non ha fatto fatica a essere accettato e anzi, si ritiene fortunato poiché non pochi sono stati i casi di ragazze o ragazzi trans allontanati da casa.
«Il coming out lo vivo tutt’oggi – continua Giacomo – soprattutto con persone che ho appena conosciuto e in situazioni che non posso evitare. Ad esempio, se siamo in giro e mi scappa la pipì, non posso dirigermi in un angolo come qualsiasi uomo, quindi devo spiegare a chi ancora non mi conosce il perché debba cercare un bagno. E comunque anche nei bagni maschili ho le mie difficoltà: spesso le porte non si chiudono».

Non sono dunque i familiari o gli amici ad aver deluso Giacomo di fronte al suo presentarsi non più come ragazza ma come uomo: «Sono state le istituzioni e la burocrazia. Per iniziare la cura ormonale devi aver superato un percorso psicologico e avere l’approvazione dal Tribunale. Un giorno vado quindi in comune per ottenere l’atto di nascita da consegnare al Tribunale e inizio a compilare dei moduli di richiesta appositi per la transizione assieme alla signora dello sportello… la quale continua a chiamarmi “signorina”. Un’altra volta invece sono andato a fare i prelievi del sangue e un infermiere, leggendo la mia cartella e poi guardandomi, mi fa: “Ma sei un uomo o una donna?”. O ancora il medico di base, che durante il solito controllo della pressione, sdraiato sul lettino, mi alza i pantaloni e mi dice: “Ma sei sicura? È proprio un peccato”. Ma se ho bisogno di assistenza medica a chi posso far affidamento se non a un medico?!». Questi sono solo alcune delle violenze di genere che Jake ha dovuto subire da parte delle istituzioni pubbliche al servizio del cittadino.

In Italia non è difficile accedere alla procedura di transizione, mi confessa Jake, sebbene l’iter sia tremendamente lungo e lento. Giacomo iniziò il 3 dicembre 2013 le punture di testosterone e da allora un po’ di cose sono cambiate.
Nel successivo frizzante video, i cinque cambiamenti più significativi dei primi 9 mesi di terapia ormonale:

Ma a che punto siamo con il rispetto dei diritti delle persone transessuali in Italia? «Sulla carta sono sì rispettati, ma poi la realtà è ben diversa. C’è molta ignoranza in materia! Senza contare che la comunità trans italiana non si è ancora affermata definitivamente e questo è un peccato poiché potrebbe far tanto per sopperire alle lacune delle istituzioni. Certo è che ognuno di noi fa coming out quando può ed è pronto».

Dopo gli ultimi due sorsi di birra, lascio Jake partendo dalla prima domanda che gli feci: come stai? «Ah! Da due anni a questa parte sono solo gioie! Mi sveglio benissimo, sempre proiettato verso il futuro: domani è sicuramente un giorno migliore perché è un giorno in più verso quello che voglio essere. Verso Giacomo».

Fotografie di Giacomo Arrigoni Gilaberte

Seconde generazioni queer – Così ho ucciso mia madre

Ho chiesto a molti di raccontare la propria storia. È giusto che anche io vi parli della mia. Per voi, che state leggendo e cercate un confronto.

Sono nato in una casa di sole donne, posta all’estremità di una collina, in un Marocco rurale. Una piccola repubblica rosa, capeggiata da mia nonna. Fin da piccolo, ho sempre avuto a che fare solo con donne: mia madre, le mie sette zie, la sorella di mia nonna, le mie 11 cugine e tutte quelle che passavano per le telenovelas. Gli uomini erano tutti lontani, sparsi per l’Europa a cercar fortuna. Compreso mio padre.

A 4 anni arrivai per la prima volta in Italia. Salto un po’ di anni e arrivo ai miei 12, quando presi realmente consapevolezza della mia omosessualità, che accettai fin da subito, con tranquillità estrema. Ciò che non accettai fu la mia identità araba e tutto ciò che aveva a che fare con quel mondo, ormai così lontano ai miei occhi, e così violento. La consuetudine vuole che si litighi con se stessi a quell’età.

“Sarò malato? Perché sono diverso? Perché mi piacciono gli uomini? Devo cambiare? Dio vuole questo per me?’’: nulla di tutto ciò mi ha mai toccato. Ho iniziato, piuttosto, a prendere le distanze dal mio Marocco e dalle persone che lo compongono. Questo rifiuto non ha una sola dimensione, ne ha molteplici e riguarda anche l’aspetto linguistico, culturale e tradizionale del Marocco. L’aspetto religioso non mi ha mai interessato: elaborai fin da piccolo un agnosticismo embrionale che pian piano prese forma.

Per anni mentii alla mia insegnante di francese, che certa del fatto che i miei genitori sapessero il francese – mentre erano e sono completamente analfabeti – mi prendeva sempre in causa nelle sue lezioni. Mi vergognavo della verità. Non accettavo l’analfabetismo dei miei genitori.

Eppure vedevo lo sforzo di mia madre nel capire le cose, la sua voglia di conoscere il mondo, vedevo come i suoi occhi scrutavano gli oggetti, vedevo come si accostava a me mentre facevo i compiti e l’unica domanda che mi poteva e riusciva a fare era se poteva aiutarmi a colorare qualcosa, qualche scheda o qualche disegno già iniziato. Mia madre con quei suoi occhi attenti, vispi. Una lingua che non si fermava mai e un corpo sempre in movimento per un dove. Vivevo a stretto contatto con un’altra bambina, mia madre.

Il periodo liceale è stato un susseguirsi di scoperte, amicizie, i primi sentimenti che prepotenti uscirono fuori. La voglia di affermarsi e di dichiararsi a tutti quanti, con la mia elezione a rappresentante di istituto. Mi costruivo nel dubbio e in quel dubbio iniziai a capire il mio naturale modo di esistere nel mondo. Mentre, dall’altra parte, andavo sempre di più isolando i miei genitori dal mio mondo. Non volevo che iniziassero a capire chi fossi realmente.

E a conclusione della quinta liceo arrivò il difficile: spiegare ai miei genitori cosa fosse l’università e a cosa servisse. Mancarono le parole. Io con il mio arabo singhiozzante e loro con quella manciata di italiano fra i denti e la lingua. Che contrasto. Che lotta. Che guerra continua. Ancora oggi quella lotta di definizioni non è finita.

Quando pensavo a un mio probabile coming out con mia madre, cercavo le parole più corte e quelle più comprensibili. Pensavo che “Mamma, mi piacciono i ragazzi” fosse una frase troppo lunga e che potesse richiedere una spiegazione altrettanto lunga. L’unica parola che conoscevo, attribuibile alla mia sessualità, era “zamel”, ovvero: frocio, finocchio, ricchione. Ma non volevo parlare di me in questi termini. E quindi? Dove stavano tutte quelle parole che sembravano voler sfuggire da me?

Solo dopo scoprii le parole di cui avevo bisogno, attraverso la lingua lirica di Abdellah Taïa e dei suoi romanzi [Il Grande Colibrì]. C’è una terminologia tutta recente, coniata nei primi anni del 2000 per indicare l’omosessualità in una realtà neutra: “mithli” (مثلي) per omosessuale e “mithliya” (مثلية) per omosessualità.

Pare una barzelletta: proprio ora che avevo le parole giuste, non ero sicuro che i miei genitori le conoscessero, visto l’utilizzo così recente di queste parole. Ridono di me queste parole, tanto ricercate quanto inutili nel mio caso. Non riempirono mai una stanza, ma rimasero sempre scritte nel mio diario. Temevo di dimenticarle.

Sento di aver ucciso mia madre. Sì.

L’ho uccisa perché come un dittatore l’ho sempre lasciata in uno stato di minorità intellettuale, creandole attorno una barriera anticulturale. Ciò, se prima mi serviva a impedirle di far parte del mio mondo, ora è diventata una condanna. Ostracismo. Un peso morto che grava sulla mia coscienza. Invece di darle gli strumenti giusti per farle capire chi fossi e chi sono ora, le ho sempre regalato sentenze assicurate e senza via d’uscita.

Cara madre, hai lo stesso nome della moglie del profeta: Khadija. Ma il tuo nome sembra quasi anticipare una tua condanna. Un marchio di minorità. Khadija significa “figlia nata prematura”. Pare quasi che le parole ci siano avverse. Hanno sempre le carte giuste. Ora non possiamo vincere. Hanno la meglio contro di noi. E come una figlia nata prematura, non hai avuto le forze per ridestarti.

Noi, che siamo a digiuno di parole. La mia è stata una ricerca filologica che non ha avuto pubblico. Voglio quindi fermare questa ricerca di parole e dare a questo insieme di lettere e di suoni un reale lettore, farle finalmente vivere. Lo faccio qui, ora. Anche se queste parole non arriveranno a mia madre, so che arriveranno a voi. Tutte quelle parole ricercate e trovate avranno almeno un senso.

Sento di dover fare questo passaggio. Sento di dovere e di potere partecipare al dibattito culturale e interreligioso che riguarda noi seconde generazioni LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali) cresciute o nate in Italia. Non possiamo solo subire passivamente. Sento di dover contribuire, con una mia parola, con un mio verso. Questo dibattito è già presente in Francia, Inghilterra o Spagna perché c’è chi ha saputo e avuto il coraggio di urlarle, quelle parole. Se la comunità LGBTQIA araba in Marocco, Algeria, Libano, Tunisia, eccetera, non ha paura di emergere e sfida con coraggio le autorità locali [Il Grande Colibrì], perché noi non possiamo fare lo stesso qui, in Italia?

Con gli anni ho notato come la generazione dei miei genitori, e non solo, fosse decisamente improntata a una logica della conservazione. Quando ci si sente minoranza, quando si è lontani da casa propria, quando come nel caso dei miei genitori si è portati a essere fuori dalla realtà in cui si vive, per via dell’assenza di strumenti, si tende a salvare ogni piccola tradizione identitaria del proprio paese, si tende a diventare, quindi, dei conservatori. Questo conservatorismo è ancora più accentuato quando l’integrazione viene a mancare.

E mentre il dibattito su diritti civili, laicismo e ateismo inizia a prendere piede in alcuni paesi arabi e vediamo una iniziale apertura, notiamo al contrario conservatorismo e immobilismo da parte di chi vive nella bella Italia. Si è creato uno stato nello stato, con regole e moralità proprie. Non dobbiamo e non possiamo fare lo stesso noi. Siamo la generazione liquida, quella che non può avere timore di parlare di laicità e di ateismo nelle comunità dei fedeli musulmani o in qualsiasi altra comunità, da quella cinese a quella senegalese.

Molti di noi provengono da paesi nel quale essere omosessuali è un crimine. Dove questo tema, assieme a quello dei diritti civili, è difficile che venga ben rappresentato da televisione e giornali, o non viene rappresentato affatto. Il web è e sarà il luogo naturale dove avverrà la nostra rivoluzione, la nostra primavera. Parlare di noi sarà lo sgarro verso chi fa finta di non vederci.

Siamo in tanti e molti di noi hanno paura a firmarsi, perciò inizierò io, certo del fatto che arriveranno al Grande Colibrì altre storie e altro coraggio. Scrivete a questo indirizzo: info@ilgrandecolibri.com. Raccontatevi! Svelatevi! Amatevi!

Articolo di Anas Chariai

Fonte: Il Grande Colibrì

Doppiamente minoritari: i migranti LGBT

Qual è il trattamento dell’omosessualità nel mondo? Dalla più feroce repressione (nei due terzi dei Paesi africani e in buona parte dell’Asia, dove i “colpevoli” rischiano di incorrere in pene che vanno da semplici ammende fino alla detenzione o addirittura all’esecuzione), fino al riconoscimento pieno o parziale dei diritti rivendicati dal movimento LGBT, passando per situazioni di vuoto legislativo (come per l’Italia) e per Paesi in cui la persecuzione non prende di mira i rapporti omosessuali, ufficialmente tollerati, ma piuttosto la cosiddetta “propaganda” (basti pensare alla Russia). E dove non arrivano la legge e la polizia, intervengono le famiglie, spesso zelanti nel difendere, anche con spargimento di sangue, l’onore macchiato da figli, fratelli e nipoti. In numerosi contesti sociali, il silenzio, l’invisibilità e la clandestinità sono d’obbligo, come ha saputo brillantemente illustrare il giornalista e fotografo francese Philippe Castetbon, che nel suo libro Les condamnés. Dans son pays, ma sexualité est un crime (H&O, 2010), ha affiancato alle testimonianze di uomini gay, provenienti dai vari Paesi che criminalizzano l’omosessualità, le immagini dei loro volti, debitamente e variamente occultati.

Ecco perché sempre più persone LGBT scelgono di abbandonare il loro Paese d’origine in cerca di un contesto sociale più aperto e più sicuro nel quale esprimere liberamente la propria identità omosessuale. Se il fenomeno della migrazione dei diritti riguarda anche, per certi versi, i nostri connazionali, che cercano altrove un riconoscimento e delle possibilità (in termini di genitorialità per esempio) negate dalle nostre istituzioni, ci si potrà stupire nel constatare che proprio l’Italia, fra i Paesi membri dell’UE, si pone all’avanguardia nell’accoglimento delle richieste di protezione internazionale presentate per motivi legati all’orientamento sessuale. Una conquista, questa, che è stata resa possibile anche grazie al lavoro svolto in Parlamento da storici attivisti del movimento LGBT, come Franco Grillini e Gianpaolo Silvestri: quest’ultimo, all’epoca senatore per il gruppo Verdi-Pdci, presentò durante la XV legislatura un emendamento alla legge comunitaria sul diritto d’asilo, sostenuto da una maggioranza bipartisan, che si proponeva di garantire la difesa del cittadino straniero che

“pur provenendo da un Paese sicuro, possa essere perseguito (non necessariamente in base ad una norma penale, ma comunque in base a disposizioni o atti concreti, oggettivamente individuabili) a causa di un fatto o comportamento che nel nostro ordinamento non è perseguibile (in quanto non costituisce reato)”.

Il successivo decreto legislativo n. 251/2007, recante l’attuazione della direttiva 2004/83/CE del 29 aprile 2004, avrebbe poi chiarito che si considera meritevole di status di rifugiato o di protezione sussidiaria anche chi lo richiede

“per gravi discriminazioni e repressioni di comportamenti non costituenti reato per l’ordinamento italiano, riferiti al richiedente e che risultano oggettivamente perseguibili nel Paese di origine”.

Alcuni esempi

Come risulta dal report del progetto “Fleeing Homophobia”,1 tradotto in più lingue, anche in questa materia le disparità fra le prassi vigenti nei vari Paesi europei sono abissali, e l’adozione di pratiche comuni sembra lontana. Si tratta, in primo luogo, di misurare l’effettiva pericolosità della vita nel Paese d’origine e, di conseguenza, la necessità di una protezione. Relativamente a questo aspetto, Paesi per altri versi più avanzati del nostro si rivelano assai poco sensibili. L’esistenza di disposizioni che puniscono le attività sessuali consensuali fra persone dello stesso sesso non è ritenuta condizione sufficiente per il riconoscimento dello status di rifugiato in Spagna, dove, fatte salve rare eccezioni, solo ad attivisti LGBT è stata accordata questa forma di protezione; in Bulgaria, dove è necessario fornire prove di una precedente persecuzione; o ancora in Norvegia, dove la Corte d’appello ha negato l’asilo a un gay iraniano ritenendo che le limitazioni subite dalle persone omosessuali in quel Paese non possano essere considerate persecuzioni nel senso definito dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Altrove, la presenza di norme contro l’omosessualità è ritenuta condizione sufficiente, ma solo quando è possibile dimostrare la loro effettiva applicazione: così in Francia, Belgio, Regno Unito e Svezia. Non sempre, tuttavia, la prassi adottata è chiara, tanto che si registrano, per uno stesso Paese, decisioni opposte per richieste di asilo analoghe, come avvenuto in Portogallo, dove l’esistenza della criminalizzazione dell’omosessualità in Senegal è stata considerata decisiva e sufficiente in un caso, risoltosi positivamente con il riconoscimento di status di rifugiato, ma non in altri due, risultati in un diniego.

Un ulteriore punto sul quale le prassi divergono, riguarda le modalità di verifica della veridicità e della credibilità della richiesta presentata. Si pone quindi il problema non solo della ricostruzione delle vicende biografiche del/della richiedente, le cui testimonianze, rilasciate in forma scritta o orale, restano in generale la principale fonte di prove, ma anche del riconoscimento del suo reale orientamento sessuale. Informazioni a tal proposito possono essere ottenute, a seconda delle prassi in vigore, tramite domande specifiche sulle esperienze affettive e sessuali maturate nel corso della vita, sulle frequentazioni e sulla conoscenza della scena e della cultura LGBT del Paese d’origine, oppure tramite esami medici, su richiesta delle autorità (come in Bulgaria) o del diretto interessato (come in Germania). Purtroppo, in entrambi i casi, non sono mancati abusi e pratiche lesive della dignità umana dei richiedenti asilo, oltre che di dubbia efficacia. Ha destato scalpore, negli scorsi anni, la notizia, riportata dai media sia LGBT che mainstream, dei test fallometrici praticati in Repubblica Ceca e bocciati senza appello dall’Unione Europea (vedi Corriere della Sera). Quando invece l’indagine viene condotta sotto forma di intervista, non è raro il ricorso a domande umilianti sui dettagli delle pratiche sessuali compiute con i partner, così come giocano un ruolo spesso determinante stereotipi e pregiudizi che denotano una scarsa comprensione della realtà dell’omosessualità, specialmente per come è vissuta nei Paesi di provenienza degli interessati.

Italia: paese d’asilo?

Nulla di tutto questo in Italia, dove, da un lato, la semplice esistenza di norme punitive nei confronti dell’omosessualità, anche quando non applicate, è condizione sufficiente per l’ottenimento dello status di rifugiato, a fronte di una testimonianza credibile; dall’altro, una volta che le dichiarazioni rilasciate sono state ritenute attendibili, non è generalmente richiesta al/alla richiedente alcuna prova ulteriore del suo orientamento.

Grazie al lavoro di gruppi di volontari e operatori del settore sorti nel corso degli anni a Modena (per iniziativa di Giorgio dell’Amico, esperto nazionale in materia insieme all’avvocato Simone Rossi), Bologna, Milano, Palermo e Verona, è stato pertanto possibile accompagnare numerosi migranti LGBT nelle procedure di domanda d’asilo, spesso con esiti positivi. I casi trattati, che ammontano ormai ad un centinaio, riguardano, per la maggior parte, omosessuali maschi, probabilmente perché più visibili e agevolati negli spostamenti rispetto alle donne (che nelle società d’origine sono spesso confinate agli spazi domestici e dispongono di margini d’azione più limitati), anche se non sono mancati, naturalmente, casi di lesbiche e di transessuali (sia MtF che FtM). Fra le aree di provenienza, spiccano il Maghreb (Marocco e, in misura minore, Tunisia e Algeria) e l’Africa subsahariana, con un numero significativo di LGBT senegalesi. A seguire, l’Asia, con Iran e Pakistan in testa. In seguito all’approvazione della legge contro la cosiddetta “propaganda gay”, sono aumentati nel 2013 e nel 2014 i casi di richiedenti asilo originari della Federazione Russa, e non è difficile prevedere per i prossimi anni una conferma di questa tendenza, o addirittura un’estensione ad altre aree dell’Est Europa, specialmente se altri Stati un tempo appartenenti al blocco sovietico dovessero dotarsi di provvedimenti analoghi, come pare (purtroppo) probabile.

In ogni caso, l’esperienza accumulata in questi anni ha fatto sì che gli sportelli e i gruppi presenti nelle varie città d’Italia dispongano ormai degli strumenti necessari per accompagnare con successo i futuri richiedenti asilo. Allo stato attuale infatti, non sono più tanto le procedure per l’ottenimento dello status di rifugiato a porre le sfide maggiori, quanto la fase successiva dell’inserimento lavorativo e abitativo dei/delle migranti, senza contare, da un lato, le (ovvie) difficoltà di integrazione, e dall’altro i rapporti, spesso problematici, che i migranti LGBT intrattengono con i connazionali già presenti sul suolo italiano ed europeo e che potrebbero, una volta venuti a conoscenza della loro situazione, assumere atteggiamenti ostili nei loro confronti.

Numerosi sarebbero gli interventi possibili, per esempio tramite il progetto S.P.R.A.R. (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) oppure avviando servizi all’interno delle associazioni LGBT, come già avviene in varie parti d’Europa: basti pensare all’Olanda, dove il COC (Cultuur en Ontspanningscentrum, “Centro per la cultura e il tempo libero”) affianca i rifugiati nella scoperta delle città e nell’apprendimento della lingua, oppure al supporto fornito presso il Centro LGBT di Parigi dall’Ardhis (Association pour la reconnaissance des droits des personnes homosexuelles et transsexuelles à l’immigration et au séjour), che segue i migranti non solo nelle procedure di richiesta d’asilo ma anche nelle fasi di ricerca d’alloggio e di sussidi. Le associazioni possono soprattutto aiutare i migranti LGBT a crearsi degli spazi di socializzazione in un contesto più protetto, nonostante la stessa comunità omosessuale non sia, purtroppo, immune da fenomeni di razzismo ed esclusione.

 

Daniele Speziari
Sportello Migranti LGBT Verona

Fonte: Io sono minoranza.

 

1. Sabine Jansen e Thomas Spijkerboer, Fleeing Homophobia. In fuga dall’omofobia: domande di protezione internazionale per orientamento sessuale e identità di genere in Europa, COC Nederland, Vrije Universiteit Amsterdam, settembre 2011.

 

In copertina: fotografia di Gabriele Zocche

L’omogenitorialità come nuova inchiesta sociale

Uno dei temi sicuramente più scottanti e, per certi versi, pregnanti quando si entra nell’alveo di quella che è la “famiglia arcobaleno” è certamente quello dell’omogenitorialità, che vede schierati da una parte molti pro e dall’altra una legione di contro. Ad essere onesti, tutti noi che ci occupiamo di trattare questo tema così forte e delicato al contempo abbiamo a cuore la salute del bambino.

Eppure, inspiegabilmente, questo slogan è quasi sempre una bandiera riconosciuta unicamente a coloro che parteggiano per la fazione opposta, quasi come se chiunque sostenesse la genitorialità omosessuale fosse disinteressato a tale principio. Fare chiarezza non è semplice, poiché ci troviamo al giorno d’oggi in una società profondamente razionalizzata, dove il valore della scienza, del dato e del numero ha rimpiazzato (non sempre pro bono publico) il buonsenso e l’affettività.

La psicologia, nelle sue numerose branche e declinazioni scientifiche, la psichiatria e la psicoterapia hanno tentato di dare una risposta a questa domanda, con i mezzi attualmente a disposizione: stiamo parlando di un fenomeno umano ancora in corso e nel pieno del suo svolgimento, pertanto le risposte non sono chiare e definitive. Molte ricerche sono state compiute in ambiente anglosassone, dove l’omogenitorialità è presente da molti anni in maniera socialmente accettata, e tali studi non hanno messo in luce nessuna sostanziale differenza nello sviluppo bio-psico-fisico del bambino rispetto a coloro che sono cresciuti in famiglie tradizionali. Alcune ulteriori analisi americane condotte da Regnerus (2012) hanno nondimeno messo in luce come i figli omogenitoriali siano soggetti a un elevatissimo tasso di disadattamento, a smentita di quanto sostenuto dalle ricerche inglesi. Tuttavia, questa presunta confutazione arriva da un ambiente molto vario nella tipologia di approccio al tema (condurre un simile esperimento in Texas, dove è effettivamente stato svolto, o a New York può influenzare grandemente il risultato) e nessuno ha tenuto conto che il background socio-culturale ha il peso principale nello strutturarsi di situazioni di pregiudizio1 e di disadattamento. Questo fenomeno ha matrice esterna alla famiglia e si può risolvere con molta semplicità: il bambino, inserito in una società non discriminante sulla sua situazione famigliare, non vivrebbe il disadattamento sopracitato perché non riceverebbe pressioni sociali e discriminazione. Ne deriva pertanto uno svantaggio che non ha niente a che vedere con le opportunità di crescita e sviluppo che sono offerte dall’ambiente famigliare in sé, ma che è esterno ad esso; risulta pertanto un fattore da considerare a livello di società e non di singolo individuo o di nucleo famigliare.

Concentriamoci ora su approcci diversi, che si sono dedicati allo studio delle dinamiche interne alla famiglia. Molte delle critiche che vengono fatte agli studi favorevoli all’omogenitorialità, come ad esempio quello svolto dall’APA (American Psychological Association) nel 2005, la quale ha definito che anche le coppie diverse da quelle eterosessuali non siano “unfit to be parents”, quindi non siano da reputare inadatte a essere genitori, pongono l’accento sul fatto che essere “non inadatti” non equivale a essere “ottimali”. In termini puramente grammaticali, si può anche essere tentati di lasciarsi cullare da questo splendido uso della lingua; tuttavia, in termini pratici questa critica non sembra cogliere il punto della questione: se stessimo a valutare con esattezza ogni variabile statistica, economica e biologica che rende una coppia “non ottimale”, nessuno riuscirebbe più ad avere l’autorizzazione per avere figli. Definire una famiglia “ottimale” in termini di variabili come se fosse uno studio di funzione matematico lo trovo quantomeno riduttivo e riduzionista.

Altre critiche tra quelle principalmente mosse agli studi interessati all’argomento muovono da motivazioni metodologiche: sostengono esista una non congrua quantità di soggetti analizzati nel campione per sostenere dei risultati attendibili; che vi sia una disomogeneità nella scelta del campione, dettata da una non attenta considerazione delle realtà gay o lesbo; che vi sia una non completamente opportuna scelta nella realtà genitoriale eterosessuale rispetto a quella omosessuale, sostenendo che la difficile scelta omogenitoriale predisponga a una cura più attenta dei figli, mentre nella scelta dei campioni eterosessuali non si sia tenuto conto della condizione socio-culturale e motivazionale.

Alla fine di questa disamina critica, vorrei sollevare una questione: ma a noi davvero interessa valutare, come fosse una gara, chi cresce meglio? E se sì, di che principi stiamo parlando, a cosa facciamo riferimento? Un confronto senza esclusione di colpi tra coppie etero e omogenitoriali che veda la vittoria o la morte? O ci interessa, come detto all’inizio, la corretta e ottimale crescita del bambino?

In conclusione, quello che si può trarre da queste considerazioni è che la formazione di una famiglia e, più di tutto, l’analisi di un nuovo approccio alla genitorialità “altra” o omogenitorialità sono campi che vanno trattati con speciale cura e attenzione. Dalle ricerche citate, appare evidente come i figli omogenitoriali inseriti in un corretto ambiente socio-culturale, e con ciò intendo un background che si dimostra accogliente verso questa tipologia di parenting, non fanno emergere alcuno stato di disagio e di disadattamento in merito all’inserimento sociale e alle pari opportunità offerte a questi bambini, che peraltro risultano inseriti in famiglie profondamente motivate verso l’accudimento del minore. Questo appare inconfutabile anche dalle testimonianze delle numerose famiglie arcobaleno che hanno figli e che li crescono al massimo delle loro capacità e dando loro tutto l’amore che si possa desiderare ricevere. Nelle famiglie omogenitoriali i figli risultano maggiormente educati all’accettazione di ciò che è diverso, al riconoscimento della strutturazione consapevole e reciproca dei rapporti e all’indipendenza dalle pressioni sociali indebite, oltre che alla resistenza al conformismo (J. Laird, 2003). A sostegno di ciò, e forse in virtù del comprendere meglio questa dinamica, c’è da sottolineare come le famiglie con coppia omosessuale non possano contare sulla identità dei ruoli materno-femminile e paterno-maschile. Al contrario tali ruoli vanno negoziati all’interno della coppia e co-costruiti in una quotidianità spesso contraddistinta dalla discriminazione e dal pregiudizio (D. Lasio, 2006). Questa situazione, che si riflette assai probabilmente sulla psiche del bambino, lo predispone alla contrattazione intersoggettiva dei ruoli sociali (e, di conseguenza, alla tolleranza) piuttosto che all’imposizione di tali ruoli anche all’esterno della realtà di coppia.

Quel che trovo certo, e su questa posizione reputo che nessuno possa sentirsi offeso, è che se si concedesse ai genitori meritevoli, omo o eterosessuali che siano, la possibilità di prendersi cura e di donare il loro amore a dei bambini abbandonati, orfani o provenienti da situazioni di disagio famigliare, doneremmo non solo la felicità dell’essere genitori a persone che lo desiderano, ma offriremmo anche un più roseo futuro a questi bambini. La gioia dell’accudimento, del poter essere padri e madri amorevoli e bambini amati può curare molte più ferite, fisiche e psichiche, di quante non possa farne la filosofia perbenista di chi pensa che sia meglio per loro una ben più discreta e sicura permanenza negli orfanotrofi.

Jacopo Stringo

Fonte: Io sono minoranza

1_ Con il termine “pregiudizio”, in questo caso, si intende una serie di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, che originano da emozioni ingiustificatamente negative, a cui spesso seguono dei comportamenti ostili e/o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo, sia esso etnico, sociale o religioso, per la loro sola appartenenza ad esso (Brown, 1995). Il pregiudizio è pertanto definibile l’esito di un processo che porta a giudicare in maniera negativa un soggetto solamente basandosi sulla sua appartenenza a un gruppo specifico (Voci, Pagotto, 2010).

UISP è lo sport libero, democratico e antifascista. Sport per tutti!

Se celebriamo lo sport, quello libero, quello vero, non si può non citare l’associazione che più di tutte si batte sul territorio nazionale per un accesso allo sport senza discriminazioni e disuguaglianze: l’UISP.

L’ Unione Italiana Sport Per Tutti raggruppa più di 1,4 milioni di associati e si impegna dal lontano 1948 per promuovere la buona salute attraverso la cultura del movimento, lo sport come bene che interessa la qualità della vita, l’educazione e la socialità e che rientra in tutto e per tutto tra i diritti inalienabili di ognuno. Proprio dai principi di un’Italia libera, democratica e antifascista, come quella della coetanea Costituzione, l’Uisp ha deciso di partire vedendo nello sport un’energia sociale per la costruzione dell’uguaglianza di fatto.

Vivicittà, Giocagin, Bicincittà, Sport in piazza sono solo alcune delle iniziative alla portata di tutti che annualmente coinvolgono all’unisono decine di città italiane ed estere e che vedono l’Uisp al fianco di importanti associazioni italiane e internazionali come WWF, Unicef, Legambiente, Amnesty International, Aism.

L’obiettivo è affermare il ruolo benefico e positivo che lo sport, declinato nelle sue incalcolabili varianti, ha nella vita di ognuno di noi; non solo sulla salute fisica ma parimenti sul benessere psicologico e dell’intera società. Lo sport è un bene di primaria importanza con una capacità di coinvolgerci nell’intimo impareggiabile. Praticare una qualunque attività di gruppo permette di rapportarsi in maniera soddisfacente con gli altri, ci autorizza a sperimentare noi stessi, a toccare con mano qualcosa sentendoci protagonisti, a condividere quello che siamo sotto vari livelli; è un terreno dove crescono autonomia ed autostima. Alcune delle iniziative più belle e riuscite che l’Uisp sostiene sono proprio quelle giocate sul campo dell’inclusione, della solidarietà e dei diritti negati, sviluppando progetti di assistenza e di sostegno per le persone che vivono condizioni di emarginazione, povertà o disagio.

Dal 6 al 10 luglio avranno luogo a Castelfranco Emilia i Mondiali Antirazzisti. Un appuntamento imperdibile arrivato alla sua ventesima edizione, dove appassionati provenienti da tutta Europa giocano a pallone e condividono le loro differenze. Ma le battaglie sono perseguite anche attraverso i comitati locali. Di non molto tempo fa è infatti la partecipazione dei Bèrghem Refugees alla prima Melting Cup svoltasi nello scorso maggio a Milano. Una 3 giorni di calcio, basket e volley dove la nostra compagine di profughi richiedenti asilo ha ottenuto un ottimo terzo posto.

Mondiali Antirazzisti

Berghem Refugees

Una realtà che ridisegna le opportunità di ogni individuo senza distinzione di classe, genere, età, capacità. L’Uisp si impegna da sempre per portare anche nelle carceri attività ed educatori sportivi, offrendo ai reclusi un ponte relazionale con l’esterno, un’opportunità per ricominciare.

L’Associazione presta particolare attenzione allo sviluppo di alcuni sport tradizionali nella cultura dei migranti, fornendo coordinamento, patrocinando tornei e momenti di pubblico scambio. Un esempio fra tutti: Il cricket. Grazie all’Uisp ogni territorio organizza tornei per la promozione di questo sport, alcuni dei club del territorio disputano un torneo regionale e al termine dei playoff, restano 4 squadre per le fasi nazionali.

Naturalmente in un sistema aperto e sconfinato come quello sportivo c’è spazio per tutti, dai bambini agli anziani. Bowling, bocce, burraco, scacchi, subbuteo, tiro con l’arco, carrioli, ruzzola sono solo alcune delle attività con le quali ci si può sperimentare e dove lo sport diventa momento di aggregazione e contenitore di emozioni.

Da quest’anno e per i prossimi due l’Uisp è coinvolto, insieme ad altre associazioni che operano in Europa, a professionisti ed ex-calciatori a una rete di progetti, tra i quali Unmasking the Big Secret, con l’obiettivo di estirpare intolleranza e discriminazione nei confronti del binomio calcio-omosessualità e smascherare pregiudizi e stereotipi sui calciatori LGBT.

Insomma, quando lo sport mantiene saldo il suo valore socio-culturale il suo linguaggio è universale, supera ogni frontiera, lingua, culture e ideologia e diventa un dogma dell’intera umanità.

Una riflessione: minoranza che avanza

Parlare di Giorno della Memoria significa impegno a riflettere, a richiamare nella mente le cose apprese.

E se l’omofobia, la paura del diverso e le discriminazioni in genere sono le nuove malattie della società odierna, iosonominoranza.it  è il farmaco orientato a curarle.

Iosonominoranza è un progetto di Think community che nasce nel contesto veronese, uno spazio di condivisione e di scambio per proporre il nostro punto di vista minoritario, si legge. Il sito (nomination ai Macchianera Italian Award 2015, tra i migliori siti LGBT) è un agglomerato di contributi di vario genere, un contenitore aperto alla partecipazione di tutti, che restituisce una panoramica sulla lotta contro tutte le discriminazioni. Come tutti i progetti ben riusciti nasce da un bisogno: superare l’incomprensione, l’intolleranza, la sensazione di non accettazione e diversità. Il fine ultimo è proprio quello di costruire una società più aperta, unita, sana e rispettosa della diversità di ognuno, qualunque essa sia; il mezzo è quello di un orgoglioso e festoso condividere che cerca, nel frattempo, di abbattere tabù e sradicare ignoranze.

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Attualità, cultura, testimonianze, esperienze, petizioni, approfondimenti, sono tante le sezioni in cui il sito è articolato. Tra le parti più scanzonate possiamo citare la rubrica video Pink Logan Risponde, animata dall’ esuberante drag queen Pink Logan, pensata per risolvere dubbi e rispondere alle domande della community. Altra felice risorsa di intrattenimento sono i loaded del programma radio @GayBar di Radio Stonata, dedicato alla comunità LGBT italiana: vero e proprio progetto sociale che di puntata in puntata affronta e approfondisce un argomento differente.

Selezionando uno fra i tanti percorsi offerti, posso menzionare la sezione Fuori dall’Armadio, dedicata al coming out. Lungi dal voler indicare una sorta di percorso obbligato, vuole semplicemente essere un punto di riferimento o appoggio per tutte quelle persone che hanno intenzione di dichiararsi ai loro cari. Dall’accettazione di sé stessi si passa attraverso le ragioni, i modi, i tempi per arrivare sino alle reazioni, alla creazione di un momento di transizione condivisa, di ascolto e comprensione reciproca.

 

L’ evento significativo del passato weekend, quando le associazioni LGBT si sono riversate nelle piazze al grido di #svegliaitalia, in vista della discussione al senato del ddl sulle unioni civili, è uno spunto di riflessione su cui il Paese non può più temporeggiare. Visitare iosonominoranza è un’occasione per imparare a vedere l’altro, liberandosi da inutili specchi deformanti. Opportunità per riflettere.

After the Referendum! Let’s fight all inequality

Cammino lungo il fiume Liffey e tutt’attorno si scorgono ancora nitidi i segni della vittoria. Alte e fiere sventolano le bandiere arcobaleno, i pub e i commercianti ancora tengono appesi i drappi e i manifesti del “Sì”. Temple Bar ancora risplende di colori festosi e South George Street, ogni sera, rivive e ricorda le gloriose giornate del Referendum. Il castello di Dublino, in quel giorno giovane e colorato come mai, si è trasformato nel teatro gioioso dei festeggiamenti che ancora trasuda di amore frocio. I verdi parchi minuziosamente curati ricordano le orde di giovani e giovanissimi che in quel giorno hanno celebrato e si sono ubriacati in nome della vittoria dell’amore. Amore libero, amore che non segue le regole bigotte di una società che per decenni lo ha disconosciuto, amore che si lascia trasportare dalla forza del cambiamento. Amore che ha il coraggio di seguire i propri desideri e le proprie passioni, senza lasciarsi imbrigliare e controllare. Amore che finalmente ha la possibilità di scegliere come vivere ed essere riconosciuto come tale.
E’ passato più di un mese da quello stupendo 22 Maggio, ma i segni della vittoria ancora saltano all’occhio e appartengono alla memoria collettiva di Dublino.Foto 2

Con il 62% dei “Sì” l’Irlanda è il ventunesimo paese al mondo, il primo per via referendaria, ad approvare i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Circa 3,2 milioni di irlandesi sono stati chiamati alle urne per esprimersi sulla modifica dell’art 42 della Costituzione che autorizza “il matrimonio tra due persone, senza distinzione di sesso”. In un Paese in cui fino al 1993 l’omosessualità era considerata reato, conservatore e con una forte tradizione cattolica, questo risultato rappresenta una vera e propria “rivoluzione culturale”. Il massiccio voto favorevole rappresenta, infatti, una grande vittoria per il principio di uguaglianza e mostra, senza dubbio, come l’Irlanda sia un paese libero, progressista e aperto a tutti.
Questa è una vittoria,
in primis, per la comunità LGBT che è stata il cuore della campagna e che ora ha il rispetto e il supporto della maggior parte dei suoi concittadini. E’ una vittoria per i più giovani che hanno portato avanti la campagna del SI porta a porta e hanno dato un apporto e una spinta innovatrice a questa vittoria. E’ una vittoria per la working class, da sempre considerata bigotta e perbenista, in quanto i picchi più alti del SI si sono ottenuti nelle zone popolari di Balleyfermot, Cherry Orchard e Fingal. E´una vittoria per tutti quelli che si battono per le ingiustizie e credono in un mondo in cui le differenze sono un forte potenziale e non qualcosa da proibire e nascondere.

Members of the Yes Equality campaign begin canvassing in the center of Dublin, Ireland, Thursday May 21, 2015. People from across the Republic of Ireland will vote Friday in a referendum on the legalization of gay marriage, a vote that pits the power of the Catholic Church against the secular-minded Irish government of Enda Kenny. (AP Photo/Peter Morrison)

Già dal 2010, le coppie omosessuali potevano contrarre le unioni civili, ma con la vittoria del referendum, si introducono uguali diritti e protezione per le coppie omosessuali ed eterosessuali. Si tratta della fine di una discriminazione secolare che riconosceva diritti diversi per gli sposi omosessuali e che li categorizzava come coppie di secondo livello. Nel compatto “fronte del SI” si scorgono, in prima linea, le associazioni LGBT, poi il governo e i leader dei maggiori partiti politici, le grosse corporation, le celebrità dello spettacolo e dello sport, tutti uniti nel nome dell’uguaglianza e dell’amore. Sull’altra sponda, la Chiesa Cattolica, metodista e presbiterana che millantava la fine della famiglia e invitava a riflettere prima del voto, finendo per essere travolta dai suoi stessi discorsi retrogradi ed escludenti. L’esito del voto ha inflitto un duro colpo alla vecchia guardia cattolica presente nel paese, la quale ha perseguito una disdicevole e omofoba campagna a favore del NO. Risulta chiaro come in Irlanda gran parte della popolazione voglia un nuovo modello di società, mostrando la forza e la determinazione per costruirla.
Nonostante il grande salto in avanti, altre due importanti questioni restano irrisolte nel panorama legislativo e politico irlandese dell’
after referendum. Il diritto delle donne di scegliere sul loro corpo attraverso un libero, sicuro e legale diritto all’aborto e la fine della forte discriminazione verso le persone trans nei vari ambiti della società e del lavoro.Foto 4

Alla luce dell’esito del Referendum, l’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, in un’intervista alla televisione nazionale Rtè, dichiarava che “la Chiesa in Irlanda deve fare i conti con la realtà, è una rivoluzione sociale e la chiesa non potrà semplicemente far finta di nulla. Ci dobbiamo fermare, guardare ai fatti e metterci in ascolto dei giovani”. L’arcivescovo, ammette la sconfitta e la pesante sberla che la Chiesa irlandese riceve, in un processo di secolarizzazione sempre più evidente. Le giovani generazioni, a differenza dei genitori cresciuti in un contesto fortemente cattolico e proibizionista, la pensano in maniera differente e hanno la forza di mobilitarsi per ciò che credono. Questo risultato rende ancora più grave la posizione dell’ultimo stato dell’Europa occidentale, l’Italia, che ancora non ha alcuna tutela per le coppie gay. Gravi sono anche le dichiarazioni del cardinal Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, che si è detto profondamente rattristato per i risultati del referendum dicendo “La Chiesa deve fare i conti con la realtà, ma nel senso che deve rafforzare l’impegno nell’evangelizzazione. Penso che non sia solo una sconfitta dei principi cristiani, ma una sconfitta per l’umanità”. Queste dichiarazioni hanno scatenato giustamente indignazione e rabbia sia nel mondo laico che cattolico, mostrando come la Chiesa italiana, nonostante le dichiarazioni di apertura di Papa Francesco, non intenda far alcun passo indietro su questi temi. La strategia del Papa nella quale apre (a parole) alle differenze della natura umana senza, però, cambiare la dottrina sta ora rivelando i suoi limiti e le sue contraddizioni. La bomba del referendum, infatti, manda in frantumi nuovamente la propaganda ecclesiastica, secondo cui le spinte al riconoscimento dei diritti omosessuali arriverebbero esclusivamente da agenzie internazionali come l’Onu, l’Unione Europea e i paesi Nord Europei, che starebbero mettendo in atto un’indottrinamento culturale. Tutto questo per minare l’idea cristiana di famiglia unita, sacra ed eterosessuale. Pura retorica conservatrice fortemente smentita dal voto popolare in un paese con lunga tradizione cattolica che mostra come il tema dell’omosessualità sia un tema di scontro e pietra d’inciampo per una Chiesa che sempre più si allontana dai suoi discepoli. In tutto il mondo, il tema dei diritti civili sta portando, con varie sfumature, a modificare le costituzioni, mostrando la tendenza a riconoscere come la sessualità umana sia varia e non coercibile o correggibile. Essa è, invece, parte integrante dell’identità della persona e parte fondamentale nel processo di crescita di ognuno.foto 5

Passata l’euforia delle celebrazioni, è importante fermarsi e riflettere su come si è ottenuta questa vittoria. Riprendendo un articolo uscito qualche settimana fa sul The Guardian, bisogna mettere le mani avanti sul forte precedente che questo referendum crea in termini di agire politico. Per quanto sia stupendo che un popolo si esprima a favore di una minoranza e le garantisca diritti prima negati, ciò rivela anche l’altro lato della medaglia. Un tema così importante come i matrimoni gay, un diritto civile imprescindibile, viene lasciato alla mercé di un referendum e non deciso dai parlamenti o dai tribunali come spetterebbe. “I diritti delle minoranze non possono e non devono mai essere decisi dalla maggioranza”, redarguisce l’acuto colunnista Saeed Kamali Dehghan. I diritti delle minoranze sono riconosciuti tali, proprio per proteggere queste ultime da eventuali abusi della maggioranza. Cosa succederebbe se si incoraggiasse il referendum in paesi in cui l’opinione pubblica non è illuminata o tollerante come in Irlanda? Cosa succederebbe se si proponesse un referendum su questi temi in paesi dell’Africa o del Medio Oriente? O, perché no, in Italia? Questo voto ci mostra come la pensano gli irlandesi e non deve diventare la pratica politica che legittimi o meno il naturale diritto del matrimonio gay. Il diritto di sposarsi è riconosciuto come diritto fondamentale dalla Carta Europea dei diritti fondamentali e dev’essere garantito in quanto tale e non essere sottoposto al voto della pericolosa maggioranza.

Fotografia di copertina via Reuters

Giornata contro lo stereotipo: Orlando per l’identità di genere

Nonostante siano passati esattamente 25 anni da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità riunita a Ginevra depennò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, ancora una settantina sono i Paesi nei quali l’unione consensuale tra persone dello stesso sesso è considerata reato, 5 quelli in cui viene punita con la morte. Tuttavia anche dove la legge non comporta sanzioni per le coppie omosessuali queste sono spesso vittime di violenze e aggressioni, fisiche e verbali, nonché di esclusioni e svalutazioni basate sul pregiudizio.

Proprio per creare campagne di sensibilizzazione, rivolte soprattutto alle scuole e alle famiglie (luoghi in cui si verificano la maggior parte dei casi di omofobia), il 17 maggio si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, promossa nel 2007 dall’Unione Europea.

Ed è proprio in questo ambito che noi di Pequod ci siamo diretti verso il bergamasco per fare quattro chiacchiere con Mauro Danesi, promotore e tra gli organizzatori del progetto “ORLANDO identità, relazioni e possibilità”, in occasione della sua seconda edizione, promosso da Laboratorio 80: «Da tempo con Lab 80 e Laboratorio 80 si pensava a creare una rassegna culturale sulle identità di genere e gli orientamenti sessuali, uno spazio che toccasse in modo efficace questi temi spesso scomodi perché complessi e lo facesse tramite prodotti artistici di qualità.»

Il foyer è uno dei momenti più importanti, poiché motivo di incontro e di scambio.
Il foyer è uno dei momenti più importanti, poiché motivo di incontro e di scambio.

Quelli dal 13 al 17 maggio sono stati infatti giorni densi di iniziative che hanno coinvolto la città di Bergamo non solo in incontri di dibattito, ma anche e soprattutto in un’esperienza artistica a tutto tondo, perché,  come dice Mauro, se bisogna lavorare per una cultura pluralizzata e aperta al diverso, quale strumento poteva essere più adeguato dell’arte con i suoi plurali linguaggi? Il cinema, la danza, il teatro e la musica si sono dunque alternati sui palchi di “Orlando” con l’intenzione di mostrare le storie dal loro interno, «in questo modo speriamo di riuscire a contrastare i tabù e gli stereotipi, lavorare per una cultura delle differenze e ampliare gli orizzonti di comprensione.»

La locandina della prima edizione di Orlando, svoltatisi nel maggio del 2014.
La locandina della prima edizione di Orlando, svoltatisi nel maggio del 2014.

Ma per prima cosa mi sembra doveroso individuare l’origine del nome che dà il titolo all’intera iniziativa, Orlando. Non si tratta del famoso eroe carolingio a lungo cantato dai poeti medievali, bensì del omonimo personaggio protagonista del romanzo “Orlando”, scritto dall’autrice inglese Virginia Woolf nel 1928. Egli si trova a dover affrontare un viaggio attraverso i secoli, cambiamenti sociali, costumi ed etiche, fino a che un giorno, dopo un insolito sonno durato una settimana, svegliandosi, si scopre donna. «Orlando è un libro filosofico e affascinante dove la pluralità umana è descritta con leggerezza, gli stereotipi di genere e le abitudini sono smascherate con eleganza: dove si riflette sulle differenze e sulle trasformazioni con poesia e intelligenza, aprendo possibilità alla propria vita.»

Vi è stato dunque un evidente filo rosso negli incontri e negli spettacoli organizzati in questi giorni: un’apertura verso la complessità degli orientamenti sessuali e delle identità di genere, cercando nello stesso tempo di lavorare sulle radici dell’omofobia. Fare cultura per cercare di capire e di accettare l’altro senza paure né pregiudizi. “Ciò che si capisce non scandalizza” diceva Moravia rispondendo a Pasolini nel film “Comizi d’Amore”.

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«Non solo chi appartiene alla minoranza LGBT ( ampiamente presente nel tessuto sociale cittadino) ma soprattutto ORLANDO è diretto a chi a tale minoranza non appartiene: i discorsi sugli stereotipi di genere, sulle identità e sulle possibilità, le relazioni e gli affetti ci coinvolgono tutti e ampliare le libertà (senza minacciare le pre-esisistenti come spesso i più conservatori temono) è un processo di interesse collettivo.»

Infatti la risposta è stata soddisfacente già dal primo giorno che ha contato la presenza di più di 200 persone negli eventi serali, così come molto partecipata è stata la serata del venerdì organizzata con il Festival Danza Estate – spettacolo JOSEPH e film FIVE DANCES. Per il week end si aspetta il pienone come giusta conclusione dell’evento.

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
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