L’egoismo dell’Occidente copre con un silenzio assordante la questione migratoria. Mentre noi affrontiamo la difficile questione pandemica, le persone migranti continuano ad approdare sulle coste continentali, a muoversi e a fuggire da situazioni dolorose ed esasperate dall’emergenza sanitaria che sta colpendo la nostra Europa.
Progetto 20K, realtà impegnata nel sostegno alle popolazioni migranti dal 2016, ha potuto osservare l’evolversi della situazione a Ventimiglia negli ultimi mesi. Qui continuano i respingimenti dei migranti verso l’Italia, inclusi i minori non accompagnati arrivanti da Malta e Lampedusa.
Da Marzo pochissime persone sono arrivate in città, così come al campo della Croce Rossa, che ad Aprile contava 250 persone, mentre si lavorava sul trasferimento di famiglie e richiedenti asilo presso alcuni centri di accoglienza. Le attività di assistenza spontanee locali hanno subito una battuta d’arresto dall’inizio della pandemia, mentre alcune ONG continuano a operare sul territorio.
L’emergenza sanitaria rende ancora più difficili gli spostamenti delle persone migranti, e a causa dei controlli intensificati diminuiscono le possibilità di muoversi liberamente. A livello nazionale si è mossa una campagna di regolarizzazione per tutti i migranti residenti in Italia chiamata Siamo qui: Sanatoria subito. Ora più che mai è imperativo che tutti possano accedere al servizio sanitario nazionale.
Un altro effetto della pandemia è che tutti i migranti che sbarcano sulle coste europee sono obbligati a passare per l’Italia. Che si possa parlare di una doppia discriminazione? Allo status di migranti e alla sospensione di Schengen, si aggiunge infatti la complicazione dell’aver transitato in Italia, primo paese europeo a essere colpito dal virus in maniera significativa.
Nel frattempo le autorità francesi hanno rinnovato i controlli ai propri confini per altri sei mesi, dal 1 maggio al 31 ottobre 2020.
Immagine di copertina: foto del mare a Ventimiglia, di Hans Braxmeier (dal sito Pixabay).
Ventimiglia è simbolo degli ermetici confini Europei, la città di confine dove Progetto 20K ha iniziato a operare dal 2016. Oltre al supporto generale alle persone in transito, grazie anche all’ apertura di Eufemia – Info and Legal Point, nasce negli ultimi anni il Sister Group: gruppo femminista nato dall’ esigenza di dedicare spazi specifici alle donne migranti.
Apriamo l’intervista con una domanda che le stesse attiviste si sono poste: «Quali relazioni esistono tra la violenza dei confini e la violenza di genere, che anche noi attiviste sentiamo sulla nostra pelle?». Altra presa di posizione chiave, sottolinea ancora il concetto di sopra: «Il nostro 8 marzo è contro la Legge Salvini, contro la chiusura dei porti, per un Permesso di Soggiorno Europeo slegato dal lavoro e dalla famiglia».
Proprio questa ricerca di intrecci, tra tematiche ampie e complesse si muove il Sister Group: «Un gruppo di attiviste di Progetto 20K e NUDM Genova, in tempi e per ragioni diverse ci siamo avvicinate al contesto di Ventimiglia». Le attiviste ricordano bene le «settimane di monitoraggio sui confini, di manutenzione di sentieri, aiuto materiale e informativo alle persone migranti, ecc… Tutte attività che ci hanno consentito di cominciare a capire qualcosa delle dinamiche del confine».
NUDM Genova per la chiamata alla manifestazione del 14 luglio 2018 a Ventimiglia (GE)
Le attiviste ci raccontano la brutalità del contesto e quella voglia di realizzare un luogo veramente alternativo e solidale, generatrice di interazioni: dall’assenza di possibilità al costruirne una insieme alle persone in viaggio. Continuano le ragazze:«A novembre del 2017 le donne che vivevano sotto il ponte nell’accampamento informale erano sempre più numerose: molte non volevano stare al campo istituzionale della Croce Rossa, troppo lontano e troppo militarizzato. Iniziava a fare freddo e insieme alle donne c’erano bimbe e bimbi piccolissimi, addirittura neonati. Vedevamo che le donne venivano all’Info Point, ma con evidenti difficoltà: se ne stavano relegate in un angolo e il loro turno alla postazione internet veniva sempre dopo quello degli uomini» .
Riusciamo a comprendere quale è stato il percorso di questo progetto nel contesto di confine e all’ interno di Progetto 20K, scoprendone la nascita e l’evoluzione, fino ad arrivare alle attività. «Il Sister Group è nato a fine novembre del 2017 e ha interrotto le attività a dicembre del 2018: Eufemia non esiste più, abbiamo avuto lo sfratto. Come modello esistiamo ancora, siamo convinte della sua utilità e riproducibilità: ha portato l’approccio e la politica femminista all’interno di un progetto politico fatto da maschi e femmine, che sicuramente era predisposto a lasciarsi contaminare, ma non ancora femminista».
Concretamente? Spiegano le attiviste:«Quando Eufemia era in attività, le donne potevano lavarsi, cambiarsi gli abiti e recuperare materiale utile per l’igiene; usare internet e caricare il cellulare, avere informazioni sulla situazione al di qua e al di là della frontiera, sui servizi sanitari del territorio e sui loro diritti; potevano rilassarsi ascoltando musica, facendosi a vicenda unghie e capelli, affidando per qualche ora le figlie e i figli alle volontarie. Era un posto dove ritrovare un barlume di normalità, dove recuperare un poco di energia e fiducia reciproca e dove condividere speranze e ostacoli».
La peculiarità delle attività è anche avere occhi e orecchie anche per le strade di questa peculiare città di confine, cioè nei luoghi dove la violenza è particolarmente brutale. «Avevamo una particolare attenzione a ciò che accadeva fuori da Eufemia: tante donne arrivano già sotto controllo del racket della tratta e queste donne sono difficilmente avvicinabili: arrivano e subito scompaiono. Abbiamo cercato di monitorare questi movimenti clandestini per capire come provare a intercettare e aiutare queste donne – tra loro tante minori», mi spiegano le attiviste.
Questa attenzione si coglie anche dalla localizzazione fisica che aveva l’ Infopoint di Progetto 20k nel suo complesso, cosi spiegato dal gruppo: «Abbiamo aperto il Sister Group all’interno dell’ Infopoint Eufemia, situato in posizione strategica: a cinque minuti a piedi dalla stazione ferroviaria di Ventimiglia e a un passo dall’accampamento informale sul greto del fiume Roya. Un giorno a settimana lo spazio era aperto esclusivamente a donne e bambine/i».
Diverse attiviste, essendo liguri, vedono questo confine come primario nella loro azione politica: «Ventimiglia era la nostra frontiera: da anni vedevamo le violazioni sulla pelle delle persone migranti, l’ostilità o totale cecità della cittadinanza e delle istituzioni, vedevamo quanto questo danneggiasse anche noi, italiane magari, ma con pelli di diverso colore e con il bisogno di cambiare la società a beneficio del 99% della popolazione mondiale. Era però difficile capire come intervenire, come incontrare le persone migranti. L’ infopoint Eufemia, aperto da Progetto 20K ci dava una base fisica e pratica per lavorare sul territorio e in particolare per noi con le donne e le/i minori».
La mancanza di uno spazio fisico riduce notevolmente le possibilità d’azione, ma ancora una volta la riflessione delle attiviste è profonda e laboratoriale. Valorizzando l’autodeterminazione dei corpi delle donne migranti, «ricominciando le attività, trovando un luogo adatto. Se questo non fosse possibile, di dovrà riorganizzare il lavoro orientato alla relazione con le donne in maniera differente. Abbiamo delle ipotesi ma dobbiamo darci il tempo di sperimentarle e verificarle».
Concludendo, Sister Group porterà l’8 marzo, data dello sciopero femminista globale, anche la questione migratoria, «perché il nostro femminismo parla al 99% della popolazione mondiale, quindi non può che essereantirazzista. In Italia, ma non solo, assistiamo a una campagna di odio contro le persone migranti, diventate ormai il capro espiatorio per ogni male sociale.
Vediamo come siano le donne migranti a pagare il prezzo più alto di questo razzismo diffuso: perché la protezione umanitaria non può essere rinnovata e vengono sbattute fuori dalle accoglienze anche se incinte, anche se con minori. Quando diciamo “sorella non sei sola” lo diciamo a tutte le donne che hanno deciso di cambiare la loro vita, di cercare una strada di libertà e autonomia, ma costantemente si scontrano con la violenza dei confini, dell’economia, del sessismo».
Mi ricordo bene quando sentii parlare per la prima volta di Progetto 20K, era la primavera del 2016, qualche mese prima che iniziasse l’attività vera e propria sul territorio di Ventimiglia. Come Pequod ha già raccontato più volte, Progetto 20K è un gruppo di persone che tramite pratiche di solidarietà attiva sostiene e supporta le persone in viaggio bloccate al confine italo-francese, precisamente a Ventimiglia. Decine sono le attività e i microprogetti che porta avanti nella provincia di Imperia e non solo, ma più di tutto vorrei raccontare delle modalità: così lungimiranti, aperte, inclusive, forti e trasversali che hanno aggregato tante persone diverse intorno a questa esperienza politica.
Era il 2016, già da poco più di un anno mi interessavo a contesti sociali e politici a Bergamo ed è proprio alle assemblee della Kascina Autogestita Popolare Angelica “Cocca” Casile che sentii parlare del progetto per la prima volta. Qualche mese dopo si organizzò al bar Circolino Basso la prima presentazione. Ne rimasi subito colpito, per la forza dei racconti di chi c’era stato e delle immagini proiettate: queste persone dicevano di stare sul confine a sporcarsi le mani supportando chi dallo stesso confine era bloccato e violentato! Fu proprio amore a prima vista: l’idea di prendere e partire, anche solo per qualche centinaio di chilometri, per oppormi a violenze e ingiustizie che in realtà non troppo conoscevo, mi affascinava moltissimo.
Il cartello posto all’ingresso dell’infopoint Eufemia di 20K a Ventimiglia in sostegno di Mimmo Lucano, sindaco di Riace e promotore del cosiddetto modello Riace per l’accoglienza ai migranti, arrestato il 2 ottobre 2018.
A Ferragosto mi ritrovai così catapultato nella piccola casetta affittata per il progetto, iniziai a conoscere i luoghi di Ventimiglia e a masticare le pratiche di 20K: subito l’entusiasmo aumentò ancor di più, ma anche la difficoltà di agire in quel contesto.Il senso d’impotenza era all’ordine del giorno, sottovalutarsi e criminalizzarsi erano la costante delle discussioni serali; dall’altra parte c’era l’essere gruppo: l’aggregazione con persone che venivano da un viaggio lunghissimo, culture diverse, lingue diverse e la sensazione, nonostante tutto, di aver loro agevolato il percorso.
La cosa che più mi colpì fu l’ordinanza comunale che vietava di distribuire beni alimentari, acqua o vestiti alle persone per strada e che rimase in vigore fino al febbraio 2017: non parliamo di un’ordinanza del Prefetto o del Questore, ma di un sindaco del Partito Democratico che vietava questi semplici gesti di solidarietà e umanità. Tutto ciò rafforzava il mio impegno, ma soprattutto il progetto. Ci rendevamo conto di essere dalla parte giusta e che ricoprivamo un ruolo politico in grado di ridistribuire potere e garantire autodeterminazione.
Con Progetto 20K ho imparato a seguire ed essere partecipe attivamente di un contesto lontano, ma che aveva (ha) disperato bisogno delle boccate d’ossigeno che sappiamo portare. Ce lo si leggeva negli occhi quando, a settembre 2016, abbiamo deciso di trasformare il progetto estivo in uno di lungo periodo.
Coi mesi imparai a conoscere meglio i miei compagni e compagne di viaggio, alcuni già intravisti e mezzi conosciuti, altri completamente estranei, ma con cui da subito si è costruito un rapporto di amicizia e di fiducia, semplicemente perché si condivideva la stessa avventura. In realtà quest’ultima è molto più simile ad un vero e proprio viaggio: spostarsi dal proprio territorio e intrecciare, in un luogo altro, il viaggio delle persone migranti e contemporaneamente quello delle persone solidali, che ti sostengono come fossi un fratello o una sorella.
Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta organizzata da Progetto 20K il 14 luglio 2018.
Ricordo l’organizzazione della manifestazione “Ventimiglia – Città Aperta”: anche in questo caso si parla di una modalità e di un processo molto esteso, mai visto nell’Imperiese. Un progetto ambizioso che alla fine ha portato diecimila persone il 14 luglio 2018 a Ventimiglia, ma nei mesi prima rinunce, fatica e spossatezza erano all’ordine del giorno. A mano a mano che ci avvicinavamo alla data vedevamo quanto la nostra proposta si rispecchiava negli occhi di migliaia di singoli e organizzazioni in Italia e non solo. Una volta scesi per le strade della città, come molte volte (mi) succede, tutto diventa travolgente e gioioso. Proprio quella spensieratezza che caratterizza Progetto 20K è stata trasmessa ovunque.
Il turbinio di sensazioni che mi hanno attraversato e continuano a farlo le auguro a chiunque si provi ad avvicinare a Progetto 20K o ad altri percorsi. Sicuramente l’essere così inclusivo, aggregativo e stimolante è una peculiarità del nostro progetto, anche dopo aver conosciuto diverse realtà italiane è quasi impossibile trovare la stessa spensieratezza e serenità respirata con questa esperienza. Certo, a volte disordinata e confusa, forse anche avventata, se no che viaggio sarebbe?
In copertina: la manifestazione del 29 dicembre 2018 a Ventimiglia, organizzata da 20K per protestare contro la chiusura dell’infopoint Eufemia, che forniva assistenza legale e supporto ai migranti.
Foto tratte dalla pagina Facebook di Progetto 20k, tutti i diritti riservati.
Si ringraziano Claudio, Sara H., Elena e Francesco.
Negli ultimi anni la questione dell’immigrazione si è imposto come tema focale del dibattito politico in Italia e in Europa. Diversi partiti e movimenti in tutto il continente hanno fatto della lotta all’immigrazione il cardine dei propri programmi elettorali, inneggiando alla chiusura delle frontiere e alle espulsioni forzate, senza elaborare delle proposte serie per la gestione adeguata del flusso migratorio e per favorire l’integrazione. A questo clima di populismo opportunista e immobilismo politico, tuttavia, si contrappongono realtà come 20k, progetto nato del 2016 che fornisce supporto ai migranti che gravitano intorno alla frontiera di Ventimiglia (IM). A un anno e mezzo di distanza dalla nostra prima intervista ai volontari del Progetto, li abbiamo ricontattati per capire com’è la situazione al confine di Ventimiglia oggi e come stanno vivendo questo clima politico. Ne abbiamo parlato con Stefano Quaglia, studente di Scienze Politiche a Bologna, che per 20k si occupa dell’organizzazione e coordinazione di eventi e di gestire le relazioni con altre realtà e associazioni esterne.
Come è cambiato il Progetto 20k nell’ultimo anno e mezzo?
20k è un progetto, non un collettivo, e in quanto tale è in continua evoluzione, grazie proprio ai diversi contributi delle persone che man mano vi prendono parte. Nell’ultimo anno e mezzo, infatti, diversi nuovi volontari, di cui un gruppo già facente parte di Non una di meno Genova, hanno iniziato a collaborare al progetto, portando quindi con sé le proprie idee ed esperienze. La svolta principale per 20k è stata la decisione di organizzare una grande manifestazione a Ventimiglia per l’estate 2018, Ventimiglia Città Aperta, che ha avuto luogo lo scorso 14 luglio. Questo evento, che ha visto la partecipazione di quasi 10.000 persone, è stato un vero salto di qualità per il Progetto, perché ha rappresentato il coronamento degli sforzi compiuti negli ultimi due anni, dandoci un riscontro tangibile del nostro lavoro. La manifestazione ci ha inoltre permesso di allargare la nostra rete di relazioni sia a livello nazionale che locale. Abbiamo ricevuto l’appoggio di piccole associazioni del territorio, studenti delle superiori e anche di privati, cioè in generale della società civile cosciente della questione migratoria e che cerca e vuole essere un’alternativa alle politiche attuali. Diverse realtà locali sono ora partner del Progetto e partecipano attivamente alle nostre iniziative.
Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta del 14 luglio 2018.
Com’è quindi la situazione a Ventimiglia oggi? Il clima politico ostile ha peggiorato la situazione?
Noi di 20k ci teniamo sempre a far presente che dal 2015 a oggi Ventimiglia è sempre stato un laboratorio di pratiche repressive (ma fortunatamente anche di pratiche solidali). Il Sindaco PD Enrico Ioculano, infatti, non ha mai favorito le attività a sostegno dei migranti, vietando ad esempio la distribuzione di cibo e altre iniziative di solidarietà ben prima che anche altri comuni in Italia si muovessero in tal senso.
Detto ciò, sicuramente le posizioni ostili e intolleranti dell’attuale governo Lega-Movimento 5 Stelle hanno contribuito ad accrescere le tensioni sociali e le tendenze xenofobe e razziste anche a Ventimiglia. Grazie alla manifestazione del 14 luglio, infatti, avevamo guadagnato sostegno nel territorio e godevamo quindi di un po’ più di tolleranza anche da parte delle istituzioni; tuttavia, in seguito al Decreto Sicurezza presentato dal governo a settembre e alla circolare del 1° settembre del Ministero degli Interni che chiedeva ai prefetti di intensificare i controlli delle occupazioni, abbiamo subito percepito un inasprimento della repressione nei nostri confronti. La polizia ultimamente si è presentata sempre più spesso al nostro infopoint Eufemia, che ha sede presso un ufficio da noi regolarmente affittato, chiedendo i documenti e cacciando i migranti dall’area. Questi controlli e rastrellamenti su base etnica avvenivano regolarmente anche ben prima di settembre, ma è innegabile che negli ultimi mesi si siano intensificati.
Qual è invece la posizione della popolazione dell’area di Ventimiglia nei confronti dei migranti e del vostro progetto?
Una componente della popolazione di Ventimiglia rimane purtroppo fortemente ostile ai migranti presenti sul territorio; è filo-leghista e in alcuni casi anche filo-fascista, date le minacce di morte inneggianti a Traini (l’autore dell’attentato di Macerata del 3 febbraio 2018, ndr) ricevute dal Sindaco lo scorso marzo. Il resto della comunità sostiene invece il Sindaco PD Ioculano, considerandolo come il salvatore umano che in realtà non è.
Nell’ultimo anno siamo comunque riusciti a instaurare collaborazioni e portare avanti attività con varie realtà locali di tutto il territorio che da Nizza arriva fino a Sanremo e Imperia. L’eccezione è proprio Ventimiglia, dove riscontriamo ancora difficoltà nel creare una rete di collaborazioni, in quanto le associazioni principali, come ad esempio l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani, ndr) e la Spes (associazione a sostegno delle famiglie di disabili, ndr), sono fortemente legate all’amministrazione Ioculano. Abbiamo invece un buon riscontro dalla popolazione civile, in particolare da parte degli studenti e di diverse famiglie, che hanno aderito con entusiasmo al nostro progetto e ci supportano nelle nostre iniziative.
Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta del 14 luglio 2018.
Sulla base della vostra esperienza sul campo, qual è secondo voi nella pratica la strada giusta da percorrere per opporsi al razzismo e all’intolleranza?
Noi riteniamo che l’autodeterminazione e la possibilità di decidere della propria esistenza siano fondamentali. Per questo motivo, non pensiamo che iniziative come l’ “Accademia per l’integrazione” di Bergamo, che ha la stessa impostazione di una scuola militare, siano soluzioni valide.
Per noi la strada da percorrere è quella di fare pratiche di solidarietà attiva creando più sinergie e alleanze possibili. Anche per questo motivo il movimento di Non Una di Meno rappresenta per noi un modello da seguire, perché è riuscito a creare una rete e un lessico globale. Noi stiamo cercando di fare lo stesso, cioè di rendere la soluzione del problema migratorio una questione transnazionale, costruendo alleanze diversificate e coinvolgendo più realtà e persone possibili.
Quali sono i vostri progetti e obiettivi per il prossimo futuro?
In questi mesi vorremmo innanzitutto organizzare dei momenti di “monitoraggio collettivo”, cioè coinvolgere anche piccole organizzazioni e persone locali nelle nostre attività usuali di monitoraggio del territorio, finalizzate a dare informazioni ai migranti, denunciare abusi e testimoniare e comunicare quanto accade al confine.
Oltre a questo, il nostro obiettivo è di organizzare per fine dicembre o inizio gennaio un grande evento pubblico informativo culturale, che coinvolga come detto molte realtà, figure e associazioni diverse tra loro, per raggiungere e sensibilizzare un pubblico più vasto possibile.
L’intervista è stata ridotta e riadattata per maggiore chiarezza.
Foto tratte dalla pagina Facebook di Progetto 20k, tutti i diritti riservati.
Migrazioni, accoglienza, frontiere e libertà di movimento. Saranno questi i temi protagonisti dell’evento Sconfinamenti – We can alla pass from here! proposto e organizzato da Progetto20k, che si terrà venerdì 31 marzo e sabato 1 aprile 2017, presso gli spazi del c.s.a Pacì Paciana a Bergamo.
In apertura a questa due giorni vi accoglieranno un aperitivo e una cena di autofinanziamento, durante i quali verranno proiettati video ed esposti vari materiali che raccontino al meglio la realtà del confine e di Ventimiglia. Ad allietare la serata ci sarà l’orchestra balcanica Caravan Orkestar.
La parte calda dell’evento partirà la mattina del sabato con un’introduzione del programma previsto per la giornata e un momento collettivo di riflessione sulle frontiere, le nuove politiche migratorie europee e l’accoglienza nei paesi ospiti. In particolare, viene proposto un dibattito sull’intervento solidale a Ventimiglia, arricchito dai racconti e dalle testimonianze di Progetto20k e Presidio Permanente No Borders – Ventimiglia.
Nel pomeriggio saranno aperti a chiunque voglia parteciparvi i tre tavoli tematici di lavoro:
AGIRE IL TERRITORIO: Come raccontare la frontiera e con quali mezzi? Come eludere e fare pressione sul regime dei confini? Come interagire con i/le migranti? Come riconoscere e resistere ai molteplici confini nelle nostre città? Come intendere e costruire “accoglienza degna”?
COSTRUIRE SOLIDARIETÀ: Quale differenza tra carità e solidarietà? Cosa significa fare “assistenzialismo”? Come mettere in atto pratiche di aiuto concreto? Cosa vuol dire garantire il diritto all’autodeterminazione? Come rivendicare la libertà di movimento?
CONDIVIDERE SAPERI, PRATICHE E INFORMAZIONI: Quali modalità utilizzare per la raccolta e il trattamento di dati, informazioni ed esperienze? Come creare reti territoriali efficienti che abbiano obiettivi condivisi? Come costruire linguaggi comuni, integrabili e di supporto alle azioni di solidarietà? Come relazionarsi e confrontarsi con le altre realtà magari non presenti sul territorio?
Un’assemblea plenaria all’ora del thè cercherà infine di unire e amalgamare al meglio tutti i risultati e le idee prodotte da ogni singolo tavolo. Una cena di autofinanziamento verrà proposta grazie a Comitato Zingonia e a seguire la musica senza tempo di Pink Violence Squad.
Ma non solo tavoli e danze! Durante la due giorni resterà attiva una raccolta solidale di cibo (scatolame, pasta, riso, cous cous, alimenti a lunga conservazione, bevande), vestiti (magliette, felpe, pantaloni, scarpe dal 38 in su), cellulari + caricatori, prodotti per l’igiene personale, utensili da cucina, cancelleria. Il ricavato andrà chiaramente a supportare i/le migranti transitanti a Ventimiglia.
“Un momento di discussione per incrociare e rilanciare esperienze e rivendicazioni nei territori e ai confini. Una due giorni di contaminazione e partecipazione con l’obiettivo di trovare percorsi solidali comuni dandosi prima gli strumenti per farlo” – Progetto 20k
Sono almeno cinque le persone attualmente sotto processo per aver caricato dei migranti in auto per portarli dall’Italia alla Francia passando per il famigerato confine di Ventimiglia, in Liguria. Di pochi giorni fa è la notizia che Cédric Herrou, l’agricoltore francese che aveva aiutato circa duecento persone a passare la frontiera e ne aveva ospitate a decine in una cascina, ha ricevuto una multa di 3 mila euro con la condizionale. Qual è la ragione che spinge molte persone, più di quante si possa pensare, a rischiare di essere fermati dalla polizia e coinvolti in processi e cause legali pur di aiutare uomini e donne a passare il confine? Ne ho parlato con chi le dinamiche del confine le conosce bene.
«Chi lo fa solitamente è mosso da pura solidarietà» mi racconta Michele (nome di fantasia), che vive in una regione diversa dalla Liguria ma si è messo più volte in strada per arrivare all’estremità occidentale della riviera ligure. «La gente rischia di morire attraversando il confine, qualcuno ha già perso la vita perché investito in autostrada o nelle gallerie. Per non contare chi magari scivola nei sentieri di montagna e finisce disperso, senza che nessuno lo venga a sapere. Molti cittadini italiani e francesi non riescono a rimanere indifferenti a tali tragedie». Ma non è soltanto il semplice altruismo a guidare la decisione di aiutare i migranti: «Tanti rifiutano il concetto di confine, dando alla loro scelta di essere coinvolti un significato più politicizzato; spesso dietro a questa convinzione c’è la contestazione dell’esistenza degli Stati stessi». Tuttavia, che si condividano o meno certe posizioni politiche estreme, tutti sono concordi col fatto che il confine limiti la libertà di movimento.
Chiedo a Michele se qualche volta gli sia capitato di essere lui stesso in una di quelle auto che accompagnano i migranti aldilà del punto di confine. Mi dice che sì, l’ha fatto, e che molti altri come lui si sono offerti volontari per compiere questo genere di impresa: «Non conosco nessuno passato in auto a Ventimiglia che sia stato fermato; diciamo che in generale vale ancora Schengen, quindi si è liberi di circolare, ma va detto che molto dipende dal colore della pelle. Insomma, essere bianchi e guidare un mezzo con targa italiana o francese non crea problemi». E le persone che si trovano sotto processo ora come ci sono finite quindi? Il fermo da parte della polizia è avvenuto dopo indagini: «Sono stati puntati e seguiti per un po’, non sono stati fermati per caso ma dopo una raccolta di informazioni da parte delle forze dell’ordine, che sfruttando il meccanismo del passaparola riescono a farsi dire chi, generalmente, è disponibile ad agevolare l’attraversamento».
Tuttavia, come già menzionato, essere fermati dalla polizia per questo tipo di attività volontaria non comporta pene particolarmente severe: «Non essendoci evidenti scambi di soldi non possono appiopparti chissà quale reato, non facendolo per lucro cade il presupposto che tu sia un trafficante. Puoi essere semmai imputato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che di per sé non costituisce un grave reato. Chi decide di aiutare i migranti ritiene di fare una buona azione e tendenzialmente in tribunale le accuse a suo carico vengono smontate». E sono davvero molte le persone che vogliono aiutare chi cerca di arrivare in Francia, non soltanto con i passaggi in automobile, ma anche donando vestiti eleganti e trucchi alle donne: «Se sei ben vestito non dai troppo nell’occhio, passi per un cittadino regolare ed è meno probabile che ti vengano chiesti i documenti».
Purtroppo accanto alla solidarietà sono nati parallelamente dei servizi di passaggio a pagamento, forniti dai cosiddetti passeur, in genere autisti magrebini o sudanesi. Curiosamente, i passeur hanno tutti gli stessi prezzi e i loro orari di transito sono regolari. Michele mi accenna un’ipotesi molto plausibile condivisa da diversa gente, che spiegherebbe queste caratteristiche dei trafficanti: «L’impressione è che i passeur lavorino per un’organizzazione criminale che sta alle spalle e gestisce il traffico. La zona di Ventimiglia del resto è da tempo terra di ‘ndrangheta; da tradizione la cosca mafiosa gestisce il confine, in passato erano proprio i suoi membri ad occuparsi della latitanza aiutando i reietti a fuggire».
Volontari, criminali approfittatori e ancora troppe persone disperate accampate nei pressi della stazione di Ventimiglia a tentare il tutto per tutto per giungere in Francia, lottando con la polizia, soprattutto quella francese, che spesso e volentieri rispedisce indietro anche i ragazzi minorenni, che avrebbero invece diritto d’asilo. Come mai la situazione è ancora così complicata? «Il sistema non funziona, i governi non hanno ancora preso un provvedimento efficace che risolva la situazione per tutti. Bisognerebbe concedere un permesso di soggiorno umanitario ed imparare a gestire una volta per tutte questa situazione d’emergenza. Continuando ad attuare soluzioni provvisorie e contenitive, il sistema continua a non funzionare ma senza dare troppo nell’occhio». Difficile replicare a quanto sostiene Michele, che sottolinea come non sia accettabile che sul confine fra due Stati europei nel 2017 la gente viva accampata in condizioni precarie e continui a morire: «È assurdo che la gente muoia a Ventimiglia, in Italia, un Paese considerato civile. Troppi migranti già trovano la morte nel Mediterraneo durante le traversate, non si può permettere che muoiano anche nelle nostre città solo perché non esiste un decreto che regoli i flussi migratori. Quando vedi persone che tentano l’attraversamento e tornano sconfitti con i morsi dei cani che la polizia gli ha lanciato contro, indignarsi contro questa mancanza di provvedimenti effettivi è inevitabile».
Ventimiglia è una terra di frontiera difficile, triste, disperata e allo stesso tempo piena di speranza. È l’emblema del fallimento di un sistema in cui le dinamiche economiche fra i paesi europei impediscono di trovare una soluzione alla crisi umanitaria dei nostri giorni. È la vetrina delle contraddizioni tutte italiane della solidarietà fuorilegge e del populismo alla Salvini, che denuncia lo scandalo dei migranti nullafacenti, forse dimenticando che però i migranti un permesso di lavoro non ce l’hanno. Michele è triste e arrabbiato, ma non rassegnato; a Ventimiglia ci tornerà ancora, perché una volta che ci vai non te lo dimentichi più.
Un luogo, o meglio un ambiente: qui e ovunque. Tante storie raccontate evocate e incarnate da persone reali. Il punto di partenza e il punto d’arrivo sono l’incontro: con sé e con l’altro, ma anche con chi quell’incontro non l’ha vissuto in prima persona.
Questo è il teatro, soprattutto nei laboratori con attori e non-attori; questo è il teatro che ci raccontano Teatro Due Mondi, Isabelle il Capriolo e Lucia Palmero con Popoli in arte, realtà che lavorano da tempo con migranti e richiedenti asiloper costruire un teatro capace di accoglienza.
Teatro Due Mondi, l’accoglienza senza confini
Prima tappa obbligata di questo viaggio è l’incontro con Alberto Grilli, regista di Teatro Due Mondi, storico “teatro di gruppo” italiano che dal 1979 crea spettacoli di strada e di impegno sociale. Ogni giovedì sera la sua Casa del Teatro a Faenza (RA) apre le porte a tutti, cittadini e migranti, per il laboratorio teatrale permanente Senza confini (fotografia in copertina), che periodicamente porta in piazza un numero elevatissimo di partecipanti (tra i 50 e i 70) con azioni di strada fondate sull’uso del corpo e perciò in grado di coinvolgere e comunicare a un pubblico eterogeneo.
Tutto è cominciato nel 2011, quando Teatro Due Mondi stava lavorando con un altro gruppo di partecipanti e su un altro tipo di urgenza: il caso delle 340 operaie licenziate dall’Omsa, storica fabbrica faentina, da cui nacque lo spettacolo Lavoravo all’Omsa.
«Da questa esperienza già nata l’idea di un teatro partecipato con attori e non-attori»,racconta Grilli.«Nello stesso anno, per caso – ma il caso non è mai un caso [sorride, ndr] – la cugina di una partecipante ci ha chiesto di portare lo spettacolo nel centro di accoglienza di Lugo, vicino Faenza. Noi però abbiamo deciso di proporre un laboratorio. Ci siamo resi conto da subito che anche in città c’erano molti rifugiati, ma c’era poca coscienza tra gli abitanti di Faenza. Abbiamo deciso di continuare qui l’esperienza, con il laboratorio permanente», passando per numerosi progetti europei.Il gruppo continua a creare spettacoli legati alle tematiche del lavoro, alla discriminazione delle donne o al tema dell’accoglienza, «ma dall’esperienza dell’Omsa abbiamo cominciato a interessarci più ai non-attori che agli attori, anche mettendo a punto nuovi metodi del fare teatro».
Alberto Grilli mi parla del metodo di “prima accoglienza linguistica”, un approccio alla lingua italiana attraverso il racconto e la musicalità dei suoni, e di teatro partecipato: teatro di strada e in spazi aperti incontra il lavoro con gruppi misti, in cui dialogano insegnanti e genitori, cittadini e richiedenti asilo. Un teatro inclusivo, in cui conta l’“esserci”, non l’esibirsi.
Per questo la scelta delle azioni in piazza, tutte contrassegnate da titoli suggestivi. Una di queste, l’Azione per la gratitudine (2015), nasce dall’incontro del Teatro Due Mondi con i partecipanti al laboratorio che ogni giovedì sera si tiene nel paese di Ranica (BG), guidato da Sophie Hames e Luciano Togni di Isabelle il Capriolo.
Diritti in movimento: Isabelle il Capriolo
La prima esperienza di Sophie con i richiedenti asilo risale a 14 anni fa, quando ancora si trovava in Belgio, il suo paese natale. Poco più di due anni la collaborazione con il centro di accoglienza della comunità Ruah di Bergamo e oggi un laboratorio aperto a tutti, gratuito e autofinanziato. «Ci teniamo tanto. Il nostro gruppo è diventato una specie di famiglia. Anche un bisogno», racconta Sophie.
Il lavoro al centro culturale di Ranica è finalizzato alla creazione di azioni di strada, «ma questa è solo una parte del lavoro. Tutto il resto è incontro, e il teatro ha un potenziale grandissimo che è il gioco. I richiedenti asilo spesso arrivano in Italia e non hanno amici, non hanno la possibilità di parlare e confidarsi. Hanno bisogno di amicizia, come noi dopotutto. Io non so quanto do, ma so quanto ricevo. E sono mondi, mondi che si aprono».
Le azioni che portano in piazza hanno un valore politico, che si concretizza in tematiche ricorrenti: «Una cosa che ci preme è l’aspettativa: cosa ci aspettiamo da loro e cosa si aspettano loro da noi e dall’Europa?».Ma anche l’attesa e l’impossibilità di muoversi liberi nel mondo. «Il diritto al viaggio: io posso spostarmi ovunque, invece loro hanno una pazienza infinita. Devono stare zitti e aspettare, spesso in condizioni disumane, in centri d’accoglienza con otto persone per stanza».
Il tema del viaggio è centrale nello spettacolo Infinite porte, all’auditorium di Ranica il prossimo martedì 21 febbraio, in cui si fa riferimento anche agli italiani che si mettevano in viaggio verso il Belgio, paese d’origine di Sophie, per mettere nuove radici. Lei ne sintetizza l’essenza citando una parte del testo: «Il mio vecchio amico Augustin diceva che il mondo è come un libro: chi se ne sta sempre a casa sua finisce per leggere sempre la stessa pagina».
La bellezza dimenticata. Lucia Palmero e Popoli in arte
Grazie a Maria Paola Rottino, membro dell’associazione di cooperazione Popoli in arte, capiamo l’importanza della performance Don’t stop the beauty, che si è tenuta lo scorso 22 dicembre nellastazione di Ventimiglia, città che da sempre è un «confine permeabile», attraversato da tensioni sempre più forti. Grazie a lei entriamo in contatto con la regista, la performer Lucia Palmero, originaria della città.
«A noi sembrava importante e simbolico quel luogo, perché è punto di partenza, punto di arrivo e di respingimento da parte della polizia italiana. Per noi era importante sottolineare l’aspetto che non emerge, cioè la bellezza, la ricchezza che porta la diversità. Ed era importante farlo in un luogo in cui fosse possibile coinvolgere tante persone, un “limbo”, simboleggiato dalla sala d’attesa».
Il volantino che i partecipanti alla performance “Don’t stop the beauty” hanno estratto dagli zaini e attaccato alle pareti della stazione di Ventimiglia.
Così Lucia ha contattato alcune corali italiane e francesi e ha chiesto ai richiedenti asilo di scegliere canzoni della loro tradizione che parlasse di viaggio o di frontiera. E poi c’è l’idea del confine.«L’ho materializzata in una porta chiusa ma trasparente, la porta a vetri della sala d’attesa. I gruppi dei richiedenti asilo cantavano dalla sala d’attesa con le porte chiuse: la gente da fuori poteva sentire le loro canzoni “filtrate”». L’azione ha avuto un impatto forte sui passanti e sulle forze dell’ordine: «Mi ha colpito il tentativo di una donna di entrare forzando la porta», ricorda Lucia,«un altro uomo ha trovato una porta secondaria e da lì sono entrate persone che hanno chiesto di non smettere di cantare anche ad azione conclusa».
Il momento performativo cambia qualcosa nella percezione, anche per gli artisti che si approcciano a forme d’arte relazionali. Lucia Palmero ci racconta il suo percorso dalla pittura alla performance, centrata sui temi dei diritti umani e su azioni semplici ma intense: «Ho capito che mi interessa continuare a costruire momenti ripetibili, momenti di umanità, per stare insieme, attraverso azioni che si confondano il più possibile con la realtà». E mi corregge quando torno a parlare di teatro: «Più che teatro, più che qualcosa per un “pubblico” attivo,faccio in modo che sia il “pubblico” ad attivarsi».
In copertina: azione di strada presso il cortile dell’Accademia Carrara di Bergamo, realizzata dai partecipanti al laboratorio condotto da Isabelle il Capriolo.
In questi giorni abbiamo spesso chiamato in causa 20K. Vediamo più da vicino la storia di questo Progetto ed i suoi obiettivi con Francesco, una delle menti promotrici di questa vera e propria iniziativa di solidarietà per intervenire sulla situazione di Ventimiglia
Francesco ha 44 anni, fa l’educatore e ha sempre operato nel sociale, dalle tossicodipendenze ai centri di aggregazione giovanile, dalle comunità per minori alla consulenza per le politiche giovanili in provincia di Milano. Attualmente, lavora per una grande Ong, all’interno di un programma internazionale per minori stranieri non accompagnati.
L’idea del Progetto 20k nasce nella tarda primavera del 2016 su proposta di alcuni ragazzi di Bergamo che erano stati a Ventimiglia l’estate precedente, racconta Francesco. Questi, avendo toccato con mano la realtà della cittadina ligure, sentirono l’urgenza e la necessità di un lavoro strutturato e continuativo per le centinaia di persone bloccate al confine.
credits: Progetto 20k
Alle prime riunioni informali fecero seguito i primi incontri pubblici, al Circolino della Malpensata a Bergamo e presso il Ri-make a Milano, con la volontà di aprire le riflessioni all’esterno e di attivarsi coinvolgendo quante più persone possibili.
«Questi primi incontri ebbero il pregio di riscuotere successo, non tanto dal punto di vista numerico, quanto da quello della concretezza delle individualità coinvolte. E’ venuta meno la dinamica per cui c’è un interlocutore che organizza e propone e uno che eventualmente aderisce all’iniziativa; chi veniva a questi incontri diventava parte integrante del progetto portando la sua professionalità ed il suo contributo nel momento stesso in cui il Progetto era ancora in divenire. Questo ha messo tutti noi sullo stesso livello, creando un clima molto positivo».
Sulla base dell’esperienza di chi era stato a Ventimiglia e di chi per lavoro seguiva le dinamiche migratorie come avvocato, educatore o operatore dell’accoglienza, vennero individuati i principali filoni di intervento.
Questo lavoro preparatorio contribuì al collaudo del Progetto20k che dal primo luglio e fino al 30 settembre 2016 diventò operativo sul campo, prevedendo l’affitto di un locale che potesse ospitare i volontari e garantendo la presenza stabile e quotidiana di una manciata di solidali a Ventimiglia.
credits: Progetto 20k
Durante questi 3 mesi di attività, i membri del Progetto 20K hanno fornito supporto materiale e concreto attraverso la raccolta e la distribuzione di indumenti, cibo e beni di prima necessità; informato gli uomini e le donne sul confine, dando loro gli strumenti per operare scelte consapevoli in autonomia e sicurezza; monitorato e controllato la situazione a Ventimiglia con il proposito di effettuare una più corretta comunicazione pubblica. Continua Francesco: «Raccogliere informazioni, confrontarle, analizzare i cambiamenti il più sistematicamente possibile rende noi più realmente competenti e maggiormente efficaci nella comunicazione che facciamo».
Questa prima parte del Progetto era quella inizialmente preventivata da Francesco e compagni. Con la conclusione di settembre e valutando che il flusso non si sarebbe interrotto, il gruppo prese consapevolezza che tutte le attività messe in moto necessitavano di ulteriore impegno e costanza. Come prima cosa è stato confermato l’affitto dell’appartamento, per permettere ai membri del collettivo di scendere appena possibile a Ventimiglia per mantenere sotto osservazione il frangente.
Dalla fase esperienziale e più intensa del trimestre estivo si è così passati ad un momento di costruzione progettuale.Gli scopi di questo periodo invernale sono l’aumentare il numero di competenze ampliando la rete di contatti ed organizzando incontri di formazione per far sì che tutti siano il più preparati ed aggiornati possibile.
«Una volta ogni tre settimane ci ritroviamo tra Bergamo e Milano, facciamo un’assemblea di una giornata intera in cui partiamo dalla situazione a Ventimiglia e da lì’ valutiamo possibili incentivi. Un lavoro non sul campo ma che è funzionale affinché il nostro impegno abbia risonanza. Stiamo preparando un nuovo progetto estivo allargando lo spettro delle collaborazioni, intercettando altre realtà locali auto-organizzate come il centro sociale La Talpa e l’Orologio di Imperia o l’associazione Popoli in Arte di Ventimiglia , ma anche Onlus che hanno attivato un proprio staff su Ventimiglia, come Medici senza Frontiere o Save the Children».
Quello che Francesco ha tenuto a rimarcare è l’atteggiamento di apertura di 20K, la volontà di mettere insieme soggetti diversi con lo scopo unico di porre in relazione i migranti con il resto della società.
credits: Progetto 20k
Chiacchierando con Francesco, mi riferisce dei messaggi che arrivano da oltre frontiera al Gruppo. Raccontano di avercela fatta e li ringraziano. Sono messaggi che parlano di amicizia e scambio. Francesco sottolinea come per molti dei chabeb che arrivano a Ventimiglia, loro hanno rappresentato la prima opportunità per potersi liberare dalle tragedie viste o vissute, semplicemente parlando ed essendo ascoltati.
«Sono arrivato a 44 anni compiuti, si può dire tra i fondatori di questo Progetto e sin dal primo momento ho trovato ragazzi con 20 anni meno di me, coinvolti nel progetto solo da qualche giorno, che nel vivere l’esperienza lì a Ventimiglia erano loro riferimento per me; erano loro che tenevano il polso della situazione, sapevano cosa c’era bisogno di fare e io, di conseguenza, mi rivolgevo a loro. Questo per me è stato molto importante perché mi ha dato la percezione di aver costruito qualcosa di fortemente coinvolgente».
credits: Progetto 20k
Com’è oggi la situazione a Ventimiglia?
«Ad oggi, girano insistenti voci sul tentativo di svuotare il campo della Croce Rossa: non si capisce se con l’intenzione di chiuderlo o di alleggerirne le presenze. Come conseguenza di questo allontanamento dal campo, abbiamo registrato un aumento delle persone che dormivano in stazione. In generale, tra campo della Croce Rossa e persone fuori dal campo, ci sono tra i 400 e i 500 migranti a Ventimiglia; poi ci sono le famiglie con i bambini, diciamo 100-120 persone, che sono ospitate alla chiesa delle Gianchette. Se si rivelasse esser vera la notizia della chiusura del campo della CRI e con la continuazione dei flussi, si riproporrebbero situazioni già viste, come l’aumento delle deportazioni, l’intervento massiccio della polizia, ecc ».
Per partecipare attivamente al Progetto basta poco, è sufficiente andare ad uno degli incontri, mettere a disposizione parte del proprio tempo, partecipare alle raccolte di cibo ed indumenti, condividere l’informazione, interessarsi. Prossimo appuntamento, un grande e vento di due giorni, che si terrà il 31 marzo ed il primo aprile al c.s.a. Pacì Paciana di Bergamo, dove presenteranno il progetto 2017 alla luce dei contatti raccolti negli ultimi mesi.
We are quietly seated around a table and Ahmed decides to tell us his story in detail. He comes from the South of Somalia and his city of origin is a few kilometres away from the borders of Ethiopia and Kenya. His family – father and mother, two sisters and a little brother – are still there, waiting for Ahmed to reach his destination. He is the eldest son, and is sixteen years old. He talks raising his head and large eyes and articulating his sentences in a sharp English. He wears his red hat, the one he reserves for special occasions, the one he wouldn’t wear when sleeping on the station floor, waiting to cross the border.
A soft music, played on a smartphone, is Ahmed’s background as he plunges into his memories. He used to go to school in Kenya, then the border was closed and militarised, so the possibility of having an education was precluded to him. He then attended for around a year an unofficial school – which the best part of his community didn’t approve of (“but one day on the street my friends told me: come to school, the teacher is good, very good!”) – set up by a man who payed the rent for the rooms they used for the classes himself. The classrooms where positioned in different areas of the city so as not to be located, but they guaranteed access to education. This person, who strongly believed in education and its power to take boys away from war, became his teacher: there were two classes to which students could be assigned depending on their level of knowledge (“young” and “old”) and a number of subjects were taught (English, Arabic, maths, chemistry, IT…). From time to time Ahmed helped his teacher, teaching the students of the “younger” classes, even though some of them where older than him.
The terrorist group Al-Shabaab had been threatening the teacher for some time, blaming him for taking boys aways from military training and for teaching unapproved subjects (such as the English language). The teacher decided to inform Ahmed of what was happening, letting him know what the risks were, and the situation went on like that for around a year: threatening phone calls, death threats, increasingly serious intimidations. Ahmed tells us that the biggest difficulty in his town is that terrorists are everywhere but unrecognisable. “They are part of the population. You would be talking to a woman, and she would fall dead before your eyes without you knowing how or by whom she was murdered. There were often stray bullets and improvised hails of stones”.
Al Shabaab hostages freed in Kismayo, Somalia
One day the teacher asked Ahmed to teach to one of the younger classes while he went to teach to another classroom. The evening before terrorists had threatened him again.
Ahmed completed his task, something he had already done a number of times. But this time terrorists broke into the classroom and killed the teacher in front of his students.“I knew I was going to be the next one… I was in their sight, they would have come for me too”. As soon as Ahmed was informed of his teacher’s murder, he organised his departure with the support of friends and relatives, and in three days he collected 3,000 dollars. He fled his community heading towards the border. He managed to bypass a checkpoint and, after avoiding contact with soldiers, he found himself in Kenya. This was in March 2016.
“When I got to Kenya I had to look for a smuggler who would organise a series of passages through African borders and my arrival in Libya. It didn’t take long, I showed him what money I had and he said I would have had to pay at the end of the journey”.
He crossed Uganda as the only passenger on a Toyota pick-up. “At every border crossing we changed driver and increased in number”. They departed from South-Sudan in six, in Sudan more people joined them and they headed towards the Saharan desert.
The journey across the desert lasted eight days: they were twenty-four and they had a proper break only on the fourth day. (“It was very hard. It was unbearably hot and they gave us water only once in a while. From time to time we stopped to sleep on the roadside”).
After five more days of walking – it was May by now – he arrived in Libya, where he was taken to a prison in the suburbs of an unknown city. “They made me and many others go through a corridor… they said ‘You are from Somalia, it’s 6,000 dollars. Do you have the money?‘ I said I only had 3,000 dollars, but they insisted so I replied: ‘I don’t have 6,000 dollars’ and then they said ‘Ask your family for help! We have a trusted man close to them and they could give us the money to save you from prison’. And I said ‘I know my family, they don’t have the money. Do as you please, beat me, kill me, but we don’t have the money’ ”. He relays this dreadful conversation with astonishing naturalness.
Conditions were extremely difficult and there was very little water (“They would give it to us once in the morning and once in the evening, because they said that otherwise we would have used the toiled too often and guards would have wasted time checking on us”).
Ahmed’s journey from Somalia to Libya
He stayed there for four months enduring continuous mistreatments (“They came every day asking us for money and every day I replied I didn’t have it”), until he was released without explanation. Ahmed tells us that there are many refugee camps in Libya, which are controlled by the local armed militias. As soon as he was released from prison, he was held in one of such camps for months. The situation was definitely better if compared to that in prison, but here too guards threatened refugees with guns. “There were loads of people, boys, men but also women who were pregnant or with young children”.
He then waited to be told when to set off to cross the sea.“ ‘You! Stand up. It’s time to go.’ And, with a shotgun pointed to my back, I stood up and went right off”. It was November.
They reached the jetty in two-hundred, and then increased enormously in numbers, up to between six-hundred and eight-hundred people. Traffickers filled to the limit all three levels of the ship, showing “passengers” where and how to sit. “We were packed liked cookies in a box. Perfectly sat one next to the other, so that we couldn’t move. I sat hugging my knees with my arms. Like cookies in a box.”. He repeats this metaphor a number of times, miming the peculiar puzzle of people, and assures us that they all remained in the same position for more than six hours. Ahmed was in the back of the ship, on the lower level, in one of the most dangerous areas. He tells us about the fear, the whispered prayers and the quiet crying. This situation lasted until a team of Doctors Without Borders came to their rescue, then cries of joy erupted after a long silence: “We are safe! We are safe!”. When the first rescuers came to the level where he was held, Ahmed discovered where they were and what their direction was: “We didn’t know where we were directed, not even what city we were in. In that moment I discovered that the final destination was Italy, and that I was about to arrive to Trapani” [Sicily] ). The journey on the boat of Doctors of The World lasted two and a half days, during which migrants received medical, legal and psychological support, as well as the announcement that upon arrival reception staff would be obliged to take their fingerprints, as per the Dublin Convention.
This is what happened next: after being moved to a reception centre in Trapani, Ahmed’s fingertips and his mugshot were taken. He remained there one night, and the next day he was taken to Chianciano Terme, in the area around Siena (Tuscany). There he discovered he had scabies on his hands, and, after being examined by a doctor, he was given a treatment based on creams.
Once the condition had been treated, he entered a centre, but after a couple of weeks he restarted his journey: after many difficulties he arrived to Ventimiglia (a city in Liguria, on the border between Italy and France). He says he has a friend in France, he doesn’t know exactly where because they are not in touch, but he hopes to find him sooner or later. “For me it’s very important to get to France… have you ever heard about the education system they have for refugees? I was told it’s very good […] My ideal job is that of IT specialist… or programmer… or IT engineer, anything to do with technology!”
The border between Italy and France, Ventimiglia.
Since he arrived in Ventimiglia, Ahmed has tried to cross the border twice: he is underage and it is his right to ask humanitarian protection in France. French policemen don’t seem to agree on this point, and the second time he attempted to enter the country they returned him to Italy with an expulsion order that included false information: “They wrote down a different name from mine, I told them that those were not my personal details but they didn’t want to hear it and they sent me back to Ventimiglia. One of the policemen told me that if he saw me again, if I even tried it again, he would beat me up. Another one whispered to my ear a suggestion on how to make it”. When we meet Ahmed for the first time, he is sleeping at the station. We give him a few blankets and our phone numbers, with the promise to talk again.
The next day we meet on the beach, it’s pretty warm for late December. We talk about his story, about how passioned he is about IT and languages – he speaks seven languages fluently. We write a few lines in French: “Je m’appelle Ahmed. J’ai seize ans et j’ai le droit de demander asile en France” (My name is Ahmed. I am sixteen years old and I have the right to seek asylum in France). Although probably useless, at least now he has this piece of paper to show the next time he is stopped and his desire to cross an imaginary line crushed.
We decide to give him hospitality so that he can recover, we prepare a risotto and laugh, we sing. We relax so that he can face calmly the journey he wants to try the next day. We explain to him that the route to Paris is risky: with the destruction of the Calais Jungle thousands of migrants poured on the streets and repression is strong. That’s the route he wants to try. “The French policeman whispered in my ear: take a bus! And this is what I’ll do. I have a couple of contacts, I can get somebody to pick me up at the station”. We buy bus tickets, as Ahmed only has 20 Euros left.
At the moment of departure he looks radiant with his hat on, he leaves at home everything that could weight him down during the journey and sets off (“You know, when you meet people like you… You see, you don’t want to go. You are the only ones who understand my situation, thank you”). We wait anxiously for him to get in touch. He calls us in the evening, after many hours, but not with good news. He didn’t make it this time either: in Niece, on the highway, there was a checkpoint and he was immediately discovered. He showed his paper with the French writing to the policemen but they didn’t even acknowledge him and they sent him back to Ventimiglia. When he calls us he is again at the station, and, giving him indications over the phone, we manage to direct him to a more welcoming place: he won’t spend this night sleeping rough either, but he is impatient and states firmly:
Ventimiglia. Temporeggiavamo fuori dalla stazione in attesa di pigliarci un caffè al bar Hobbit: la prima volta che sentivo parlare di questo locale e della signora Delia.
Proprietaria del locale dal 2015, gestisce quello che è diventato un punto d’appoggio ed esempio di degna ospitalità per i migranti che arrivano in città. Continua Delia: «Il bar, essendo situato nelle vicinanze della stazione, è sulla strada che porta alla periferia, per andare a stare sotto i ponti. Si deve comunque passare davanti al bar. A un certo punto qualcuno ha iniziato a fermarsi e a entrare: li ho serviti senza problemi. Complice il fatto che mastico un po’ di inglese e parlo francese (perché siamo in una città di frontiera) si è iniziato ad avere più gente nera e non li ho mai sbattuti fuori. Poi hanno iniziato a chiedermi da mangiare e per un periodo, dopo aver chiuso il bar la sera, portavo il vassoio delle pizze e delle focacce avanzate a chi aspettava fuori o chi stava in stazione. Da lì in poi il passaparola è stato rapidissimo e mi sono trovata ad avere il bar pieno di migranti ogni giorno. Da quel momento è iniziato il rapporto con tutte queste persone».
Delia ascolta e risponde alle domande, lascia usare il bagno ai suoi ragazzi, permette loro di ricaricare la batteria del cellulare, distribuisce indumenti che le vengono donati e prepara un pesto delizioso! «Da me bimbi e donne incinta non pagano». Al bar si impara l’italiano con delle lezioni tenute da una maestra in pensione sua amica: dopo la lezione viene offerto il pranzo agli alunni. «Molti mangiavano solo quando venivano al corso e molti vengono al corso solo per mangiare. Se per qualche inghippo il corso salta una lezione, qualcuno rimane a digiuno fino alla lezione successiva. Il cibo e il materiale per la scuola di italiano che voi mi avete donato è stato un gradissimo aiuto». Si riferisce alle raccolte e donazioni di Progetto 20k con il quale si è creato un forte legame e un sentimento di aiuto reciproco.
Il parcheggio delle Gianchette a Ventimiglia, dove diversi migranti si accampano per la notte. (Rivierapress.it / Vimeo)
Ma al bar Hobbit non si sgarra! “Mamma Delia”, come la chiamano gli chabeb, ha posto delle rigide regole per far funzionare al meglio l’attività: frequenti controlli obbligano a mantenere tutto perfettamente pulito e a norma. Delia è alta un metro e 40 centimetri, ma quando si arrabbia e inizia a urlare il silenzio cala improvvisamente in tutto il locale.
Mi spiega: «Perché sbatterli fuori? Io sbatto fuori la persona maleducata che infastidisce gli altri e crea disordine, a prescindere del colore della sua pelle. Io sono la responsabile del locale. Io non ho mai avuto una rissa. Io urlo perché voglio educazione e bagni puliti, in quanto sono soggetta a controlli praticamente tutti i gironi! Se entrano e trovano qualcosa che non va mi fanno chiudere: io perdo il posto di lavoro e loro il posto in cui stare. Alla domenica, quando io sono chiusa, loro sono in mezzo alla strada: devono capire queste regole per il loro bene ed è giusto spiegargliele. In questo mi aiutano i ragazzi che sono in città da più tempo. Fino ad ora sono riuscita a mantenere l’ordine e soprattutto a lasciare aperto questo punto d’incontro».
L’attività del bar, però, è a rischio ormai da un anno: «Sono stata catapultata in un mondo che non è più il mio. Ho dovuto rivoluzionare tutto e ora il bar è sputtanato, così come la mia faccia. Dicono che “Da Delia si fanno solo i negroni”. Parole che feriscono, ma si va avanti. Non ci si può fermare davanti alla cattiveria della gente». Oltre alle voci maligne, Delia deve anche fronteggiare dei problemi economici: i conti a fine mese non tornano mai!
Ultimamente però, forse la situazione sta cambiando: la gentilezza e l’umanità di Delia han fatto si che altre realtà varcassero la soglia del bar Hobbit. Sabato 4 febbraio ha avuto luogo un aperitivo di beneficenza a cui hanno partecipato alcuni medici di Medici Senza Frontiere, qualche rappresentante francese di Amnesty International, i ragazzi di associazioni a sostegno dei migranti come La talpa e l’orologio, Articolo2, Presidio Permanente No Bordes e Progetto 20k . La proiezione del video “Per un uso proporzionato della forza”, che unisce testimonianze di alcuni migranti e filmati degli attivisti, e il ricco aperitivo preparato da Delia hanno attirato un buon numero di persone. Un’atmosfera di positività creatasi insieme a persone “nuove” all’ambiente del bar Hobbit: «[è stato] un bel momento di confronto tra di noi, che la pensiamo alla stessa maniera. Sono rimasti tutti contenti per quello che avevo preparato e la serata è riuscita perfettamente. Ci siamo accordati per rivederci in futuro, ci siamo scambiati varie opinioni e, per essere stata la prima volta, credo sia riuscita molto bene. Pensa che hanno partecipato alcune volontarie della Caritas che non erano mai passate dal bar: ora hanno iniziato a collaborare insieme per distribuire coperte e proprio Caritas ha da poco aperto la mensa ai ragazzi dalle 11 a mezzogiorno».
La frontiera con la Francia a Ventimiglia, IM (Guy Lebègue, Wipedia) / Licenza CC-BY-SA-3.0
Piccoli passi verso una maggior collaborazione delle varie realtà che operano sul territorio. Realtà che si sono conosciute da poco, ma tutte accomunate dal rifiuto del razzismo, che invece cresce in questa strana città di frontiera. Una psicologa è rimasta colpita dai racconti di Delia su alcune donne frequentanti il suo bar che hanno avuto delle crisi e si è messa a sua disposizione per dare aiuto e supporto. Delia ripensa ai primi mesi di accoglienza: «Incontrare queste persone in viaggio, ascoltarle… sono tutte esperienze che poi devi vivere giorno per giorno. Di fronte al pianto di un bambino, all’isteria di donne che invece i bambini li avevano persi in mare, alle urla di una ragazzina sotto shock non si può rimanere indifferenti. Anzi, me ne facevo carico talmente tanto che di notte piangevo. Sono figlia di migranti e so per certo che un bambino, se ha un bel ricordo del Paese che lo accoglie poi diventa un bravo cittadino, ma se gli lasci brutti ricordi… poi non ci lamentiamo degli attentati! Della mia infanzia da immigrata ricordo sì il dito puntato, ma anche gente che ci faceva giocare, ci voleva bene. Trasporto la mia vita da immigrata, la mia sofferenza e la mia gioia. Il dito puntato non lo farò a nessuno».
Dopo aver pranzato al bar, prima di rincasare, usciamo a fumare una sigaretta insieme a Delia: dal fondo della via si vede arrivare un nonnino zoppicante dall’andatura lenta che cammina verso di noi. In una mano il bastone e sotto il braccio una zucca gigante. È nonno Giovanni che la regalerà a mamma Delia per preparare una buona zuppa ai suoi ragazzi.
Immagine di copertina: la stazione di Ventimiglia, IM (Lunon92, Wikipedia). / Licenza CC BY-SA 3.0
Siamo seduti in tranquillità attorno a un tavolino e Ahmed decide di raccontarci per filo e per segno la sua storia. Viene dal sud della Somalia, e la sua città di origine si trova a una manciata di chilometri da Etiopia e Kenya. La sua famiglia – padre e madre, due sorelle e un fratellino – è ancora lì e sta aspettando che Ahmed riesca a raggiungere il suo obiettivo. Lui è il figlio maggiore, e ha sedici anni. Parla sollevando gli occhi grandi e scandendo le frasi con un inglese tagliente. Indossa il suo cappellino rosso, quello dei momenti speciali, quello che non indossi quando dormi la notte sul pavimento della stazione in attesa di andare oltre il confine.
Ascoltiamo un flebile sottofondo musicale dal telefono, mentre Ahmed si immerge nei suoi ricordi. Prima andava a scuola in Kenya, poi il confine è stato chiuso e militarizzato, e così gli è stata preclusa la possibilità d’istruirsi. Ha quindi frequentato per circa un anno una scuola non regolamentare – non condivisa dalla maggior parte della sua comunità (“ma un giorno i miei amici per strada mi hanno detto: Vieni a lezione, il maestro è bravo, molto bravo!”) – creata da un uomo che pagava personalmente l’affitto delle aule che venivano utilizzate per le lezioni. Le aule erano dislocate in diversi punti della città per non essere rintracciate, ma garantivano l’accessibilità all’istruzione. Questa persona, che credeva fortemente nell’educazione per poter strappare i ragazzi alla guerra, è diventata il suo insegnante: c’erano due classi in base al livello di scolarizzazione di partenza (“piccoli” e “grandi”) e venivano spiegate varie materie (inglese, arabo, matematica, chimica, informatica…). Ogni tanto Ahmed dava una mano all’insegnante, facendo lezione agli allievi di livello inferiore, nonostante alcuni fossero più grandi di lui.
Da tempo però il gruppo terroristico jihadista Al-Shabaab minacciava il professore perché strappava i ragazzi al loro addestramento militare, oltre ad insegnare loro discipline inammissibili (come ad esempio la lingua inglese). Ad un certo punto l’insegnante ha scelto di condividere con Ahmed cosa stava succedendo, l’ha messo in guardia rispetto al pericolo che stava correndo, e la situazione è andata avanti così per circa un anno: telefonate minatorie, messaggi di morte, intimidazioni sempre più serie. Come Ahmed ci racconta, la principale difficoltà nella sua cittadina sta nel fatto che i terroristi sono ovunque ma non sono riconoscibili. “Sono parte integrante della popolazione. Capitava che tu stessi parlando con una donna, e questa cadeva uccisa davanti a te senza che si capisse come né da per mano di chi. Spesso c’erano proiettili vaganti e sassaiole improvvise”.
Ostaggi di Al Shabaab liberati a Kismayo, Somalia (2014)
Un giorno il professore ha chiesto ad Ahmed di tenere la classe di livello inferiore, mentre lui sarebbe andato a insegnare in un’altra aula. La sera prima i terroristi l’avevano minacciato al telefono per l’ennesima volta.
Ahmed ha portato a termine ciò che l’insegnante gli aveva chiesto, del resto l’aveva già fatto altre volte. Questa volta però i terroristi sono entrati nell’aula del professore e l’hanno ucciso a sangue freddo davanti ai suoi allievi. “Sapevo che il prossimo sarei stato io… Ero nel mirino, sarebbero venuti a prendere anche me”. Ahmed, appena ricevuta la notizia, si è organizzato grazie al pieno supporto di parenti e amici, e nel giro di tre giorni ha raccolto 3000$. E’ scappato dalla sua comunità dirigendosi verso il confine. Ha aggirato un posto di blocco e, dopo aver evitato i soldati, si è trovato in Kenya. Tutto ciò avveniva nel marzo 2016.
“Arrivato in Kenya ho solo dovuto cercare un trafficante che mi avrebbe garantito una serie di passaggi attraverso tutti i confini africani fino all’arrivo in Libia. Ci sono volute poche ore, ho mostrato di avere i soldi e lui mi ha detto che avrei dovuto pagare alla fine del viaggio”.
Ha quindi attraversato l’Uganda come unico passeggero a bordo di un pick-up Toyota.“Ad ogni confine cambiavamo autista e aumentavamo di numero”. Nel Sud-Sudan sono infatti ripartiti in sei, in Sudan si sono aggiunte altre persone e poi si sono diretti verso il deserto del Sahara.
Il viaggio nel deserto è durato otto giorni: erano in 24 e solamente il quarto giorno hanno fatto una vera e propria pausa. (“E’ stata molto dura. Faceva caldissimo e solo ogni tanto ci davano un goccio d’acqua da spartirci; a volte ci fermavamo qualche ora a dormire sul ciglio della strada.”).
In seguito ad altri cinque giorni di cammino – era ormai maggio – è arrivato in Libia, dove è stato portato in una prigione alla periferia di una città non ben specificata. “Mi hanno introdotto insieme a tante e tanti in un corridoio… Mi hanno detto Sei somalo, sono 6000 dollari. Ce li hai i soldi? Ho risposto che avevo solo 3000 dollari, ma loro insistevano e gli ho risposto Non ho 6000 dollari e allora mi hanno detto Chiedili alla tua famiglia! Abbiamo un uomo di fiducia vicino a loro e potrebbero consegnarci i soldi per salvarti dalle carceri. E io ho risposto Conosco la mia famiglia, non li hanno. Fai ciò che vuoi, picchiami, uccidimi ma io né loro abbiamo quei soldi”. Ci riporta questo discorso agghiacciante con una naturalezza incredibile.
Le condizioni erano durissime e l’acqua davvero poca(“ce ne davano una volta al mattino e una alla sera, perché dicevano che altrimenti pisciavamo troppo e le guardie avrebbero perso tempo a controllarci”). Lì è rimasto per quattro mesi subendo vessazioni continue (“venivano ogni giorno a chiederci i soldi e io ogni giorno gli rispondevo che non li avevo”), finché non è stato rilasciato senza spiegazioni. Ahmed ci spiega che in Libia esistono moltissimi campi per rifugiati controllati dalle diverse milizie armate locali, in base a qual è il loro controllo territoriale. Lui in un campo di quel tipo ci è rimasto per alcuni mesi,
Il viaggio di Ahmed in Africa, dalla Somalia alla Libia
appena uscito dalla prigione. Sicuramente si stava meglio rispetto alla prigione, ma anche qui le guardie minacciavano i rifugiati con le pistole. “C’era tanta gente, ragazzi, uomini e anche donne incinte o con i bambini piccoli.”
A questo punto ha aspettato che gli dicessero quando partire per attraversare il mare (“Tu! Alzati. E’ ora di andare. E io, con un fucile puntato addosso, mi sono alzato e sono andato com’ero.”). Era il mese di novembre.
In circa 200 hanno raggiunto il pontile, per poi aumentare enormemente di numero e arrivare ad essere tra le 600 e le 800 persone. I trafficanti hanno stipato tutti e tre i piani dell’imbarcazione, indicando ai “passeggeri” dove e come sedersi. (“Eravamo impacchettati come biscotti in una scatola. Perfettamente uno accanto all’altro, in modo che non ci potessimo muovere. Io ero seduto con le ginocchia tra le braccia. Come biscotti in una scatola.”). Ci ripete più volte questa metafora, mimando con le mani questo particolare incastro, e ci assicura che sono rimasti tutti nella stessa posizione per più di sei ore. Ahmed era nella zona posteriore della barca, al livello inferiore, in uno dei punti più rischiosi. Racconta dell’inquietudine, delle preghiere sottovoce e dei pianti sommessi. Questo stato di cose è durato fino all’arrivo della squadra di Medici Senza Frontiere, quando sono esplose le grida di gioia, dopo un lungo ed assordante silenzio: “We are safe! We are safe!”. Quando il primo soccorritore è sceso al suo livello, Ahmed ha scoperto dove si trovavano e quale fosse la loro direzione: “Non sapevamo dove fossimo diretti, tanto meno la città. In quel momento ho scoperto che la meta era l’Italia, e che stavo per arrivare a Trapani”). Il viaggio sulla nave di MSF è durato due giorni e mezzo, durante i quali i migranti hanno ricevuto assistenza medico-legale e supporto psicologico, oltre all’avviso che una volta sbarcati il personale di accoglienza avrebbe inevitabilmente richiesto loro le impronte digitali, in base alla Convenzione di Dublino.
Così è stato: trasferito in una struttura di accoglienza a Trapani, Ahmed ha dato le impronte ed è stato foto-segnalato. Lì è rimasto una sola notte e il giorno seguente è stato portato a Chianciano Terme, nel senese. Ha scoperto di avere la scabbia sulle mani e, dopo essere stato visitato da un medico, gli è stato somministrato un trattamento consistente soprattutto in creme e pomate.
Una volta guarito è stato inserito in una comunità, ma dopo due settimane ha ricominciato il suo viaggio: dopo varie peripezie è arrivato a Ventimiglia. Dice di avere un amico in Francia, non sa precisamente dove perché non sono più in contatto, e spera di ritrovarlo, presto o tardi che sia “Per me è importante arrivare in Francia… Avete mai sentito parlare del sistema educativo che danno ai ragazzi rifugiati? Me ne hanno parlato molto bene. […] Il lavoro dei miei sogni è fare l’informatico…o il programmatore…oppure l’ingegnere informatico, insomma, qualsiasi cosa riguardi la tecnologia!”
Confine italo-francese, Ventimiglia
Da quando si trova qui, Ahmed ha cercato di passare la frontiera per ben due volte: è minorenne e sarebbe suo diritto chiedere protezione umanitaria in Francia. Non sono di quest’opinione i poliziotti francesi, che la seconda volta l’hanno rimandato indietro addirittura con un decreto di espulsione infarcito di dati falsi. “Hanno scritto un nome diverso dal mio, io insistevo dicendo loro che non erano quelle le mie generalità ma non hanno voluto sentire ragioni e mi hanno rispedito a Ventimiglia. Uno dei poliziotti mi ha detto che se mi avesse rivisto, che se anche solo ci avessi riprovato, mi avrebbe gonfiato di botte. Un altro invece mi ha suggerito a bassa voce come provare a farcela.” Dorme alla stazione, quando lo incontriamo per la prima volta. Gli lasciamo qualche coperta e il nostro contatto telefonico, con la promessa di risentirci.
Il giorno dopo ci vediamo lungo la spiaggia, fa piuttosto caldo per essere dicembre inoltrato. Parliamo della sua storia, di come è appassionato di informatica e di lingue – parla infatti sette lingue in maniera fluente. Mangiamo assieme e scherziamo un po’ lanciando sassolini in acqua. Ahmed è convinto, vuole tentare nuovamente di varcare la frontiera. Scriviamo con lui qualche riga in francese: “Je m’appelle Ahmed. J’ai seize ans et j’ai le droit de demander asile en France.” Benché probabilmente inutile, almeno potrà mostrare qualcosa di cartaceo la prossima volta che proveranno a fermare lui e il suo desiderio di attraversare una linea immaginaria.
Decidiamo di farlo restare da noi perché si rimetta in forze, prepariamo un super risotto e ridiamo, cantiamo. Ci rilassiamo un po’ in modo che possa affrontare tranquillo il viaggio che vuole intraprendere il giorno dopo. Gli spieghiamo che la tratta verso Parigi è parecchio rischiosa: con lo sgombero della Jungle di Calais migliaia di migranti si sono riversati per le strade della capitale e la repressione è altissima. E’ proprio quella tratta che vuole tentare. “Il poliziotto francese mi ha detto nell’orecchio: prendi un autobus! ed è quello che farò. Ho un paio di contatti, posso farmi venire a prendere alla stazione”. Acquistiamo quindi un biglietto del pullman, visto che ad Ahmed sono rimasti in tasca solo 20€.
Al momento di partire sembra raggiante con il suo cappellino in testa, lascia a casa tutte le cose che potrebbero appesantirlo durante il viaggio e riparte (“Sai, quando conosci persone come voi… Ecco, poi non vuoi più partire. Siete stati gli unici a capire la mia situazione, vi ringrazio.”). Aspettiamo trepidanti che ci faccia sapere qualcosa. Ci chiama alla sera, dopo molte ore, ma purtroppo non sono buone notizie. Anche questa volta non ce l’ha fatta: a Nizza, lungo l’autostrada, c’era un posto di blocco ed è stato scoperto subito. Ha mostrato il foglietto in francese ai poliziotti ma non è stato minimamente considerato e l’hanno rispedito di nuovo a Ventimiglia. Quando ci chiama è di nuovo alla stazione, e dandogli indicazioni al cellulare riusciamo ad indirizzarlo verso un posto accogliente: anche per questa notte non dormirà all’addiaccio, ma non riesce più ad aspettare e afferma sicuro:
Questo viaggio vede come protagonisti l’entusiasmo di una giovane, una città di confine, un progetto d’amore e fedeltà.
Sara, studentessa e figlia di immigrati integratisi a Milano, aspira a una carriera nelle organizzazioni internazionali, per provare a correggere dall’interno quello che lei coglie come uno scemare di credibilità negli anni. Attraverso l’evento Nuit Debut Milano e una serie di incontri presso il centro sociale Ri-Make, viene a conoscenza del neonato progetto 20K.
Ventimiglia, comune della provincia di Imperia conosciuto come “Porta occidentale d’Italia” in quanto territorio di confine con la Francia, è lo scenario ospite in cui un gruppo di attivisti che credono nel diritto alla libera circolazione hanno organizzato un campo autogestito dove svolgere attività plurime per assistere i migranti che tentano d’attraversare la frontiera.
All’ordine del giorno il costante monitoraggio della situazione, il supporto materiale (distribuzione di beni di prima necessità) e la trasmissione di informazioni relative ai diritti e alla sicurezza di viaggio ai migranti, piuttosto che riguardo la cronaca degli avvenimenti di Ventimiglia al mondo.
L’anno scorso una simile iniziativa era stata condotta per qualche mese presso la spiaggia dei Balzi Rossi (sito archeologico che vede un complesso di grotte ornare la falesia calcarea) dove No borders, solidali e migranti avevano stanziato presidio; sfrattati da quel ritaglio di terra ch’erano riusciti a organizzare, i migranti hanno ricreato quasi spontaneamente un nuovo “campo informale”.
Sara, desiderosa di superare la semplice forma dell’assistenzialismo ed essere parte attiva nella realizzazione del progetto a stretto contatto con questa realtà di “ricerca di vita ”, poche settimane dopo la nascita di 20k parte alla volta dell’estrema punta ligure.
«Il 17 Luglio, assieme a altre due ragazze e una buona dose d’ansia, mi sono messa in viaggio. Ventimiglia, solcata dal fiume Roja, si è presentata per un istante nelle sue due metà: quella medievale, ch’è secondo centro storico ligure per estensione dopo Genova, e quella più moderna (edificata dall’800 in poi). Abbiamo proseguito per la valle sino all’ex parco ferroviario dove, nelle vicinanze della struttura d’accoglienza di Croce Rossa e Caritas, sorgeva il campo autonomo».
«Arrivata a destinazione, ho potuto vedere in prima persona la drammaticità della situazione: gli chabeb (“ragazzi” in arabo; termine che preferiamo a “migrante”) che non si fidavano delle procedure identificative al centro della Croce Rossa si riversavano in massa da noi. Ogni giorno abbiamo contato un flusso di 250/300 persone; alcuni tentavano la sorte provando ad attraversare il confine e altri, sfiniti da immensi viaggi o rispediti indietro dalla frontiera Francese, giungevano a momentaneo riparo».
In questo panorama di terra cocente e rotaie, di monti che s’ergono attorno e treni merci che scherniscono al loro passare inscenando una improbabile fuga, il campo era ben organizzato: in 6 strutture (ex stalle) situavano i dormitori, un efficiente info point con libreria che elargiva informazioni legali su questioni principalmente legate alle richieste d’asilo politico, una cucina-dispensa dotata di fornelli, pentole e prodotti per l’igiene e, infine, un ambulatorio per visite mediche dove dottori volontari prestavano quotidiano servizio. Anche gli spazi aperti venivano adibiti a funzioni sociali: segnaletiche in arabo indicavano le zone del parrucchiere, quelle adibite al gioco del pallone e alla preghiera.
«In breve abbiamo avviato dei corsi introduttivi di lingua inglese e francese e trovato il modo di installare una doccia funzionante, anche se l’allaccio all’acqua ci è stato tolto poco dopo». Dalla sua nascita, il campo informale ha avuto sempre rapporti difficili con le istituzioni e il vicino centro della Croce Rossa, così che i tentativi di sabotaggio dell’iniziativa sono stati molteplici e continui: dai piccoli furti e danni materiali, all’ordinanza della prefettura di bloccare la raccolta dei rifiuti.
«Queste le risposte al fatto che i migranti preferissero stazionare al campo informale piuttosto che a quello istituzionale dove la procedura di registrazione era sempre più simile a un’identificazione: per accedere alla mensa, alle docce e al servizio medico era necessario un badge con codice a barre e fotografia al posto del precedente tesserino nominale. Dei 180 posti disponibili all’interno della struttura solo una sessantina erano occupati».
Sara ricorda con amarezza gli ultimi giorni di Luglio: nonostante i viglili del fuoco avessero decretato, in seguito ad un sopralluogo, la sicurezza della cucina del campo, polizia e digos hanno smantellato tutto, giustificandosi con la supposta inutilità del locale, in quanto il cibo per i migranti era già messo a disposizione dalla Croce Rossa.
Questi i preludi del definitivo sgombero dell’intera zona avvenuto il primo Agosto. Le forze di polizia hanno fatto incursione la mattina presto e gli chabeb, dopo una breve resistenza, hanno ceduto alla paura e sono stati trasferiti obbligatoriamente all’interno del campo governativo. Espulsioni dal Paese e fogli di via per alcuni attivisti italiani ed europei a coronare la disfatta.
«Vivere a stretto contatto dell’alternarsi tra solidarietà quotidiana, repressione, speranza, deportazioni è stata una palestra di conoscenza immensa. Mi spaventa questa intolleranza per il diverso, questa gestione seriale delle vite applicata dall’occidente.
In Dicembre sono tornata a Ventimiglia per un breve periodo: la notte, in stazione, i blindati detengono il bottino della continua “caccia al nero” e chabeb dai visi coperti sgattaiolano terrorizzati dove possono per non farsi catturare. Vi ho trovato anche l’infelice sorpresa di un’ordinanza che vieta la distribuzione di cibo per le strade della città.
Ora noi siamo quelli che stanno nascosti a sfamare i “mostri”».