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La solidarietà a Bergamo è S.U.P.E.R.

Siamo a Bergamo, a un mese di effettiva quarantena COVID-19.  Il brusco rallentamento delle nostre vite non ha fermato la solidarietà, ha fatto invece nascere una rete di supporto pratico alla città che agisce senza scopo di lucro.

S.U.P.E.R. Bergamo è un’iniziativa del circolo MAITE – Bergamo Social Club, che vede 110 volontari (un numero in costante aumento), impegnati a fare commissioni per chi ha problemi a uscire dalle proprie case.

Con il complicarsi della situazione, il loro raggio di azione si è ampliato, garantendo servizi ad una fetta sempre più consistente della cittadinanza.

L’iniziativa si svolge col supporto di varie realtà territoriali: Ink Club, Barrio Campagnola, Club Ricreativo di Pignolo,  Upperlab,  c.s.a. Pacì Paciana, Arci Bergamo e con il sostegno del Comune di Bergamo.

 

 

Cosa significa fare rock sul serio?

di Lisa Egman e Miriam Viscusi

Il 18 e il 21 luglio hanno calcato il palco di Rock Sul Serio il duo I’m not a Blonde e il cantautore Scarda. Pequod ha fatto loro alcune domande per scoprire il mondo del rock e l’atmosfera del festival.

Chi sei e cosa suoni?

I’m not a Blonde: «Sono Chiara Castello, voce, loop station e rumoristiche varie di I’m not a Blonde. È molto difficile dare una definizione al nostro genere, ultimamente lo definiamo electro-art-rock».

Scarda: «Sono Nico, in teoria un cantautore, quindi in teoria faccio il cantautorato ma mi piacciono i ritornelli forti, quindi tendo a essere anche abbastanza pop, dove pop non significa “musica leggera”, significa Pop».

Cosa è il rock?

Scarda: «Ecco, ricollegandomi, certo Rock può definirsi Pop, ma resta Rock, tipo gli Oasis o tipo il fatto che in una certa epoca, di FATTO, il pop erano i Led Zeppelin ecc. In generale è un’attitudine, in generale c’è una chitarra elettrica in mezzo, in pratica può essere di tutto… Anche gli U2».

I’m not a Blonde: «Il rock è principalmente un’attitudine energetica, sia nel modo di scrivere che nel modo di suonare. Oltre che un sound è qualcosa di intenso, un’attitudine di pancia, emozionale».

Come si trasforma il rock a un festival?

I’m not a Blonde: «Esattamente in questo tipo di energia, che ai festival non coinvolge solo chi sta sul palco ma diventa mutuo scambio con chi ascolta e restituisce energia a chi sta suonando. O almeno, così ci piacerebbe che fosse sempre. È proprio questa la magia che può succedere ai festival, un rock in questo senso, denso di questa materia. Si sente l’entusiasmo e il calore, sensazioni fortemente palpabile sia dalle band che dal pubblico».

Scarda: « Chiamando a suonare gente che piaccia ai giovani e abbia carisma sul palco».

Perché Rock Sul Serio?

Scarda: «Perché chiamano a suonare gente che piace ai giovani e che ha carisma sul palco».

I’m not a Blonde: «Sul serio proprio rispetto a sposare una causa, a metterci tutto questo tipo di energia e di non risparmiarsi.

Quando abbiamo vinto “Musica da bere” tre anni fa, nella giuria c’erano anche ragazzi di Rock sul Serio, e lì ci siamo innamorati. Finalmente abbiamo avuto l’occasione per suonare “sul Serio”».

Hai comprato un cactus?

I’m not a Blonde: «Ne ho talmente tanti e stanno figliando, più che comprarlo potrei regalarne io!».

Scarda: «Sto facendo l’intervista nel backstage. Finisco di fare il check e vado a comprarlo».

In copertina: I’m not a Blonde sul palco di Rock Sul Serio [ph. Monelle Chiti].

I Folkstone a Rock Sul Serio: un’esplosione di energia

Ieri sera è esplosa una supernova a Villa di Serio!

Un’energia e una carica travolgente si sono propagate dagli strumenti e dalla voce dei Folkstone, investendo il pubblico sottostante.

Nessuno di quelli che erano sotto il palco è rimasto impassibile: da chi si è lanciato nella ressa, a chi è rimasto ai margini della folla; dal ragazzino con la birra al sessantenne che aveva appena terminato la sua sacrosanta porzione di casoncelli ognuno ha partecipato, a modo suo, a un’esibizione trascinante e coinvolgente.

L’unico rammarico: che non sia potuto andare avanti tutta la notte, che come quando esplode una stella, quello che resta alla fine è un vuoto, come la sensazione che manchi qualcosa a riempire il buio.

 

Rock sul Serio 2019_Pequod Rivista

Rock – volontari – sul Serio: la voce dei volontari dell’edizione 2019

È iniziato da questa settimana il festival più cool dell’estate bergamasca, Rock sul Serio. Dal 17 luglio fino alla notte del 21 luglio a Villa di Serio concerti e non solo arricchiscono le calde serate bergamasche.
Rock sul Serio è un festival che porta avanti idee green e, come viene ribadito nel sito internet, «ha deciso di intraprendere la strada della sostenibilità ambientale, per promuovere una cultura nella quale crediamo e per offrire un segnale di rispetto verso il nostro territorio»: è un vero eco-festival a tutti gli effetti. Potete trovare il programma sul sito www.rocksulserio.it, dove vi consiglio di guardare le meravigliose Sunset Sessions: un vero spettacolo di musica e pura poesia.

Rock sul Serio 2019_Programma_Pequod Rivista

In queste cinque giornate non solo ci sarà musica per tutti i gusti, ma non mancheranno workshop, mercatini, aperitivi, merende all’aperto, lezioni di yoga, e per i più piccoli il concerto di Dulco Granoturco & Chitarra Scimitarra. E tutto è reso possibile anche grazie al lavoro di numerosi volontari, che hanno deciso di dedicare il loro tempo a questa coinvolgente iniziativa.
Ne abbiamo intervistato qualcuno per capire cosa significa per loro Rock sul Serio. Chiara Noris, Fabio Prestini, Alessandra Cortesi e Simone Tribbia collaborano al festival ormai da tanto tempo e ne hanno visto i cambiamenti di anno in anno. Ma come descrivere questo festival con una canzone?

«Certamente Don’t leave I lonely dei Mellow Mood», risponde Chiara Noris, volontaria da ormai sette anni, «è la canzone giusta per questo festival, unico nel suo genere perché racchiude molti aspetti per me basilari nella vita umana: accoglienza, ambientalismo, tutela dei diritti civili uniti verso un fine comune di uguaglianza e divertimento, con musica sempre ricercata e mai banale».
«La canzone è Tir nel cortile dei Verdena», dice Fabio Prestini, designer: «come canta la band, “ci sono cose che pesano, ci sono cose che schiacciano”, ma solo dopo il duro lavoro ne vedi i frutti e solo allora capisci il valore che ci sta dentro».
Simone Tribbia a gran voce risponde che «non può che essere We are the world: forse sarà banale, ma prima ancora dell’artista e del palinsesto e del genere musicale, quello che si respira a Rock sul Serio è l’unione delle persone che sono presenti, sia i volontari, sia gli allestitori, sia tutti coloro che partecipano e collaborano; è questo senso di unità e appartenenza che mi stimola continuamente ogni anno a essere qui».

Il cactus di Chiara Noris

Alessandra Cortesi, invece, cerca disperatamente il titolo di una canzone, ma poi risponde «non riesco proprio a trovarla. È nel 2013 che inizia la mia esperienza di volontaria e continua tuttora. Perché partecipiamo e continuiamo a partecipare? Secondo me è semplice: la gioia. Anche se in quei giorni siamo praticamente operativi per 16 ore al giorno, l’idea di avere poche ore per dormire non è sicuramente allettante, ma l’atmosfera che si respira, la compagnia degli altri ragazzi, le iniziative che gli organizzatori portano avanti e la consapevolezza di essere parte attiva di tutto questo, spazza via ogni fatica e rende Rock sul Serio una festa prima di tutto per noi stessi».

Rock sul Serio 2019_Pequod Rivista
Il cactus di Alessandra Cortesi

Come ci spiega anche Chiara Noris, «tutto ciò è possibile perché c’è una passione e un credo profondo che proprio come un cactus 🌵, simbolo del festival di quest’anno, resiste anche nelle situazioni difficili, fiorendo e ingrandendosi anno dopo anno».
Il simbolo di questo festival ecofriendly, che ha dedicato la sera del 18 luglio alla lotta Contro le differenze 🌈, è il cactus, che diventa persino il tema di un gioco online (che anch’io ho tentato di fare, ma ahimè ammetto che non sono ancora arrivata al dodicesimo e ultimo livello…). Il cactus è anche il soggetto del concorso fotografico, a cui tutti possono partecipare: basta scattare una fotografia alla piccola pianta grassa e postarla sui social. Ma anche i volontari l’hanno comprato e parteciperanno al contest?
«Ne ho comprato uno durante l’ultimo “Waiting Rock sul Serio”», ci racconta Fabio Prestini. «È un mini-cactus con tante piccole spine che non pungono quasi mai. Le volte che lo fa, però, te le ricordi bene! I suoi migliori amici sono una pianta di basilico ed una di menta.»
Chiara Noris, invece, ne ha più di uno: «Adoro questa pianta, sia per l’aspetto che per le sue caratteristiche. E poi, è pure acquistata in una serra piena di amore, amicizia e nutrita tutte le sere con una melodia diversa che la renderà ancora più speciale».

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Il cactus di Fabio Prestini

Alessandra Cortesi ha preferito adottarne uno e portarlo in ufficio, sulla scrivania così anche durante il lavoro può dedicarsi alla piccola pianta e pensare al festival! Simone Tribbia, invece, ridendo spiega «certamente devo ancora comprare il cactus, perché è l’unica pianta che, come single, posso permettermi di tenere!»
Rock sul Serio è un festival che, grazie proprio ai suoi volontari, riesce a fare la differenza e, con il suo ricco programma attira un pubblico eterogeneo, che vuole non solo lasciarsi trasportare dalla musica, ma anche partecipare attivamente. Come scrivono gli organizzatori di Rock sul Serio sulla loro pagina Facebook, questo è il vero e unico obiettivo del festival: «Spread good vibes, diffondere buone vibrazioni. Vogliamo farvi stare bene. Vogliamo che ci facciate stare bene».

Cosplay: indossare un costume e sentirsi più sicuri

Si dice che l’abito non fa il monaco, ma quanto influisce quello che indossiamo su come ci comportiamo e sull’espressione della nostra personalità? Può un costume, paradossalmente, fare in modo che un individuo lasci cadere la sua maschera?

Pequod ha deciso di fare qualche domanda a riguardo a chi in ambito di costumi è molto informato: una doppia intervista alla premiatissima Sabrina, 30 anni, in arte Sylesia Cosplay, e a Luca 32 anni, che si definisce cosplayer amatoriale, ma già organizza raduni molto attesi.

Sabrina nell’abito da Gladiatrice di Aion, ispirato al videogioco Aion: The Tower of Eternity [ph. Roberto Donadello/Tutti i diritti riservati]

Quando hai iniziato a interessarti al mondo Cosplay e cosa ti ha spinto a farlo?

S: Ho iniziato a interessarmi al mondo del Cosplay nel lontano 2010, quando per puro caso mi sono imbattuta in una delle più grandi fiere del settore in Italia, il Lucca Comics. Sin da piccola sono appassionata di anime, manga e videogiochi, tanto che spesso giocavo a travestirmi dai miei personaggi preferiti, ma non immaginavo che ci fossero degli eventi dedicati proprio a questo: a Lucca, mi si era aperto un mondo. Da quel momento ho deciso che sarei diventata una cosplayer a tutti gli effetti ed è subito diventato il mio hobby preferito!

L: Sono sempre stato interessato al mondo dei fumetti e dei videogiochi, ma vengo da un piccolo paese dove non era facile trovare qualcuno che condividesse questo interesse. Poi ho incontrato una persona della zona appassionata come me di questo mondo, con cui sono andato al Cartoomics, quattro o cinque anni fa, e ho deciso di provare anch’io il Cosplay. È un fenomeno che negli ultimi anni sta diventando sempre meno di nicchia, perché ci sono tanti piccoli eventi e si diverte non solo chi si veste, ma anche chi guarda!

Sabrina vestita da Jennefer di Vangerberg, personaggio del videogioco The Witchers Wild Hunt [ph. Massimiliano Pellegrini/Tutti i diritti riservati]

Come avviene la tua preparazione-tipo?

S: La mia preparazione inizia dalla scelta del personaggio che voglio interpretare. Deve ovviamente essere un personaggio che mi piace e in cui riesco a immedesimarmi. Una volta scelto, cerco foto e modelli in 3D per avere la massima visibilità di ogni dettaglio del costume. In seguito, scelgo materiali e tessuti e da lì inizio con il progetto vero e proprio.

L: Mi piace preparare tutto con le mie mani. Scelgo un personaggio per affinità, per come si comporta, e faccio anche una selezione estetica: sono magro e asciutto, non andrò a vestirmi da Hulk! Quando ho scelto il personaggio, stampo le immagini, valuto come arrangiarmi e inizio la parte sartoriale e la costruzione degli accessori. Sono abbastanza pignolo nei dettagli: cerco le stoffe adeguate; spesso faccio, disfo, rifaccio. Alcuni costumi più popolari si trovano anche in vendita; ci sono persone che non fanno Cosplay, ma commissioni, e sono bravissime a creare anche i costumi più difficili e particolari.

Sabrina nelle vesti di Tyrande Soffiabrezza dall’Univeso di Warcraft [ph. Roberto Donadello/Tutti i diritti riservati]

Sei sempre te stesso o ti immedesimi nel personaggio, non solo con il costume?

S: Ho iniziato da subito a fare Cosplay in modo serio e a partecipare a molte gare. Quando si gareggia i metodi di valutazione non comprendono solo il lato puramente esecutivo del costume, ma anche l’interpretazione: per questo motivo, immedesimarsi nel personaggio è fondamentale.

L: Dipende dai momenti. È bello immedesimarsi perché quando si interpreta bene il personaggio i fan apprezzano. Inoltre, ho notato che interfacciarsi con altri cosplayer è più facile che con sconosciuti nella vita ordinaria: se uscissi per un aperitivo con gente che non conosco, non mi sentirei così a mio agio. Il fatto che stiamo interpretando vari personaggi spesso ci rende più facile essere spontanei.

Luca e Ambra, la sua ragazza, negli abiti di due personaggi di Yu Ghi Ho: il Mago Nero e Black Magician Girl [ph. jack.th3.4rist/tutti i diritti riservati]

Qual è il rapporto tra la tua identità e il costume che indossi?

S: Quando indosso il costume che realizzo, improvvisamente non sono più la ragazza timida e un po’ insicura che sono ogni giorno, ma divento il personaggio bello e forte che tanto amo. Posso quindi essere un’altra persona per un giorno e ciò mi fa sentire più sicura di me stessa. È anche questo il bello del Cosplay, ti permette di diventare ciò che desideri essere!

L: L’ambiente Cosplay è fatto da tante persone diverse, non mancano l’invidia e le critiche, soprattutto nelle gare, ma se trovi le persone giuste ti permette di essere te stesso al cento per cento. Nella vita quotidiana siamo sempre sotto alla lente del giudizio altrui e abbiamo tanti piccoli freni, mentre in questo contesto il contatto è molto spontaneo e istintivo. A lungo andare ciò aiuta a comportarsi con più naturalezza anche nelle situazioni di ogni giorno.

Si tratta di interpretare un personaggio, divertirsi e stare bene: posso fare quello che voglio, anche interpretare Hulk pur essendo magro! Il giudizio degli altri non è importante. Vedo tanti ragazzi molto giovani che fanno Cosplay e dopo le prime fiere noto (e anche i loro genitori lo notano) che acquisiscono sempre più sicurezza in loro stessi. I loro costumi li aiutano a esprimere quello che sono, senza remore, più liberamente.

Ambra nelle vesti di Regina Elfaria, personaggio del videogioco Odin Sphere [ph. Chiara Zambarda/Tutti i diritti riservati]

Qual è tuo cosplay preferito o meglio riuscito, e perché?

S: È una domanda a cui mi è difficile rispondere perché amo tutti i miei costumi e ognuno di loro mi ha dato grandissime soddisfazioni. Probabilmente in vetta c’è il mio costume da Gladiatrice di Aion, molto complicato perché composto di parti meccaniche e armatura. La sua realizzazione è stata davvero una grossa sfida per me ma mi ha dato la possibilità di realizzare il mio grande sogno: andare in Giappone, grazie alla vincita di una gara importante.

L: Il mio cosplay preferito è il Mago Nero di Yu Ghi Oh. Mi è sempre piaciuto molto sia il suo outfit sia il suo ruolo nella storia, e ci ho messo davvero tanto tempo per realizzarlo: è infatti un personaggio con un’armatura molto complicata da creare e riuscirci mi ha portato molta soddisfazione.

Un altro cosplay molto ben riuscito l’ho creato per la mia ragazza, Ambra: il personaggio di Elfaria, del videogioco di Odin Sphere. Alcuni costumi danno proprio soddisfazione e anche il pubblico si esalta. Devo dire però che quello che ha riscosso decisamente più successo e che mi ha fatto davvero divertire è quello delle Tre Marie.

Vado molto orgoglioso anche del raduno di One Piece (in copertina,ndr) che organizzo ogni anno a Lucca insieme alla mia ragazza e tre amici, totalmente auto finanziato. Alla gente piace, mi fa un enorme piacere quando incontro qualcuno alle fiere che mi dice: “Ci vediamo al raduno!”.

Luca e due amici che riproducono il logo della marca dolciaria Tre Marie

Le fotografie nel testo sono gentilmente concesse da Sabrina e Luca./Tutti i diritti riservati.

Il batik tra arte e vestiti di Sapsafart

Passeggiando tra i quartieri di Dakar, accade spesso, soprattutto la notte, di venire sopresi dal rullante rumore delle macchine da cucire. Basta seguire il suono e affacciarsi a uno degli usci dei laboratori per ritrovarsi immersi nel fruscio di stoffe e tessuti, che alla luce di lampade opache scorrono sotto gli aghi al ritmo dato dai movimenti sui pedali, per lo più avviati da giovani uomini.

Tra le decine e decine di laboratori, ce n’è uno, nascosto tra i vicoli sabbiosi del quartiere di HLM, che spicca invece per il suo silenzio, interrotto solo dal suono dello stereo che accompagna le lunghe ore di lavoro: è il Sapsafart Atelier, dove Daouda colora i tessuti che verranno trasformati in abiti, tovagliato, quadri e arazzi.

Daouda al lavoro nell’Atelier di Sapsafart.

Come molte delle botteghe senegalesi, anche Sapsafart è uno spazio ricavato all’interno di un’abitazione, in questo caso ne è il cortile, ma immerge fin dal primo ingresso in un’atmosfera artistica tutta sua: accanto alle immancabili icone religiose, quadri e bassorilievi si affacciano sulle pareti, su cui si addossano poltroncine un po’ bohémien raggiungibili solo dopo aver scavalcato vasche e stender. Qui non si cuce, si dipinge con una tecnica approdata in Africa nell’Ottocento, trasportata dai colonizzatori dalla lontana Indonesia, ma subito tradotta nei disegni e nei colori del continente nero.

Daouda Ndoye è il proprietario, l’artista del batik. Sulle stoffe traccia i disegni ispirati dalla sua immaginazione e all’estetica africana, quindi inizia la loro trasformazione in tessuti adatti a diventare vestiti: «A volte inizio a lavorare sulle pezze seguendo la mia fantasia – mi spiega – e solo dopo mi preoccupo di come tagliarle, in base all’uso che decido di farne; più spesso, chiedo alla sarta con cui collaboro di iniziare il confezionamento dell’abito con il tessuto grezzo e solo dopo mi occupo di dipingerlo, così che i disegni si adattino alle forme».

Daouda mentre dipinge; alle sue spalle, alcune camicie.

Come funziona la tintura attraverso la tecnica del batik?

«La prima fase riguarda il disegno; una volta tracciate le linee guida, queste vanno ricalcate coprendo con la cera calda le parti che non si vogliono tingere. Si tratta di un lavoro che richiede una certa precisione perché non può essere corretto: una volta che la cera è colata nel tessuto, lo impermeabilizza e quindi non può più essere tinto. Una volta che la cera si è asciugata si procede al bagno di tintura, che consiste nell’immergere la stoffa in una vasca piena di acqua e pigmenti colorati. La procedura si ripete poi tante volte quanti sono i colori scelti, andando di volta in volta a sovrapporre diversi strati di colore. Ogni passaggio richiede dei tempi di attesa, che servono per l’asciugatura della cera e poi del colore, quindi più complesso è il disegno e maggiore è il numero di colori impiegato, più sarà lungo il procedimento».

Da quanto tempo lavori con questa tecnica? Come l’hai imparata?

«Faccio lavori in batik dal 1989, ma solo dall’anno scorso ho fondato il Sapsafart Atelier. Ho frequentato una scuola in Casamance, nel sud del Senegal, dove mi hanno insegnato questa tecnica entrata a far parte della nostra tradizione e ho deciso di farla diventare la mia principale attività lavorativa. Ho sempre voluto avere un lavoro in cui poter esprimere le mie inclinazioni artistiche, infatti mi sono dedicato a lungo alla creazione di sculture e quadri e a questi ultimi ho deciso di provare ad applicare la tecnica del batik. I miei primi lavori erano pensati come arazzi, destinare a decorare le pareti, poi ho iniziato a lavorare la stoffe perché diventassero tovaglie o cuscini. Da qualche anno, ho iniziato a collaborare con alcune sarte e a usare il batik per creare abiti».

Tintura e asciugatura.

Perché hai scelto proprio il batik?

«Mi piace particolarmente creare abiti in batik perché sono pezzi unici e originali, imitabili ma non riproducibili in maniera identica. La tecnica del batik di per sé rimanda alla tradizione panafricana, anche se di epoca piuttosto recente, soprattutto se usata in modo artigianale come faccio io; le linee e i colori sono molto diversi rispetto al più moderno vax, che è la versione industriale del batik: le sfumature che si possono applicare ai pigmenti rimandano ai colori della terra e le forme dei disegni che scelgo si rifanno all’iconografia della cultura africana. Allo stesso tempo, sui tessuti posso esprimermi liberamente, pensare a disegni e composizioni sempre nuovi, spesso nati dall’incontro tra la mia immaginazione e quella della persona che mi ha commissionato l’abito e che poi lo indosserà. Questo fa sì che ogni vestito sia assimilabile a un’opera d’arte, pensata su misura del contesto in cui verrà esposta o, in questo caso, indossata».

Chi sono le persone che ti commissionano abiti batik?

«Ho una clientela molto varia, che include sia uomini sia donne. Confeziono spesso camicie da uomini, ma anche semplici t-shirt, mentre le donne scelgono soprattutto pagne e abiti con lunghe gonne. Anche i turisti sono attratti dal mio lavoro: possono portarsi a casa un pezzo unico di Africa, spesso pensato apposta per loro, e piace molto il fatto che possono assistere e partecipare alla tintura degli abiti che poi acquistano, cosicché l’abito non sia più solo un oggetto, ma un souvenir che porta con sé un ricordo delle loro vacanze. Questo entusiasmo da parte degli stranieri mi ha spinto a cercare uno sbocco per la mia attività anche nelle esportazioni: attraverso la pagina facebook di Sapsafart espongo le mie creazioni e grazie a una rete di amici che vivono in Europa riesco a confezionare abiti anche per chi non può raggiungermi fisicamente».

Due creazioni di Sapsafart: un abito da donna e una camicia da uomo.

Quali sono i soggetti che preferisci dipingere?

«Mi piace che le mie creazioni rimandino a sensazioni ed emozioni legate alla mia terra. Gran parte dei miei soggetti sono legati a oggetti di uso quotidiano di oggi o del passato, come i cauri, le conchiglie che un tempo fungevano da moneta, o le calebasse, le ciotole in legno di zucca; anche gli strumenti tradizionali, dai tamburi alla kora, sono un motivo che uso spesso, così come alcuni soggetti tipici del paesaggio africano, prima tra tutti la pianta del baobab. Molte volte mi ispiro a momenti della vita quotidiana, in cui il più delle volte le protagoniste sono le donne: una madre che porta il figlio nel mbotou (fascia portabebè, ndr) o una giovane che porta un otre in bilico sulla testa. A darmi maggior soddisfazione sono però le composizioni meno realistiche, ma in cui riesco a trasmettere un messaggio che va oltre l’immagine, che spesso nascono da un adattamento dei miei quadri».

Fotografie nel testo di Sapsafart / Tutti i diritti riservati.

Non solo fortuna: la mia vita nel poker

Se ne parla per il suo fascino pericoloso, spesso anche a sproposito: in Italia parlare di poker come di un qualsiasi gioco è ancora un tabù difficile a morire, perché associato a giochi d’azzardo in cui le sorti del giocatore sono nelle mani della fortuna. Nell’opinione comune è diffusa l’immagine di una bisca clandestina riunita intorno a tavolo da gioco circondato da una nebbia fumosa, tra sigari e bicchieri di whisky, nel sottoscala di un locale di seconda categoria. Eppure chi gioca a poker con costanza parla di conoscenza approfondita delle regole del gioco e abilità nel giostrarsi tra queste, di metodo analitico, di studio, di mindset. E ci apre una nuova prospettiva su un gioco di logica e abilità. Ne abbiamo parlato con Luca (nome di fantasia), giocatore di 29 anni della provincia di Bergamo, che ha scoperto nel poker un’attività estremamente affascinante per abilità tecniche e skills mentali, ma anche una fonte di guadagno consistente, che arriva a coprire la metà delle entrate mensili.

 

Il gioco del poker è un gioco complesso, spesso circondato anche da un’aura di mistero. Cosa ti affascina di questo gioco di carte?
«Credo che il punto di forza del poker risieda nella sua natura poliedrica. Chiunque vi si approcci, probabilmente troverà almeno un aspetto che lo catturi: che si tratti della sua componente aleatoria, matematica, emotiva o socializzante.
Personalmente ho sempre apprezzato il fatto che, nonostante la sua semplicità a livello di regolamento, dia la possibilità ai giocatori di compiere una vasta gamma di scelte all’interno della partita. Poi non posso non citare una meccanica unica nel suo genere che adoro: sua maestà “il bluff”. In quale altro altro contesto si è premiati, pur rimanendo con la coscienza intatta, per aver mentito in modo convincente? E cosa si prova ogni volta che si buttano le chips in mezzo al piatto sapendo di non avere niente in mano?
ll mix di tutti questi fattori mi ha fatto innamorare del gioco, tuttavia le caratteristiche che mi affascinarono inizialmente non sono le stesse che continuano a farlo tuttora. Queste ultime sono prevalentemente legate alla matematica e al lato più tecnico /teorico alla base del gioco e alle strategie che ne derivano. Un altro aspetto del poker che ho imparato ad amare col tempo è il suo essere incredibilmente meritocratico nel lungo periodo, quanto apparentemente “ingiusto” nel breve».

Quando e come ti sei avvicinato al gioco del poker?
«Ho sempre amato il mondo delle carte da gioco fin dalle classiche partite con le carte bergamasche fra nonno e nipote. All’età di 13 anni anni ho scoperto prima Yu-gi-oh e poco dopo Magic the Gathering, a cui peraltro gioco ancora di tanto in tanto. Da lì ho praticamente perso interesse verso tutti gli altri giochi di carte, data la loro scarsa complessità, fino ad una noiosa serata estiva del 2008. Mi trovavo al bar vicino casa col mio gruppetto di amici e decidemmo di sperimentare il poker Texas Hold’em, quel gioco che si vedeva spesso in TV in tarda serata costellato di strani personaggi dal carisma invidiabile e dal look stravagante.
Allora giocavamo senza scommettere un centesimo, ma ci abbiamo messo poco a capire che non poteva essere la stessa cosa senza soldi in ballo, così cominciammo a puntare piccole cifre per dare pepe alle partite. Nei mesi successivi entrai in contatto con alcuni circoli di giocatori, addirittura il proprietario di una piccola sala da gioco mi lasciò le chiavi del locale. Potendo gestire la stanza a mio piacimento, il sabato e la domenica pomeriggio diventarono appuntamenti fissi del pokerino fra amici, altre volte si organizzavano partite casalinghe. Lo ricordo come un bel periodo, avevo coinvolto un bel gruppo di persone e ci divertivamo per ore facendo tornei a 5€ di iscrizione. Nel giro di due anni purtroppo la sala fu chiusa anche perché la regolamentazione si fece più rigida, e pian piano smettemmo di organizzare. Nel frattempo cominciai a provare il poker online: non era la stessa cosa, non c’erano più le risate in compagnia, la sensazione del velluto del tavolo sotto i polpastrelli, il rumore dei trick fatti con le fiches… d’altro canto si potevano giocare più mani in meno tempo, con persone sparse per tutta Italia e partecipare a più tornei contemporaneamente…».

 

Che tipo di abilità sono necessarie nel poker per essere vincenti?
«Preparazione tecnica e assetto mentale. Il tutto si riassume in questi due aspetti imprescindibili, di conseguenza mi sento di dire che qualunque predisposizione caratteriale che possa aiutare nello sviluppo e miglioramento costante di queste capacità, se applicata, porterà qualunque giocatore a vincere nel lungo periodo. Una persona perspicace e dall’intuito acceso che non abbia mai studiato il gioco tramite articoli, video, confronto con altri giocatori e software, avrà meno successo di qualcuno meno brillante ma che faccia le suddette cose. Nel poker infatti l’esperienza fatta al tavolo ha poca rilevanza rispetto a ciò che si apprende studiando, per questo è un gioco così complesso. Perché ad una giusta mossa non sempre corrisponde un output positivo e viceversa. Parlando di mindset, invece, credo che ci siano alcune caratteristiche innate che possano dare un vantaggio al giocatore: razionalità, umiltà, resilienza e distacco emotivo. Si tratta di comprendere le proprie emozioni, accettarle, e far sì che non influiscano sulle scelte che si ritengono corrette.
Nel 2017 è andata in mondovisione una sfida che ha tolto ogni dubbio a riguardo: 4 giocatori professionisti contro Libratus, un’intelligenza artificiale in grado di apprendere ed automigliorarsi studiando strategie ottimali. Superfluo dire che la macchina ha avuto largamente la meglio sulle quattro menti umane».

Come ti sei reso conto del fatto che a un certo punto il poker stava diventando per te una fonte di entrate economiche non irrisorie? 
«Nel 2010 depositai 10€ su una piattaforma di poker online e giocando tornei su tornei, nel giro di poco tempo applicando con disciplina le strategie che avevo appreso tramite letture e video costruii il bankroll, ovvero il capitale dedito al poker. Nonostante fossi un giocatore mediocre il livello medio degli avversari era molto basso, così da subito ho pensato che potessi farne un lavoro in futuro ma in quel periodo non avevo abbastanza tempo da dedicarvi, e lo consideravo una sorta di lavoro part-time.
Nel luglio 2011 venne legalizzato il cashgame, la modalità di gioco in cui ti siedi e alzi dal tavolo con i tuoi soldi quando vuoi (nei tornei, al contrario, si paga una quota d’iscrizione, ogni giocatore riceve lo stesso importo nominale di chips e ci si alza solo quando esse finiscono, o quando tutti gli altri giocatori sono stati eliminati). Il cashgame portò nuova linfa a tutto il movimento, e io stesso mi spostai immediatamente su questa nuova disciplina ottenendo discreti risultati fino al 2013, quando terminati gli studi scolastici, decisi di cimentarmi quasi full time nel poker. Quell’anno, incentivato dalle promozioni offerte da pokerstars.it, mi ero posto un obiettivo economico e di volume di gioco che non fui in grado di gestire, sia perché in quel momento giocavo a livelli più competitivi sia per carenza di mindset. Infatti fra aprile e giugno di quell’anno persi circa 12.000 €, quasi metà del capitale, e nonostante al netto del 2013 fossi in profitto di circa 10.000€ presi una scottatura non indifferente, tant’è che abbandonai immediatamente il progetto per l’anno in corso. Solo dopo realizzai che la sfortuna c’entrava poco con la disfatta di quell’anno.
Al giorno d’oggi il mercato del cashgame in Italia è in netto calo, infatti quelle famose promozioni che mi avevano spinto a giocare tutte quelle ore di fila ormai non esistono più, e il livello dei giocatori è molto aumentato. Il rovescio della medaglia è che chi vuole approcciarsi professionalmente al gioco deve concentrarsi più sulla qualità che sul volume. Circa 3 anni fa ho ripreso seriamente col gioco e ho cominciato a studiarlo più a fondo. Negli ultimi 18 mesi in particolare l’analisi del gioco è diventata parte integrante della mia giornata, specialmente grazie all’incontro fatto con altri due giocatori nel ruolo di coach, che mi hanno indirizzato verso un metodo di studio che mi permette di migliorare di mese in mese, basato sull’assiduo utilizzo di software specifici. Uno su tutti è Pio solver, un programma che, se utilizzato correttamente, aiuta a capire le dinamiche del gioco. Per questo motivo sono sicuro di poter incrementare i miei guadagni che al momento si attestano intorno ai 15-20€ orari, che per un semiprofessionista non sono obiettivamente un granché, ma visti i tempi che corrono non ci si lamenta».

Sembra che tu stia parlando di un vero e proprio lavoro, sia per guadagni che per impegno e costanza…
«Ricordiamoci comunque che il poker è un gioco a somma zero, anzi per dirla tutta anche meno visto che ad ogni giocata si pagano le tasse, quindi il giocatore medio a lungo andare perde per forza di cose. Questo per dire che la via del professionismo non è per tutti, e non ci si può improvvisare. Per intraprenderla, una volta costruita la base tecnica e di mindset, bisogna programmare un piano giornaliero e mensile sensato, che per quanto flessibile sarà simile a quello di un lavoro più convenzionale. Bisogna inoltre mettere in conto che le ore che vi si dedicano potranno portare casomai soddisfazione oltre che guadagni, meno facilmente puro divertimento.
Ti posso raccontare anche la mia giornata lavorativa tipo in questo momento: 2 ore di studio e 3/5 ore di gioco, suddivise in 3 sessioni nell’arco della giornata, intervallate da attività fra cui non può mancare lo sport, visto lo stress generato dalle tante ore davanti al pc».

Certo sentiamo spesso parlare di persone che hanno più lavori per mantenersi, meno spesso si sente dire che alcuni affiancano a un altro lavoro le vincite dal gioco di carte. Come vivi questa situazione? Le persone intorno a te lo sanno? Cosa ne pensano?
La figura del giocatore di poker in Italia è ancora un tabù, e non è nemmeno riconosciuta come professione. Per i miei genitori non è stato facile accettare la mia scelta, ma sono stati rassicurati nel momento in cui videro che la mia passione per il gioco portava anche ad un profitto economico, e capirono che quel che facevo era ben diverso dal gioco d’azzardo. Quasi tutti i miei conoscenti più stretti sanno, e non ne parlo più di quanto non facciano loro con i rispettivi impieghi. Tuttavia con le persone che non conosco a fondo cerco di evitare l’argomento, e siccome svolgo anche un’altra attività part-time, spesso lascio intendere che sia quella la mia principale fonte di reddito. Questo perché so quanta confusione generale ci sia intorno al poker, specialmente tra i meno giovani. Molti non sanno che si tratta di uno skill game e lo considerano alla stregua dei giochi da casinò, o ancora peggio confondono poker online con videopoker (simile alle slot machines).
Spesso poi mi si chiede se non mi sentirei meglio con un cosiddetto “lavoro sicuro”, ma credo che in questo specifico periodo storico tale concetto sia da ritenere quasi obsoleto».

Qualcuno ti ha mai posto delle domande di tipo etico?
«Non così spesso come puoi pensare, forse per non mettermi a disagio. La verità è che ci ho pensato più volte per conto mio. Sono cosciente del fatto che di base il poker è fine a se stesso non essendo in nessun modo costruttivo, e che i guadagni derivino da perdite altrui, ma la cosa non mi disturba. Forse lo farebbe se vivessimo in un mondo utopistico, ma nel mondo reale credo che ognuno cerchi il proprio spazio fra una miriade di possibili impieghi, molti dei quali superflui quanto il poker. Sul fatto che i giocatori migliori vincano e viceversa invece proprio non riesco a farmi problemi, io stesso nel tempo ho regalato un sacco di soldi a chi sapeva come togliermeli, e non ci trovo nulla di sbagliato in questo. Oltretutto quante persone svolgono un lavoro che odiano solo per portare a casa lo stipendio? Ecco, non è il mio caso: finché il gioco continuerà ad appassionarmi e sarò in grado di svolgerlo con profitto non vedo perché dovrei privarmi di questa fortuna».

I tarocchi nell’arte o l’arte dei tarocchi

I tarocchi sono un mazzo composto da 78 carte, il cui numero può variare; i cosiddetti Arcani Minori corrispondono a 56 carte, 22 sono invece gli Arcani Maggiori, che rappresentano un elegante e raffinato vocabolario di figure, colori e simboli, quali il Matto, la Papessa, l’Amore, il Diavolo.
Inizialmente utilizzate come carte da gioco, i tarocchi solo successivamente hanno acquisito un significato enigmatico e simbolico, diventando una porta verso un mondo occulto e dando vita all’arte della cartomanzia.
Dal XIV secolo presso le grandi Corti dell’Italia settentrionale vennero chiamati miniaturisti ed incisori a realizzare questi preziosissimi mazzi di carte. Nella prima metà del 1400 Jacopo da Sangramoro fu incaricato di dipingere per la duchessa Bianca Maria d’Este di Ferrara 14 carte, gli Arcani maggiori, detti anche Trionfi, su pregiata carta di cotone.

A Milano, invece, furono Michelino da Besozzo e Bonifacio Bembo ad essere insigniti di questo pregevole lavoro: l’uno su commissione di Filippo Maria Visconti intorno al 1466 realizzò il famoso mazzo Visconti di Modrone; l’altro intorno al 1463 sotto Francesco Sforza, si occupò nella sua bottega di Cremona della pittura del mazzo Brera-Brambilla.
Durante il XV secolo venne realizzato un altro famoso mazzo di carte, che prende il nome di “Tarocchi del Mantegna”, in quanto il suo creatore si avvalse di uno stile molto vicino al celeberrimo artista. Seppur resti difficile stabilire l’attribuzione, questi tarocchi sono composti da 50 stampe incise a bulino di rara bellezza e altissima qualità esecutiva, che in origine erano rilegate all’interno di libri e solo successivamente vennero smembrate, dato il loro grande successo collezionistico.

Un ciclo di affreschi, che decora Palazzo Borromeo di Milano e datato 1445-1450, mostra con attenzione e devozione di particolari alcuni giochi amati e praticati da un’agiata nobiltà dell’epoca Rinascimentale: il gioco della Palmata, il gioco della Palla e il gioco dei Tarocchi. In quest’ultimo affresco si rappresenta, in un paesaggio naturale dove si scorgono tre melograni ed elementi rocciosi, un gruppo di 5 giovani nobili, tre donne e due uomini, intenti a giocare a carte, seduti ad un tavolo rettangolare.
In epoca più moderna, nel Novecento, però, l’interesse per la creazione dei tarocchi si è affievolita; l’unico artista in Europa che si cimentò nella realizzazione di queste affascinanti carte, fu il pittore surrealista Salvador Dalì, che verso il 1972 su commissione di Albert Broccoli si dedicò alla creazione di un mazzo. Ogni carta, che venne realizzata con le tecniche del collage, dell’acquarello e della goauce, trabocca di significato surrealista: inconscio e sogno s’intrecciano, ricercando un personale misticismo che abilmente impiega il repertorio tradizionale simbolico dei tarocchi.
A partire dagli Anni Settanta è stato realizzato anche il “Giardino dei Tarocchi” presso Capalbio, in Toscana. Fu l’artista francese Niki de Saint Phalle, che diede avvio alla creazione di questo parco esoterico che liberamente si ispira ai tarocchi, al Parco Guell di Antonì Gaudì a Barcellona e al parco di Bomarzo.

Insieme al marito Jean Tinguely, realizzò un gruppo di 22 sculture monumentali, dalle forme tondeggianti e dai colori sgargianti, costruite in cemento armato, ricoperto da un mosaico di specchi, vetri e ceramiche colorate. L’opera si trova su un terreno di circa due ettari e costituisce un vero e proprio “villaggio”, in cui le sculture-case segnano le tappe del percorso. L’artista francese nel suo testamento ha fatto specifica richiesta che in questo luogo colorato ed enigmatico non ci siano visite guidate in modo tale che il visitatore sia costretto ad interpretare queste sculture e possa immergersi totalmente nel mondo magico, criptico e ricco di simboli quale è il mondo dei tarocchi.

Ideogrammi e miniature delle carte da gioco nel continente asiatico

Mentre, come vi abbiamo raccontato, l’Europa scopriva le carte da gioco, ne modificava semi e disegni, inventava sempre nuovi modi per divertirsi con questo pratico supporto, cosa succedeva dall’altra parte del mondo, nella terra natia tanto della carta quanto delle carte da gioco?

Dall’epoca della loro invenzione, sembrerebbe che in Cina le carte abbiano subito ben poche variazioni: pur nell’incredibile varietà di mazzi, spesso differenziati a livello regionale, la forma di questi ludici foglietti sembra essere rimasta quella delle origini, rettangolare ma molto più stretta e allungata di quella degli esemplari europei cui siamo abituati. Questa sottigliezza potrebbe ricondursi ai primi usi delle carte, ideate come variante più leggera e maneggevole delle tessere da domino, di cui peraltro condividono il nome pai (letteralmente, etichette, tessere, targhette), o adoperate come carta moneta. Certamente, la loro forma si adatta alle esigenze dei giocatori, essendo la maggior parte dei mazzi composti da più di 100 carte, di cui molte tenute in mano contemporaneamente.

Carte da Domino “Double Happiness” (Doppia Felicità), su ciascuna carta si trovano rappresentazioni simboliche delle benedizioni della vita [ph. The World of Playing Cards].

Le carte da domino sono fino a oggi particolarmente diffuse in tutta la Cina, raccolte nel mazzo Sap Ng Wu Pai (Carte dei Quindici Laghi), composto da 84 carte che riportano i punti rossi e neri numerati da 1 a 6 di un set da domino cinese. Il nome del mazzo sembrerebbe derivare da un errore di trascrizione legato all’uso delle carte da gioco da parte quasi esclusivamente delle classi più povere: sulla carta da quindici punti si trova infatti l’ideogramma 湖 (lago, appunto), simile tanto nel suono (wu o hu) quanto nella forma all’ideogramma usato in mandarino per indicare la parola “punto”.

Nel centro delle carte, a dividerne le due metà, ci sono delle piccole decorazioni, diverse per ciascuna combinazione di punti, che si ritrovano ingigantite nella variante del Sichuan. In questa regione sudoccidentale della Cina troviamo infatti il mazzo Chuan Pai (Carte dei Fiumi, dal nome della regione), composto da 84 carte di dimensioni doppie rispetto alle Sap Ng Wu, in cui sono rappresentati personaggi di romanzi o opere teatrali, tra cui gettonatissimo è il ciclo di racconti del XIV secolo Shui-hu Chuan (Il margine dell’acqua). Originario sempre del Sichuan è il mazzo Zi Pai (Carte a Ideogrammi), formato da 80 carte con soggetti numerici indicati con ideogrammi neri (ideogrammi ordinari) o rossi (ideogrammi ufficiali).

Carte da Domino con rappresentazioni di personaggi de “Il margine dell’acqua” [ph. The World of Playing Cards],

L’utilizzo come carta moneta è più facilmente riconducibile alle Gun Pai (Carte a Bacchetta), primo stile riconosciuto di carte a semi monetari, a cui si ispirano i mazzi europei. Tradizionalmente, queste carte presentano tre semi: Wen (Denari, simboleggiati dalla tipica moneta forata cinese), Suo (Stringhe, inteso come fila di 100 monete) e Wan (Miriadi, in cui si ritrovano stilizzazioni de Il margine dell’acqua); a questi, in alcune varianti si aggiungono carte speciali, chiamate Vecchio Mille, Fiore Rosso e Fiore Bianco, che si ritrovano nei mazzi di Ceki in Malesia e Singapore e di Pai Tai in Thailandia, probabilmente diffusi proprio da migranti di origine cinese.

L’introduzione di un quarto seme, così come in uso in Europa, si trova già nella tradizione asiatica del Lat Chi, conservato dalle comunità Hakka della Cina meridionale, che utilizzano i semi Sip (Raccogliere), Gon (Infilare), Sop (Stringa) e Ten (Filo). Singolare è il fatto che nello stile Hakka le carte di valore 2 hanno un simbolo simile al Picche europeo, in cui è scritto un ideogramma che ne indica il seme. Entrambi gli usi si ritrovano in Vietnam, nel mazzo a tre semi da Tô Tom (Scodella di Gamberi) e in quello a quattro semi da Bãt; ambedue i mazzi contengono alcune carte speciali: Ông-Lão (l’anziano), Không-Thang (Zero Stringhe) e Chi-Chi (Mezza Moneta).

A sinistra, un mazzo di carte Ceki della Malesia; a destra, un mazzo di carte in stile Hakka.

Un mazzo che dalla Cina ha avuto particolare diffusione in Asia, soprattutto in Vietnam e Thailandia, è quello delle Carte a Quattro Colori (Si Se Pai, in cinese; Bai Tu Sac, in vietnamita; Pai Jîn Sì Sì, in tailandese), usato per un gioco simile al Mah Jong e nel gioco d’azzardo Ju Jiuu (Nove Carri), da cui deriverebbe il Baccarat.

Lo stesso Mah Jong, giocato in Cina con un mazzo da 144 carte, di cui a quelle divise nei tre semi e numerate da 1 a 9 si aggiungono tre Draghi, quattro Venti, quattro Stagioni e quattro Fiori, è tra i giochi d’azzardo più diffusi nel Paese ed esportato in Malesia e Singapore, dove sono state introdotte quattro carte utilizzate come Jolly (Gallo, Gatto, Topo e Centopiedi).

Ancora in Thailandia si trovano le Pai Pong Jîn (Carte Cinesi Sontuose), che riproducono le carte a scacchi cinesi Ju Ma Pao (Carro, Cavallo, Cannone): divise in due colori, rosso e nero, corrispondono ai membri di un esercito, indicati per lo più attraverso ideogrammi, talvolta in piccole figure collocate al centro della singola carta.

Mazzo di Carte a Quattro Colori [ph. 台灣四色牌 by Wikimedia Commons CC BY-SA 3.0].

Versione particolarmente originale delle carte da gioco è quella che si trova in India, nelle carte di forma circolare Ganjifa. Nonostante le profonde differenze, sembra che anche le carte da gioco indiane derivino da quelle a semi monetari della Cina, mediate dall’influenza persiana, come sembrerebbe indicare una plausibile ricostruzione etimologica del loro nome, nato dalla fusione del vocabolo indiano ganji (tesoro) con l’espressione cinese chi pai (carte da gioco). Particolarmente diffuse durante l’Impero Moghul, alcuni precedenti potrebbe risalire al gioco Kridapatram (Stracci dipinti da gioco), di cui preservano materiale e forma: fino a oggi, infatti, i mazzi Ganjifa sono prodotti artigianalmente sovrapponendo vari strati di stoffa inamidata, poi ricoperta di pasta di gesso e dipinta.

Il numero di carte per ogni seme, che prevede 10 carte numerate e due figure, è stabile, mentre vastissimo è il variare del numero di semi, così come l’assortimento dei disegni rappresentati: lo stile Mughal Ganjifa, simile all’originale persiano, prevede 96 carte divise in 8 semi, le cui figure corrispondono solitamente allo Shah (Re) e al Wazîr (Ministro), ma nei mazzi prodotti a Orissa sono sostituiti da personaggi religiosi o mitologici; un simile rimando si trova nello stile Dasâvatâra (Dieci Incarnazioni), i cui mazzi sono appunto suddivisi in 10 semi riferiti alle diverse incarnazioni del dio Vishnu. Variazioni di questo tipo si ritrovano anche nei mazzi Rashi Ganjifa, in cui i 12 semi corrispondono ai segni zodiacali, e Navagraha Ganjifa, ossia dei Nove Pianeti, che includono alcuni satelliti e due fasi lunari. Un caso del tutto singolare sono invece gli stili ibridi, probabilmente diffusisi in seguito all’apertura delle rotte commerciali con l’Europa: pur conservando la forma rotonda e lo stile grafico indiano, alcuni mazzi utilizzano i semi francesi o, più raramente, quelli spagnoli.

Dieci carte da un mazzo di Dasâvatâra Ganjifa.

In copertina: Mazzo di carte Ganjifa di Odissa [ph. Subhashish Panigrahi by Wikimedia Commons CC BY-SA 4.0]

Tradizioni che nascono dall’integrazione. Sguardi sulla storia della migrazione delle carte da gioco

D’abitudine, i giochi a carte si apprendono un po’ per tradizione: ogni famiglia ha i propri giochi prediletti e i nonni spesso hanno l’onore di scegliere a quali vada la preferenza. Da nord a sud Italia i mazzi mutano il loro aspetto, le scimitarre diventano spade e i bastoni si trasformano in mazze.

Ma da dove arrivano queste piccole tessere rettangolari e le regole che ne disciplinano l’uso?

La storia delle carte da gioco si intreccia a quella delle migrazioni umane. Con la semplicità delle piccole cose, questi svaghi semplici e maneggevoli si sono spostati da un continente all’altro attraverso le mani di una miriade di popolazioni, ognuna delle quali le ha rese parte della propria cultura, imprimendo minuscole, infinitesimali modifiche.

La loro invenzione risale all’antichissima Cina, là dove la carta vide la propria nascita; incerto il loro uso: sicuramente ludico, forse anche come carta moneta. Non sappiamo con esattezza né come né quando siano state introdotte in Europa. Probabilmente, dall’estremo oriente sono passate per la Persia e da qui giunte nelle mani dei Mammelucchi, che avrebbero modificato gli originali tre semi cinesi (Jian o Quian, monete, Tiao, stringhe di monete, e Wan, diecimila) nei quattro che si ritrovano negli odierni mazzi tradizionali: Jawkān (bastoni da polo), Durāhim (denari), Suyūf (spade) e Tūmān (coppe). Ciascun seme delle carte mammelucche conteneva dieci carte numerate, cui si aggiungevano tre figure: Malik (re), Na’ib Malik (viceré) e Thānī nā’ib (secondo viceré).

In Europa, la tradizione araba di attribuire identità di ufficiali dell’esercito alle figure, che da precetto coranico non ritraevano persone ma riportavano i nomi della persona di riferimento, venne adattata per rappresentare le famiglie reali, prima nelle figure di “re”, “cavalieri” e “servi” e successivamente in quelle di “re”, “regina” e “fante”. Ciascuno stato elaborò la propria versione dei semi, per lo più discostandosi di poco dagli originali mammelucchi. Furono i francesi, negli ultimi decenni del XV secolo, a semplificare i semi in uso, probabilmente ispirandosi a quelli tedeschi, codificandoli in cuori, quadri, fiori e picche. Negli anni 50 del XIX secolo, poi, gli statunitensi aggiunsero al tradizionale mazzo francese i quattro jolly, andando così a dare forma definitiva al mazzo più diffuso al mondo.

Semi delle carte tradizionali delle regioni italiane e di Spagna, Marocco, Germania e Svizzera

Se tanto mistero resta attorno alle origini e alle migrazioni delle carte, ancora più complesso è ricostruire gli spostamenti e le modifiche dei giochi che con queste si possono fare. Tra i più diffusi al mondo è il Poker; oggi giocato soprattutto on line e nei casinò, conta un infinito numero di specialità e varianti, che vanno dalla presenza o meno di calate, al numero di carte in banco e/o in mano. L’uso forse più singolare è quello adottato durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, quando alle truppe americane venne distribuito il mazzo Most-wanted Iraqi, in cui ad ogni carte corrispondeva il nome, una foto e la carica di un membro ricercato del governo di Saddam Hussein. Le origini del Poker  sono d’abitudine associate alla New Orleans di inizio Ottocento o alla poco distante Robtown, in Texas, dove nacque una tra le più diffuse varianti del gioco, appunto Texas hold ‘em; allo stesso modo, è possibile risalire dal nome di altre varianti al luogo in cui nacquero: un esempio tra tutti, il Caribbean Stud Poker, che nel secolo scorso si giocava sulle navi da crociera dirette ai Caraibi. Tuttavia, l’etimologia suggerisce che il Poker sia stato importato negli Statu Uniti dai francesi, che già nel XVIII secolo giocavano a Poque (dal francese pocher, ingannare), forse a sua volta ereditato dal Poken (inganno) tedesco, risalente al XVII secolo. Meno probabile, ma non smentita con certezza, l’idea che le regole potrebbero rifarsi all’italiano Zarro, antesignano della moderna Telesina, che come il Poque si giocava con un mazzo di 20 carte.

Assi del mazzo Most-wonted Iraqi,

Se da un lato i francesi sembrano i più attestati inventori del gioco del Poker, dall’altro negli ultimi anni hanno perso la paternità del gioco in cui si attestano come i maggiori promotori nel mondo: il Belote. Gioco a coppie simile alla Briscola, è stato esportato in quasi tutte le ex colonie francesi, ma la sua influenza si è fatta sentire anche a est: lo troviamo infatti in Bulgaria, in Ungheria, in Grecia e in Croazia. Il maggiore successo lo ha raggiunto in Arabia Saudita e Armenia, dove i giochi più popolari risultano essere, pur con considerevoli varianti rispetto al riferimento francese, rispettivamente il Baloot e il Belot. Nonostante l’etimologia, un gioco molto simile ma soprattutto molto più antico si trova nelle Province Unite Nederlandesi del XVII secolo, il Klaverjassen. In Italia questo gioco, la Briscola appunto, sembra essere arrivato direttamente dai Paesi Bassi, e di qui trasformato nello Schembil, diffusissimo in Libia e in diversi Paesi del Nord Africa. Le esportazioni italiane di giochi di carte sono, del resto, numerose; in primo piano è la Scopa, giocata anche in Spagna con il nome di Escoba, che in Tunisia prende il nome di Chkobba e in Marocco, con qualche modifica, di Ronda.

Numerosissime sono le importazioni in Europa di giochi originari di Paesi lontani: dall’isola di Macao, ad esempio, arriva Baccarà, uno dei giochi d’azzardo tra i più diffusi nei casinò; originari dell’Uruguay sono, invece, Canasta e Burraco; al cinese Khanhoo o al messicano Conquian potrebbero risalire le diverse variazioni del Ramino, incluso il Chinchòn, che si gioca in Spagna, Uruguay, Argentina e Capo Verde. Altrettanto frequenti sono gli scambi all’interno del continente: popolarissimo tra i Paesi dell’ex URSS è, ad esempio, Verju ne Verju, che differisce dal Dubito italiano solo per il numero di carte usate (40 anziché 52); allo stesso modo, l’inglese Beggar-MyNeighbor, si è modificato nel rumeno Razboi e nell’italiano Guerra; discussa è l’origine del gioco italiano del Cucù, identico al Gambio svedese.

Le rotte percorse dai giochi di carte sono complesse e intricate, difficili da ricostruire quasi quanto lo sarebbe una mappatura della genealogia della specie umana. Nelle loro migrazioni, i giochi non conoscono confini e realizzano una vera integrazione: non solo culture che s’incontrano, ma qualcosa di nuovo che ogni giorno, in ogni luogo s’inventa.

Viandanti tra i mondi. I luoghi in Magic: The Gathering

Agosto 1993, Origins Game Fair, Columbus, Ohio. La Wizard of the coast (casa editrice di giochi di ruolo) presenta il primo gioco di carte collezionabili al mondo nato dall’ingegno del matematico Richard Garfield: Magic: The Gathering (MTG).

Fu un successo inaspettato che continua fino ad oggi e vanta milioni di giocatori in decine e decine di paesi. Da quale formula nasce questo trionfo?

L’aver dato un supporto materiale, tascabile e collezionabile a uno scenario fantasy dalla storyline ben costruita e, a braccetto, l’avervi infuso la sfida del creare strategie dinamiche su basi abbastanza aleatorie.

Ma penetrando questa dimensione, cosa significa affrontare una partita di MTG?

Immedesimarsi in maghi che, ricorrendo a evocazioni e sortilegi attinti dal grimorio (il proprio mazzo di carte, qui visto come libro d’incantesimi), si confrontano in battaglia.

Non vi tedierò con regole e fasi di gioco, per altro non propriamente semplici e sbrigative; vi basti sapere che gli sfidanti daranno vita a scontri tra creature fantastiche (elfi, zombi, minotauri e così via) e lanceranno magie belliche fino alla distruzione degli avversari.

Partita di carte Magic: The Gathering [ph. Tourtefouille by Wikimedia Commons CCA SA 4.0]

Giocando a Magic interpretiamo del maghi, quindi, ma dove operiamo?

L’ambientazione in cui ci si cala è il multiverso immaginario di Dominaria: qui svariati piani d’esistenza si sovrappongono e, di rado, entrano in contatto dando vita alle epopee in cui agiamo noi e i personaggi rappresentati nelle carte da gioco.

Bene. Dunque siamo stregoni viaggiatori che percorrono le vie tra i mondi.

Ma udite, udite non siamo gli unici in grado di muoversi magicamente nel multiverso!

Nel nostro peregrinare incontriamo decine di esseri di razze differenti (si, razze: come il genere fantasy spesso vuole, nelle creazioni di Garfield v’è spazio per ibridi umanoidi d’ogni sorta) dotati della stessa abilità: i Planeswalkers o camminatori tra i piani.

Planeswolkers

Si dice (gli autori dicono) che solo una creatura su un milione nasca con il dono della scintilla del viandante e che tra questi siano pochi coloro che riescono ad accendere la propria e mettersi consapevolmente “in viaggio”. Ma a che pro il tumulto dello spostamento? Ognuno ha le sue motivazioni!

Nicol Bolas, uno dei planeswalker più potenti della storia (è un drago lui, per altro) punta da migliaia d’anni alla conquista e il dominio dell’intero multiverso con metodi poco ortodossi; Gideon Jura ha creato un’alleanza con svariati viandanti al fine di difendere e preservare l’autonomia e la pace dei mondi; Garruk migra solitario con la smania di eliminare qualsiasi altro detentore della scintilla, gli piace così…

Ebbene ci sono portatori di luce e portatori di caos, chi si fa i fattacci propri e chi semplicemente “esplora”. Oh, sì perchè Dominaria è un pullulare di variopinti pianeti, naturali o creati da qualche ambizioso artefice, alcuni più alcuni meno simili al nostro.

Investendomi del titolo di viandante vorrei presentare un rapido tour in qualcuno di questi piani: scintilla attivata, attraverso la Cieca Eternità, lo spazio che divide gli universi.

Rinvengo sull’umida sabbia d’una battigia: di fronte, qualche chilometro in mare, sfilano dei galeoni; alla mia schiena si staglia una fitta giungla tropicale. Mi alzo in volo (abilità che mi concedo per comodità narrativa) per avere una panoramica migliore e nella macchia verde, sotto il planare di grossi pterodattili, spuntano rade rovine di palazzi sopraffatte da tempo e vegetazione.

Sono ospite su Ixalan, un piano che può ricordare il nostro centro America per conformazione e clima.

Ixalan

Chi ha ideato (siamo nella realtà) il luogo e la storia a esso legata si è lasciato ispirare proprio dagli eventi del primo ‘500 accaduti in Messico e dintorni.

In queste terre (ritorniamo su Ixalan) gli indigeni, come fossero una civiltà precolombiana, sono in perenne lotta contro i “conquistadores” vampiri e vigili verso le incursioni piratesche: cavalcando i fidati raptors (siamo nel fantastico, l’anacronismo ci sta) e stringendo alleanze con ancestrali creature anfibie, proteggono le sacre città antiche dalla depredazione.

Non è il luogo più ospitale per un planeswalker dal 21° secolo. Serro gli occhi, mi smaterializzo e vengo trasportato altrove.

Vociare di folla, penombra d’un vicolo stretto tra alte pareti. Imbocco l’uscita dell’antro e un vasto viale brulicante di passanti mi accoglie nella metropoli di Ravnica.

Ravnica

Questo è uno dei pianeti più civilizzati e moderni, ospite d’un ambiente urbano che si propaga su quasi la totalità della sua superficie. Imponenti costruzioni dalle guglie solenni coronano il labirinto di strade dove la vita del popolo si svolge tra attività commerciali, fiere e svaghi.

Si perde il conto del numero di razze diverse che convivono qui: pare d’essere in una scena di Star Wars, ma in un passato recente. Goblin e elfi non mi sorprendono più, ma vedere dei soldati dalle fattezze “rinocerontiche” mi spiazza, come anche la giovane gorgone infastidita dal mio sguardo affascinato puntato sulla sua chioma.

So che qui la gestione è retta da dieci Gilde, una sorta di corporazioni con compiti amministrativi differenti, che dopo un passato di guerre raggiunsero la coscienziosa risoluzione di stringere alleanza ponendo le basi del fiorente sviluppo di questa società.

La giovane dai capelli di serpente si avvicina spazientita; onde evitare la pietrificazione per malinteso rifuggo nel vicolo e, lontano da sguardi, “accendo i motori”.

Terza tappa: un’estensione metallica a perdita d’occhio. Mirrodin, il pianeta artificiale creato secoli fa dal leggendario planeswalker Karn.

Mirrodin

E’ una desolazione infinita, inospitale se non fosse per la presenza, da qualche parte, del Groviglio: una foresta intricata d’alberi metallici che può dare una parvenza di vitalità. Mi fu raccontato dell’esistenza di un oceano singolare, una imperturbabile distesa di mercurio liquido sulle cui rive si sviluppa parte della vita autoctona.

Umani e altre specie biologiche popolano questo piano (chissà come) condividendolo con esseri artefatti infusi di magia; una sorta di robot. Ma attorno a me, ora, nulla e nessuno, solo la compagnia luminosa di tre delle cinque lune che gravitano attorno a Mirrodin: 5 satelliti di 5 colori, effettivamente un grande spettacolo che compensa della visita.

Seduto nel freddo chiarore metallico contemplo per lunghi minuti l’arcano incedere delle sfere, poi raccolgo le energie per l’ultimo viaggio.

La mia stanza. Realtà.

Sulla sinistra di questo foglio una pila di carte Magic. Le rigiro tra le mani pensieroso.

E’ stato un trip da nerd.

Eh, sì.

E quanto mi piace ‘sto trip!

Chi ha paura del medico? La medicina tra fake news e leggende arcaiche

Rappresentano circa il 20% delle fake news diffuse dai mezzi di comunicazione nel 2018, seconde solo a quelle inerenti a politica interna ed estera (57%). Stiamo parlando dei contenuti di disinformazione a tematica scientifica, che insieme ad argomenti come diritti ed economia, salute e ambiente, famiglia e fede, cronaca e immigrazione spicca per l’ampia diffusione e per una trattazione perlopiù impressionistica, tesa quindi a toccare l’emozione e l’irrazionalità delle persone.
Questi sono i dati riportati dalla prima indagine sistemica sul fenomeno delle fake news ad opera di AGCOM, l’autorità garante delle comunicazioni in Italia, basata su un campione di oltre 1800 fonti informative e 700 notizie, tra vere e false, diffuse sui media tradizionali e sui social. E sono proprio i social network, primo tra tutti Facebook, a giocare un ruolo fondamentale nel campo dell’informazione scientifica: secondo la ricerca Censis “Assosalute 2017”, presentata solo un anno fa, se il medico di base (53,5%) e il farmacista (32,2%) rappresentano ancora il principale punto di riferimento per gli italiani in materia di salute, piuttosto esiguo è lo scarto con l’autorità attribuita a siti web di dubbia consistenza e post su Facebook virali, a cui si affida circa il 28,4% degli italiani.

Come si presentano oggi, quindi, i pazienti italiani quando bussano alla porta dello studio del medico di base? Lo abbiamo chiesto ad alcuni professionisti del settore, che spazio tra giovani e adulti con una fonte sempre pronta all’uso (“Ma io ho letto su Internet che…”) e anziani in balìa delle parole del medico (“Se l’ha detto lui!”), anche quando quelle parole non sono state comprese fino in fondo.
Un piccolo campionario di domande e risposte, a tratti assurdo e comico, che lascia un sorriso amaro e un pensiero. Che il fenomeno delle fake news non sia solo la faccia di una stessa medaglia, quella della bassa consapevolezza culturale in materia di salute e cura, un tempo attribuita ai più anziani e meno scolarizzati della popolazione? Che non sia solo una nuova forma di fede cieca, con l’affidamento nelle mani di una voce altra, vicina a noi come solo i social sanno essere di questi tempi?

 

Paola (nome di fantasia), allergologa
Intolleranze, allergie e vaccini: 3 casi

Penso di avere qualche intolleranza o allergia perché sono ingrassata!

Spesso sono le donne a fare simili supposizioni. Punto 1: intolleranza e allergia non sono la stessa cosa, non sono termini intercambiabili e indicano situazioni molto diverse tra di loro! Le intolleranze verificabili e riconosciute sono quella al lattosio, al fruttosio e al glutine (o celiachia) e sono mediate da un meccanismo in cui la carenza di un enzima fa sì che gli zuccheri non vengano digeriti e causino i sintomi gastrointestinali (o anche sistemici, nel caso della celiachia). Punto 2: nessuna intolleranza o allergia fa ingrassare! Semmai l’opposto, dato che si tratta di disturbi che causano dolori addominali e dissenteria.
A questo proposito è uscito anche un decalogo della Società Italiana di Allergologia (SIAAIC), molto utile per sfatare miti e… sconsigliare l’uso di fonti inadeguate per ottenere informazioni certificate.

Ho fatto il test del capello / Vega test e sono risultato intollerante / allergico a grano, pomodoro, latte e molto altro. Ho tolto tutto dalla mia alimentazione e mi sono sentito meglio nel primo periodo, ma ora non so cosa mangiare…

I test a cui ci si sottopone in farmacia non sono validati, come spiegato in diversi documenti presentati dall’AAITO [Associazione Allergologi e Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri, ndr] in merito alla diagnostica delle allergopatie: se ne ricavano risposte standard, qualsiasi sia il disturbo di un paziente, che portano all’esclusione di latte e derivati, di cioccolato e glutine e altro dalla propria alimentazione. Il punto è che qualsiasi alimento, se assunto in quantità sproporzionate, può dare disturbi diversi, ma non legati ad allergie o intolleranze (che, come dicevamo, rimangono sempre un po’ indistinte nella comune percezione).

Non faccio fare il vaccino ai miei figli perché contiene mercurio.

La risposta. La disinformazione a riguardo è talmente alta che spesso mi viene chiesto se all’interno dei vaccini somministrati ci sia piombo, anziché mercurio, perché evidentemente non si conosce la differenza tra questi due metalli… La mia risposta si basa sulle linee guida delineate da FNMOCEO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri): in passato nei vaccini era presente il thimerosal, che comunque non era mercurio (e per inciso: si assume più mercurio mangiando una fetta di tonno fresco!), e che nei vaccini attuali non è contenuto.

Cinzia e Alberto, medico anestesista e infermiere
Anziani e salute: no, non sono barzellette…

Chiudere gli occhi… per sempre

Cinzia – Di solito quando i pazienti ultraottantenni devono sottoporsi a un intervento importante chiedono che tipo di anestesia verrà somministrata. “Un’anestesia generale, è necessaria per questo tipo di interventi”. “Eh, basta che poi mi sveglio…” La nostra risposta non può che essere: “Tendenzialmente succede, non sempre però!” [ride, ndr]

Alberto – Caso di un paziente oncologico assolutamente inconsapevole della propria malattia. Registriamo un lungo periodo di alterazioni dell’umore in cui si alternano depressione a picchi di felicità eccessiva. Il medico specialista gli prescrive un farmaco per regolare l’umore, per tranquillizzarlo e renderlo più sereno. Un farmaco per bocca che viene inserito inizialmente a metà dose, per accompagnarlo poi alla dose intera, perché potrebbe avere come effetto collaterale la sonnolenza. Una volta illustrati gli effetti collaterali del farmaco, scritti su tutti i bugiardini, spieghiamo il motivo per cui iniziamo a somministrare metà dose. Risposta del paziente: “Ma voi volete chiudermi gli occhi… per sempre!”

Gli evergreen – trova l’errore

Cinzia – “Ma le piastrelle come sono? Perché l’ultima volta erano basse…”
Alberto – “Altra dicitura classica degli esami ematici: ‘Dottore, ma quindi devo smettere di mangiare i formaggi perché ho il polistirolo alto nel sangue?’”
Cinzia – “Signora, chi le ha prescritto questo farmaco, il medico di base?”
“No, lui non c’era, c’era il suo prostituto…”

Da 190 kg a 80 kg: miracolo!

Cinzia – Nella chirurgia bariatrica (o chirurgia dell’obesità) capita spesso che lo specialista chieda alla paziente che tipo di intervento debba fare, per capire che coscienza ha del trattamento a cui verrà sottoposta. La signora risponde: “La slim!”. “Ma cos’è la slim?!”, chiediamo. “La slim, mi ha detto la slim!” “Ah, la sleeve, la sleeve gastrectomy [Intervento chirurgico che consiste nella riduzione delle dimensioni dello stomaco che determina una minore possibilità di assunzione di cibo nonché importanti modificazioni nella secrezione degli ormoni, tra cui quelli responsabili del senso della fame, ndr]. Ha studiato bene l’intervento che deve fare…?”
“Sì, io devo fare la slim e quindi faccio la slim. Ma poi quanto peso perderò dopo l’intervento?”. “Signora, le asportano un pezzetto di stomaco, non perderà peso appena dopo l’intervento…”. Quasi fosse un trattamento miracoloso o spacciato per tale. Ci abbiamo ricamato sopra: potremmo parlare di Slim fast, il miracolo della chirurgia bariatrica che ti permette di passare dai 180 ai 90 kg!

Breve storia triste

Alberto – Un classico della geriatria è chiedere ai pazienti quali farmaci assumono nella loro quotidianità e vedersi rovesciare sotto il naso il contenuto di un astuccio pieno di pillole. Una volta notiamo qualcosa di strano: un noto farmaco a base di dutasteride, per il trattamento dei disturbi urinari legati all’ingrossamento benigno della prostata.
“Signora, ma chi gliel’ha prescritto questo farmaco?”
“Il mio medico di famiglia”.
“Ma signora, questo farmaco è per i dolori alla prostata…”
“Eh, c’avrò la prostata, me l’ha dato lui!”.
Era l’astuccio delle pillole del marito. Fine.

Un esperimento di narrazione transmediale: il caso B.O.A.

Bordello Occupato Autogestito, in sintesi, uno spazio liberato, occupato e autonomizzato. Al suo interno si proponeva un’attività di sex working, con un approccio ludico della libertà di espressione e costruzione del conoscere se stessi.

Dove? Nessuno sa dove sia B.O.A., eppure qualcuno sostiene di esserci stato!

In realtà, B.O.A. non esiste né mai è esistito, se non nella realtà virtuale. È stato spacciato come posto fisico che proponeva eventi e attività, come fosse uno stabile in cui si ritrovavano i membri di questo collettivo, ma di fatto si trattava di un progetto concettuale, la cui unica tangibilità stava nelle locandine proposte da B.O.A. stesso.

Ho chiacchierato con la mente di questo processo comunicativo (in anonimato su sua richiesta n.d.r.), che mi ha spiegato dell’ esistenza/non-esistenza di B.O.A. su due linee di costruzione: un progetto di tesi di laurea e un esperimento comunicativo per tentare di verificare l’efficacia della narrazione transmediale. Quindi un modo di portare concetti e narrazioni in maniera scomposta su vari media.

Nell’ottica della costruzione di B.O.A. è stato deciso di convergere verso un modello propositivo, non rigidamente costituito ma aperto alle idee e alle proposte di chi si sarebbe avvicinato con interesse. Cosa è successo concretamente?

Innanzitutto, B.O.A. ha messo in evidenza il fatto che il mercato del sesso a pagamento ha un target forte anche in contesti particolari e connotati politicamente. La divulgazione delle sue iniziative ha attirato chi «voleva scopare»: questo modello politico ha raggiunto proprio quella tipologia di persone che volevano sperimentare, indagando, la propria sessualità.

Da subito sono state messe in chiaro le regole di B.O.A.: spazio liberato da sessismo, razzismo, fascismo, con l’intento di uscire dal sistema in cui viviamo. Il progetto aveva due obiettivi paralleli e della stessa importanza: un obiettivo scientifico, dimostrando che questo tipo di comunicazione funziona, e un obiettivo politico, per convincere gli utenti di questo tipo di istanze e rivendicazioni.

I risultati, però, si sono scostati dalle aspettative: l’esperimento ha infatti dimostrato che questo tipo di narrazione, se utilizzato in modo incauto e senza calcolarne bene i rischi, può essere un’arma a doppio taglio. Sembra che siano stati commessi degli errori gravi sia nella costruzione sia nella comunicazione e il linguaggio si è ritorto contro dal punto di vista emotivo, a causa della scelta di un tema politico e non di qualcosa di più frivolo.

Nella narrativa transmediale è il lettore che deve collegare tutti i pezzi, tutte le informazioni che fanno riferimento a un macroargomento e ricostruire il messaggio. Ciò crea curiosità intorno all’oggetto comunicativo, alimentando un meccanismo di mistero, di «erotismo dell’informazione»: lasciare qualcosa di piccolo che non si sa bene cosa sia. Da qui il lettore è portato alla ricerca del messaggio precedente e di quello successivo, quindi alla scoperta di nuove informazioni. È proprio questo mistero che tiene in piedi il meccanismo comunicativo pubblicitario, alimentandone la diffusione.

È stato scelto questo tema, detto brutalmente, perché aveva una valenza «utilitaristica»: sui temi controversi è facile alzare polveroni, fomentati da pareri differenti e da contrasti che si autoalimentano. Esistono un’infinità di posizioni diverse sul tema del Sex Working, anche molto pensate. L’idea è stata quella di partire da un tema importante, che ha a che fare con un certo tipo di rivendicazioni di libertà, di diritti che dovrebbero essere in qualche modo universali: innanzitutto il diritto alla libera scelta riguardo il proprio corpo e la propria vita, che si declina anche come diritto al lavoro e alla libera scelta della propria professione.

Il problema è la condizione in cui versa, almeno in Italia, questo tipo di non-lavoro, spesso ostracizzato e incriminato. Tutt’oggi molto dibattuta è la questione etica, che nel nostro paese risente di una morale di matrice cattolica ancora molto potente e comporta una stigmatizzazione dei rapporti sessuali a pagamento come di tutte quelle abitudini sessuali che si discostano dalla monogamia etero orientata.

Di per sé, la legge italiana non è particolarmente criminalizzante: è lecito lo scambio di prestazioni sessuali per denaro, tanto che è prevista una forma di tutela dei sex workers nella misura in cui il cliente che si rifiuti di dare il compenso pattuito può essere condannato per violenza sessuale. Tuttavia, lo svolgimento pratico di questo lavoro è circondato da una muraglia di regole, norme, scappatoie e zone grigie.

Dal punto di vista procedurale, l’esperienza di B.O.A. ha dimostrato come questo tipo di comunicazione sia pericolosa. La sua deflagrazione può facilmente danneggiare le persone vicine a chi la utilizza, in particolare chi sfrutta i medesimi canali per raggiungere un target poco dissimile. Tuttavia, dimostrare la pericolosità del meccanismo è quel tipo di effetto collaterale che costringe quanti ne sono rimasti scottati a riflettere sulla forza e le implicazioni che un processo comunicativo può avere.

Un’arma, questo tipo di comunicazione particolarmente violenta, che può produrre dei risultati molto d’impatto.

Ph. credits: F.D., tutti i diritti riservati

Viaggio attorno alla circonferenza della Terra piatta

Per cercare la verità, è necessario almeno una volta nel corso della nostra vita dubitare,
per quanto possibile, di tutte le cose.
[Cartesio]

È con la lezione di Cartesio ben fissata nella mente che cerco di approcciarmi ai contenuti del convegno forse più discusso di questo mese, Terra piatta – tutta la verità, tenutosi a Palermo il 12 maggio.

Mettere in discussione la sfericità del mondo nel 2019 rimane per me surreale, ma dati e statistiche dimostrano che la riflessione sulla reale forma della Terra non può ancora esser data come conclusa: i grafici di Google Trends, che nel 2014 avevano segnalato un improvviso picco di ricerche attorno alle parole chiave flat Earth (Terra piatta), rilevano un costante aumento di interesse, mentre dai sondaggi risulta che non solo in America, terra natia della Flath Earth Society, ma anche in Italia, un sempre maggior numero di individui, soprattutto tra i 20 e i 40 anni, dubita della sfericità del globo.

Grafico di Google Trends che mostra l’incremento di ricerche aventi per oggetto flat Earth (Terra piatta) negli ultimi dieci anni

Il primo passo è la ricerca delle fonti: chi sono i ricercatori e quali le ricerche (scientifiche, presuppongo) che sono stati capaci di mettere in discussione un modello dato per certo già ai tempi di Aristotele?

La risposta arriva da uno studio della Texas Tech University, basato su interviste a 31 partecipanti alla prima conferenza internazionale dei terrapattisti, che hanno per la maggior parte dichiarato di esser stati convinti dai video caricati su YouTube. Spiega Alex Olshansky, uno dei ricercatori: «YouTube è dove i primi video sulla Terra Piatta sono stati postati nel 2014. Poiché gli algoritmi di YouTube raccomandano filmati che assomigliano a quelli già visti, una volta trovato un video è come entrare nella “tana del coniglio”».

E allora anch’io, armata del mio scetticismo metodico, mi preparo a gettarmi nella “tana del coniglio”, YouTube sullo schermo e cuffiette alle orecchie, per provare a risvegliarmi “oltre lo specchio”.

Mappa azimutale equidistante, considerata dalla Flat Earth Society come l’unica rappresentazione plausibile della Terra

 

Mi è presto chiaro che, come per gran parte delle teorie scientifiche, anche in questo caso l’unica soluzione per dissipare ogni dubbio è la ricerca empirica: il solo modo per sapere con certezza quale sia la reale forma del nostro pianeta sarà, dunque, un viaggio, o meglio una spedizione. Non basterà lasciarsi trasportare in un tour attorno al mondo dai tecnologici mezzi a disposizione dei moderni. Il controllo dei complottatori che vogliono inculcare l’immagine di un mondo sferico sarà, infatti, sempre in agguato; quindi niente telefoni cellulari né radar: ci resta solo una bussola e la mappa azimutale equidistante. Punti di incontro per i partecipanti, la serie di vagoni che da diverse longitudini ci porteranno ad Hammerfest, in Norvegia, da dove inizierà la nostra vera avventura, diretti alla prima meta: il nord o più correttamente il centro.

È durante questi spostamenti su rotaia che ricevo le mie prime lezioni sul campo di terrapiattismo. Per prima cosa, cambiare la prospettiva. Ferma in una delle innumerevoli stazioni europee, intenta a osservare l’orizzonte, mi scopro sospirare soprappensiero: «Però dei palazzi distanti riesco a vedere solo i tetti». Prontamente, un compagno di cabina si appresta a salvarmi dal rischio di cascare nell’illusione della curvatura terrestre: «È solo un errore ottico dovuto alla distanza», osserva imbracciando un cannocchiale con il quale recuperare l’immagine intera e nitida. Probabilmente perché nei miei occhi non trova ancora quella piena persuasione che cercava, si dilunga in osservazioni sul mezzo di trasporto che stiamo usando, facendomi notare come nessun architetto o ingegnere abbia mai tenuto conto nei suoi progetti della presunta curvatura della Terra, chiosando con la citazione dell’intervista su Earth Review dell’ingegnere Winckler (ottobre 1893): «Ho progettato diverse miglia di ferrovia e molte altre di canali, e questo fattore non è mai stato preso in considerazione. Un piccolo canale navigabile, diciamo di 30 miglia, dovrebbe secondo la curvatura avere una tolleranza di 600 piedi. (…) Noi non ci preoccupiamo di calcolare 600 piedi di tolleranza più di quanto non pensiamo di far quadrare un cerchio».

Tabella del calcolo della curvatura della Terra secondo Eratostene di Cirene (276-194 a.C. circa)

Del resto, come potrebbe avere senso pensare a una curvatura dei canali se proprio l’acqua è l’elemento che ci conferma la forma piatta della Terra? È cosa nota che nella fisica dell’acqua vi è la natura a mantenere il proprio livello e chiunque abbia osservato l’orizzonte su una distesa d’acqua lo avrà visto, appunto, orizzontale, piatto. Ed è proprio un paesaggio delimitato da una lunga linea blu che ci accoglie ad Hammerfest, dove alcuni novelli piloti ci attendono per sorvolare il Mar Glaciale Artico e condurci al centro del mondo. Durante gli oltre 2000 km di tragitto, il gruppo si confronta con gli aviatori circa alcuni punti cardine della teoria terrapiattista: se, come vogliono farci credere, la Terra avesse una superficie curva, gli aerei dovrebbero direzionare ogni tot miglia il proprio muso verso il basso, ma questo non avviene. Ancora più significativo è il metodo di calcolo delle rotte aeree: non solo per i nostri piloti è assodato il riferimento alla mappa azimutale equidistante, ma per qualsiasi compagnia aerea che si sposti nell’atmosfera terrestre.

Tra una chiacchiera e l’altra, raggiungiamo il nostro punto d’arrivo: il polo nord o meglio il centro della Terra, là dove veglia immobile la Stella Polaris, mentre la cupola del firmamento le ruota tutt’attorno. Da qui, inizia la tratta più difficile della nostra missione, che ha come obiettivo raggiungere i confini del Mondo; ci spostiamo dal cosiddetto estremo nord al cosiddetto estremo sud e, attraversate le grandi distese di Russia e Cina, ci dirigiamo verso South Okinotorishima, l’atollo giapponese più vicino alla Papua Nuova Guinea, da dove una nave ci porterà a solcare le acque dell’Oceano Antartico. L’idea di un volo diretto in Australia non è neanche preso in considerazione, non tanto perché diffidiamo delle compagnie aeree, quanto perché dell’esistenza di questo Paese, probabilmente ideato per illuderci che i carcerati siano stati deportati qui e non annegati in mare aperto, non abbiamo alcuna certezza.

Firmamento, Sole e Luna all’interno del modello di Terra proposto dalla Flat Earth Society

Navigando in direzione opposta al polo nord, l’esperienza conferma le supposizioni: dell’Australia nemmeno l’ombra, mentre riusciamo finalmente a dar prova definitiva delle reali misure di longitudine e latitudine. Basta lasciarsi alle spalle i moderni GPS e tornare all’utilizzo del log, per accorgerci che non bastano le forti correnti che ci investono a giustificare le discrepanze tra le misure indicate dal modello terra-globulare e la realtà dei fatti, che trova perfetto riscontro sulla nostra mappa azimutale equidistante. Non appena il color smeraldo del muro di ghiaccio antartico alto 400 km si staglia al nostro orizzonte, iniziamo la circumnavigazione della parete, con il sole sempre presente appena alle nostre spalle impegnato nel nostro stesso spostamento attorno la circonferenza del Mondo; se l’Antartide corrispondesse a un polo, dovremmo percorrere circa 18500 km, ma noi siamo già armati della pazienza necessaria a un viaggio pari ad almeno sei volte tanto. E così è: per mesi scrutiamo la parete di ghiaccio in cerca di una fenditura, sferzati dai venti e dalle continue grandinate che ci piovono addosso, determinati a scoprire se oltre quel confine si trovino nuovi mondi.

Latitudine e longitudine secondo la teoria della Terra piatta

Trascorsi anni di peregrinazioni, ormai stremati e decimati, forse pronti ad arrenderci, l’ennesima tempesta si abbatte su di noi; i suoi flutti nascondono il cielo e investono la nostra nave, sconvolta da un rullio turbinoso, e…

E la mia sveglia suona, sincronizzata con un sole che sorge a est e tramonta a ovest, ruotando attorno a una Terra sferica. YouTube continua a propinare teorie ingigantite da musiche apocalittiche; spengo il pc e mi alzo dal letto, posando un piede che la forza di gravità mantiene ben ancorato a Terra. Restano solo un paio di dubbi: perché un indefinito numero di illuminati o massoni, di politici, scienziati, astronauti, piloti, dovrebbe essere interessato a illudermi che la terra sia sferica per avere il controllo sulla mia libertà? E, soprattutto, perché l’idea di un piano tondo delimitato da insormontabili pareti di ghiaccio dovrebbe farmi sentire più libera dell’immagine di una sfera, un po’ imperfetta, che fluttua nell’infinità dell’Universo?

Malpensata manda a dire. Scatti di quartiere

Si è concluso da pochi giorni il laboratorio di fotografia Malpensata manda a dire, a cura di Francesca Gabbiadini, nell’ambito di Trasfigurazioni, format con protagonista questo quartiere vivace e in continuo cambiamento, appena fuori dal centro di Bergamo. Le immagini prodotte dai fotografi partecipanti saranno esposte, assieme alle opere degli altri laboratori di Trasfigurazioni, sabato 25 e domenica 26 maggio presso lo Spazio Gate.

“Male pensata”, così era definita la cascina che dette il nome al quartiere; l’area, infatti, agli inizi dell’Ottocento era poco invitante, il terreno poco fertile e sassoso, gli spazi verdi e incolti. Oggi questo spazio urbano si presenta ai nostri occhi come un ambiente variopinto e multietnico. Attraverso l’obiettivo della macchina fotografica scorgiamo un quartiere in cui siti storici si accostano a luoghi moderni e in cui convivono, l’una a fianco all’altra, identità tra le più disparate. Quali sono, quindi, i protagonisti della Malpensata?

Il primo incontro è con Johnny, che attraversa l’ampio parcheggio vendendo rose e ha sempre il sorriso sul suo volto gentile; anche se un po’ imbarazzato, si lascia fotografare.

Poco oltre, su via Gavazzeni si affacciano le vetrine del negozio di strumenti musicali Begnis, in Malpensata dal 2006. Acconsentendo alle nostre timide richieste, il proprietario concede di lasciarci fotografare le pareti coperte di chitarre acustiche, mentre ci racconta che il vecchio negozio in via Sant’Orsola, zona pedonale, era diventato comodo per i suoi clienti. Qui, infatti, i musicisti non entrano solo per un rapido acquisto: in questo piovoso sabato mattina c’è un andirivieni di gente che fa domande, prova gli strumenti, prende le misure di un magnifico pianoforte a coda.

Sulla stessa strada troviamo il Patronato San Vincenzo, progetto di don Bepo che da più di novant’anni accoglie chi ha bisogno di un rifugio. Abbiamo l’opportunità di andare oltre gli alti muri esterni grigi, passando sotto l’invito “Amatevi a vicenda” che sovrasta il cortile e scoprendo gli spazi comuni in cui convivono gli ospiti.

Al suono della campanella dell’ultima ora di scuola, il marciapiede di fronte al Patronato viene invaso dagli studenti che si avviano al sottopassaggio che li porta alla stazione. Anche osservandoli attraverso l’obiettivo, riusciamo a percepire l’atmosfera di spensieratezza ed entusiasmo per i programmi del fine settimana.

Seguendo a ritroso il loro percorso, andiamo oltre gli edifici scolastici e ci ritroviamo immersi tra le vie residenziali del quartiere. Tra un condominio e l’altro, sbuca un angolo di Campania, in pieno centro Bergamo: è il bar Amici dello sport, in cui si tifa Napoli, motivo più che sufficiente, unito alla gentilezza dei proprietari, per fermarsi a bere un caffè e ammirare trofei, sciarpe e magliette della squadra.

In fondo alla strada, all’incrocio tra via Furietti e la lunga provinciale che porta a Zanica si affaccia la Chiesa Santa Croce, consacrata il 24 maggio 1924 in occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia ed eretta proprio in ricordo dei caduti in guerra e come ringraziamento a Dio per la fine del conflitto.


All’angolo opposto dello stesso incrocio, il ristorante cinese L&W e, attraversata via per Zanica, un giovane macellaio halal, che ci lascia prendere qualche scatto mentre continua il suo lavoro, tagliando, pesando e incartando pezzi di carne.


Infine, arriviamo al parco della Malpensata, da sempre luogo d’incontro non solo di quartiere, ma per chiunque cerchi uno spazio verde in centro città. La sua riqualifica sembra muoversi nella giusta direzione, soprattutto quando lo vediamo addobbato di arcobaleni per l’imminente Bergamo Pride, a sostegno dell’amore senza differenze. Colorato, come il quartiere Malpensata.

Articolo di Lisa Egman e Sara Ferrari.

Fotografie di Lisa Egman. Tutti i diritti riservati.

Abbattere le mura dell’odio: Bergamo Pride 2019

Articolo di Laura Liverani

Anche quest’anno ce l’abbiamo fatta. Io e gli altri membri del comitato abbiamo portato a termine l’organizzazione della seconda edizione di Bergamo Pride… E siamo incredibilmente sopravvissute/i! Migliaia di persone sono infatti scese in piazza sabato 18 maggio, colorando di arcobaleno una giornata uggiosa e reclamando a gran voce la libertà di essere e di amare. La pioggia non ha infatti fermato la marea di gente che ha pacificamente invaso le strade del centro cittadino, partendo dalla stazione fino al raggiungimento del parco Gate della Malpensata.

Orgoglio oltre le mura”, lo slogan scelto per questo secondo Pride bergamasco, ha connotato la manifestazione, caricandola di un significato simbolico oggi valido più che mai. In un’epoca di muri e confini, Bergamo Pride ha chiesto alla popolazione di attraversarli e abbatterli, in un’ottica di condivisione delle differenze di orientamento sessuale, identità di genere ed etnia. Se da una parte il muro dell’omo-transfobia e del razzismo è stato distrutto – emblematica in questo senso l’azione simbolica della cooperativa La Solidarietà di Dalmine, che ha abbattuto un muro di cartone sul palco – una cinta di mura umane è stata costruita durante il corteo finale: le persone si sono sentite protette dalla folla, si è creato uno spazio sicuro di comunità dove poter essere se stessi senza paura, dove prendere la mano del proprio ragazzo o della propria ragazza per baciarsi in libertà, come ricorda il messaggio ricevuto da Massimo, uomo gay di 58 anni che per la prima volta ha partecipato a un Pride e per la prima volta si è sentito veramente libero.

Riunitosi a partire dai primi di ottobre, il comitato Bergamo Pride ha lavorato instancabilmente per sette lunghi mesi, dando vita a un percorso culturale e informativo. Composto prevalentemente da singoli cittadini e cittadine, provenienti da diversi background, da alcuni rappresentanti del sindacato CGIL e di qualche associazione, il comitato ha avviato una riflessione improntata proprio sul senso di comunità: possiamo ritenerci soddisfatte/i dei risultati raggiunti. Rispetto all’anno scorso, abbiamo lavorato molto sull’unità interna del comitato, cercando di fare coesistere voci e necessità diverse, evitando personalismi e protagonismi e cooperando per un unico scopo. L’amministrazione comunale ha contribuito alla buona uscita dell’evento, mettendo a disposizione le proprie forze e sostenendo la realizzazione di Bergamo Pride.

Tuttavia il percorso da fare è ancora molto lungo, dal momento che è bastato il parziale danneggiamento dell’aiuola decorativa di una rotonda, calpestata da un gruppo di persone noncuranti delle conseguenze che il loro gesto avrebbe avuto sull’organizzazione, per dare sfogo a commenti violenti e senza filtri di centinaia di lettori dei quotidiani locali, nonostante l’organizzazione stessa si fosse già scusata, attribuendosi la responsabilità politica ed economica dell’accaduto. A dimostrazione del fatto che i Pride sono sempre più necessari e sono in grado di smascherare l’omo-transfobia e l’odio che si nascondono dietro a frasi fatte come “io non ho niente contro i gay, ma…”. Abbiamo appurato qual è la vera natura di molti dei nostri concittadini/e; lavoreremo ancora più duramente per costruire un’alternativa all’odio.

Fortunatamente le testimonianze che ho ascoltato alla partenza e all’arrivo del corteo, nonché i commenti positivi che ho ricevuto, parlavano tutta un’altra lingua. Ho visto in manifestazione alcune mie studentesse, con le quali avevo affrontato l’argomento e che a un Pride non erano mai state. Una di loro si è aperta, dicendomi che si è sentita al sicuro, perché avendo subito discriminazioni per il colore della sua pelle sapeva cosa significava sentirsi sbagliati e avere paura. Era la prima volta che parlava di quanto le era successo. Ho anche intravisto una collega, in prima fila a ballare sotto la pioggia, e mi ha fatto molto piacere: il mio ambiente lavorativo continua a spaventarmi molto e non sono dichiarata con tutti/e. Ho visto i miei amici e le mie amiche eterosessuali, i cosiddetti “alleati”, sfilare per i miei diritti e condividere la mia battaglia. Ho incontrato mia madre e non ho resistito: le lacrime sono scese copiose quando l’ho abbracciata.

Anche quest’anno raccolgo i frutti di questo bellissimo e faticosissimo Pride e mi porto a casa un’altra esperienza altamente formativa in vista di una possibile terza edizione. Concludo facendo mie le parole dell’attivista Angela Davis, quando afferma: “Non accetterò più le cose che non posso cambiare. Cambierò le cose che non posso accettare.”

In attesa di ricaricare le batterie e fare un bilancio collettivo di questo Bergamo Pride, vi aspettiamo il 24 maggio alla Biblioteca Gavazzeni di Città Alta per parlare di esperienze di coming out, conflitti, amori e identità in compagnia del Circolo dei narratori di Bergamo e il 14 luglio al Punk Rock Raduno presso Edoné per l’attesa estrazione dei premi della lotteria di autofinanziamento di Bergamo Pride.

Fotografie di Francesca Gabbiadini. Tutti i diritti riservati.

Malpensata site-specific e Trasfigurazioni di quartiere

Nel settembre 2018 la Compagnia Trasfigura presentava Doppi sensi. Il gioco delle parti, uno spettacolo comico-poetico che parla della “lotta” degli organi più nascosti del corpo, pene e vagina, contro il giudicante e mascherante cervello: una produzione autonoma che si rifà ai linguaggi dell’assurdo e del teatro fisico, che gioca con l’immaginario del corpo per parlare con seria leggerezza di tematiche legate al rapporto tra femminile e maschile e alla sessualità del nostro tempo.

Questo approccio e questa ricerca si protraggono nel tempo sia «per piacere che per percorsi di studio affrontati nelle rispettive carriere. È questo ciò che ci differenzia un po’ dalla semplice compagnia teatrale. Nella creazione di uno spettacolo, ci piace molto la costruzione culturale, la commistione di arti visive: abbiamo una forte passione per la progettazione culturale». Queste le parole di Serena Gotti, regista di questo spettacolo e co-fondatrice di Compagnia Trasfigura, insieme ad Alice Laspina.

Capiamo ancora meglio la direzione della giovane compagnia parlando del loro format progettuale Trasfigurazioni che nella sua prima edizione, per tutto il mese di maggio 2019, animerà il quartiere della Malpensata, nella città di Bergamo. Continua Serena: «La produzione teatrale e la progettazione culturale si sposano con la nostra passione per il lavoro site-specific, pensato per le caratteristiche di un particolare territorio, arrivando all’ideazione di progetti che valorizzino il territorio attraverso forme artistiche, non solo teatrali. Nel format Trasfigurazioni, infatti, vengono incluse musica, fotografia, videomaking. Parlo di “format” e non di progetto nel senso che Trasfigurazioni non si concluderà con l’esperienza della Malpensata: il nostro intento è svilupparlo in altri comuni della bergamasca, con sfumature e declinazioni diverse, per esplorare nuove forme di possibili narrazioni artistiche condivise».

Trasfigurazioni_Pequod Rivista

Questa connessione tra forme artistiche e territorio aveva già visto la compagnia impegnata nella sua penultima produzione teatrale: Segrete stanze, una performance specificamente pensata per l’ex Carcere di Sant’Agata di Bergamo. Continua Serena: «Ci piace l’idea della costruzione immediata e la sua fruizione, lavorare su uno spettacolo che non per forza deve avere vita lunga, che non per forza trovi una forma chiusa in cui definirsi. Visti i nostri studi e la nostra formazione, adoriamo lavorare sul site specific, al di là della semplice produzione teatrale, soprattutto per le nostre esperienze di teatro fisico. È questo il lato del teatro che più ci ha interessato e ci ha portato di conseguenza ad arrivare a un progetto come Trasfigurazioni».

Trasfigurazioni_Segrete stanze_Compagnia Trasfigura
“Segrete stanze” (primo studio), presentato da Compagnia Trasfigura all’interno della rassegna Per amore o per forza 2017.

La partenza del progetto nasce dal bando “Legami Urbani”, che al meglio si sposava con le idee delle due artiste, seguite da sei intensi mesi di processo artistico e lavorativo. «Quattro laboratori per quattro tematiche, quattro arti per quattro narrazioni differenti del quartiere: i laboratori di sperimentazione sono il cuore pulsante di Trasfigurazioni, per approfondire la storia che ha contraddistinto la Malpensata attraverso le forme del suono, del video, del teatro e della fotografia. Abbiamo pensato a un progetto il più possibile inclusivo, con attività dedicate ai bambini e agli adulti, dedicate a specifiche fasce d’età».

Trasfigurazioni_laboratori_Pequod Rivista

Trasfigurazioni_laboratori_Pequod Rivista

Trasfigurazioni_laboratori_Pequod Rivista
Alcuni scatti dai laboratori dalla prima edizione di Trasfigurazioni.

La scelta del quartiere della Malpensata per lo sviluppo delle attività è forse uno dei punti di forza del progetto: da sempre considerato come quartiere “di secondo livello”, ma ricco di storie e culture da rivelare all’intera città. Trasfigurazioni si presenta quindi come una proposta per rivalutarne e raccontarne nuovamente la storia, per donare una veste artistica a un quartiere cittadino ma marginale, trasfigurando. Trasfigurazioni è anzitutto arte partecipativa e relazionale, che si inserisce nei contesti sociali quotidiani per intrecciarsi con essi e creare nuovi punti di vista.

Sono in programma due interessanti giornate conclusive del processo artistico di Trasfigurazioni: sabato 25 e domenica 26 maggio verranno condivisi gli esiti dei laboratori, le narrazioni collettive strutturate nelle forme delle performance musicali e teatrali, della mostra fotografica e della proiezione video; a conclusione, gli interventi di Nicola Feninno (direttore di CTRL Magazine) e Renato Ferlinghetti (Università degli Studi di Bergamo) negli incontri informali a cura di Conversas Bergamo

Ph. credits: Compagnia Trasfigura 

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“Buckets!” di Sebastiano Ruggeri: la musica dei luoghi, la musica per tutti

Dal 4 al 26 maggio il quartiere della Malpensata di Bergamo prende vita grazie a Trasfigurazioni, un progetto artistico-culturale che prevede workshop e laboratori dedicati a bambini, ragazzi e adulti organizzato dalla compagnia teatrale Trasfigura, per giocare, divertirsi, ma soprattutto sperimentare con la storia di questo quartiere. “Buckets!” è il nome del laboratorio musicale che si sta svolgendo in questi giorni presso il Parco della Malpensata: un’attività con percussioni improvvisate ricavate da oggetti quotidiani o di scarto, rivolto a bambini dai 7 agli 11 anni, che terminerà il 25 e il 26 maggio con due momenti di laboratorio aperto a tutti a cura di Sebastiano Ruggeri, il conduttore degli incontri.

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Sebastiano Ruggeri è musicista e docente di attività musicali; dopo la laurea in Filosofia e un diploma ai Civici Corsi di Jazz di Milano, si iscrive al Conservatorio della stessa città. La sua passione per la musica, però, comincia dalle scuole medie, dove si avvicina a questo mondo che tanto lo affascina: inizia a studiare la tromba, poi le percussioni. Ad oggi ha diverse collaborazioni attive, tra cui quella con Pulsar Ensemble (Italia) e con Rayuela (Spagna). Alla musica Sebastiano affianca anche uno spiccato interesse per la didattica e l’insegnamento che diventa per lui un’importante fonte di stimolo, di soddisfazione, ma soprattutto di costante ricerca personale. «I laboratori», spiega il giovane musicista, «sono nati come declinazione di un approccio in continua evoluzione, che ho sviluppato negli anni. Volevo – e ho provato a – costruire una sorta di metodo aperto, che mi permettesse di veicolare informazioni musicali e ritmiche nel modo meno mediato o più immediato possibile. La progettazione dei laboratori è stata fatta insistendo sull’analogia della musica con il linguaggio e con il mondo ludico. Le pratiche sono pensate e costruite come giochi dotati di regole o parametri, su cui si può intervenire con estrema varietà e libertà, permettendo di fatto un adattamento sartoriale dei giochi stessi alle varie situazioni. Questo mi permette di inserire elementi presi da linguaggi musicali differenti, di usare l’imitazione, l’improvvisazione (anche radicale), la conduzione e la composizione collettiva estemporanea e combinarle in base alla costituzione e alla risposta del gruppo».

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I laboratori rispondono anche ad una scelta ambientalista ed ecologica: prevedono il riuso e riciclo di materiali, che trovano così un nuovo impiego, un nuovo modo di essere usati e diventano strumenti per fare e creare musica. «Partendo dai materiali tipici dello street drumming», continua Sebastiano, «e aggiungendo strumenti trovati o autocostruiti, possiamo molto facilmente creare una situazione orizzontale, in cui chiunque può da subito fare musica con altri, usando una gamma di suoni affidabile e condivisa, ma anche tremendamente personalizzabile». Ma nella pratica? Durante questi laboratori i bambini, che sperimentano come si creano suoni, armonie e melodie di gruppo, passano la maggior parte del loro tempo «a fare giochi musicali, progettati per poter familiarizzare con concetti come la pulsazione e la condivisione del tempo, la metrica, il groove nel modo più divertente possibile, cioè colpendo a mazzate secchi, pentolacce, coperchi… ecco, ho appena trovato una tazza di latta che suona benissimo se la colpisci forte!». Di certo i bambini non si annoiano: imparano con il gioco e l’esperienza condivisa l’importanza dello stare insieme e del collaborare, senza dimenticare il fil rouge, la musica, a cui si unisce la realizzazione di suoni con i materiali di riciclo.

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Come spiega Sebastiano, «da sempre è stato prioritario per me che il mio approccio fosse adattabile a varie situazioni e differenti interlocutori; dopo averlo sperimentato sia con studenti delle più disparate età che con i detenuti della Casa Circondariale di Monza (dove sto tenendo con il mio amico e collega Alex Stangoni un laboratorio basato su questi principi) posso dire con gioia che ogni gruppo ha sempre impiegato poco tempo e sforzo per impadronirsi delle mie proposte. Il bello è, quindi, che si riesce da subito a fare musica insieme. Il caso di Trasfigurazioni è particolare perché per la prima volta il denominatore, il sostrato è la condivisione del luogo di vita, del quartiere, nella fattispecie un quartiere molto articolato e stratificato della città. Pertanto cercheremo di fare in modo che sia, oltre che teatro fisico della performance, anche un riferimento evocativo che irrompe nella performance stessa: in uno dei giochi cercheremo di raccontare i suoni di una giornata di mercato nel quartiere. Sono davvero curioso di vedere come questo tipo di riferimento potrà indirizzare le scelte sonore del gruppo». “Buckets!” si propone come laboratorio di musica che permette non solo ai bambini di fare pratica con i suoni, di scoprire e di comunicare con un nuovo linguaggio interiore e al contempo collettivo, ma, in vista delle due giornate del 25 e del 26 maggio, sarà anche per gli adulti uno stimolo a conoscere i tanti princìpi di questo lavoro (e non solo), e chissà, forse anche appassionarsi come Sebastiano.

Malpensata, quartiere di aree verdi e popolarità in continuo cambiamento

Il primo sguardo alla Malpensata, arrivando dalle vie del centro di Bergamo, è uno sguardo che respira: un’improvvisa apertura di polmoni e orizzonti su questo quartiere che si dà come spazio. A imprimersi come immagine d’insieme, una volta lasciati gli infiniti sensi unici delle vie principali e superate le colonne della sopraelevata che permette ai treni su rotaia di attraversare la città in direzione Milano, è l’ampio piazzale, posto quasi a segnale dell’inizio del quartiere di cui condivide il nome.

Piazzale Malpensata, pur con il suo sovraffollamento di auto dentro e fuori le aree delimitate dalle strisce bianche della segnaletica stradale e di parcheggiatori abusivi che scrutano in un’ininterrotta ricerca dell’ultimo rettangolo di cemento libero, nella speranza non pretesa di ottenere una moneta, è uno dei pochi angoli di città non ancora monetizzati. Non ancora, ma ancora per poco, visto il nuovo Piano della Sosta, che prevede lo svuotamento del piazzale dalle vetture, non appena verrà inaugurato il parcheggio all’ex gasometro (già in opera), all’angolo opposto dell’incrocio su cui la Malpensata si affaccia, che prevede 300 posti auto, usufruibili pagando 2 € l’ora. A segnalare l’inizio dei lavori di rinnovamento e decongestionamento dell’area, è stata la comparsa dell’ampia rotonda che da fine gennaio si frappone proprio tra i due parcheggi rivali, quasi a monito di un movimento che cambierà il volto della Malpensata.

Progetto per la realizzazione del parcheggio all’ex gasometro e dell’antistante rotonda.

I progetti di rinnovamento non si arrestano alla viabilità, e tra tutti il più discusso è lo spostamento di uno degli appuntamenti più movimentati del Piazzale: il mercato del lunedì, che da più di 50 anni colora la piazza di oltre 200 banchi e una varietà umana che spesso, una volta finiti gli acquisti, si riversa nell’adiacente parco a condividere il pranzo di inizio settimana. Il Comune ha già avviato un investimento da 1,5 milioni per asfaltare l’area di via Spino, nell’adiacente quartiere Carnovali, che ospiterà circa 200 banchi, cui si aggiungono i lavori per adattare il centralissimo Piazzale degli Alpini, proprio davanti la stazione, dove andrà la restante trentina di ambulanti e che già paga lo scotto della sua riqualifica, con lo sradicamento di 25 alberi storici. Le rimostranze arrivano in primis proprio dai venditori, guidati dall’ANA (Associazione Nazionale Ambulanti), cui si uniscono le voci di molti cittadini, che vedono nello spostamento e soprattutto nella frattura del mercato in due diverse aree, tanto lo snaturamento di una tradizione quanto il pericolo di perdere parte del fatturato. A loro si aggiungono i numerosi movimenti per la tutela del verde urbano, che sottolineano come la rapidità nella cementificazione e nell’abbattimento di alberi adulti non potrà essere velocemente compensata dal progetto di ampliamento del parco della Malpensata, le cui giovani piante impiegheranno necessariamente anni per costituire quel polmone verde di cui la città necessita e diventare punto di riferimento per la fauna che annidava nelle aree verdi ormai scomparse.

Corteo di protesta di lunedì 29 Aprile degli ambulanti che, chiuso il mercato, hanno raggiunto con i loro furgoni il Comune di Bergamo; già l’8 Aprile vi era stata una manifestazione simile contro lo sradicamento del mercato in Malpensata, cui avevano preso parte 63 furgoni, congestionando il traficco delle strade di Bergamo. [ph. ANA – Associazione Nazionale Ambulanti]
La speranza è che la natura dimostri ancora una volta quella capacità adattiva che le permette di sopravvivere all’azione umana e che animali e piante, già allontanati da questo quartiere quando a inizio ‘900 sorsero i primi palazzi popolari, siano pronti a riabitare l’area verde prevista dai Piani dell’Amministrazione Comunale.  Nell’ambito del progetto Legami Urbani, che prevede lo stanziamento da parte del Governo di 18 milioni di euro per le periferie della città di Bergamo, si pronostica un ampliamento del 30% della superficie del parco (pari a 5200 mq) e la creazione di uno skate park  con annessa struttura coperta polivalente che andrà a sostituire il vecchio palazzo del ghiaccio, abbattuto già lo scorso anno. In questo modo, il Comune si dichiara in linea con le trasformazioni che il quartiere sta vivendo dagli anni ’60, quando il cimitero San Giorgio, costruito nel 1813 fuori dalle mura della città e soppresso nel 1904, ma smantellato solo verso gli anni ‘40, venne temporaneamente adibito a mercato del bestiame e ospitò saltuariamente il circo equestre e la fiera di Sant’Alessandro. Per secoli, l’area della Malpensata era stata, come la toponimica del nome stesso evoca, poco più che un luogo infelice appena fuori dalla città: ospite di un lazzaretto d’emergenza nel Seicento, poi sede del cimitero e infine destinata allo stoccaggio del gas, il quartiere Malpensata sembrerebbe dovere il suo nome a una vecchia cascina, ormai abbattuta, nel cui cortile sorgeva un albero usato come gogna per gli evasori del dazio, riscosso presso la vicina porta Cologno. Sono i progetti dell’ingegner Bergonzo a trasformare l’aspetto dell’area, in cui sorgono nel 1908 le prime case popolari.

Progetto relativo all’ampiamento del parco Malpensata.

È forse proprio la “popolarità” la caratteristica che fino a oggi contraddistingue il quartiere Malpensata. “Popolarità” che si dà come conformità all’uso del popolo, come spazio accogliente in cui le case popolari non hanno mai smesso di crescere e in cui oggi abitano circa 200 famiglie, che proprio in questi mesi stanno lottando contro i tagli a un servizio considerato fondamentale: l’Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale), incaricata della gestione di questi spazi, ha scelto di non rinnovare il contratto di lavoro, in scadenza al 31 marzo 2019, del Portiere sociale, che tanto ha fatto per creare coesione e integrazione tra gli abitanti delle case popolari. Il servizio, rivolto a una rete di inquilini formata circa al 28% di immigrati e al 15% di ultrasessantacinquenni, era stato istituito con funzioni burocratiche, amministrative e di manutenzione, ma negli anni ha avviato progetti quali il doposcuola per i bambini, il mutuo aiuto per persone diversamente abili o economicamente svantaggiate (concretizzato, ad esempio, nella raccolta di mobili, abiti e oggetti di prima necessità), l’interazione con le realtà associative di quartiere, la promozione dell’incontro interculturale, andando a definire quel volto comunitario e, appunto, popolare, che è caratteristico di una Malpensata che resiste all’individualismo imperante e alle insicurezze di una società disgregata.

Presidio del 17 Aprile degli inquilini delle case popolari di Bergamo contro ALER per chiedere il ripristino del portierato sociale, per l’aumento delle manutenzioni e per la riduzione di affitti e spese. [ph. Unione Inquilini Bergamo]
Una popolarità che non esula dai rapporti con una delle istituzioni più attive nel ramo dell’accoglienza, il Patronato San Vincenzo, che dal 1927, anno della sua fondazione da parte di don Bepo, si preoccupa di dare una casa e un futuro ai più bisognosi: «accoglie nel 1938-39 gli orfani dell’Istituto Palazzolo; nel 1943 i giovani ricercati dai nazi-fascisti; nel 1944 un centinaio di ragazzi Libici e un folto gruppo di bambini sfollati da Montecassino; nel 1945 non pochi minorenni figli di fascisti da reinserire nella società. Nel 1951 un gruppo di alluvionati del Polesine; nel 1952 molti degli orfani costretti a lasciare Nomadelfia fondata da don Zeno; nel 1956 i giovani fuggiti dalla rivoluzione in Ungheria; negli anni ’70 una cinquantina di ragazzi eritrei e 200 orfani dei lavoratori (Enaoli)», si legge sul sito della fondazione. Oggi è uno dei punti di riferimento per chiunque abbia bisogno di aiuto nell’inserimento sociale, dagli adolescenti ai poveri passando per gli immigrati, attraverso una rete di attività che si occupa non solo della sussistenza dell’individuo, ma anche del supporto necessario alla sua formazione; da queste premesse nascono iniziative che hanno risonanza in tutto il quartiere, le cui strade si colorano di un umanità sempre nuova, sempre in movimento.

Murales realizzato da Ericailcane sul muro della sede di Caritas Diocesana Bergamo, nel quartiere Malpensata, per il progetto Pigmenti promosso dal Patronato San Vincenzo come estensione della serigrafia Tantemani, laboratorio formativo e lavorativo per ragazzi con diverse abilità cognitive e relazionali.

Basta una passeggiata al parco per cogliere il senso di questa collettività: sul prato verde si incontrano pelli dai mille pigmenti, bambini delle più disparate nazionalità corrono nelle aree attrezzate,  accenti e lingue si mescolano in un nuovo esperanto, mentre gli alberi silenziosi respirano ossigeno nuovo per la città.

 

In copertina, Bergamo [ph. Tiziano Moraca CC BY 2.0 by Flickr]

L’Arte al servizio del singolo: il teatro di Serena Sinigaglia

«Romeo e Giulietta perché è stata l’opera con cui ho debuttato in teatro, il Fastalff di Verdi perché è stata la prima opera lirica che ho diretto e infine La Cimice di Majakovskij perché è stata l’opera che mi ha impegnato di più», risponde così Serena Sinigaglia, regista teatrale, alla domanda su quali siano le tre opere, tra tutte quelle che ha diretto, che ritiene le più importanti.

Nata il 13 Marzo 1973 a Milano da mamma romana e papà veneziano, ha frequentato il liceo classico per poi iscriversi alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, dove si diploma dirigendo Romeo e Giulietta di Shakespeare. In seguito, fonda la compagnia Atir (di cui è l’attuale direttore artistico) con la quale inizia una serie di produzioni di spettacoli ed eventi che continua tutt’ora. Parallelamente al lavoro con la sua compagnia, porta avanti progetti solisti che la vedono impegnata con altri attori in teatri sparsi in tutta Italia e con enti culturali.

Serena crede in un teatro popolare al servizio dei cittadini, e questa linea è condivisa anche dalla compagnia che dirige.

Scena tratta da “Di a da in con su per tra fra Shakespeare”

L’IMPEGNO SOCIALE

«Con Atir ho prodotto spettacoli che spaziavano dai classici, come Shakespeare, Euripide e Aristofane, ai contemporanei, iniziando a collaborare con drammaturghi viventi, come Edoardo Erba e Letizia Russo, che mi interessavano e mi incuriosivano, per scandagliare e affrontare tematiche soprattutto politiche e di attualità», spiega la regista.

Atir, però, non è solo una compagnia che produce eventi e spettacoli: «È anche un progetto culturale, un’idea di arte e cultura al servizio degli altri. Ciò si è concretizzato negli anni quando, come Atir, abbiamo ottenuto la gestione del teatro Ringhiera, situato in via Boifava, a sud di Milano. Qui, abbiamo iniziato a sperimentare un teatro sociale fortemente radicato sul territorio dove intendiamo l’Arte, nell’accezione più ampia del termine, come uno strumento capace di migliorare la qualità di vita dell’individuo.» racconta Serena, che continua: «Abbiamo creato una grande comunità organizzando spettacoli ed eventi e lavorando fianco a fianco con le associazioni socio-educative, religiose e ospedaliere».

1943: COME UN CAMMELLO IN UNA GRONDAIA

Subito dopo essere uscita dalla Paolo Grassi, Serena decide di mettere in piedi uno spettacolo teatrale tratto dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza europea. L’opera si chiama 1943: come un cammello in una grondaia, ed è una messa in scena corale: «È uno spettacolo evergreen, perché cerchiamo sempre di farlo quando riusciamo a riunirci tutti, data la sua semplicità e la sua scenografia pressoché assente», spiega Serena.

L’idea dello spettacolo risale alla lettura del libro da cui prende spunto: «Non ancora diciottenne, ho letto le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea e ne sono rimasta folgorata. Lo spettacolo, quindi, riflette, da una parte, sulla memoria storica e sul mondo che i condannati della Resistenza ci hanno consegnato combattendo; dall’altra, invece, sul mondo attuale, nato dopo il crollo dell’URSS e dell’utopia comunista alternativa al capitalismo, e sulla degenerazione del capitalismo presente», spiega sempre Serena. Il tutto si basa sul modo che Serena e la compagnia Atir hanno di intendere l’Arte, ovvero, militante e impegnata, senza però dimenticare il divertimento.

Scene tratte da “1943: come un cammello in una grondaia” dalle “Lettere dei Condannati a Morte della Resistenza Europea”

1943: come un cammello in una grondaia è uno spettacolo che si basa sul confronto tra il passato e il presente facendo dialogare i due piani, ma è anche un doveroso tributo a quelle persone che hanno dato la vita per una parola a volte così difficile da sostenere: libertà.

 

 

In copertina: scena tratta dallo spettacolo Le allegre comari di Windsor.

La memoria delle tartarughe marine_Pequod Rivista

Il ricordo come bussola: “La memoria delle tartarughe marine”

Uno dei miei aforismi preferiti recita: “Fate come gli alberi: cambiate le foglie, ma conservate le radici. Quindi, cambiate le vostre idee ma conservate i vostri princìpi”. Queste parole di Victor Hugo  mi appaiono intramontabili: le rileggo e ogni volta finisco per pensare al fatto che per conservare la propria identità, si debba necessariamente conservare la memoria. È proprio sul tema del ricordo che si sviluppa una delle mie letture più recenti: lo scorso novembre, durante il Lucca Comics&Games – la più grande fiera italiana nell’ambito dei fumetti e dei videogiochi, prima in Europa e seconda al mondo dopo il Comiket di Tokyo – mi sono imbattuta nel fumetto che, una volta letto, mi si sarebbe letteralmente cucito addosso: La memoria delle tartarughe marine. Pubblicato da Tunuè, casa editrice specializzata in graphic novel per ragazzi e adulti, è opera della scrittrice ed illustratrice romana Simona Binni, che con Tunuè ha già pubblicato opere come Silverwood Lake e Amina e il vulcano. Durante il nostro breve incontro Simona mi ha dedicato un disegno ad acquarello realizzato sul momento, raffigurante uno dei personaggi della storia.

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Illustrazione di Simona Binni, fotografia di Stefania Haddoub.

Ne La memoria delle tartarughe marine le tematiche affrontate sono molte e complesse: l’indissolubilità dei legami familiari, la paura dell’ignoto e la forza di cambiare rimanendo fedeli a se stessi, ma soprattutto il valore delle radici, la consapevolezza della propria identità e la sua celebrazione attraverso i ricordi. L’autrice, grande amante del mare, sceglie come scenario predominante della sua storia Lampedusa. L’isola, oggi tristemente famosa a causa delle vicende che coinvolgono migliaia di migranti, è descritta come un luogo quasi fermo nel tempo, dimenticato dal mondo. Una realtà apparentemente immota, arcana, circondata da confini liquidi e azzurri che si confondono col cielo, e che al protagonista, Giacomo, stanno troppo stretti. Talmente stretti che un giorno decide di allontanarsi e fuggire nella cosmopolita Milano, lasciandosi alle spalle la famiglia e quel frammento di terra nel Mediterraneo che lo aveva fatto sentire in prigione. Davide, il fratello maggiore, sceglie invece di restare nel luogo a cui sente di appartenere per occuparsi della sua missione: la tutela delle tartarughe marine che a Lampedusa, sulla Spiaggia dei Conigli, depongono le loro uova. Personalità profondamente differenti e contrastanti, i due fratelli finiranno per intraprendere due strade completamente diverse: Davide sceglierà di dedicare tutta la sua vita al mare e alla cura dell’ambiente dove è nato, Giacomo diventerà manager di successo per un’importante azienda milanese; ma niente dura per sempre, e una decina di anni dopo, la vita deciderà di stravolgere i progetti di Giacomo, mettendolo davanti a una serie di scelte che lo costringeranno a fare i conti con se stesso e con le proprie paure.

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Fotografia di Stefania Haddoub.

Le tartarughe marine che danno il titolo all’opera vengono rese coprotagoniste di una vicenda in cui la voce del passato e quella del futuro si accostano per armonizzarsi, facendo risaltare il ruolo prezioso della memoria. Se all’inizio della vicenda il lettore si approccia a un protagonista apparentemente freddo, riluttante e quasi cinico nel ripercorrere il proprio passato, gradualmente lo stesso lettore è portato ad entrare nelle sue emozioni, a sondarle per metterle in discussione, mettendo così in discussione anche le proprie. La scelta delle tartarughe come animali totem non è casuale: gli studiosi hanno osservato infatti come, annualmente, le tartarughe marine della specie Caretta caretta si spingano fino alle coste sabbiose per deporre le proprie uova; una volta deposte, le femmine scavano una buca profonda e le nascondono sotto la sabbia per non renderle visibili ai predatori. Dopo una settantina di giorni, le uova si schiudono e le piccole tartarughe si dirigono verso il mare. Scientificamente sappiamo che questa precisione e immediatezza nel muoversi verso l’acqua è garantita da tre meccanismi: il fototattismo positivo, che spinge i piccoli a dirigersi verso il punto più illuminato dello spazio circostante; la percezione di vegetazione nei pressi del nido e la pendenza della spiaggia, per cui i cuccioli di Caretta caretta si muovono verso le zone di minore pendenza.

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Una tavola dalla graphic novel, illustrazione di Simona Binni.

Durante il tragitto verso il mare, quindi, i piccoli memorizzano una serie di informazioni che si rivelano essere affatto casuali. Come tutt’altro che casuale è la scelta delle madri di questa specie di nidificare sulla stessa spiaggia dove sono nate. Questi animali, quindi, finiscono per effettuare una specie di ritorno alle origini, quasi celebrando un rituale ciclico: le tartarughe marine sviluppano una sorta di imprinting nei confronti della loro spiaggia natale e, dopo essere cresciute, utilizzano questa conoscenza irreversibile come una bussola in grado di riportarle a casa. Tale fenomeno, chiamato natal homing, è stato spiegato dagli esperti attraverso due principali ipotesi: la prima afferma che le tartarughe marine siano in grado di memorizzare le caratteristiche chimiche delle loro spiagge natali; la seconda si basa sulla capacità di questi animali di sfruttare i campi magnetici terrestri durante i loro spostamenti in mare; quindi, memorizzando il particolare magnetismo della loro spiaggia natale, da adulte le Caretta caretta sono in grado di farvi ritorno.

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Una tavola dalla graphic novel, illustrazione di Simona Binni, fotografia di Stefania Haddoub.

Seguire il richiamo delle proprie origini è quindi qualcosa di connaturato nelle tartarughe marine; allo stesso modo, per noi esseri umani la memoria si contraddistingue come elemento imprescindibile: è ciò che ci permette di ritornare con la mente alle prime esperienze dell’infanzia, di avere un’identità, di emozionarci e di consolidare gli affetti, di conservare le conoscenze per poterle condividere con gli altri nella vita di tutti i giorni. Per sentirci realmente a casa siamo chiamati a riscoprire quell’umanità perduta anche e soprattutto ricongiungendoci al passato con spirito critico e riflessivo.

Neppure la scelta di ambientare la vicenda a Lampedusa è casuale: nonostante nella narrazione non venga mai specificato il tempo in cui si svolge la storia, capiamo che si tratta di un periodo recente, e che sullo sfondo si sta consumando un dramma umano in cui la ricerca della propria casa equivale alla ricerca di amore e compassione e la perdita della bussola corrisponde ad una sconcertante perdita di umanità. Con stile dolceamaro e a tratti molto malinconico, attraverso illustrazioni morbide e dai colori pastello che si alternano ad immagini brusche ed essenziali, Simona Binni realizza un’opera dalla profonda carica emotiva, che stimola il lettore a porsi più di una domanda. Quanto valore diamo alla memoria oggi? Quante volte rimuoviamo i tasselli del passato? Forse scivoliamo con troppa facilità nell’errore di pensare che il presente sia un qualcosa di a sé stante, anziché una conseguenza, un sintomo, una spia. La memoria delle tartarughe marine si conclude con un finale aperto, lasciandoci il tempo per rimanere sospesi a riflettere, a contemplare. Si richiude il volume e una riflessione ci accompagna: forse, l’unica maniera che abbiamo per restare umani, è ricordarci di ricordare.

ISREC di Bergamo, una nuova “Primavera” per la memoria della Resistenza

In occasione dell’anniversario della Liberazione dell’Italia intervistiamo Elisabetta Ruffini, direttrice di ISREC di Bergamo, l’Istituto bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, che dal 1968 si occupa di raccogliere, conservare e valorizzare la documentazione relativa alla storia contemporanea all’interno delle biblioteche, avvalendosi delle pubblicazioni scientifiche della rivista Studi e ricerche di storia contemporanea, che dal 1970 lavora a stretto contatto con l’Istituto.

Un’immagine storica di piazza Matteotti, nel centro di Bergamo.

Come spiega la direttrice, «oggi si può parlare di memoria della Resistenza come di una sfida: quella di fare conoscere una parte della storia dell’Italia, parte fondamentale per il processo democratico del nostro Paese, di cui vogliamo essere eredi e attenti custodi. Oggi, però, le nuove generazioni non hanno più legami diretti con quel passato; le generazioni degli adulti e la mia generazione dei 40-50enni, che ora gestiscono il passaggio della storia ai propri figli, hanno dato per scontato le storie delle nonne e dei nonni e alla fine si sono ritrovate impreparate su questo pezzo di storia».

Giovan Battista Cortinovis, antifascista bergamasco.

L’ISREC di Bergamo si impegna pertanto a lavorare (anche) su questa lacuna e si pone come vero e proprio luogo dove la storia e il nostro passato non cadono dimenticati; perciò realizza una serie di iniziative culturali, pubblicazioni, mostre, conferenze ed eventi, durante i quali si discutono e si approfondiscono fatti e storie della Resistenza e della Liberazione. Anche grazie a questo lavoro, quel 1945 non sembra poi così lontano. L’Istituto impiega anche le sue forze nell’organizzazione di attività gratuite per le scuole, per sensibilizzare i giovani e i più piccoli sul tema della Resistenza e dei fatti accaduti più di 70 anni fa. Le scuole dell’infanzia, le scuola primarie e secondarie possono scegliere, all’interno di un ricco e programma di proposte, spettacoli teatrali, lezioni animate, reading, laboratori di musica, visite d’istruzione alla scoperta dei luoghi della bergamasca, che si pongono l’arduo traguardo di raccontare e far conoscere la storia del nostro territorio e dei nostri nonni, imparando a scoprire e a trovare quel legame che unisce strade, piazze, persone, sentieri, storia e territorio. Una novità di quest’anno: l’ISREC collabora con la band La Malaleche, che affianca la passione per la musica all’impegno sociale, attraverso laboratori musicali e la stesura dei testi delle canzoni.

I progetti e le iniziative non finiscono qui: il 24 aprile al circolo Arci Ink Club di Bergamo ci sarà una serata dedicata alla Resistenza e all’Antifascismo con reading accompagnato da una mostra fotografica, che verrà, poi, riproposto il 25 aprile con MAITE – Bergamo Alta Social Club in piazza Vecchia. Nell’atrio del Palazzo della Provincia in via Torquato Tasso, invece, si potrà visitare un’installazione fotografica di carattere evocativo e simbolico dal titolo Primavera, dove saranno esposte le fotografie in bianco e nero della sfilata dei Partigiani per le vie di Bergamo del 4 maggio 1945. Alcune di queste immagini, però, sono state colorate per sottolineare dei particolari in cui, come in un’eco, possano emergere le parole di alcuni grandi testimoni della Resistenza.

Una fotografia dalla sfilata dei partigiani del 4 maggio 1945 a Bergamo. Questa è l’immagine scelta per la locandina di “Primavera”, la mostra fotografica che sarà inaugurata il 24 aprile all’Ink Club di Bergamo.

«Ma le cose più importanti», dichiara Elisabetta Ruffini, «non affioreranno il 25 aprile perché hanno tempi lunghi, per esempio quelli della ricerca che non produce slogan buoni per le commemorazioni, ma riflessioni scomode sulla città, il suo passato, ma soprattutto sull’immaginario che il presente prepara per il futuro. Lunghi sono anche i tempi delle attività nelle scuole, che, come fucine di saperi e di cultura, ci mettono a contatto quotidianamente con temi scottanti e difficili da trattare insieme alle donne e agli uomini di domani».

È importante, pertanto, far capire e far conoscere l’importanza della storia (sia in quanto italiani sia come cittadini d’Europa) perché ci aiuta a capire il presente, memori degli errori e delle zone d’ombra del nostro passato, e consente di non dimenticare e di mantenere vivo il ricordo dei fatti e delle persone che vissero e lottarono durante il Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale. La storia insegna e ci permette di imparare per poter guardare al futuro con chiara consapevolezza, ricordando che la memoria è vita e il nostro domani. Come afferma Elisabetta Ruffini, «io posso mantenere viva la memoria del 25 aprile con il mio esserci, il mio lavoro, la mia passione, la mia rabbia e la mia dolcezza e, se siamo in due a farlo, sarà ancora più viva. Sarà una memoria più ricca di linguaggi, di domande, di interpretazioni, perché sarà più presente e innestata dentro la nostra quotidianità».

Maschi che si immischiano, storie di speranza e parità

A poco più di un mese dalle manifestazioni per la festa della donna abbiamo l’occasione di incontrare Stefano Fornari, membro del consiglio comunale di Parma e co-fondatore dell’associazione Maschi che si immischiano, per discutere insieme di quest’importante iniziativa ancora troppo poco conosciuta. Con voce pacata e gentile, Stefano parla di un progetto tanto recente quanto rivoluzionario, che sta crescendo rapidamente sul territorio locale e sta allargando la sua influenza anche nella provincia e in altre città dell’Emilia Romagna. Si tratta di un gruppo composto da liberi cittadini, prevalentemente uomini, che hanno scelto di schierarsi con decisione per gridare un forte “no” contro la violenza sulle donne. I dati Istat sono allarmanti: in Italia, oltre 6 milioni di donne hanno subìto violenza e oltre 3 milioni hanno vissuto episodi di stalking; per non parlare delle tante donne che non denunciano violenze o discriminazioni che si perpetrano sui luoghi di lavoro quotidianamente. Maschi che si immischiano si incarica dunque di una missione di sensibilizzazione fondamentale e coraggiosa.

Uno dei messaggi principali promossi dall’associazione Maschi che si immischiano.

Stefano, l’iniziativa che avete portato avanti presenta degli aspetti in un certo senso rivoluzionari. Come e quando nasce Maschi che si immischiano?

Siamo nati a Parma nel settembre del 2016, dopo l’ennesimo femminicidio verificatosi in città. Ci siamo sentiti profondamente scossi nel constatare che l’episodio, dopo aver ricevuto l’attenzione dei media e della stampa, stava cadendo troppo rapidamente nel silenzio e nell’oblìo, come tanti altri casi. Abbiamo deciso di partire dal basso, come liberi cittadini, per creare un nucleo deciso a smuovere le coscienze delle persone comuni, soprattutto di tutti quegli uomini che nella vita quotidiana tendono a non essere consapevoli di quanto potere abbiano le loro parole e i loro gesti, anche quelli più semplici. Grazie alla collaborazione della giornalista Chiara Cacciani, abbiamo unito realtà molto diverse: attualmente siamo nove uomini e Chiara, appunto. Ci occupiamo di divulgazione, sensibilizzazione, dibattiti e manifestazioni inerenti la parità di genere e il contrasto di qualsiasi forma di violenza. La nostra forza sta nel fatto che, pur essendo uomini con vissuti e storie differenti, ci sentiamo accomunati dal forte desiderio di promuovere una cultura del rispetto.

Fotografia di Stefano Fornari ©.

Avete contatti anche con l’associazione nazionale Maschile Plurale, nata a Roma nel 2007. Cosa vi unisce?
Uno dei fondatori di Maschile Plurale, Marco Deriu, è anche nostro associato; ci ha dato supporto nel corso del tempo, in quanto docente e sociologo grazie a dibattiti e iniziative soprattutto in ambito universitario. La differenza tra le due associazioni, probabilmente, è che Maschi che si immischiano cerca di partire da ancora più dal basso per andare a smuovere coloro che non hanno ancora normalizzato l’idea di parità.

Fotografia di Stefano Fornari ©.

Da quando siete nati, avete sempre cercato di coinvolgere nella vostra battaglia anche il mondo dello sport. Nello specifico, di quali progetti vi siete occupati?
Il primo progetto è stato realizzato in collaborazione con il Parma Calcio, che con l’allora capitano Alessandro Lucarelli ci aveva garantito sin da subito pieno sostegno. Nel primo evento, durante la presentazione della partita, i giocatori del Parma avevano indossato simbolicamente un laccio fuxia, e lo stesso avevano deciso di fare le squadre giovanili. Con la collaborazione dei tifosi siamo poi riusciti a realizzare uno striscione, tuttora appeso in curva sud allo stadio, per ricordare un dato allarmante, che purtroppo ancora molti sottovalutano: nel nostro Paese una donna su tre subisce violenza. Durante un’altra occasione, poi, abbiamo ottenuto due risultati importanti: sempre in collaborazione con il Parma Calcio, abbiamo portato avanti una campagna incentrata sullo slogan “Parole da bulli, azioni da vigliacchi”, frase impressa su oltre quindicimila cartoline e trasmessa anche attraverso i led luminosi dei cartelloni dello stadio. Anche con le Zebre Rugby Club di Parma abbiamo promosso molte iniziative per combattere il machismo: il 25 novembre, in occasione della giornata contro il femminicidio, i ragazzi hanno giocato una partita indossando calzettoni rosa, colore che solitamente si tende ad associare solo ed esclusivamente alla femminilità.

Fotografia di Stefano Fornari ©.

Il coinvolgimento di atleti ed esponenti della realtà sportiva è un gesto molto forte e di grande impatto, soprattutto per promuovere un’idea di uomo differente a quella tipizzata e rigida a cui purtroppo siamo abituati. A suo parere, quanta strada c’è da fare ancora in questo senso?
Molta, proprio perché gli uomini sono i primi a non mettersi sufficientemente in gioco per fare la differenza. Sono anche i primi a non rendersi conto di quanto si tenda a sottovalutare i piccoli segnali d’allarme quotidiani: non stiamo parlando solo di violenze fisiche, ma anche di violenze verbali, economiche, psicologiche. Sono errori subdoli quelli che commettiamo ogni giorno: apparentemente piccoli e innocui, ma che rischiano di fare danni enormi se non corretti per tempo. Non solo credo che molti uomini non ammettano di essere fragili e di essere condizionati dall’idea di machismo; credo anche che, tra coloro che non hanno commesso violenze fisiche o psicologiche effettive, ci sia comunque un tentativo di tirarsi indietro, di giustificarsi o mettersi sulla difensiva. Come se fosse qualcosa che non li riguarda. Il punto è che siamo tutti chiamati in causa. Spesso, per esempio, si tendono a fare delle battute con leggerezza, le classiche “battute da spogliatoio”, contenenti gli stessi soggetti e stereotipi, le stesse idee offensive e svilenti; si tende ad usare un linguaggio sessista e discriminatorio solo per fare ironia, pensando che possa addirittura fare piacere. Fino a quando continueremo a comportarci in modo simile, le cose non miglioreranno mai veramente.

Fotografia di Stefano Fornari ©.

Per quanto riguarda i progetti nelle scuole e nel mondo del lavoro, cosa avete realizzato finora?
Abbiamo già svolto diverse iniziative, di cui l’ultima si è tenuta lo scorso 8 marzo in un istituto superiore della città di Parma: abbiamo proiettato un film, intavolato un dibattito e coinvolto più di 520 studenti. Sicuramente tra le idee per il futuro c’è anche quella di attecchire più in profondità nella sensibilità dei giovani e di diffondere iniziative sempre nuove. A fine 2017, ad esempio, è stata inviata una mozione al Comune di Parma per chiedere un impegno ancora più grande a favore di questa importante battaglia per la parità. Ne è nato un appello diviso in sei punti e rivolto a tutti gli uomini, finalizzato a promuovere la parità di genere e un’etica di rispetto e condivisione in ambito lavorativo. Questo risultato ha preso poi piede in tutta la regione: è stato infatti divulgato agli enti statali, a tutti i comuni della provincia e alle grandi aziende del territorio, nelle università e nelle scuole. Da qualche tempo il comune di Cremona ha cercato di emulare il nostro esempio, e noi non possiamo che esserne soddisfatti, anche se il lavoro da fare è ancora tanto.

In copertina: fotografia di Roberto Perotti ©.

Quando l’amore ha un prezzo. Viaggio in Senegal tra prostitute e ‘mbaraneuses

Aprile 2014, Dakar. Io e Hamadou ci aggiriamo per il quartiere di Fass, alla ricerca di un amico come noi tornato a casa a trovare la famiglia. Un passante ci indica una casa a cinque piani. Saliamo gradini sbilenchi su cui si affacciano ampi appartamenti e sbuchiamo su un tetto a terrazza, costellato di porte che nascondono stanzette in affitto. Dietro una di queste porte, Doudou ci aspetta con un piatto di riso fumante; seduta sul letto accanto a lui, una ragazza magra, avvolta in jeans stretti, si aggiusta il rossetto. Mi presento e la invito a mangiare con noi, ma lei distoglie lo sguardo e aspetta che noi siamo sazi per afferrare il piatto e ripulirne il contenuto con gesti lenti, ma che tradiscono un certo appetito.

Mariama, il nome appena sussurrato, ci segue per il resto della serata come una presenza discreta. Andiamo a ballare, beviamo, fumiamo e lei, nascosta in un angolo, risponde di no a qualsiasi invito, con occhi stanchi che reclamano il sonno. Anche se ha detto di non volerla, le porto una bibita e il suo sguardo si sposta dalla bottiglietta a Doudou, quasi a sottolineare che non è stata lei a richiederla. Chiedo spiegazioni di tutta questa circospezione: «È una domestica, -spiega il mio amico- viene dal villaggio per lavorare in una casa qui a Dakar, ma ha perso l’autobus per rientrare nel giorno di riposo. Stanotte dorme con me; in cambio, abbiamo contrattato per il letto e la cena».

Capisco all’istante che la stanchezza del suo volto e la pelle secca delle sue mani non sono solo un’impressione, ma i segni di una giornata di lavoro che non si concluderà quando noi andremo a dormire. Chiedo di andare a casa, fingendo sia mio il suo bisogno di sonno, mentre sento montare dentro me la rabbia per un trattamento ingiusto che trova ulteriore conferma all’arrestarsi del taxi di fronte al bar vicino casa di Doudou: una senegalese avvolta in un miniabito leopardato chiama Doudou con voce suadente. Scorgo appena il gesto di rifiuto del mio amico, ma la voce della donna si staglia chiara nella notte: «Ah stasera risparmi con la ragazzina, ma domani ti aspetto».

L’indomani mi presento anch’io all’appuntamento, incuriosita da tanta disinvoltura in un paese in cui la verginità è ancora un valore utile a ottenere un buon matrimonio. Perdiamo qualche minuto in giochi di sguardi d’indifferenza finché la ragazza non decide un approccio da finta offesa: «Ciao, piacere, Diara», dice rivolgendosi a me. E poi verso Doudou: «Non mi offri da bere?». Le pago una birra e cerco di intavolare una conversazione, ma dopo poche chiacchiere percepisco un’irritata agitazione: «Perdonami cara, ma io sono qui per lavorare». Scopro così che Diara è una prostituta a tutti gli effetti e solo quando mi offro di pagare il prezzo di una prestazione (5˙000 cfa, pari a circa 8 €), o meglio due visto che sono bianca, ottengo il diritto a fare qualche domanda.

Diara, 22 anni, mi racconta che è di Saint Luis, ma vive a Dakar, lontano dalla famiglia così da poter guadagnare facendo il mestiere senza disonore: «Se mai vorrò sposarmi, posso sempre tornare nella mia città, anche se non avrò più il valore di una vergine». Dalla borsetta estrae un documento: «È la mia licenza», spiega. E con sguardo soddisfatto aggiunge: «C’è scritto che sono pulita». Pulita, cioè non contagiata dal virus dell’HIV. La sua soddisfazione non è cosa di poco conto: si calcoli che nel 2017 nella sola Africa subsahariana si contavano poco meno di 26 milioni di individui affetti da HIV (dati avert.org); eppure il Senegal rappresenta un modello a dir poco virtuoso per gli stati confinanti. Lo stato senegalese ha infatti negli ultimi vent’anni intrapreso una battaglia serrata contro la diffusione del virus, le cui armi sono state tanto la prevenzione attraverso la diffusione di anticoncezionali e il monitoraggio delle fasce di popolazione più a rischio, quanto l’incremento di terapie sia in fase di evoluzione del virus in forma di AIDS sia a malattia contratta. Particolarmente efficace è stata la decisione di normare la prostituzione per le ragazze al di sopra dei 21 anni, le quali devono registrarsi presso le amministrazioni locali e in cambio ottengono preservativi e assistenza sanitaria gratuita, che prevede l’obbligo di controlli medici mensili. L’iniziativa ha presto dato i suoi frutti: dal 2010 al 2016 la percentuale di prostitute sieropositive è scesa dal 21% al 7%, mentre i casi annuali di HIV sono diminuiti del 75%. Le donne che risultano positive al virus non sono costrette ad abbandonare il mestiere, ma possono vedere rinnovata la licenza solo se assumono farmaci retrovirali, che non solo riducono la carica virale, ma allungano anche l’aspettativa di vita.

«Quindi tu hai rapporti protetti, usi il preservativo?», chiedo sorpresa, conscia di quanto gli africani siano tendenzialmente restii all’uso di anticoncezionali. E infatti Diara sorride sorniona: «Non sempre, però posso usarlo come motivo per aumentare il prezzo, anche perché io a differenza dei clienti garantisco sul mio stato di salute». Mi chiedo se il rovescio della medaglia non sia stato un aumento del numero di ragazze che offre il proprio corpo, ma Diara pensa che le cose stiano in tutt’altro modo: «Tante ragazze hanno paura di regolarizzarsi, anche perché spesso i poliziotti che si occupano di consegnare o controllare le licenze approfittano di noi; la soluzione più semplice è accettare di avere rapporti con loro gratuitamente, evitando almeno la violenza. E poi c’è la questione dell’onore: se fai la prostituta la società ti giudica, molto più comodo fare ‘mbarane».

Per capire cosa significhi questa parola, ‘mbarane, mi serve qualche giorno e un po’ di dimestichezza con la cultura locale; le prime donne cui chiedo la definiscono come l’abilità di seduzione femminile che permette di ottenere soldi e denaro, senza necessariamente concedersi sessualmente né perdere l’onore. ‘Mbarane è una capacità che quasi quotidianamente si vede applicare per le vie di Dakar: la si impara fin da bambine come abilità nello sgranare gli occhi per chiedere doni agli zii che vivono in Occidente, la si sfrutta da adolescenti per ottenere monili e vestiti dai ragazzi che sperano di far innamorare una vergine, la si applica da adulte per evitare che i mariti cerchino donne più giovani. All’origine però ‘mbarane definisce un comportamento che prende sempre più piede tra le senegalesi, sinonimo quasi di poliandria; le ‘mbaraneuses, infatti, collezionano fidanzati in numero pari alle loro esigenze, facendosi pagare abiti, cosmetici e gioielli, ma anche affitto e bollette. In linea teorica, non è previsto il sesso nei rapporti tra amanti e ‘mbaraneuse, ma conoscere come stanno realmente le cose è praticamente impossibile: le giovani nubili sostengono praticamente tutte di preservarsi per l’uomo che sposeranno, mentre i loro amanti si crogiolano nell’illusione che l’aver colto la loro illibatezza sia garanzia di esser già prescelti per la vita, quindi mantengono il segreto.

Il pensiero di una civetteria così ben calcolata mi spinge a osservare con nuovi occhi gli atteggiamenti dei giovani che passeggiano per Dakar: un velo che quasi casca, braccialetti che tintinnano al momento giusto, nuvole di profumi che avvolgono i pensieri; il più piccolo gesto basta ad attrarre per un istante l’attenzione, a illudere con sogni e desideri mai pronunciati, a garantire il prossimo, seppur modesto regalo.

La prostituzione in Italia 60 anni dopo la Legge Merlin

La pratica della prostituzione è presente in ogni cultura e paese del mondo tanto da essere considerata il più antico lavoro della storia. Ma qual è lo status giuridico della prostituzione in Italia?

Nel nostro paese la materia è regolata dalla legge 20 febbraio 1958, n. 75, comunemente detta legge Merlin (dal nome della senatrice Lina Merlin che ne fu promotrice), la quale abolì la regolamentazione della prostituzione, così come disciplinata in epoca fascista, chiudendo le case di tolleranza e punendo con una pena da 2 a 6 anni e con una multa da 260 a 10.400 euro chiunque gestisca una casa di prostituzione o recluti, favorisca o induca una persona a esercitare la prostituzione.

Di fatto l’esercizio del meretricio volontario e compiuto da soggetti maggiorenni rimaneva legale, in quanto garantito dagli articoli 2 e 13 della Costituzione come esplicazione della libertà personale inviolabile, ma veniva meno la sua regolamentazione.

L’Italia ha quindi aderito a uno dei tre modelli giuridici esistenti di trattamento della prostituzione, ossia quello definito “abolizionista”, consistente nel non punire né chi si prostituisce, né chi acquista prestazioni sessuali. Questo sistema, adottato da gran parte dei paesi dell’Europa occidentale (tra cui Francia, Regno Unito, Spagna, Belgio e Portogallo) esenta lo Stato dal prendere parte alla disputa, lasciando però in questo modo la gestione della prostituzione alla criminalità organizzata e al mercato.

Un altro modello giuridico è quello “proibizionista”, che consiste nel vietare la prostituzione e nel punire la prostituta e i clienti con pene pecuniarie o detentive. Lo adottano quasi tutti i paesi dell’Est Europa come Albania, Croazia, Russia, Serbia e Ucraina e, fuori dall’Europa, gli USA.

Un sistema totalmente diverso, chiamato “modello regolamentista”, è invece teso alla legalizzazione e regolamentazione del fenomeno attraverso l’istituzione di luoghi deputati all’esercizio della professione (case o determinati quartieri a luci rosse). Olanda, Germania, Svizzera, Grecia e Turchia adottano questo sistema, che sovente prevede l’imposizione di tasse e l’obbligo di controlli sanitari per prevenire e contenere le malattie veneree.

Cinque prostitute in attesa di clienti in un bordello di Napoli nel 1945, 13 anni prima dell’introduzione della Legge Merlin.

Dagli anni Ottanta nel dibattito politico italiano hanno preso corpo numerose istanze di abrogazione o modifica del sistema attualmente in vigore, giudicato non più al passo coi tempi.  I detrattori della legge Merlin fanno notare come, prima dell’entrata in vigore della norma, la prostituzione nelle strade fosse molto poco diffusa, mentre col nuovo regime giuridico si è assistito a un notevolissimo aumento. Ancor più preoccupante è il traffico di donne, favorito dall’immigrazione clandestina, passato direttamente sotto il controllo delle mafie italiane e dei Paesi di origine delle prostitute illegalmente presenti sul territorio nazionale e che ha la sua causa nell’assenza dello Stato nella gestione del fenomeno prostituzione.

Ecco perché molte sono state le proposte di legge per l’abolizione o attenuazione della legge Merlin. Nel 2008 l’allora ministro per le pari opportunità Mara Carfagna propose un disegno di legge per modificare l’attuale normativa, che tuttavia non arrivò mai all’iter parlamentare. Nel 2013 venne presentato un referendum abrogativo promosso da diversi sindaci italiani, che però si arenò per mancanza del numero necessario di firme. Ancora, nel 2014, il Partito Democratico con l’appoggio trasversale di Lega Nord, Movimento 5 stelle e Forza Italia, presentò un disegno di legge al fine di regolamentare la prostituzione, iniziativa che però non si concretizzò in una norma di legge. Recentemente, in una intervista del 28 febbraio 2019 a Tgcom24, il segretario della Lega Matteo Salvini ha ribadito la linea del suo partito sulla questione: «Ero e continuo a essere favorevole alla riapertura delle case chiuse» ha detto, precisando, però, che l’iniziativa «non è nel contratto di governo perché i Cinque Stelle non la pensano così». Secondo il ministro dell’Interno, «togliere alle mafie, alle strade e al degrado questo business, anche dal punto di vista sanitario, è la strada giusta».

Perché, allora, essere a favore della regolamentazione della prostituzione? Perché la legge Merlin ha mostrato nel tempo le sue falle: la chiusura delle case di tolleranza non ha infatti ridotto il mercato del sesso a pagamento. Le stime dicono che le vittime della tratta delle prostitute siano tra le 75 e le 120 mila (la maggior parte delle quali donne di origine nigeriana portate in Italia dalla criminalità locale). Il totale disinteresse dello Stato nei confronti del fenomeno ha contribuito a renderlo terreno fertile per l’agire incontrastato della criminalità organizzata, la quale lucra ogni anno, intascando miliardi, sulla pelle di povere vittime indifese. Ma introdurre un modello di legalizzazione e regolamentazione vorrebbe anche dire confinare il fenomeno all’interno di determinati quartieri (riducendo di molto la prostituzione di strada) e facendo pagare alle prostitute le tasse per i loro servizi, aumentando così il gettito fiscale e incrementando al contempo la tutela della salute sia delle lavoratrici del sesso, che dei loro clienti.

Per concludere, è bene dire che non esiste un modello perfetto che possa eliminare ogni problema riguardante la prostituzione, che è stato e sarà un fenomeno umano. Compito dello Stato dovrebbe però essere cercare di tutelare al massimo i diritti dei cittadini, introducendo norme che prevengano ad esempio fenomeni di schiavitù sessuale e proliferazione di malattie e, al contempo, rendano più sicuro l’esercizio di questa professione per chi decide volontariamente e senza coercizione di vendere servizi sessuali dietro pagamento.

 

In copertina: il Red Light District di Amsterdam (foto di Erik Tanghe, Pixabay).

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