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Il batik tra arte e vestiti di Sapsafart

Passeggiando tra i quartieri di Dakar, accade spesso, soprattutto la notte, di venire sopresi dal rullante rumore delle macchine da cucire. Basta seguire il suono e affacciarsi a uno degli usci dei laboratori per ritrovarsi immersi nel fruscio di stoffe e tessuti, che alla luce di lampade opache scorrono sotto gli aghi al ritmo dato dai movimenti sui pedali, per lo più avviati da giovani uomini.

Tra le decine e decine di laboratori, ce n’è uno, nascosto tra i vicoli sabbiosi del quartiere di HLM, che spicca invece per il suo silenzio, interrotto solo dal suono dello stereo che accompagna le lunghe ore di lavoro: è il Sapsafart Atelier, dove Daouda colora i tessuti che verranno trasformati in abiti, tovagliato, quadri e arazzi.

Daouda al lavoro nell’Atelier di Sapsafart.

Come molte delle botteghe senegalesi, anche Sapsafart è uno spazio ricavato all’interno di un’abitazione, in questo caso ne è il cortile, ma immerge fin dal primo ingresso in un’atmosfera artistica tutta sua: accanto alle immancabili icone religiose, quadri e bassorilievi si affacciano sulle pareti, su cui si addossano poltroncine un po’ bohémien raggiungibili solo dopo aver scavalcato vasche e stender. Qui non si cuce, si dipinge con una tecnica approdata in Africa nell’Ottocento, trasportata dai colonizzatori dalla lontana Indonesia, ma subito tradotta nei disegni e nei colori del continente nero.

Daouda Ndoye è il proprietario, l’artista del batik. Sulle stoffe traccia i disegni ispirati dalla sua immaginazione e all’estetica africana, quindi inizia la loro trasformazione in tessuti adatti a diventare vestiti: «A volte inizio a lavorare sulle pezze seguendo la mia fantasia – mi spiega – e solo dopo mi preoccupo di come tagliarle, in base all’uso che decido di farne; più spesso, chiedo alla sarta con cui collaboro di iniziare il confezionamento dell’abito con il tessuto grezzo e solo dopo mi occupo di dipingerlo, così che i disegni si adattino alle forme».

Daouda mentre dipinge; alle sue spalle, alcune camicie.

Come funziona la tintura attraverso la tecnica del batik?

«La prima fase riguarda il disegno; una volta tracciate le linee guida, queste vanno ricalcate coprendo con la cera calda le parti che non si vogliono tingere. Si tratta di un lavoro che richiede una certa precisione perché non può essere corretto: una volta che la cera è colata nel tessuto, lo impermeabilizza e quindi non può più essere tinto. Una volta che la cera si è asciugata si procede al bagno di tintura, che consiste nell’immergere la stoffa in una vasca piena di acqua e pigmenti colorati. La procedura si ripete poi tante volte quanti sono i colori scelti, andando di volta in volta a sovrapporre diversi strati di colore. Ogni passaggio richiede dei tempi di attesa, che servono per l’asciugatura della cera e poi del colore, quindi più complesso è il disegno e maggiore è il numero di colori impiegato, più sarà lungo il procedimento».

Da quanto tempo lavori con questa tecnica? Come l’hai imparata?

«Faccio lavori in batik dal 1989, ma solo dall’anno scorso ho fondato il Sapsafart Atelier. Ho frequentato una scuola in Casamance, nel sud del Senegal, dove mi hanno insegnato questa tecnica entrata a far parte della nostra tradizione e ho deciso di farla diventare la mia principale attività lavorativa. Ho sempre voluto avere un lavoro in cui poter esprimere le mie inclinazioni artistiche, infatti mi sono dedicato a lungo alla creazione di sculture e quadri e a questi ultimi ho deciso di provare ad applicare la tecnica del batik. I miei primi lavori erano pensati come arazzi, destinare a decorare le pareti, poi ho iniziato a lavorare la stoffe perché diventassero tovaglie o cuscini. Da qualche anno, ho iniziato a collaborare con alcune sarte e a usare il batik per creare abiti».

Tintura e asciugatura.

Perché hai scelto proprio il batik?

«Mi piace particolarmente creare abiti in batik perché sono pezzi unici e originali, imitabili ma non riproducibili in maniera identica. La tecnica del batik di per sé rimanda alla tradizione panafricana, anche se di epoca piuttosto recente, soprattutto se usata in modo artigianale come faccio io; le linee e i colori sono molto diversi rispetto al più moderno vax, che è la versione industriale del batik: le sfumature che si possono applicare ai pigmenti rimandano ai colori della terra e le forme dei disegni che scelgo si rifanno all’iconografia della cultura africana. Allo stesso tempo, sui tessuti posso esprimermi liberamente, pensare a disegni e composizioni sempre nuovi, spesso nati dall’incontro tra la mia immaginazione e quella della persona che mi ha commissionato l’abito e che poi lo indosserà. Questo fa sì che ogni vestito sia assimilabile a un’opera d’arte, pensata su misura del contesto in cui verrà esposta o, in questo caso, indossata».

Chi sono le persone che ti commissionano abiti batik?

«Ho una clientela molto varia, che include sia uomini sia donne. Confeziono spesso camicie da uomini, ma anche semplici t-shirt, mentre le donne scelgono soprattutto pagne e abiti con lunghe gonne. Anche i turisti sono attratti dal mio lavoro: possono portarsi a casa un pezzo unico di Africa, spesso pensato apposta per loro, e piace molto il fatto che possono assistere e partecipare alla tintura degli abiti che poi acquistano, cosicché l’abito non sia più solo un oggetto, ma un souvenir che porta con sé un ricordo delle loro vacanze. Questo entusiasmo da parte degli stranieri mi ha spinto a cercare uno sbocco per la mia attività anche nelle esportazioni: attraverso la pagina facebook di Sapsafart espongo le mie creazioni e grazie a una rete di amici che vivono in Europa riesco a confezionare abiti anche per chi non può raggiungermi fisicamente».

Due creazioni di Sapsafart: un abito da donna e una camicia da uomo.

Quali sono i soggetti che preferisci dipingere?

«Mi piace che le mie creazioni rimandino a sensazioni ed emozioni legate alla mia terra. Gran parte dei miei soggetti sono legati a oggetti di uso quotidiano di oggi o del passato, come i cauri, le conchiglie che un tempo fungevano da moneta, o le calebasse, le ciotole in legno di zucca; anche gli strumenti tradizionali, dai tamburi alla kora, sono un motivo che uso spesso, così come alcuni soggetti tipici del paesaggio africano, prima tra tutti la pianta del baobab. Molte volte mi ispiro a momenti della vita quotidiana, in cui il più delle volte le protagoniste sono le donne: una madre che porta il figlio nel mbotou (fascia portabebè, ndr) o una giovane che porta un otre in bilico sulla testa. A darmi maggior soddisfazione sono però le composizioni meno realistiche, ma in cui riesco a trasmettere un messaggio che va oltre l’immagine, che spesso nascono da un adattamento dei miei quadri».

Fotografie nel testo di Sapsafart / Tutti i diritti riservati.

Quando l’amore ha un prezzo. Viaggio in Senegal tra prostitute e ‘mbaraneuses

Aprile 2014, Dakar. Io e Hamadou ci aggiriamo per il quartiere di Fass, alla ricerca di un amico come noi tornato a casa a trovare la famiglia. Un passante ci indica una casa a cinque piani. Saliamo gradini sbilenchi su cui si affacciano ampi appartamenti e sbuchiamo su un tetto a terrazza, costellato di porte che nascondono stanzette in affitto. Dietro una di queste porte, Doudou ci aspetta con un piatto di riso fumante; seduta sul letto accanto a lui, una ragazza magra, avvolta in jeans stretti, si aggiusta il rossetto. Mi presento e la invito a mangiare con noi, ma lei distoglie lo sguardo e aspetta che noi siamo sazi per afferrare il piatto e ripulirne il contenuto con gesti lenti, ma che tradiscono un certo appetito.

Mariama, il nome appena sussurrato, ci segue per il resto della serata come una presenza discreta. Andiamo a ballare, beviamo, fumiamo e lei, nascosta in un angolo, risponde di no a qualsiasi invito, con occhi stanchi che reclamano il sonno. Anche se ha detto di non volerla, le porto una bibita e il suo sguardo si sposta dalla bottiglietta a Doudou, quasi a sottolineare che non è stata lei a richiederla. Chiedo spiegazioni di tutta questa circospezione: «È una domestica, -spiega il mio amico- viene dal villaggio per lavorare in una casa qui a Dakar, ma ha perso l’autobus per rientrare nel giorno di riposo. Stanotte dorme con me; in cambio, abbiamo contrattato per il letto e la cena».

Capisco all’istante che la stanchezza del suo volto e la pelle secca delle sue mani non sono solo un’impressione, ma i segni di una giornata di lavoro che non si concluderà quando noi andremo a dormire. Chiedo di andare a casa, fingendo sia mio il suo bisogno di sonno, mentre sento montare dentro me la rabbia per un trattamento ingiusto che trova ulteriore conferma all’arrestarsi del taxi di fronte al bar vicino casa di Doudou: una senegalese avvolta in un miniabito leopardato chiama Doudou con voce suadente. Scorgo appena il gesto di rifiuto del mio amico, ma la voce della donna si staglia chiara nella notte: «Ah stasera risparmi con la ragazzina, ma domani ti aspetto».

L’indomani mi presento anch’io all’appuntamento, incuriosita da tanta disinvoltura in un paese in cui la verginità è ancora un valore utile a ottenere un buon matrimonio. Perdiamo qualche minuto in giochi di sguardi d’indifferenza finché la ragazza non decide un approccio da finta offesa: «Ciao, piacere, Diara», dice rivolgendosi a me. E poi verso Doudou: «Non mi offri da bere?». Le pago una birra e cerco di intavolare una conversazione, ma dopo poche chiacchiere percepisco un’irritata agitazione: «Perdonami cara, ma io sono qui per lavorare». Scopro così che Diara è una prostituta a tutti gli effetti e solo quando mi offro di pagare il prezzo di una prestazione (5˙000 cfa, pari a circa 8 €), o meglio due visto che sono bianca, ottengo il diritto a fare qualche domanda.

Diara, 22 anni, mi racconta che è di Saint Luis, ma vive a Dakar, lontano dalla famiglia così da poter guadagnare facendo il mestiere senza disonore: «Se mai vorrò sposarmi, posso sempre tornare nella mia città, anche se non avrò più il valore di una vergine». Dalla borsetta estrae un documento: «È la mia licenza», spiega. E con sguardo soddisfatto aggiunge: «C’è scritto che sono pulita». Pulita, cioè non contagiata dal virus dell’HIV. La sua soddisfazione non è cosa di poco conto: si calcoli che nel 2017 nella sola Africa subsahariana si contavano poco meno di 26 milioni di individui affetti da HIV (dati avert.org); eppure il Senegal rappresenta un modello a dir poco virtuoso per gli stati confinanti. Lo stato senegalese ha infatti negli ultimi vent’anni intrapreso una battaglia serrata contro la diffusione del virus, le cui armi sono state tanto la prevenzione attraverso la diffusione di anticoncezionali e il monitoraggio delle fasce di popolazione più a rischio, quanto l’incremento di terapie sia in fase di evoluzione del virus in forma di AIDS sia a malattia contratta. Particolarmente efficace è stata la decisione di normare la prostituzione per le ragazze al di sopra dei 21 anni, le quali devono registrarsi presso le amministrazioni locali e in cambio ottengono preservativi e assistenza sanitaria gratuita, che prevede l’obbligo di controlli medici mensili. L’iniziativa ha presto dato i suoi frutti: dal 2010 al 2016 la percentuale di prostitute sieropositive è scesa dal 21% al 7%, mentre i casi annuali di HIV sono diminuiti del 75%. Le donne che risultano positive al virus non sono costrette ad abbandonare il mestiere, ma possono vedere rinnovata la licenza solo se assumono farmaci retrovirali, che non solo riducono la carica virale, ma allungano anche l’aspettativa di vita.

«Quindi tu hai rapporti protetti, usi il preservativo?», chiedo sorpresa, conscia di quanto gli africani siano tendenzialmente restii all’uso di anticoncezionali. E infatti Diara sorride sorniona: «Non sempre, però posso usarlo come motivo per aumentare il prezzo, anche perché io a differenza dei clienti garantisco sul mio stato di salute». Mi chiedo se il rovescio della medaglia non sia stato un aumento del numero di ragazze che offre il proprio corpo, ma Diara pensa che le cose stiano in tutt’altro modo: «Tante ragazze hanno paura di regolarizzarsi, anche perché spesso i poliziotti che si occupano di consegnare o controllare le licenze approfittano di noi; la soluzione più semplice è accettare di avere rapporti con loro gratuitamente, evitando almeno la violenza. E poi c’è la questione dell’onore: se fai la prostituta la società ti giudica, molto più comodo fare ‘mbarane».

Per capire cosa significhi questa parola, ‘mbarane, mi serve qualche giorno e un po’ di dimestichezza con la cultura locale; le prime donne cui chiedo la definiscono come l’abilità di seduzione femminile che permette di ottenere soldi e denaro, senza necessariamente concedersi sessualmente né perdere l’onore. ‘Mbarane è una capacità che quasi quotidianamente si vede applicare per le vie di Dakar: la si impara fin da bambine come abilità nello sgranare gli occhi per chiedere doni agli zii che vivono in Occidente, la si sfrutta da adolescenti per ottenere monili e vestiti dai ragazzi che sperano di far innamorare una vergine, la si applica da adulte per evitare che i mariti cerchino donne più giovani. All’origine però ‘mbarane definisce un comportamento che prende sempre più piede tra le senegalesi, sinonimo quasi di poliandria; le ‘mbaraneuses, infatti, collezionano fidanzati in numero pari alle loro esigenze, facendosi pagare abiti, cosmetici e gioielli, ma anche affitto e bollette. In linea teorica, non è previsto il sesso nei rapporti tra amanti e ‘mbaraneuse, ma conoscere come stanno realmente le cose è praticamente impossibile: le giovani nubili sostengono praticamente tutte di preservarsi per l’uomo che sposeranno, mentre i loro amanti si crogiolano nell’illusione che l’aver colto la loro illibatezza sia garanzia di esser già prescelti per la vita, quindi mantengono il segreto.

Il pensiero di una civetteria così ben calcolata mi spinge a osservare con nuovi occhi gli atteggiamenti dei giovani che passeggiano per Dakar: un velo che quasi casca, braccialetti che tintinnano al momento giusto, nuvole di profumi che avvolgono i pensieri; il più piccolo gesto basta ad attrarre per un istante l’attenzione, a illudere con sogni e desideri mai pronunciati, a garantire il prossimo, seppur modesto regalo.

Volontariato, Africa e Amore

Lasciare casa propria per aiutare gli altri: una decisione coraggiosa, soprattutto quando per realizzarla è necessario confrontarsi con consuetudini e stili di vita di un paese lontano, dove si vivono situazioni di povertà a cui bisogna adattarsi, privandosi delle comodità anche più scontate e banali a cui si è abituati.

Pequod ha fatto qualche domanda a Floriana, che ha vissuto un’esperienza di volontariato in Ghana e precisamente a Dodowa, piccolo paese vicino alla capitale Accra.

Perché hai deciso di fare volontariato all’estero?

Un anno fa, a gennaio, mi sono svegliata e mi sono detta «voglio andare in Ghana!». Non so bene nemmeno io perché; è stata una decisione improvvisa. Ho contattato un amico che era stato in Africa per farmi dare qualche consiglio, poi l’associazione italiana Soho. Mi sono affidata a loro perché è l’unica realtà che conosco che opera senza far pagare un prezzo totale per l’esperienza, ma fornisce le istruzioni necessarie e le indicazioni sui vaccini, per poi lasciare che i volontari si gestiscano in autonomia per l’acquisto dei biglietti aerei. Nel giro di una settimana li avevo già comprati! Sono partita ad agosto, per andare a fare volontariato in un orfanotrofio che ospita 250 bambini, e sono ritornata anche a novembre, dopo aver fatto una raccolta fondi grazie alla quale ho comprato cibo, acqua e vestiti per i bambini; ho pagato per mandarli a scuola e fornirgli cure mediche.

Come era la tua giornata tipo?

Ad agosto i bambini non andavano a scuola, al mattino li aiutavo a fare il bagno: in sostanza dovevo prendere dell’acqua dal pozzo con un secchio, e utilizzando una tazza da tè lavarli, mentre loro si insaponavano con delle spugne speciali. Poi mangiavano, studiavano e giocavano. Spesso si ammalavano, soprattutto di malaria, e allora bisognava portarli in ospedale.

A novembre invece i più grandi andavano a scuola, mentre i piccoli facevano lezione nell’orfanotrofio. A volte, per carenza di insegnanti facevo lezione di inglese, francese o matematica. Poi si mangiava, si tornava a lezione e infine si faceva il bagno e si lavavano i vestiti in grosse bacinelle, con la pietra di sapone. Alla sera distribuivo le medicine. Quasi sempre, capitava l’imprevisto: molti dei bambini soffrono di reumatismi, si ammalano di malaria, o semplicemente bevono acqua non potabile e si sentono male.

Hai avuto una preparazione personale o professionale prima di partire?

No, la prima volta non avevo idea di cosa mi aspettasse. Alloggiavo in una casa di volontari, luogo che definirei fatiscente, ma che è diventato il mio posto preferito sull’intero pianeta. È una piccola casetta con due stanze, in ognuna delle quali ci sono letti a castello per 6 persone; non c’è acqua corrente e l’energia scarseggia. Un bidone fa da cisterna per l’acqua, e la doccia consiste in una porta di legno dietro cui ci si lava con un secchio d’acqua. Il secchio d’acqua si utilizza anche dopo aver usato il bagno.

Per telefono prima di partire avevo parlato con Mamma Valeria, che si occupa dei volontari in Italia, e mi aveva dato indicazioni su vaccini e malattie, raccomandazioni circa l’utilizzo dello spray repellente anti malaria e suggerito di tenere la bocca chiusa sotto la doccia per evitare i pericoli dell’acqua non potabile. Mamma Valeria mi ha dato tutte queste informazioni ma in maniera molto distaccata per non influenzare la mia idea sull’Africa.

Ma tutto ciò non ti ha fatto vivere l’esperienza con un po’ di ansia?

No, non ho mai avuto ansia, anzi, sono stata avvertita di non avere troppo contatto con i bambini per via di malattie o infezioni, ma io li baciavo e coccolavo! In Africa vivo come vivono loro: cammino scalza, mangio con le mani e non ho il minimo timore! Se dovessi beccarmi un’infezione, so che poi guarirebbe.

Qual è stata la parte più dura dell’esperienza e cosa ti ha dato più soddisfazione?

La situazione più dura da vivere è quando i bambini si ammalano, perché ci si sente male quando soffrono, si vorrebbe fare qualcosa ma non si può. Questa è a livello generale una delle cose brutte dell’Africa: voler fare tanto, cercare di garantire un futuro, ma non poterlo fare. Ci sono certe abitudini e tradizioni che non si possono cambiare e ti fanno sentire impotente: puoi solo dare soldi e affetto. Anche se paghi la scuola a un bambino, il suo livello di istruzione sarà sempre basso perché la scuola non va bene, ma chi è al comando per qualche assurda ragione non ti permette di mandarlo nella scuola migliore. Voler cambiare le cose e non poterlo fare è frustrante: ho la sensazione che l’Africa si sia rassegnata al fatto che la situazione non migliorerà.

La cosa più bella in assoluto invece sono i bambini: lasciano un segno che non si racconta. Quando faccio loro dei regali, sia materiali che no, soddisfacendo i loro desideri, fanno i salti dalla gioia. E nei momenti in cui sono davvero felici io mi sento piena dentro, viva. Quando mi scrivono che gli manco e aspettano il mio ritorno, mi commuovo. Ho intenzione di ritornare da loro ogni 4 o 5 mesi.

Nessuno ti ha mai chiesto: «Perché non aiuti in Italia invece di andare in Africa?»

Vado in Africa perché ormai ce l’ho nel cuore e sono molto affezionata ai bambini, ma quando ho potuto, ho sempre aiutato anche in Italia e anche a Londra, dove vivo ora, mi sono iscritta a un’associazione di volontariato. Credo che il volontariato sia una vocazione, se ce l’hai in Africa ce l’hai in qualsiasi parte del mondo.

Che consiglio daresti a qualcuno che volesse fare la tua stessa esperienza?

L’Africa la suggerisco a chiunque ma il consiglio è di vivere come le persone locali. Una volta nella vita, tutti dovrebbero provare per capire e arricchirsi. L’approccio alla vita è diverso quando il secchio d’acqua deve durare per quattro docce e un boccone di riso va diviso: impari a evitare sprechi, a non lamentarti. L’Africa si poggia sul pilastro della condivisione, “sharing is caring” e anche se il cibo è poco si condivide. I bambini tra di loro si spartiscono il cibo e gli oggetti che regalo e si prendono cura di me: quando un bambino ti imbocca, anche se ha le mani sporche, non si può rifiutare!

 

Tutte le fotografie sono state gentilmente condivise dall’intervistata, tutti i diritti sono riservati.

Spiriti danzanti dietro le maschere africane

È un afoso pomeriggio di fine Agosto tra le vie di Dakar; mio nipote Ndiaw ed io passeggiamo soprappensiero, divincolandoci tra le bancarelle stipate di donne dalle formosità abbondanti del mercato di HLM e chiacchierando del più e del meno ci gettiamo nel quartiere successivo. Improvvisa boccata d’ossigeno: il caos delle voci di bancarellisti che trattano il prezzo in un infinito waχale s’interrompe e i vicoli tornano a essere percorribili, inaspettatamente quasi deserti.

Danze rituali in Ruanda

Faccio appena in tempo a chiedermi dove siano i bambini che riempiono dei loro giochi quasi ogni angolo di quest’immensa città, quando da un vicolo trasversale arriva un allegro e agitato vociare; infilo la testa nella stradina rumorosa e tra il polverone sollevato da decine di piedini scuri che scappano e grida di divertito spavento, vedo una massa di stracci e filamenti di corteccia rossa che si erge al di sopra di tutti quei corpicini vestiti di tuniche bianche. Una mano scura copre i miei occhi e il mio corpo è trascinato lontano; mentre cerco di divincolarmi dalla presa e tornare ad assistere allo spettacolo, una spiegazione giunge alle mie orecchie: non posso partecipare al rituale per almeno due motivi, sono una turista e sono donna.

Conosco bene il nome della maschera che il mio sguardo ha appena intravisto: il kankouran, evocato dalle madri ogni volta che un bambino combina qualche disastro o fa capricci; la versione senegalese del nostro babau, che porta via con sé i monelli di casa. La sua missione per le strade della capitale è però ben diversa, rievocando una tradizione mandinga, ancora forte nelle regioni di Mbur e della Casamance e che accomuna Senegal e Gambia: il kankouran arriva al termine del mese d’isolamento che segue al rito della circoncisione, incarnando l’ordine e le regole sociali ed esorcizzando le paure che accompagnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta; un corteo munito di bastoni, cui si mescolano gli spiriti dei nuovi circoncisi, lo accompagna al ritmo di tamburi sciamanici e nessuno dei membri che lo compongono osa alzare lo sguardo agli occhi del kankouran, che celano antichi segreti.

Sfilata di kankouran in Casamance [ph. Dorothy Voorhes CC BY-SA 2.0 Generic]

Di queste tradizioni è ricca l’intera Africa subsahariana, che proprio nel mascheramento riversa buona parte dei più antichi significati spirituali: i travestimenti, infatti, riservati a pochi uomini che godono della forza morale necessaria ad avere il privilegio di vestirsene, servono a evocare spiriti presenti e passati, energie che si celano dietro immagini simboliche; chi li indossa rinuncia alla propria identità, assumendo quella del soggetto o del significante rappresentato dalla maschera posta sul volto.

Numerosissime sono le raffigurazioni di animali, più o meno stilizzate: tra le più maestose, il serpente Bansonyi della Guinea, nato in seno all’etnia Baga, che alto fino a 2 metri, custodisce lo spirito del villaggio, protegge dal male e dona prosperità; le antilopi Bambarà, usate durante le danze tyi-wara in Mali, sono legate invece all’agricoltura, favorita dallo spirito di quest’animale erbivoro; acquatici sono i soggetti delle maschere Ijo, etnia nigeriana stabilizzata sulla costa del delta del Niger, che rappresentano in modo stilizzato teste di pesci; uno degli animali più gettonati, infine, è il bufalo, simbolo di forza virile, rappresentato in tutto il continente e soggetto prediletto delle maschere policrome dei Douala, in Camerun.

Non meno diffuse sono le rappresentazioni astratte o antropomorfe; impossibile non citare come esempio del primo caso le maschere nwantantay dei Bwa del Burkina Faso, che rappresentano in forme puramente astratte gli spiriti volanti e senza volto della foresta, ma anche le maschere a forma di torre degli Idoma di Benue State, in Nigeria. Maschere rappresentanti volti umani si incontrano con stili diversi in tutto il continente: dagli ovali bombati degli Yoruba nigeriani e dei Makondé della Tanzania, alle maschere elmo dei Batetela del Congo, dei Bayaka dello Zaire, dei Bobo del Niger. Molte di queste maschere, si accompagnano a indumenti che celano le fattezze umane e sono utilizzate in danze rituali che accompagnano eventi sociali, momenti della tradizione e riti d’iniziazione.

Da sinistra a destra: Maschera Bwa, Burkina Faso, rappresentante una civetta [ph. Raccolte Extraeuropee del Castello Sforzescho / CC BY-SA 3.0] Maschera Bobo, Burkina Faso, rappresentante un’antilope [ph. Sailko / CC BY-SA 4.0 International] Maschera Dogon, Mali, rappresentante una lepre [ph. Raccolte Extraeuropee del Castello Sforzesco / CC BY-SA 3.0]

Molte delle tradizioni dell’Africa ancestrale, si sono perse nella morsa di colonizzazione e decolonizzazione, ma grazie soprattutto all’attenzione rivolta alle maschere africane dal movimento cubista, il valore dell’arte subsahariana è stato rivalutato, sebbene talvolta il significato veicolato sia stato travisato in favore dei gusti di un pubblico si acquirenti. Di contro, la tradizione del carnevale europeo è stata assorbita da questi popoli, già dediti ai festeggiamenti in maschera, e non è forse un caso che la patria del Carnevale più famoso al mondo, Rio de Janeiro, sia caratterizzata da una popolazione nata dalla mescolanza storica di indios, europei e africani.

Nel continente africano non si contano i giorni e i colori delle feste di carnevale introdotte dai coloni: il più maestoso è sicuramente quello di Calabar, in Nigeria, caratterizzato da cortei fastosi e culminante nella premiazione della maschera più bella; mentre tra i più duraturi spiccano quelli delle capitali di Angola, Mozambico e Guinea, che per una settimana si riempiono giorno e notte di acrobati, maschere e giocolieri. In Costa d’Avorio, il Popo Carnaval è stato introdotto da reduci dell’esercito francese; quasi tutte le ex colonie portoghesi organizzano sfilate carnevalesche nei giorni di festa del patrono locale; in Sud Africa, a Città del Capo, il Minstrel Carnival, il giorno dopo la festa di Capodanno, rievoca i festeggiamenti degli schiavi, nell’unico giorno di libertà concesso loro dai padroni bianchi.

Danzatrici nigeriane a Calabar, River State, Nigeria. [ph. Akintomiwaao / CC BY-SA 4.0 International]
In copertina: Maschere antropomorfe Edo, Benin State, Nigeria. [ph. Sailko/CC BY-SA 3.0 Unported]

Una Vita di Collezioni. I 25 anni di viaggio di Luciano e Anna Pocar

Quando si entra nella casa di Luciano e Anna Pocar, in un vicolo nascosto di Bergamo Alta, non si sa dove guardare; in ogni angolo ci sono oggetti: lance ancora acuminate, statuette di animali e figure umane, enormi vasi africani, uova di struzzo, strumenti musicali.
I signori Pocar hanno passato 25 anni della loro vita a viaggiare. Ora hanno ottant’anni, non hanno mai posseduto una tv e parlano delle avventure che hanno vissuto con una lucidità e un entusiasmo contagioso.

Luciano è stato professore di matematica alla Statale di Milano; Anna alle scuole superiori. Per molti anni, prima di andare in pensione, si sono mossi in camper alla scoperta dell’Europa. Mi raccontano di quanto fosse bello viaggiare prima del turismo di massa e di quanto i cambiamenti nei luoghi che visitavano fossero rapidi; tra gli esempi, un villaggio di pescatori in Portogallo, con uomini e donne vestiti con costumi tradizionali in cui si erano imbattuti per caso a inizio anni ‘70, tre anni dopo aveva già perso tutta la sua autenticità.

«Il fatto che persone che prima non potevano viaggiare per mancanza di mezzi possano invece ora farlo, è davvero bello – mi dice Luciano – ma mi intristisce molto la perdita di tradizioni e costumi di popolazioni che le hanno conservate per così tanto tempo».

Nel 1984 prendono una decisione che cambierà radicalmente il loro modo di viaggiare: trascorrono, infatti, due settimane in Rwanda, durante il periodo natalizio, per collaborare con un progetto di volontariato. Anna scopre di questo progetto parlando casualmente con un’amica per strada, che suggerisce che c’è sempre bisogno di volontari. In due settimane nel paese non riescono a fare molto, ma decidono che partire per più tempo per fare veramente la differenza è quello di cui hanno bisogno.

Nel 1985 la scelta di recarsi a Riobamba, in Ecuador, dove trascorreranno 5 anni a insegnare matematica a una comunità montana nell’area, situata quasi a 5000 metri di altitudine. «All’inizio era molto difficoltoso capire gli allievi, perché parlavamo poco spagnolo, – raccontano – ma piano piano siamo riusciti a formare più di 80 bambini». Anna ci dice con orgoglio che uno dei loro primi alunni è ora rettore all’università che hanno con pazienza aiutato a creare. Mentre erano lì, hanno viaggiato in lungo e in largo.

Hanno inizio in questo periodo due delle collezioni più rappresentative dei loro viaggi: quella di presepi e statuine votive tradizionali e quella dei ponchos, che Anna ha raccolto in ogni stato del Sudamerica in cui sono stati, nelle pause dall’insegnamento.

Un’altra collezione molto interessante è quella delle fruste tradizionali. Luciano ci racconta che le fruste non venivano effettivamente usate per picchiare qualcuno, ma come status sociale: più erano elaborate e di materiale prezioso, più la persona che la portava è importante.

Una volta tornati dall’Ecuador, Anna e Luciano non hanno alcun desiderio di rimanere a casa. Decidono quindi di intraprendere l’avventura più difficile di tutte: il volontariato in Rwanda, un posto in cui si erano sempre ripromessi di tornare a fare più di quello che avevano fatto; qui. rimarranno per 4 anni.
Il Rwanda è nel pieno di una guerra civile sanguinosa ed è estremamente difficile portare gli aiuti necessari. Il 6 aprile del 1994, quando inizia il genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu, Anna e Luciano si trovano ancora nel paese e sono costretti a scappare, vedendo la morte di persone a loro care e rischiando di rimanere uccisi a loro volta. La scuola che stavano costruendo verrà distrutta; scapperanno e non torneranno in Rwanda mai più. «È stata un’esperienza davvero traumatica, – ci racconta Anna – ma questo non ha fermato il nostro desiderio di continuare a viaggiare».

Torneranno in Sudamerica, andranno in Somalia, vivranno in Madagascar.
Di ogni posto in cui sono stati, hanno aneddoti divertenti, storie toccanti e mille oggetti che descrivono il luogo in cui sono stati meglio di qualsiasi racconto. Gli oggetti più numerosi provengono dall’Africa; di questi, quelli che più mi incuriosiscono sono le mille statuette intagliate in un’impressionante quantità di legni diversi.

Mi raccontano che negli anni novanta, quando tornavano dai loro viaggi e cercavano di raccogliere soldi da donare e impiegare nei loro progetti, era molto più facile trovare persone disposte ad aiutare, anche con cifre sostanziose. Ci dicono che adesso la diffidenza nei confronti delle organizzazioni umanitarie e la crisi economica hanno reso molto difficile trovare persone che si fidino ad affidare dei soldi. «È un peccato, ma capiamo anche che i tempi sono molto cambiati».

Oltre ai viaggi, Luciano è felice di raccontarci di più della sua vita. Suo padre è stato uno dei più grandi germanisti italiani, traducendo per primo le opere di Hesse e Kafka in Italia, per cui Luciano parla perfettamente tedesco sin da bambino. È cresciuto in una casa di studiosi dove la cultura era molto importante. Ha imparato l’arabo, il francese, il cinese, l’inglese e lo spagnolo.
In casa ci sono molti quadri con scritte in arabo e citazioni dal Corano, che mi traduce con entusiasmo.

Oltre alla grande conoscenza teorica, il signor Pocar ha anche una grande manualità e interesse per gli oggetti. Negli ultimi anni la sua più grande passione è costruire meridiane partendo da carta e cartoni, basandosi su teorie diverse circa il calcolo del tempo.

«Ogni volta che passiamo vicino alla famosa meridiana di Città Alta, sotto i portici di Piazza Vecchia, si mette a raccontare alla gente che passa come funziona, e rimaniamo lì per delle ore! – ci dice Anna divertita – Le guide turistiche sono contente quando lo vedono e a volte lasciano a lui l’intera spiegazione».

Uno altro grande hobby di Luciano sono le scienze naturali. Quando arriviamo nel suo laboratorio, totalmente separato dal resto della casa per garantirgli tranquillità e privacy, capiamo quanto tempo abbia passato a studiare e catalogare: animali impagliati, teschi di grandi e piccoli mammiferi trovati qua e là o donati da amici che sanno della sua passione, insetti europei, asiatici e americani, tutti catalogati minuziosamente.

C’è anche una sezione con vari animali in formaldeide: piccoli serpenti, pipistrelli e topi, che tratta una volta trovati già morti.

Con lui scherzo del fatto dovrebbero fare pagare un biglietto d’ingresso: la stanza è talmente ricca di reperti, che non si sa effettivamente più dove guardare.

Passare un pomeriggio con due persone come Luciano e Anna è un toccasana: fa capire che la passione per la cultura e l’impegno per gli altri sono probabilmente ciò che serve per mantenersi giovani, anche a ottant’anni.

Touba, città di fede e resistenza

È già notte inoltrata quando mio nipote Ndiaw mi avvisa che è ora di raccogliere le nostre cose e partire per Touba. Mentre chiudo il libro tra le cui pagine ingannavo l’attesa, lancio un ultimo sguardo alla sagoma di Cheikh Ibrahima Fall, riprodotto in carboncino quasi a grandezza naturale sulla parete della stanza: il suo corpo possente rimane quello di un gigante anche nella ventina di centimetri che il ritrattista ha tolto alla sua altezza, la veste nera di una povertà spiazzante diventa maestosa in virtù della massa muscolare che riveste e la verticalità delle sue pieghe indirizza lo sguardo a posarsi sul volto, capace di esprimere la severa serietà della sua fede e al contempo l’idea di un sorriso.

Cheikh Ibrahima Fall (1855-1930), detto anche Lamp Fall (Lampada della Fede) con il titolo Babul Mouridina (Porta del Mouridismo) per essere stato il primo discepolo di Cheikh Ahmadou Bamba. Strinse con lo Cheikh un Diebelou, un patto che lo rendeva servo del Maestro prescelto, per il qual lavorava incessantemente; il suo esempio ha dato vita al movimento dei Bayefall: essi vivono seguendo le tradizioni precoloniali senegalesi, in comunità dove è bandito l’individualismo e lavorando gratuitamente la terra, dissodando ogni anni ettari di terreno destinati alla coltivazione di miglio e arachidi.

In quelle labbra appena arricciate verso l’alto, in quegli occhi luminosi si legge ancora la vivacità del giovane scapestrato che correva nel villaggio di Ndiaby Fall, approfittando spesso della straordinaria forza dei suoi grandi muscoli per creare un po’ di scompiglio, ma c’è soprattutto la serenità quasi ultraterrena di un uomo che per tutta la vita ha portato avanti una scelta radicale: spogliarsi dei beni della ricca famiglia e farsi servo di un Santo. È forse questa contraddizione tra la ferocia adolescenziale e la mansueta umiltà, che nell’82 lo mise in cammino alla ricerca di Cheikh Ahmadou Bamba Mbacké, a fare di lui la guida prescelta da tanti giovani senegalesi, un modello per chi, ancora pieno di vita, fatica a onorare i ritmi di una religione che chiede la rinuncia a ogni vizio e la costanza di una preghiera quotidianamente scandita.

Persa in queste riflessioni, seguo Ndiaw fuori casa, soffermando lo sguardo sulle innumerevoli riproduzioni di Cheikh Ibrahima Fall e del suo Maestro che decorano i muri delle case, le vetrine dei negozi, persino la carrozzeria dei veicoli per strada; seppure è vero che Dio stesso lo esautorò dalle cinque preghiere del giorno e dal digiuno del Ramadan, anche i mussulmani più tradizionalisti chinano il capo di fronte a quest’uomo, il cui canto sempre votato ad Allah saliva al cielo dai campi dove lavorava senza posa. Sotto una di queste immagini, ci fermiamo dal venditore appisolato tra il tepore che promana dalla grossa pentola di ghisa al suo fianco; i suoi occhi ciechi si schiudono appena il tempo di versare due tazze di caffè touba e sorridere ancora una volta di questa madame bianca che non vuole zucchero a lenire la piccante amarezza della bevanda, mentre con gesti da giocoliere aggiunge dolcificante per Ndiaw, travasando ripetutamente il liquido tra due tazze. Un’ultima sigaretta e saliamo sul bus che ci porterà a Touba.

Diversi oggetti tipici della tradizione senegalese precoloniale sono oggi simbolicamente legate alle figure dei Bayefall. Nella foto, accanto ad alcune immagini iconografiche di Cheikh Ibrahima Fall e Cheikh Ahmadou Bamba, si vedono appesi gli umili monili che spesso si trovano al collo dei Bayefall. I collari in pelle ricordano la scelta di povertà di Cheikh Ibra Fall, che indossava gli stessi abiti fino alla loro totale usura, quando di essi non restava altro che il collo; i colori intrecciati alla pelle nera permettono di identificare la guida spirituale prescelta dal Bayefall che li porta. Sulla destra, due cruss: anziché rispettare le cinque preghiere quotidiane, i Bayefall pregano recitando, anche più volte al giorno, il rosario mussulmano, scorrendo le perle in ebano senegalese.

All’arrivo, a svegliarmi è la mano di Ndiaw che stuzzica il mio viso; il sole ancora non si è fatto strada in cielo e noi ci avviamo, guidati solo dalla fioca luce delle ultime stelle, in direzione della moschea. Abbiamo appena il tempo di toglierci le scarpe e iniziare a godere del fresco sollievo del marmo che corre tutt’attorno all’edificio, quando i primi raggi di luce iniziano a infiltrarsi tra i vetri colorati delle finestre della più grande moschea subsahariana e la voce del muezzin rompe il silenzio della notte. Tra il vibrare del canto di chiamata alla preghiera e l’arcobaleno di luce che si dipinge ai nostri piedi, i nostri cuori ammutoliti trovano raccoglimento e le menti non possono che restare basite di fronte alla magnificenza non solo di questo luogo, ma più ancora della storia sua e del suo fondatore. Touba è simbolo non soltanto di fede, Touba è simbolo di pace e libertà: la sua moschea, inaugurata nel 1963, sorge come coronamento di una vita, quella del suo fondatore Cheikh Ahmadou Bamba, che è sì esempio d’ascetica preghiera, ma anche e soprattutto di resistenza non violenta.

Nato nel 1853 in una famiglia d’illustri mussulmani e consiglieri di MBacké Baol, a soli trent’anni Cheikh Ahmadou Bamba divenne una tra le più ascoltate guide spirituali del Senegal, fondando la Mouridiya, la Via dell’Imitazione del Profeta. Le autorità francesi, impegnate a imporre sulla colonia una nuova forma di dominio basata sull’assimilazione culturale, furono presto intimorite dalla forza predicativa di questo marabutto, che attirava folle di fedeli nella neonata città di Touba, e già nel 1895 ne disposero l’arresto, senza riuscire a piegarne la volontà: fin dal suo primo colloquio con il Governatore di Saint-Luis, infatti, Ahmadou Bamba diede prova del suo rifiuto a sottomettersi, prostrandosi in direzione della Mecca per rivolgere la sua preghiera ad Allah dentro l’ufficio del Governatore stesso. Fu così disposto il suo esilio prima a Mayumba, in Gabon, nella speranza che la malaria portata dalle mosche che infestavano la regione ponesse fine alla sua esistenza, poi sull’isolotto di Wir Wir che veniva sommerso dall’alta marea, ma da cui Cheikh Ahmadou Bamba fece miracolosamente ritorno prima ancora dei suoi trasportatori, approdando sulla spiaggia di Mayumba dove lo aspettava un plotone d’esecuzione, che però rifiuto di colpirlo perché preso dal panico alla vista di angeli che montavano cavalli. Si dispose allora il suo arresto nel carcere Lambaréné, nel nord del Gabon, dove rimase per cinque anni, e poi un nuovo esilio nel 1903 in Mauritania, dove gli stessi che dovevano essere i suoi carcerieri si prostrarono ai suoi piedi e chiesero per lui il rimpatrio. Confinato prima nel villaggio di Thiéyenne e poi a Diourbel, Cheikh Ahmadou Bamba fu riabilitato dalle autorità francesi solo nel 1916, quando il Governo dell’Africa Generale dispose di farlo entrare nella propria orbita d’influenza, offrendogli il titolo di membro del Comitato Consultivo degli Affari Mussulmani; onorificenza che lo Cheikh rifiutò, evitando di presentarsi mai in assemblea. Trascorse i suoi restanti undici anni di vita seguendo l’esempio del Profeta Muhammad e istruendo alla via della Mouridiya, attraverso le numerose trascrizioni di testi richieste ai suoi discepoli, primo tra tutti Cheikh Ibrahima Fall.

Sulle navi dei coloni la preghiera mussulmana era proibita, in vista di una totale sostituzione della fede islamica con quella cristiana all’interno dei territori conquistati. Cheikh Ahmadou Bamba (anche chiamato Khadimou Rassoul, il Servo del Messaggero), imbarcato sul piroscafo Ville de Pernambouc diretto in Gabon, non si oppose alla legge dettata dal comandante: non potendo assolvere al dovere della ṣalāt (la preghiera quotidiana ripetuta cinque volte) sull’imbarcazione, egli stese il tappeto di preghiera direttamente sulle acque dell’oceano.

Cent’anni dopo, il nome di Cheikh Ahmadou Bamba mette ancora in moto centinaia di senegalesi di ogni età, che ogni anno invadono le strade verso Touba per ringraziare Allah d’aver preservato l’Islam dalla forza distruttrice dei coloni; ogni anno le vie attorno alla città si riempiono di auto che procedono a passo d’uomo, motorini che sopportano tre, quattro adolescenti per volta, carretti che sfidano la fisica resistendo alle imperfezioni della strada e piedi che camminano indifferenti a polvere e fatica: è il Magal, la festa del rispetto e della celebrazione della magnificenza di Dio. Noi arriviamo a Touba in un giorno di relativa quiete, eppure qui le occasioni per una preghiera collettiva non mancano mai; tra qualche giorno sarà Tabaski, la più importante festa mussulmana, e i bayefall, i nuovi discepoli di Cheikh Ibrahima Fall, preparano gli animi attraverso il Magal Darou Salam, la festa Portatrice di Pace. Arriviamo in centro a Touba guidati dal profumo di carni che bruciano sui grandi falò di ebano, misto all’aroma dell’immancabile caffè, e trascorsi pochi minuti, ci raggiunge anche il suono dei primi sabar ad annunciare l’arrivo del taalibé che sarà a Touba quest’anno; ci alziamo in fretta per non essere travolti dalla folla danzante al ritmo dei tamburi, che si mescolano al tintinnare delle monete gettate in offerta nelle grandi calebasse che gli uomini agitano tra le mani, mentre giovani bayefall mostrano la forza e la tenacia della loro fede fustigando i muscoli scuri con mazze di legno pesante e affilate sciabole, la cui lama non oltrepassa mai l’invincibile pelle del fedele.

Mentre lo sguardo si perde, tra l’aleggiare di questi tessuti rattoppati con stoffe colorate, in memoria della scelta di povertà portata avanti dai due Sceicchi di Touba, l’animo inizia a distendersi nell’attesa d’ascoltare le preghiere che il califfo reciterà e si lascia trasportare dalle parole del canto di ringraziamento che i bayefall innalzano al cielo: « La ilaha illa Allah! Djeredjeuf Mame Bamba! Djarama Cheikh Ibra Fall! (Non c’è divinità se non Dio! Grazie Ahmadou Bamba! Grazie Ibrahima Fall!)».

Oltre ai cruss e alle immagini iconoclastiche, caratteristiche tipiche dell’aspetto dei Bayefall sono i capelli che liberamente prendono forma di dreadlocks, in memoria della scelta di Cheikh Ibra Fall di non tagliare i propri capelli se non quando Cheikh Ahmadou Bamba glielo avesse chiesto, e gli abiti ndiakhaas, vestiti composti da toppe (99 più una, come i nomi di Dio) e costituiti solitamente da due pezzi: i larghi pantaloni thiaya e la lunga tunica stretta da un alta cintura (zikar). Diverse sono le occasioni che spingono i Bayefall a incontrarsi in raduni più o meno numerosi; tra le attività principali di queste occasioni, vi sono la raccolta di offerte, poi devolute ai Califfi, e il canto: in gruppo e battendo il tempo con i piedi, spesso nudi, intonano gli zikar, canti della tradizione wolof, caratterizzati dalla ripetizione del nome di Dio e di ringraziamenti a Lui rivolti. [ph. Grazia De Laurentis /tutti i diritti riservati]
In copertina: Moschea di Touba (Fonte: Franco Visintainer/CCBY3.0)

Musica di conchiglie e desideri da ostrica sulla Petit Côte

Arriviamo a Mbur sul far della sera, macinati chilometri di asfalto impolverato di terra rossa a bordo di una station wagon da 10 posti, caricata di valigie e umani raccolti in una stazione autobus ai bordi di Dakar. Tra questi umani, Hamadou ed io, in cerca di una pausa dal caos della capitale nelle oasi della Petit Côte, che da Dakar si allunga fino ai confini con il Gambia, ci accoccoliamo nei posti più stretti sul fondo dell’auto, dove è possibile sonnecchiare tenendo un occhio sui bagagli, che a ogni cambio di passeggeri per cui più volte interrompiamo il viaggio, rischiano di esser dimenticati in strada o consegnati alla persona sbagliata.

Ci fermiamo in un parcheggio autobus non molto diverso da quello di partenza, senza un’idea precisa su dove alloggeremo: un amico di Hamadou lavora in città e accoglie il nostro arrivo con una naturalezza, che contrasta lo stupore sul suo viso, ma conferma le nostre speranze ben riposte. Veniamo guidati in vicoli stretti, i cui residenti si affacciano a osservare i nuovi arrivati dalla pelle così chiara, fino a sbucare su una via leggermente più ampia, dove sta la casa del nostro ospite, in tutto simile a quelle che l’affiancano. All’interno, molte stanze abitate da senegalesi sorridenti e gentili, che qualche giorno dopo copriranno le mie braccia di braccialetti come souvenir; docce ampie rinfrescanti e l’afa del giorno che qui non sembra trovare riposo. Salendo le scale, troviamo la pace per cui abbiamo lasciato Dakar: il tetto è un ampio terrazzo, coperto da una volta di stelle che solo il buio e il silenzio di certe notti africane riescono a far risplendere. Chiediamo di poter dormire qui e il nostro ospite, tra lo stupito e il divertito, allestisce per noi una stanza all’aperto.

Pochi minuti dopo l’alba a Mbur, Senegal
Saly, nella regione di Thiès, sulla Petit Côte del Senegal

Il nostro idillio d’oscurità e quiete è presto infranto dalla prima chiamata alla preghiera del muezzin, diffusa da un altoparlante sul tetto della moschea non molto distante da noi, che ci avverte dell’imminente arrivo dei primi raggi di sole, che presto si abbattono sulle nostre palpebre ancora semi chiuse. Ne approfittiamo per avviarci presto verso sud, lungo la costa oceanica di Saly, che è un susseguirsi di spiagge di granelli finissimi, su cui si affacciano resort massicci ed eleganti, dove scoviamo caffè italiano con cui far colazione. Prima che il sole sia troppo alto, cerchiamo un taxi e in meno di un’ora ci troviamo all’ingresso di un’oasi unica: Joal Fadiouth, l’isola creata dall’etnia serere, allontanata dalle sue terre forse dai berberi Almoravidi, forse dall’invasione da parte dell’Impero Kaabu.

Per accedere, è necessario acquistare un lasciapassare, che permette la traversata sull’ampio ponte di legno che collega l’isola alla terraferma e offre, incluso nel prezzo, la compagnia di una guida locale; a tale scopo, ci viene chiesto da dove veniamo, perché qui a Joal per qualsiasi lingua parlata, c’è un residente capace di esprimervisi. La difficoltà di descrivere il paesaggio che si mostra dai corrimani del ponte, sta nella sintesi perfetta già raccolta nel soprannome di Isola delle Conchiglie, attribuito a Joal: tutto ciò che la vista coglie è “conchiglia” nella sua essenza, dagli edifici costruiti impastando gusci di mollusco tritati, conservati a tale scopo in mucchi agli angoli delle strade, fino alle strade stesse; l’intera superficie dell’isola è infatti creata artificialmente accumulando da secoli conchiglie diligentemente svuotate e conservate. La nostra guida ci spiega che è questo uno dei motivi del lasciapassare, che permette un monitoraggio del numero di persone presenti sull’isola, evitandone l’affossarsi per sovraffollamento. Altrettanto importante è ovviamente l’aspetto economico, essendo il turismo una delle maggiori risorse di Joal, ma anche da questo punto di vista, la conchiglia rappresenta il cardine di questa comunità: accanto alla pesca, infatti, la raccolta dei molluschi, oltre a rappresentare la base dell’alimentazione, è il baluardo del commercio culinario.

Il ponte da cui si accede all’isola di Joal-Fadiouth
Joal-Fadiouth, l’Isola delle Conchiglie, nella regione di Thiès, Senegal

Se un’immagine fotografica può riuscire a trasmettere un’idea del candore che il riflesso del sole attribuisce al bianco dell’isola, solo passeggiando per le sue vie è possibile godere della melodia prodotta dallo scricchiolio dei gusci sotto i propri passi, al ritmo dei propri passi. È forse questo suono che arriva direttamente dal terreno che spinge a parlare abbassando un po’ la voce, spostandosi in una dimensione più raccolta e quasi fiabesca; assaporata e fatta propria questa nuova dimensione, si è nello spirito adatto a cogliere la poetica vista del cimitero di Joal.

Disposto su una seconda isola, di dimensioni più ridotte e collegata alla prima da un ponte più stretto, il cimitero è reso unico dal fatto di essere a religione mista: i ¾ della sua superficie sono come ammantate da un susseguirsi di croci bianche identiche tra loro, difficili da guardare nelle ore più calde, quando lo sguardo preferisce spostarsi sulle nere lapidi musulmane, tutte rivolte verso la Mecca, cui è destinata la restante parte del cimitero. Questa piccola isola, racchiusa in un paese musulmano, al cui primo presidente Sédar Senghor ha dato i natali, ha una popolazione al 90% cristiana, un’eccezione originata dalla penetrazione missionaria del XXVII secolo. È questo anche il motivo per cui, nelle ore di bassa marea, maiali allevati dai residenti cristiani sono lasciati sfamarsi del pattume organico lasciato per loro sulle coste.

Ponte che collega l’isola principale di Joal-Fadiouth all’isola minore che funge da cimitero
Croci cristiane nel Cimitero di Joal

Lasciata l’incredibile poesia dei paesaggi di Joal Fadiouth, sappiamo che solo la natura delle oasi più a sud può eguagliare la bellezza impressa nelle nostre iridi; nostra nuova meta è il Sine-Saloum, regione a nord del Gambia che prende il nome dal corso di fiume che la attraversa e che crea in prossimità dei suoi confini occidentali un labirinto di oltre 200 isole. Anche qui il nostro ingresso è vincolato a una guida locale, che trascina la mia mente in un volo pindarico tra mitologia greca e poetica dantesca: accogliendoci sulla sua piroga, infatti, il nostro traghettatore ci trasporta tra corsi del delta del Saloum, in cui si gettano le radici delle mangrovie, a fungere d’appiglio per le larve di ostrica. Appena cresce il guscio, ostricoltori locali spostano i giovani molluschi negli allevamenti, protetti degli europei golosi che ne hanno quasi provocato l’estinzione.

Cullati dall’acqua e rapiti alla vista degli stormi variopinti che vediamo muoversi sopra le nostre teste e poi adagiarsi sui vegetali che affiorano in superficie, Hamadou ed io quasi non ci accorgiamo che la piroga ha accostato alle mangrovie e il traghettatore ci sta invitando a scendere: siamo arrivati nel cuore magico di quest’angolo di Senegal, dove si nasconde un baobab che finge di essere una mangrovia. Come indicatoci, avvicinandoci scegliamo un guscio d’ostrica cui sussurrare un desiderio; un desiderio da lasciare qui, sui rami di questo baobab alto forse mezzo metro, nella speranza che le sue radici profonde possano farlo arrivare lontano.

Stormi d’uccelli nel Parco Nazionale del delta del Saloum, Senegal
Baobab, ricoperto di gusci d’ostrica, che si nasconde tra le mangrovie del delta del Saloum, Senegal

I messaggi nascosti nei colori dei tessuti africani

Sbarcare sul continente africano significa anzitutto lasciarsi avvolgere da un tripudio di stimolazioni sensoriali: primo solleticato è l’olfatto, invaso di un’aria pregna di spezie, gas di scarico, incensi e sudore umano misto a profumi dolci; segue l’udito, come martellato da un accavallarsi di idiomi diversi, di suoni nuovi pronunciati da labbra carnose; infine la vista, che s’apre su orizzonti privi di confini, ma ricolmi di colori che il sole caldo accende in tonalità sempre più vivaci.

Quei colori restano impressi nelle iridi, grazie alle movenze sinuose che le donne africane nascondono tra le fantasie dei loro pagne e ai gesti ampi delle braccia con cui gli uomini agitano il boubou, sullo sfondo di un cielo d’una limpidezza unica, che incontra una terra asciutta e ramata.

Inevitabile è innamorarsi del wax (o ankara), tessuto per antonomasia attribuito dagli europei alla popolazione africana, che nasconde una storia molto più complessa: le sue origini risalgono infatti all’isola di Java, in Indonesia, dove nell’Ottocento i coloni olandesi inviarono un esercito composto in maggioranza di guerrieri ghanesi; affascinati dalla tecnica a noi nota come batik, tipica delle regioni indonesiane e consistente nel ricoprire di cera (wax, appunto, in olandese) le parti di tessuto che di volta in volta si sceglie di non tingere, i soldati la importarono in patria, dove ben si adattava all’uso che le popolazioni africane facevano degli indumenti. Un abito in wax non è infatti solo una copertura del corpo, ma un messaggio che chi lo indossa sceglie di trasmettere; ogni colore ricalca uno stato d’animo, che abbinato alle forme di volta in volta impresse sulla stoffa, comunica un contenuto specifico: così, ad esempio, un abito molto colorato con motivi a spighe di mais può simboleggiare ricchezza e abbondanza oppure le difficoltà della vita matrimoniale; il motivo della chioccia coi pulcini sottolinea il ruolo della madre nella coesione domestica; gli uccelli in volo sono invece di buon auspicio per chi si mette in viaggio. Nella loro capacità comunicativa risiede il successo di queste stoffe, diffuse in tutto il continente africano, spesso con varianti locali nelle tecniche di tintura: in Sud Africa, ad esempio, è popolare lo shweshwe, tessuto di cotone stampato a rullo; sulla costa orientale gli abiti tradizionali (kanga o kitenge), composti da due drappi di stoffa quadrata, sono spesso in bark, un tipo di tessuto stampato in cui sono inserite frasi e aforismi, per lo più in lingua swahili; dall’altra parte del continente, in Benin, è invece possibile ammirare l’abomey apliqué, una tecnica che permette stampe floreali e faunistiche in colori sgargianti.

Esempi di wax o ankara

Ben prima dell’invasione coloniale, si attestano nell’Africa subsahariana tecniche di confezionamento dei tessuti, che prevedevano l’imprimitura del colore tramite immersione nei pigmenti colorati, previa la copertura delle parti che si voleva lasciare intonse. A spopolare sono i toni del blu e dell’azzurro, che prendono forma nei cosiddetti indigo clothes, diffusi soprattutto negli stati centrali; due etnie, dislocate per lo più in Nigeria, spiccano nella produzione di questi tessuti: gli Igbo realizzano gli ukara, stoffe decorate con simboli rituali detti nsibidi; gli Yoruba applicano invece una tecnica simile al wax per ottenere i tessuti adire, in cotone o raffia con stampe geometriche. Forme simili e simili simbologie si ripetono in numerosissime stoffe della tradizione africana più ancestrale; in tutto il continente, infatti, materiali economici e resistenti come la canapa o la raffia, sono intrecciati e tinti con terra e argilla, per realizzare arazzi e vestiti pesanti vivacizzati dal variegato sfumare di marroni, dal nero ebano all’ocra sabbioso, passando per il rosso ramato.

Maestri indiscussi di questa tecnica di tintura sono i membri dell’etnia Bakuba, discendenti di un antichissimo impero dell’ Africa centrale, nell’attuale Congo; le donne di questo popolo producono i tessuti kuba, decorati con forme geometriche ripetute, spesso non progettate, ma spezzate da variazioni sul tema date dall’ispirazione del momento. La personalizzazione dei tessuti è fondamentale tanto per chi li indossa quanto per il produttore, ma la maggior parte dei segni impressi su stoffa ha un significato simbolico decodificabile in gran parte del continente; per questo motivo tanto i colori, quanto le texture di alcuni indumenti si ritrovano pressoché invariati in stati tra loro molto distanti. Simile nell’aspetto, nei materiali e nei disegni delle stoffe kuba, è ad esempio il bogolan (letteralmente: “vestito di terra”) prodotto dall’etnia Bambara, insediata sulla costa occidentale e originaria del Mali; a sud, in Botswana, si possono invece ammirare i tessuti mashamba stampati dalle donne WaYeyi, discendenti dell’etnia Bantu.

Una donna vestita con uno shuka maasai mostra un kanga dal Kenya, recante la scritta in swahili “Mama ni malkia hakuna atakae mfikia”, letteralmente “La mamma è una regina che nessuno può eguagliare”

 

Altrettanto antica in Africa è la tradizione della tessitura, come attestato dai reperti trovati in tutto il continente; interessante è il preservarsi di alcune tecniche di tornitura e intreccio nel corso di secoli e imperi: il tessuto kente, ad esempio, è prodotto dall’etnia Akan almeno dai tempi dell’impero Ashanti e della sua sostituzione all’impero del Ghana, caduto nel 1200. Il kente si ottiene dall’intreccio simmetrico di fili di cotone, le cui colorazioni vivaci ancora una volta trasmettono un messaggio o un augurio: il marrone, colore della terra, simboleggia ad esempio la salute; il giallo regale richiama fertilità e bellezza; il blu è segno di pace e armonia. La tecnica degli Akan è stata assimilata anche nei paesi limitrofi a quelli di insediamento dell’etnia, in cui si trovano tessuti in tutto somiglianti al kente: molto diffusi sono djerma e hausa, prodotti in Niger; gli Yoruba della Nigeria lavorano la stoffa aso oke; mentre in Mali l’etnia Fulani produce i khasa blankets, in cui i fili colorati sono sovrapposti a una base bianca, e i monocromatici dogon.

Simili a quest’ultimi sono i filati etiopi, tra cui spiccano gabior gabi, tessuto pesante usato per abiti e coperte, e natella, una stoffa leggera simile alla garza, decorata con bordi colorati. Sulla stessa costa, tra gli altopiani di Kenya e Tanzania, il popolo Maasai ha ereditato dai soldati inglesi la tradizione di avvolgersi nei kilt, coperte in cotone rosso, blu e nero, che qui sono filati e tessuti artigianalmente e prendono il nome di shuka.
Nel profondo sud del continente africano, infine, i discendenti dell’etnia Bantu ancora cardano le fibre dei baobab e le intrecciano nei tessuti gudza, diffusi soprattutto in Zimbabwe; mentre nel vicino Oodi Village, in Botswana, l’abilità artigianale delle donne sul telaio è tale che sulle loro stoffe è possibile ammirare splendidi ricami, lavorati direttamente nella trama del tessuto.

A sinistra sullo sfondo: un bogolan dal Mali; al centro e in basso a destra: due filati senegalesi; in alto a destra: una natella dall’Etiopia

Nei mercati di Dakar tra ebano senegalese e bijiouterie

A restarmi impressa dal mio primo viaggio a Dakar, c’è un’osservazione che trova conferma a ogni ritorno in città, quasi a rassicurarmi che a ogni rientro ritroverò sempre la stessa umanità accogliente: qui sembra che tutto avvenga in strada, alla luce del sole.
Il pensiero mi ha sopraffatta alla prima delle passeggiate chilometriche che riempiono i miei giorni senegalesi, una volta riuscita a sbucare dal fitto intrico creato dalle bancarelle del Marché HLM e avviatami in Boulevard du General de Gaulle, su cui si affaccia Place de l’Obelisque e che sbuca nei pressi della Grande Moschea, attraversando longitudinalmente il centro della capitale.
Lungo tutta l’estensione del viale, di per sé ampio, i marciapiedi sono ingombri delle più svariate attività: dallo sfrigolare della carne d’agnello dalle macellerie dove sta appesa, ai pianti delle bambine sedute a farsi intrecciare i capelli dalle abili dita delle coiffures; dai beni come straripati dalle stipatissime boutique, agli pneumatici di ricambio dei meccanici. A colpire il mio sguardo furono soprattutto i mobili d’arredo, venduti anch’essi ai margini delle strade, adagiati sulla nuda terra dei marciapiedi; a calamitarmi fu la vista del lavoro, svolto alle spalle del mobilio già finito: i falegnami trasportano, infatti, grandi pezzi di legno dalle forme già abbozzate direttamente in centro città, dove le intagliano e piallano secondo le richieste degli acquirenti, che personalizzano così forme e colori dell’arredo di casa.
Ai miei occhi europei, la possibilità di avere un mobilio su misura sembra uno straordinario lusso, ma qui anche nella più umile delle case è possibile trovare un letto o un divano intagliato a mano, mentre alle tipiche sedie africane, diventate un must nell’arredo etnochic, è riservato lo stesso trattamento destinato in Europa alle sedie pieghevoli: usate in spiaggia, nei cortili o come sedute di scorta, rappresentano infatti il mobilio povero del paese.

Il legno, usato in Senegal fino ai giorni nostri nella costruzione di strutture che richiamano le forme delle capanne tradizionali, destinate principalmente alle adunanze collettive o a soddisfare le aspettative dei turisti, è una delle risorse di cui il paese è più ricco. Moltissimi oggetti, anche di uso quotidiano, sono tutt’oggi fabbricati in questo materiale: oltre a sedie e sgabelli, numerosissimi sono gli utensili da cucina tradizionali, come mortai e pestelli rigorosamente in legno, o le immancabili calebasses, ciotole ottenute dalle zucche svuotate.
Accanto alle elastiche palme bentamaré e al resistente bambù, alle acacie resinose e agli antichi baobab, cresce qui il granatiglio nero, l’ebano senegalese, in cui al tipico colore nero si intrecciano fibre che vanno dal bianco al rosso. Impiegato principalmente a scopi estetici, è il materiale più diffuso sulle bancarelle destinate ai turisti: nel Village Artisanal Soumbédioune, affacciato sull’oceano, è ad esempio possibile ammirare l’arte d’immaginare maschere variopinte e imprimerne le espressioni nel materiale legnoso, conservatasi dalla tradizione animista e trasposta in oggetti moderni. Statue e gioielli, scatole e oggetti d’uso sono intagliati, lucidati e laccati da gesti rapidi, nascosti tra le capanne chiuse nel cuore del mercato, dove il legno entra grezzamente ricamato di venature policrome ed esce con forme lisce ben definite.

Sono gli stessi artigiani/artisti di Soumbédioune a raccontarmi che i loro lavori d’intaglio più ispirati sono riservati a una categoria di oggetti che di moderno ha poco, se non la capacità di reiterare nel tempo il richiamo dei ritmi che risuonano nelle terre d’Africa: le loro cure più attente sono dedicate agli strumenti musicali tradizionali, la cui vibrazione si muove a tutte le ore nel vento di Dakar. Accanto a una batteria di percussioni difficili da distinguere per occhi e orecchi inesperti (ad esempio: sabar, neunde, tama, thiol), la musica tradizionale senegalese, tra cui spicca l’intramontabile mbalakh, è caratterizzata dalle armonie di kora (arpa a 21 corde) e balafon (xilofono con lamine di legno ricoperte di cuoio), entrambi ricavati dalle calebasses.
Perché questi strumenti della tradizione possano emettere il suono della loro vibrazione, è necessario che al lavoro degli intagliatori si accosti l’opera di un’altra categoria di artigiani, altrettanto versatile e intramontabile: quella dei lavoratori del cuoio, la cui maestria fa mostra di sé fin dall’esalazione dell’animale, spesso un montone ucciso reiterando i gesti di Abramo all’atto di sacrificare il figlio, da scuoiarsi prima che la pelle si raffreddi indurendosi. Quasi in un unico gesto, lo scuoiatore recide il capo dal corpo, apre il ventre, taglia i tendini e separa lo spesso strato cutaneo dai muscoli fibrosi, stendendolo ad asciugare al sole. La produzione ricavata dalla lavorazione delle pelli non è diversa da quella di qualsiasi conceria: oltre agli strumenti musicali, borse e calzari, selle e finimenti.

Tra i compiti dei conciatori, vi è anche quello di predisporre la pelle a un uso squisitamente africano, che ha radici nella tradizione vudù: moltissimi senegalesi indossano, infatti, i gri-gri, ossia amuleti costituiti da buste di piccole dimensioni, braccialetti o cinture rivestiti di cuoio, da tenere a contatto con la pelle per godere della loro protezione. Recentemente, l’abilità artigiana di lavorare il cuoio in gioielli e monili è stata applicata anche a ornamenti privi di poteri esoterici e alternata all’uso di stoffe colorate che imprimano uno stile esotico.
Come per l’arte povera in legno, gli acquirenti prediletti per questi monili, venduti sui banchi dei mercati artigianali da Sandaga a Colobane, sono senegalesi nostalgici migrati all’estero e, soprattutto, turisti stranieri; i senegalesi, infatti, pur possedendo spesso di questi manufatti, scambiati come beni di poco valore, prediligono gioielli in metallo a ornare le loro pelli scure. Enormi orecchini dorati, pesanti bracciali laccati, collane di perle intrecciate con rame e argento, da cingere al collo e alla vita, straripano dalle boutique dei mercati meno turistici come Ouakam, Parcelles Assainies e HLM. Tra una bancarella e l’altra di bijiouterie scadente, si affacciano le piccole botteghe artigianali che lavorano i metalli di valore, cui la popolazione locale commissiona gioielli, spesso dotati degli stessi poteri mistici dei gri-gri. Caratteristici sono i bracciali d’argento incisi con il nome del portatore o gli anelli molto alti, finalizzati a contenere piccole inscrizioni; tradizionalmente destinati agli uomini, spesso servono a proteggere chi si mette in viaggio e ad assicurarsi che torni a casa.

Chinese investments in Africa in the 2000s: a new colonialism?

During the last Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC), held in 2015 in Johannesburg, the Chinese President Xi Jinping pledged to provide a $60 billion funding for development projects in Africa over the following three years. The announcement was not unexpected. Since the FOCAC process began in 2000, with a summit held every three years, Chinese leaders have been constantly increasing the amount of loans and financial aid offered to African countries. According to figures cited at the Wharton Africa Business Forum held in autumn 2015, China’s investment in the continent has skyrocketed in recent years, increasing from $7 billion in 2008 to $26 billion in 2013. Xi claims that China aims to build a win-win relationship with Africa, by developing infrastructure, improving agriculture and reducing poverty in the continent.

The relationship is, however, fraught with controversy. Some accuse China of behaving like a neo-colonialist power, financing African infrastructure projects only to extract natural resources such as oil, iron, copper and zinc from the continent. If access to natural resources is undoubtedly a significant advantage for Chinese companies, which have been in some cases as exploitative as Western powers before them, this is far from being the whole story. According to a 2015 paper written by Chen Wenjie, an economist in the African Department of the International Monetary Fund (IMF), in collaboration with other researchers, the top 20 African nations China does business with include not only those notoriously rich in raw materials – such as Nigeria and South Africa – but also Ethiopia, Kenya and Uganda, all commodity-poor nations. Despite constituting only a small part of Chinese investments in Africa, the deals that do involve infrastructure projects and natural resources tend to be large and widely publicised, hitting the headlines and creating fertile ground for accusations of exploitative behaviour. Contrary to common perceptions, most Chinese projects in the continent are centred on services in the areas of business, import-export, retail, restaurants and hotels. Aside from the government-led, natural-resources-based big investments, most Chinese endeavours in Africa are more modest, and carried out by small or medium-sized private firms whose activities have nothing to do with commodities. For example, in the case of Ethiopia, the relationship between countries has been built on trade, investments in infrastructure and manufacturing.

Factory workers producing shirts for overseas clients, in Accra, Ghana (World Bank Photo Collection, Flickr) / License CC BY-NC-ND 2.0

In many cases, Chinese companies have contributed to local development in Africa. If it’s true that in the early 2000s firms employed a high number of Chinese nationals, now the vast majority of their employees are local inhabitants. One of the main reasons Chinese companies invest in Africa is in fact that, with rising labour costs in China, African labour markets are more affordable for investors. Besides, most contracts currently require a minimum number of African workers to be employed in each project. Some companies have also made very large investments in employee-training: the most notorious example is that of the Chinese telecommunication firm Huawei, which in the early 2000s established a training school in Nigeria which helped develop the skills of a great number of local engineers.

There are therefore many myths surrounding Chinese engagement in Africa that both the Western press and politicians are playing a big role into spreading. This, however, doesn’t mean that the relationship between Africa and China is a bed of roses. Many experts point out that, although China’s involvement with Africa has largely been beneficial to the continent, the economies of some of its countries have become too dependent on the Asian power. Instead of taking advantage of the situation by attempting to set up their own industry and move to an early industrial phase, they keep relying on the extraction of raw materials to be exported to China: this is for example the case with copper in Zambia. This dependency makes African economies extremely vulnerable, in particular now that China’s growth has remarkably slowed down. Conversely, other countries, such as Ethiopia, Ghana and Rwanda, have set off in the right direction and made big efforts to build an industrial base.

Construction workers. South Africa. (Trevor Samson, World Bank Photo Collection, Flickr) / License CC BY-NC-ND 2.0

What’s more, African countries aren’t the only ones struggling in the relationship: there is in fact growing evidence that some of the Chinese firms leaping into Africa have had to deal with the same problems previously faced by Western investors. Chinese firms often expect that business in Africa will work in the same way it does in their own country: a company makes arrangements with the local government and the government delivers. Once they get to their target country, however, they realise that governmental promises to build infrastructure, provide power or supply land are not as reliable as they thought. The land may turn out to be used by local people who have farmed it for generations and local politicians do not always feel bound to respect deals struck by national authorities.

This is part of the reason why many of the much advertised big Chinese governmental projects in Africa have never become a reality: this was the case of the Lake Victoria Free Trade Zone Eco-city project. In 2008, a Beijing-backed partnership between a large Chinese firm and Ugandan investors announced the building of a 500 square kilometres eco-city in one of the poorest areas of Uganda. The project, which involved a solar-powered airport, was never built (which is incidentally a frequent outcome for most eco-city projects in China too).

Chinese involvement in Africa is much more complex than a resource-exploiting colonialist-like behaviour and in most cases has made a real difference in the development of African countries. Yet, there are still many problems to be solved and the slowing pace of China’s growth raises doubts on the future of the relationship. It’s up to both African countries and China to dissipate these doubts and enable their cooperation to evolve for their mutual benefit.

Cover Image: President Jacob Zuma, Chinese President Xi Jinping and Zimbabwean President Robert Mugabe cut the ribbon to mark the opening of the Johannesburg Summit of the Forum on China -Africa Cooperation (FOCAC), 4 Dec 2015. (GovernmenZA, Flickr). / License CC BY-ND 2.0

L’isola degli schiavi e delle bouganville, Gorée

Ripescando tra i ricordi le immagini di Dakar impresse nella memoria, tra la frenesia di motori e clacson, la confusione dei venditori in strada, l’incanalarsi stretto delle vie dei quartieri di quest’enorme capitale, si aprono fotografie di oasi pacifiche colorate in modo acceso e vivace, profumate di fiori e brezza marina, rallegrate dai suoni della natura e di musicisti muniti di strumenti tradizionali: sono le isole di Ngor e Gorée, piccole perle ornate di bellezze floreali, custodite nel ventre dell’oceano e disvelate all’uomo come un dono.

Passare a Gorée a ogni rientro in Senegal è ormai come un rituale, che garantisce all’animo una scorta di serenità da riportare con sé in Europa. A ogni rientro in Senegal, prendo la strada per il porto e qui, a pochi metri dal mare e dal traghetto dove alle mie origini verrà dato un valore monetario (5000 cfa per gli occidentali, qualcosa meno i cittadini africani, solo qualche moneta per i residenti locali), mi sento ancora una volta sotto accusa e poi assolta. Mi fermo di fronte alla statua dei soldati che si abbracciano, francese uno e senegalese l’altro, uniti nel trionfo della fine della Seconda Guerra Mondiale. Mi fermo pensando a quanti “grazie” abbiamo scordato di dire a questa terra, troppo poco citata nei libri di storia, ma finisco sempre con il sentirmi irrisa dalla stazione che sovrasta il piccolo memoriale, che a fine ‘800 mi avrebbe portata a Saint-Louis, dall’altra parte del paese, e invece ora crolla pigramente, mentre decine e decine di tassisti riempiono di pessimi gas di scarico il cielo sopra il Senegal. Qui come nel resto del mondo, la tecnologia avanza e la modernità soppianta le scoperte del passato, lasciandosi il vecchio alle spalle e valutando in ritardo le conseguenze.

Il porto è stipato di vecchi cimeli che a ogni onda piangono in cigolii gli anni trascorsi in acqua, mangiati da ruggine e salsedine, assemblati in continue nuove forme, inesorabilmente galleggianti. Tra loro si fa strada il traghetto carico di varietà umane e di merci nostrane: la mattina forme femminili avvolte in pagne colorati affollano di chiacchiere e pettegolezzi il ponte; negli orari di punta, le voci allegre e giovani degli studenti dell’istituto Mariama Bâ, titolato a una delle più importanti scrittrici e femministe senegalesi, riempiono la brezza che arriva dal mare di scherzi e lezioni; nei periodi turistici, aumenta il numero di africani non senegalesi sull’isola, discendenti degli schiavi deportati tra il XVI e il XIX secolo, che come in pellegrinaggio vanno a visitare l’Isola di Gorée, l’Isola degli Schiavi.

I residenti locali cercano in ogni modo di distrarre le menti dei turisti, attraverso i cas-cas agitati a produrre un piacevole ritmo e le perline intrecciate in collane uniche, tentando di eludere i sorveglianti che vorrebbero garantire un viaggio senza il petulante chiedere che è una delle caratteristiche del folklore di questo paese. Non meno accogliente è l’approdo, quando Gorée si avvicina in un progressivo definirsi dei contorni di quell’esplosione di colori vivaci che la pitturano: dalle facciate pastello decorate di balconate delle ville coloniali, alle piroghe spennellate artigianalmente di scritte augurali e forme geometriche; dai giardini verso cui incanalano viali straripanti buganvillee rigogliose, ai tessuti e i quadri esposti dagli artisti del mercato artigianale Le Castel; ogni forma colorata e l’accostarsi dei diversi toni formano un insieme genuinamente gioioso.

Quest’isola così piccola e oggi così vivacemente accogliente, è stata per secoli teatro di incredibili orrori, uno tra i più importanti luoghi della più grave diaspora della storia umana, che ha qui lasciato tracce attraverso cui gli africani preservano oggi memoria storica di ciò che hanno subito. Scoperta dai portoghesi nel ‘400, passata ai Paesi Bassi che nel XVI secolo le attribuirono il nome Good Reede (“buon viaggio”; poi traslitterato in Gorée), divenne sotto il dominio francese un importante porto da cui partivano le navi dirette in America. A pochi metri dalla spiaggia che è oggi il punto di attracco dell’isola, nascosta tra fiori e abitazioni affacciate su ampi sterrati interni, la porta della Casa degli Schiavi apre su un cortile non troppo largo in cui impera una scalinata doppia di forma ogivale, che monopolizza lo sguardo, distraendo dalle piccole porte grezze che intervallano i massicci muri rosso intenso dell’edificio. La pelle ebano delle guide che gestiscono il museo oggi nella casa, si illumina dei sorrisi che aprono chiedendo quale lingua sia la prediletta per ascoltare i racconti delle atroci realtà di quella casa. Al piano superiore, dove un tempo gli schiavisti si affacciavano per godere della vista tanto della distesa oceanica, quanto degli schiavi in partenza, illustrazioni di dame imbellettate, che passeggiano con africani al guinzaglio o al seguito agitando ventagli e reggendo ombrelli, fanno da sfondo alle catene, le armi, gli strumenti di tortura conservatisi nel tempo.

Non si conta il numero di africani costretti nel corso di ben quattro secoli di schiavismo a respirare entro le possibilità di collari minuti, a camminare nello spazio concesso da pesanti cavigliere ferrose, a mangiare all’ingrasso rinchiusi dentro casse di legno, pur di non perdere il guadagno di una merce, persa per digiuno volontario. Non si conta nemmeno il numero di africani passati per il piano inferiore della Casa degli Schiavi, costruita negli anni 80 del ‘700 e rimasta in uso fino al 1848, i cui spazi erano organizzati per una comoda suddivisione dei beni da trasportare: dietro le porte affacciate al cortile, in stanze dalle dimensioni inspiegabilmente ridotte venivano stipate quantità inverosimili di esseri umani, distinti tra donne, uomini e bambini. Un’unica porta si affaccia su una vista che toglie il respiro: è la porta per l’inferno, che non può essere attraversata perché si affaccia su un fossato a strapiombo; unico modo per valicarlo è il pontile della nave negriera che attracca direttamente alla porta, senza lasciare il tempo nemmeno per un ultimo pensiero, un ultimo sguardo, un ultimo destino.

«Dem amoul dik. Andata senza ritorno.» mi sussurrano all’orecchio la prima volta che mi affaccio, l’orizzonte aperto al mio sguardo a suggerire che proprio lì finisca il mondo. Invece il mondo non finisce, l’orizzonte non si conclude e dall’Africa c’è ancora chi parte senza che lo sguardo raggiunga la meta, senza che sia concesso un ultimo respiro, talvolta senza ritorno.

Kunta Kinte l’eroe della multiculturalità

Fin dai suoi esordi, nel 1976, Roots, Radici, l’opera in cui l’afroamericano Alex Haley ha trasposto la storia di un ramo del proprio albero genealogico, ha riscosso un indiscutibile successo di pubblico.

Cadeva il bicentenario degli Stati Uniti d’America e il presidente Gerald Ford riconosceva l’estensione della negro history week a black history month, dedicando così il mese di Febbraio alla memoria della diaspora africana, ma soprattutto inserendo nelle scuole con studenti a maggioranza afroamericana lo studio della storia africana. Qualche mese dopo, successore di Ford era eletto Jimmy Carter, primo governatore originario del sud dopo la Guerra Civile, poi Nobel per la Pace (2002).

Edito da Doubleday nell’Agosto 1976 con il titolo Roots, A Saga of an American Family, l’opera di Haley è diventata best seller in America nel giro di pochi mesi, rimasta in testa alle classifiche per anni e tradotta in più di quaranta lingue, procurando al suo autore un premio Pulitzer nel 1977. Nello stesso anno della premiazione, la ABC acquista i diritti dell’opera per realizzare una miniserie in otto puntate, che ha anch’essa successo straordinario in tutto il mondo, cui farà seguito due soli anni dopo, nel 1979, il sequel Radici, le nuove generazioni, ideato da Marlon Brando. Quest’anno, in occasione del quarantesimo anniversario dall’uscita del libro, la History Channel ha trasmesso un remake in chiave realistica della miniserie del 1977. La risposta del pubblico è stata ancora una volta straordinariamente positiva; ma cosa rende così coinvolgente la storia di questa famiglia?

Significativo è il sottotitolo dell’opera: Haley narra infatti la saga di una famiglia americana, appartenente quindi in primis agli Stati Uniti d’America, un paese di formazione nuova e multietnica. Scorrendo l’albero genealogico dell’autore, partendo dal basso si pronunciano del resto suoni in tutto e per tutto propri della cultura americana: dai genitori Bertha e Simon Haley, ai nonni Cynthia e Will Palmer, ai bisnonni Irene e Tom Murray, fino ai trisavoli George e Matilda Lea.

La vita di George Lea può esser presa a simbolo della democraticità dell’american dream: nato dallo stupro del padrone bianco di cui porta il cognome sulla bella serva Kizzy, George sviluppa incredibili abilità nell’addestramento dei polli da combattimento, osserva gli spostamenti di denaro alle scommesse e sfrutta la possibilità di entrare in questa realtà, diventando famoso con il nome di Chicken George. La stessa educazione è data al figlio Tom che, dimostratosi inadatto alla vita tra i polli, svela un’innata attitudine all’attività di fabbro, che George ha l’acume di assecondare. Padre e figlio attraversano la Guerra Civile Americana, passando dalla condizione di schiavi a quella di uomini liberi.

Una ricostruzione storica dettagliata, quella di Haley sul ramo materno della propria famiglia, che impiega dodici anni di ricerche. Se infatti i documenti di compravendita e nascita degli schiavi già in America sono relativamente facili da reperire, più difficile è risalire alla discendenza africana. Celeberrimo è il nome del quintisavo di Haley: nel racconto Kizzy è la figlia di Kunta Kinte, nato libero e rapito in Gambia nel 1750. Attestata nel libro stesso come vera dall’autore, questa parentela si è rivelata da subito essere una finzione letteraria, peraltro plagiata da Courlander The African di Harold. Nondimeno il nome dell’avo conserva il suo valore storico: con altissima probabilità, tra le centinaia di schiavi partiti dall’isola di Juffure, al largo delle coste gambiane, nel 1750, avremmo potuto trovare un giovane mandinka dal nome Kunta Kinte, rapito dai bianchi nella foresta e venduto in America come schiavo.

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Kunta Kinte Island o James Island (Gambia). Situata a 30km dalla foce del fiume Gambia, nei pressi del villaggio Juffure, fu insediata nel 1600 dal Ducato baltico di Curlandia, divenne inglese prima e francese poi. Sfruttata fin dalla sua scoperta per fine commerciali, vennero da qui imbarcate centinaia di schiavi neri.

Quello di Kunta Kinte è un nome dal valore, più che storico, simbolico e questo si deve anzitutto al successo riscosso dal libro. L’opera di Haley non si apre infatti in America, le prime righe dell’opera ci introducono nel villaggio africano di Juffure, presentando la famiglia di Omoro e Binta Kinte, raccolta attorno un nuovo nato. Ci accolgono i profumi e i suoni dei pestelli battuti nelle cucine e il richiamo alla preghiera del muezzin che intona: «Allahu Akbar! Dio è grande!»; mentre il padre del neonato si ritira a pensare il nome, che pronuncerà a otto giorni dalla nascita, sussurrandolo prima tre volte all’orecchio del bimbo, poi della madre, poi dell’arafang preposto a comunicarlo al villaggio, quando il padre lo solleverà per mostrarlo: Kunta Kinte, come il nonno sacerdote che aveva salvato il villaggio dalla carestia.

Rituali e parentela, radici appunto, che anche dopo esser stato rapito, Kunta ripeterà oralmente alla figlia, insieme a poche parole in lingua mandinga, e che si tramanderanno di generazione in generazione. Kunta infatti non si rassegna mai alla propria condizione di schiavo: non accetta il nome Toby impostogli dal padrone e dà alla figlia un nome africano; tenta più volte la fuga, subendo anche un’amputazione; rifiuta la religione cristiana dei bianchi, ancorato alla propria cultura. La forza di questo romanzo è stata soprattutto il riaffermare l’identità etnica di un popolo che si trovava sradicato dalla propria terra, la necessità di conoscere le proprie origini per conoscere la propria identità.

Behold di Patrick Morelli,1990, King Center Atlanta, Ga. Nell’opera lo sculture ha voluto rappresentare Kunta Kinte che solleva la figlia Kizzy nel rituale africano di attribuzione del nome durante il quale il padre pronuncia le parole: «Behold the only thing greater than yourself!» [«Guarda l’unica cosa più grande di te!»]
Behold di Patrick Morelli,1990, King Center Atlanta, Ga.
Nell’opera lo sculture ha voluto rappresentare Kunta Kinte che solleva la figlia Kizzy nel rituale africano di attribuzione del nome durante il quale il padre pronuncia le parole: «Behold the only thing greater than yourself!» [«Guarda l’unica cosa più grande di te!»]

Questo richiamo ancestrale ha ricevuto risposta, in primo luogo, in terra americana, dove il pubblico tanto afroamericano quanto appartenente ad altre etnie si è lasciato coinvolgere da questa ridefinizione del concetto di “libertà”, non solo in termini fisici, ma anche e soprattutto mentali, culturali e identitari. Un significato di questo valore che è universale e sempiterno, sempre da difendersi e sempre pericolosamente fragile: il diritto d’espressione delle culture, di valori e principi differenti, nell’ottica di una comunicazione transculturale.

In secondo luogo, soprattutto grazie alla produzione cinematografica, il suo eco è risuonato oltreoceano, nell’Africa in cui l’albero di Haley aveva le sue radici, in quella terra che mai ha dimenticato la ferita inferta alle tribù e alle famiglie che dal ‘500 ai primi del ‘900 si sono visti strappare i figli dai toubab, gli uomini bianchi. Un amico senegalese ricorda così la prima riproduzione in sala di Roots a Dakar: «Hanno dovuto fermare la proiezione a metà perché le persone erano troppo agitate, urlavano e lanciavano cose. Non potevamo sopportare di vedere cosa era stato fatto ai nostri padri e fratelli. Lo sapevamo, ma vederlo era insopportabile».

The Kunta Kinte – Alex Haley Memorial, Ed Dwight, Annapolis 1999. La scultura rappresenta Haley nell’atto di leggere un libro a tre bambini di differente estrazione etnica; è stata poi aggiunta una placca in bronzo che riporta gli atti originali dell’arrivo di Kunta Kinte in America.
The Kunta Kinte – Alex Haley Memorial, Ed Dwight, Annapolis 1999.
La scultura rappresenta Haley nell’atto di leggere un libro a tre bambini di differente estrazione etnica; è stata poi aggiunta una placca in bronzo che riporta gli atti originali dell’arrivo di Kunta Kinte in America.

In copertina: LeVar Burton interpreta Kunta Kinte in un fotogramma di “Roots” del 1977 (ABC)

Turismo sessuale, dagli anni ’60 ad oggi un business sempre in crescita

Da sempre e in ogni parte del mondo, dall’antica Grecia alle tribù africane, dalle isole asiatiche ai freddi ghiacci del polo nord, si tramandano tradizioni che impongono l’accoglienza dello straniero in visita, spesso includendo la sua soddisfazione sessuale. Da sempre i viaggiatori, mercanti o esploratori, si sono scambiati pettegolezzi sulle delizie locali e le pratiche indigene dei paesi visitati.

In età moderna, anche i viaggi finalizzati al piacere sessuale diventano fenomeno massificato: gli anni ’60, grazie tanto alla globalizzazione e all’ampliamento dei mercati, quanto alle rivoluzioni socioculturali e ai nuovi orizzonti di viaggio, costituiscono lo scenario che vede esplodere il boom di questo fenomeno, che si dimostrerà fin da subito problematico. Il turismo sessuale, infatti, configurandosi come intersezione di due attività già di per sé caratterizzate da dinamiche complesse (il turismo da un lato e la prostituzione dall’altro), raccoglie un ventaglio di realtà sfaccettate che hanno rappresentato una difficoltà nello sforzo delle normative internazionali di conciliare principi etici e morali, ideali di sviluppo paritario e realtà fattuali.

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Thailandia, anni ’60

Era il 1967 quando vedeva la luce il primo patto tra stati moderni imperniato proprio sulla vendita di prestazioni sessuali: il “rest and recreation” regolamentava i rapporti tra i soldati americani d’istanza in Vietnam e le vicine coste thailandesi, rilanciatesi da un decennio nel mercato del sex business. Nello stesso anno la IUOTO (International Union of Official Travel Organizations), riunita a Tokyo, rifletteva sulla necessità di operare effettivamente a livello mondiale, avviando il processo che la porterà a trasformarsi nell’attuale UNWTO (United Nations World Tourism Organization) e a stendere, nel 1999, il Codice Mondiale di Etica del Turismo: 10 articoli che si preoccupano di tutelare tutti i soggetti coinvolti nell’attività turistica, in un’ottica di sviluppo globale sostenibile.

In occasione del 58th CAF Meet, tenutosi ad Abidjan ad aprile 2016, il WTO ha sottolineato ancora una volta l’importanza del Codice, proponendosi di sollecitare i 163 stati membri a sviluppare leggi in linea con gli articoli in esso contenuti, in risposta anche ai numerosi appelli ONU riguardanti Paesi in via di sviluppo e minori. L’allarme più significativo arriva dall’EPCAT, i cui dati indicano cifre attorno ai 2 miliardi di minori sfruttati nel solo 2016, grazie al fenomeno del turismo sessuale; l’Italia in testa alle classifiche per numero di turisti pedofili; Cina, India, Brasile e Thailandia come mete predilette. Non meno rilevanti sono le denunce ONU sul continuo squilibrio socio-economico tra turisti-fruitori e nativi che si prostituiscono: il turismo sessuale asseconda e favorisce il mantenimento del divario nello sviluppo sociale dei diversi paesi.  Entrambi gli enti evidenziano infine l’importanza di sempre maggiori controlli sulla rete informatica: i dati rilevano, infatti, che il moltiplicarsi di chat e applicazioni che facilitano la comunicazione in forma anonima, ha contribuito ad agevolare gli spostamenti per viaggi a sfondo a sessuale.

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Basta gettare un rapido occhio sulla rete per rilevare come gran parte dei tabù sessuali trovi libertà d’espressione nella realtà virtuale. Ancor più facile ritagliarsi spazi per i turisti sessuali, che grazie alla rete riescono a comunicare superando confini tanto spaziali quanto legislativi, muovendosi in equilibrio tra diverse normative. Eclatante esempio è dato dal successo del sito www.gnoccatravel.it, interamente dedicato alle attività che ruotano attorno al sex business: dalle escort italiane ai consigli per migliorare le prestazioni, dai suggerimenti per cuccare agli spazi dedicati al “ridere della gnocca”, fino ovviamente alle recensioni di viaggio, comprensive di indicazioni sulle bellezze locali e loro disponibilità, suggerimenti sui local più abbordabili e forum per cercare “compagni di gnocca”, ossia di viaggio.

Da non sottovalutare sono le possibilità offerte dalla rete, risorsa importante in virtù dell’opportunità di un monitoraggio tempestivo e della tracciabilità dei dati elaborati. Gli stessi gestori di GnoccaTravel rappresentano un modello di approccio moderno al tema della sessualità: pur svincolandosi da ogni forma di tabù riguardante il sesso occasionale tra adulti consenzienti (a pagamento e non), dal loro sito è assolutamente bandita qualsiasi forma di sfruttamento, con particolare attenzione a contenuti a sfondo pedofilo, che vengono non solo bannati dal sito, ma anche tempestivamente segnalati alle autorità competenti.

Differente è l’approccio della rete al turismo sessuale al femminile, di cui ONU e WTO evidenziano negli ultimi anni un notevole incremento. I media informatici, cogliendo l’occasione dei recenti dati, sembrano assecondare la tendenza con un susseguirsi di classifiche sulle mete più quotate, accompagnate da fotografie di splendidi resort affacciati su rive oceaniche. Immagini patinate e contenuti edulcorati, che creano l’illusione di un’agenzia turistica e allontanano dal mondo della prostituzione. In vetta alle classifiche Senegal e Kenya; paesi caldi, accoglienti e con situazioni di fortissimo divario sociale interno. I governi di questi paesi, offuscati dall’interesse a entrare nel gioco delle potenze mondiali, hanno in passato lasciato ampissimo spazio d’azione agli ex coloni, che non hanno tardato a individuare nel turismo una sicura fonte di guadagno. Le entrate economiche legate alla prostituzione (oggi legale in Senegal, illegale in Kenya) hanno inoltre fatto speso chiudere un occhio sul mancato rispetto delle leggi vigenti.

A poche ore a sud di Dakar, sulla costa, si trova un esempio di queste aree edificate su misura dei turisti europei: la città di Saly, un tempo porto portoghese, è stata riconvertita negli anni ’80 ad area resort e fino a oggi è la principale meta dei turisti del Vecchio Continente. Non di rado, sulle bianche spiagge di Saly, si vedono passeggiare coppie miste con un notevole divario d’età; storielle estive di breve durata ormai accettate nella quotidianità di questo parco giochi urbano. ONU e ECPAT lanciano un campanello d’allarme anche sulla nuova esigenza femminile, apparentemente innocua, di provare il brivido di una storia d’amore per il breve tempo di una vacanza; i dati, infatti, evidenziano una presenza sempre maggiore delle donne nella realtà della pedofilia. Sebbene il problema si rivolga in minima parte agli infanti, non meno importante è il fatto che un numero sempre maggiore di adolescenti maschi sia coinvolto nel turismo sessuale, vittime di un retaggio che vuole l’uomo precoce nel suo sviluppo sessuale.

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Saly, Senegal

Gni dem Magicland! Andiamo a Magicland!

Le mie mattine senegalesi hanno quasi tutte la colonna sonora di una sveglia polifonica: «Tata Sara! Tonton Pisquo!», dal cortiletto appena fuori la stanza da letto, il ritmo di tanti piedini scuri saltellanti sulle piastrelle richiama gli zii arrivati dall’Europa ad abbandonare l’abbraccio del sonno e accogliere l’arrivo del giorno.

Le membra si stirano, levandosi di dosso gli ultimi strascichi di sogni, e gli arti si allungano fino alla porta, giusto lo sforzo di sfiorare la chiave e imprimerle la forza d’un giro su se stessa. I primi raggi di sole si riversano nella stanza con la stessa curiosità della fiumana di ricci e perline colorate che si portano appresso, mentre manine golose si allungano in gesti di richiesta: «Mayma tangal, s’il vous plaît! Dacci le caramelle, per favore!».

Il rito si è stabilito in pochi giorni: le mie nipotine si raccolgono con le amiche del quartiere fuori la porta della stanza, in attesa di stiracchiare gli occhietti nella concentrazione di un’equa distribuzione dei dolci portati da oltremare, con lo zucchero dolce che però fa male ai denti. Poi via di corsa verso scuola, fino alle caramelle della merenda!

La domenica però anche in Senegal è riposo; non c’è lezione e i bambini si riversano più tardi fuori casa.

Il mio primo risveglio domenicale africano è un impatto con un silenzio inaspettato; per un istante mi chiedo se nel quartiere abbiano perso la golosità e mi sento tradita dai piccoli voraci che mi aspettavo avrebbero segnalato l’arrivo del giorno! Scopro presto che è già una manciata di minuti che dondolano le loro gambette sulla panca fuori dalla porta, troppo educati per disturbare gli adulti nel giorno di ristoro. Da inguaribile e incontrollabile ingorda quale sono, decido che ci vuole un premio per tanto autocontrollo!

Rifletto sulla semplicità dei loro giochi, fatti per lo più di fantasia e piccoli gadget venduti per strada, e stabilisco che l’unico vero modo per rendere la nostra presenza un ricordo indelebile è regalare momenti speciali, così propongo una gita: «Fan ngeen bëgga dem? Dove vorreste andare?».

Un coro di bambini risponde: «Magicland!».

La più felice di partire sono forse io, non appena mi spiegano che si tratta della versione senegalese di Disneyland: la mia immaginazione si nutre dei ricordi dei parchi giochi della mia infanzia e disegna nella mente un turbinio di gioiose voci urlanti, un saltellare di vestitini in vox dai mille colori, un tintinnare di perle e conchiglie intrecciate a ricci d’ebano. Chiamiamo un taxi e infiliamo quante più bimbe ci stiano dall’unica portiera sgangherata lasciata aperta dall’autista, onde evitare fughe di clienti che non vogliono pagare; qualcuna armeggia con le cinture di sicurezza, con cui è impossibile impacchettare il fermento e l’agitazione del numero troppo alto di piccoli passeggeri.

Lungo il tragitto ci avviciniamo alla costa e sorgono i primi dubbi: quanto saranno sicure le giostre in Senegal? Come gestiranno la manutenzione, nonostante la sabbia e la salsedine? Abituata al ferro smaltato e ai giochi di fontane nei giardini di Gardaland, all’animazione dei personaggi Disney, avvolti in imbottiture improponibili sotto il sole d’Africa… Avvicinandomi all’entrata, avvolta da una nube di commercianti che propongono palloncini e molle colorate, realizzo che le mie attese saranno inevitabilmente tradite.

L’ingresso costa davvero poco: con meno di 5 euro si hanno accesso al parco e 10 ticket per le attrazioni, che vanno pagate singolarmente; mentre l’accoglienza è degna della fama del popolo senegalese, che non risparmia sorrisi smaglianti, chiacchiere e convenevoli. In coda aspettando d’esser timbrate, le bambine non riescono a trattenere l’emozione ed esplodono in gridolini di gioia non appena varcano l’arco di soglia del parco. Io chiudo le fila e la mia aspettativa è in continuo crescendo; entro, mi guardo attorno e chiedo: «Ma è aperto? Dove sono i bambini?».

Dapprima penso di esser stata imbrogliata, di aver pagato per un parco divertimenti ed esser stata portata in una città fantasma: tutto è immobile, nessuna giostra gira e nessuna luce si accende; nell’aria non risuonano musiche dalla melodia sciocca né risate di bambini; le attrazioni da lunapark sono ricoperte da una sottile patina opaca. Ci viene incontro un ragazzo dal viso gentile e, dopo interminabili saluti, chiede alle bambine da cosa vogliono iniziare: non essendoci al parco tanta affluenza come in quelli europei, ci spiega che l’elettricità (che a Dakar non è sempre garantita e in alcuni quartieri può talvolta venir sospesa per ore se non giorni) viene risparmiata attivando le giostre solo quando qualcuno ci sale; conviene molto più dare a lui uno stipendio per interrompere l’innaffiatura delle piante e dedicarsi ai clienti. Uno dopo l’altro, il ragazzo avvia i giochi che le dita delle mie nipoti indicano: dal trenino alle tazze, dalla ruota panoramica al bruco… Finché i loro occhi si posano sulle montagne russe, che a loro sono vietate per limite d’età.

«Ma per chi le fanno?» chiedo un po’ sorpresa. È vero che il prezzo è basso per un europeo, ma è tutt’altra questione in moneta locale! E le giostre per adulti sono davvero due di numero! La risposta arriva presto dalle rotaie che ci siamo appena lasciati alle spalle: quattro surfisti inglesi, evidentemente alterati dall’alcool, hanno fatto ingresso nel parco, riempiendolo di risate chiassose.

Noi ci consoliamo con una merenda dolce: ci sediamo ai tavolini del bar e ordiniamo Vimto e popcorn. Il primo è la bibita senegalese per eccellenza: spacciata per la coca-cola africana, è una bevanda dalla dolcezza tanto intensa e innaturale da portare alla mente l’idea di una caramella gommosa sciolta al sole e poi gassata. «Ottima abbinata ai popcorn salati» penseranno i più golosi tra voi. Siate ancora più ingordi!

A Dakar infatti i popcorn sono serviti cosparsi di dolcissimo zucchero a velo, che s’infila tra i denti e impiastriccia le dita. Di quello zucchero a velo è il sapore delle mie merende senegalesi: condite di un eccesso di saccarosio e di innocenti sorrisi sporchi di polvere dolciastra.

Fuga da una democrazia negata: il viaggio di Abdul dall’Eritrea all’Italia

Primavera milanese, scende la sera e la prima folata di vento viene a stuzzicare Hamadou e me, seduti alla pensilina di Lambrate, in attesa del treno per rientrare a casa. Un africano dalla carnagione opaca e il naso stretto si avvicina per chiedere una sigaretta. «Da dove vieni?» chiedo. «Eritrea».

Istintivamente Hamadou si alza a prendere un caffè caldo dalla macchinetta, lo porge al ragazzo che gli si siede accanto e domanda di lui, della salute, della famiglia, secondo i convenevoli in uso nei paesi musulmani. Abdul si presenta e racconta la sua storia.

Asmara - Capitale d'Eritrea
Asmara – Capitale d’Eritrea

«Fratello, non ho notizie da più di un anno della mia famiglia. Mia madre è deceduta mentre ero in viaggio; mia sorella forse è ancora giù, forse partita anche lei».

Da più di un anno, Abdul vive in strada; dal giorno in cui è scappato dal centro di prima accoglienza in Sicilia, ha conosciuto pensiline e stazioni in tutta Italia, attraversando la penisola sui binari e fermandosi su sollecito dei controllori, che di volta in volta lo trovano sprovvisto di biglietto.

«Non potevo più aspettare i documenti nel centro accoglienza: era come una seconda prigionia, dopo quella in Libia. In più c’era il rischio che mi dessero l’asilo umanitario, anziché quello politico: vuol dire che hai passaporto e documenti per viaggiare; da noi è vietato possederli prima dei 50 anni. Il governo eritreo viene informato dei cittadini all’estero che prendono passaporto e può punire le loro famiglie».

L’Eritrea è oggi una delle più terribili dittature: da 21 anni Isaias Afewerki, eletto poco dopo il voto per l’indipendenza, ha imposto un governo assolutista e fortemente militarizzato, che ignora le leggi della pur approvata Costituzione del 1997. La popolazione è totalmente privata dei propri diritti civili, l’informazione è controllata e la leva obbligatoria, estesa per legge a uomini e donne in età dai 18 ai 50 anni e spesso anticipata, è prevista non solo in caso di guerra, ma anche per programmi di lavoro statali.

Incontro tra il Segretario della Difesa Donald H. Rumsfeld e il Presidente Isaias Afwerki ad Asmara, Eritrea, il 10 Dicembre 2002 [ph: by Helene C. Stikkel]

«Sono partito la settimana dopo la morte di mio fratello maggiore, entrato nel campo di servizio militare a 17 anni. Mio padre ci aveva lasciati da meno di un anno per una malattia, quando sono venuti a portarlo via; pochi mesi dopo sono venuti a cercare me e mio fratello minore, perché mio fratello aveva tentato la fuga dal campo ed era stato fucilato. Fortunatamente nessuno era in casa quando arrivarono e fummo avvisati da conoscenti. Fuggimmo nel deserto, io e mio fratello lo attraversammo a piedi; mia madre si nascose per mesi insieme alla mia sorellina di pochi mesi presso una zia».

Abdul racconta molto dei giorni trascorsi nel deserto: il sole cocente sulla fronte, il cibo razionato condiviso, i predoni da cui fuggire nascondendosi sotto la sabbia calda. Racconta del fratello e delle chiacchiere e di come la notte si sdraiassero pochi minuti a osservare la volta stellata:

 «È l’ultimo ricordo felice nella mia terra».

Dopo il deserto, la sua voce trema. Ci racconta sottovoce d’aver perso il fratello nelle prigioni libiche: «Mi sono imbarcato da solo. E sul gommone ogni giorno moriva un fratello».

Il suo racconto s’interrompe e mi fissa con sguardo intenso, duro e fiero:

«Voi europei vi dimenticate spesso delle fortune che avete e di quanto sono costate. Le ricchezze e i diritti che avete ottenuto sono anche grazie allo sfruttamento delle colonie. Noi continuiamo a subire le conseguenze della politica coloniale: gli europei hanno stabilito prima di cedere l’Eritrea all’Etiopia, poi di sostenere la nostra indipendenza. Ora anziché intervenire perché si rispettino i diritti umani, stringe accordi con Afewerki, come fosse un presidente democratico aperto al dialogo. Costerebbe troppo intervenire militarmente e non ci sarebbe nulla da guadagnare».

Vorrei chiedere scusa. Vorrei fargli sapere di come anch’io vorrei che il mio paese aprisse gli occhi e guardasse oltre le frontiere, per accorgersi che una vera democrazia non può esistere finché ci sia anche un solo popolo cui è negato il diritto a parlare, soprattutto quando quel popolo è stato tuo compatriota e ancora bussa alla tua porta per chieder aiuto. Non ci sono parole e forse non servono.

Stringo la mano di Hamadou; guardo il cielo, dove ormai sono apparse le stelle.

Da Abidjian al Piemonte per fuggire la guerra

Seduto al tavolo esterno del bar dove mi aspetta, Moussa, sigaretta nelle labbra e cellulare tra le dita, impone la mole della sua muscolatura scura e definita sull’intonaco bianco della facciata. Da lontano, la sua immagine è una fotografia rappresentativa d’una virilità moderna: forte e impegnato, sicuro e attivo. Ciò di cui si appresta a raccontarmi, del resto, richiede tutta la forza d’un uomo per essere vissuto, sebbene lui fosse solo un ragazzo quando la guerra ha bussato alla sua porta e a quella di tanti suoi compatrioti, anche più giovani di lui. La guerra ha bussato e gli ha chiesto di fare una scelta; Moussa ha lasciato la casa cui quella porta era infissa.

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Nato negli anni ’80 ad Abidjian, capitale della Costa d’Avorio, e figlio di un imam, Moussa mi racconta di un’infanzia semplice e spensierata; di una famiglia numerosa alla maniera islamica, con tre madri e un folto gruppo di fratelli delle più disparate età; di un quartiere multiculturale, multietnico e multireligioso, aggregato dall’appartenenza a una comunità ormai consolidata da anni di rispetto reciproco.
«Anche se non eravamo uno stato economicamente stabile, vivevamo in pace. Nel 2000, tutto cambiò. Alle elezioni statali erano stati commessi dei brogli per non fare eleggere Ouattara; i suoi oppositori sostenevano non fosse ivoriano perché il padre era originario del Burkina Faso, offendendo i cittadini discendenti dei numerosi migranti dei paesi vicini. Da un giorno all’altro scoppiò la guerra e il paese si divise. Da un giorno all’altro le persone si riconoscevano in base a religione ed etnia. Da un giorno all’altro io fui, prima di tutto, musulmano e djoula.»

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Lo sguardo di Moussa si fa docile e vago, mentre mi racconta dei pochi mesi di guerra civile che ha vissuto: «Ci si muoveva sempre con prudenza e di soppiatto, come i gatti. Di ogni rumore cercavamo di capire l’origine; non potevamo più fidarci di nessuno ed io, avendo sempre frequentato ragazzi cristiani, mi ritrovai senza amici.»
Un episodio notturno ha spinto Moussa a partire: svegliandosi, una pistola puntava la sua fronte. «Era l’arma che di notte tenevo sotto il cuscino, in caso qualcuno entrasse in casa. In quel momento mi resi conto che avrei dovuto fare una scelta: per i musulmani, avrei dovuto riconoscere il mio sangue djoula e uccidere il nemico cristiano; per i cristiani, avrei sempre rappresentato un pericolo. Scelsi di non uccidere e di partire per l’Europa.»

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Grazie alle conoscenze del padre, a vent’anni Moussa prese l’aereo che gli garantì di avere salva la vita; atterrò nel nord d’Italia e venne rifugiato in un paese sulle montagne del Piemonte. «L’organizzazione del viaggio fu rapida; solo quando l’aereo decollò, mi fermai realmente a pensare a ciò che stavo facendo: lasciavo il mio paese, la mia famiglia, la mia vita. Chissà chi avrei potuto rivedere, chi non avrei rivisto mai più. Sapevo che non avrei più riavuto l’armonia e la serenità della mia adolescenza. Atterrando, il freddo penetrante del vento europeo, l’orizzonte chiuso dalle montagne, il cielo così opaco; mi sarebbe mancata la mia terra, il suo sole, il calore della sua gente.»
Oggi, la vita di Moussa si è stabilizzata in Italia: lavora come falegname e condivide un appartamento con due compatrioti; la Costa d’Avorio è uscita dalla guerra, ma ancora non può definirsi un paese del tutto stabile. «Ho imparato ad amare la terra in cui vivo, il vento fresco d’estate e il modo in cui la società è organizzata. Potrei tornare in Africa, ma ho perso molto di quello che avevo a casa; non sono la stessa persona che è partita e il mio paese non è lo stesso che ho lasciato. Ma certo un giorno vorrò rivederlo.»

 

In copertina: vista aerea del quartiere Plateau di Abidijan, Costa d’Avorio [particolare dalla fotografia di Marku1988 CCA-SA 3.0 by Wikimedia Commons].

Muoversi tra i suoni di Dakar: un racconto di multilinguismo africano

In partenza per Dakar, ancora una volta ripongo nel bagaglio a mano, come ancora di salvezza, i miei libri per imparare lo wolof, pur sapendo che il mio è soltanto un piccolo gesto scaramantico di fronte allo straordinario plurilinguismo del Senegal, che non si esaurisce certo nell’incontro tra l’ormai lingua ufficiale di stato e quella coloniale, il francese.

Ancora una volta, riempiendo lo zaino, alleno la mia mente a passare attraverso idiomi diversi, fiduciosa della comprensione che riceverò dal popolo del Paese dell’Accoglienza, come i senegalesi chiamano la loro terra.

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Già in aeroporto, sono travolta dai suoni della folla che cerca di richiamare l’attenzione del mio viso pallido sulle merci in vendita e i taxi in attesa: «Madame! Madame!» «Señora! Señora!» «Miss! Miss!».

Oltre il rumore, riconosco la voce di mio nipote Ndiaw; mi chiama nel suo tono “francesemente” dolce, ”africanamente” basso.

Scopro che la modulazione delle frasi che caratterizza i senegalesi è tra le cose che più mi sono mancate. Lo scopro ascoltando mia cognata Ndeye che in inglese mi indica dove mettere le valigie; è laureata e conosce la lingua dagli anni del liceo; non la parla con scioltezza, ma le nostre conoscenze sono bastate a stabilire tra noi una complicità. Con lei ho attraversato il mercato del quartiere, conosciuto le abitudini delle donne africane, scoperto i segreti di sapori e tessuti; e l’ho fatta ridere ascoltandomi scherzare con i due negozianti della zona che parlano spagnolo, convinti che sia italiano, perché hanno lavorato alle dipendenze di un portoghese.

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Con mio marito abbiamo incontrato anche alcuni senegalesi che l’italiano lo parlano davvero, pur non avendo mai messo piede fuori dal loro paese; mi stupisco del fatto che tutti mi diano la stessa spiegazione: «L’italiano è facile da imparare: basta leggere un libro e cercare di capire il senso comparandolo al francese. Parlare è semplice: si dice così come si scrive.»

Ho toccato con mano la facilità con cui questo popolo apprende nuove lingue: dopo pochi giorni trascorsi in famiglia, mia nipote Sanou, di sette anni, indicando il piatto da cui mangio, chiede: «È buono? Dafa neeχna?», prima in italiano, poi in wolof; spiegando e comprendendo allo stesso tempo. Ha semplicemente ascoltato mio marito tradurre per me nei precedenti pranzi.

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Con mia suocera è stato meno semplice: non parla wolof ma serere, la lingua del villaggio in cui è nata e dell’etnia cui appartiene tutta la famiglia; abbiamo passato molto tempo assieme, io imparando a riconoscere il modularsi della sua voce, lei ripetendo ritualmente le stesse espressioni e riempiendo i silenzi di rosari di buoni auguri, cui io possa rispondere con un internazionale: «Amine». È una lezione che più volte mi è tornata utile di fronte ad anziani che si esprimevano in una delle sei lingue nazionali del Senegal, tra cui la wolof è maggioritaria.

Mia suocera mi accoglie sempre nella lingua madre, con un dolce: «Nam fio? Soob a khamo sama goro, kam khalato gong rek!». (Come stai? Sei mancata mia nuora, ti ho pensato tanto!) Non sapendo rispondere in serere, ripiego sull’arabo, che è la lingua della preghiera e in Senegal, come in molti paesi a maggioranza musulmana, entra a far parte di diversi momenti e riti quotidiani: «Alhamdulillah! Ringraziando Dio!».

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When moving abroad is not a choice

Many people don’t choose to live an international life: moving abroad isn’t a choice, it’s a necessity. In order to survive, to earn some money or to reconnect with the family some people are forced to adapt to a new world, which is not always so welcoming. Moussa’s story tells us this and much more…

Your name, age, nationality, where are you from? Where do you live now? Which is your current occupation?

I’m Moussa, 28 years old. I’m from Mombasa, Kenya and now I live in Bergamo, Italy. I work as an express-courier.

Why did you decide to leave your country?

I left Kenya to join my family: my dad was already living in Italy.

Why did you choose Italy?

I couldn’t decide, I had to come here.

How is your life in Italy?

I have to get up early in the morning because I distribute milk and fresh food to cafes and supermarkets; usuallyI have to start around 3 am, until 10, sometimes 11 am.

Life has never been easy because I have no guarantees about my job and some weeks I work only for a few days, also the pay is not that much… I’m quite grateful though, as my father manages to take care of me financially.

My social life is not so full: I’m not much talkative, but I like reggae music and I got somefriends, both Italian and African, with whom I go to reggae sessions or festivals.

How is living in Italy different than living in your country?

Sometimes with my friends we discuss about the fact of being strangers in a foreign country. Most of us are from Africa, but not from the same country, but living in Europe makes us see the big differences between life in our continent and European life.

I think that the most important difference is that here it’s really hard to mingle with the locals: when I arrived in Italy, I didn’t know anyone and had to realize that most Italians are social only after knowing you well. Definitely not the best attitude to meet new people. In Kenya social life is completely different: people are talkative, mostly if they’ve never met you before; Kenyans are used to tourists and like to discover new countries and cultures.

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?

The biggest challenge is to adapt yourself at the rhythm of the society you are moving to: it’s not so easy to meet people, to find a job and to be independent; but moving to a new country is a great experience ‘cause you have to restart from zero.

I’ve not regrets, but of course I miss my homeland.

What does Europe mean for you? Do you perceive the existence of Europe as a community?

Europe exists, that’s geographically and financially evident. But I don’t feel that European identity is something real, as countries are completely different one from each other and natioanl languages are the most striking evidence: if you travel around Europe, you can listen a huge variety of strange sounds!

Italy & Kenya. Use three words to describe each of the previous.

Kenya: nature (mountains and animals), Swahili (mother language), Masai (the guardians)

Italy: social, mafia e pasta …:)

What would you say to someone to convince him to move abroad? What’s the best thing you’ve got/you’ve learnt by your experience abroad?

I don’t think that I will convince someone to move to Italy for living, maybe just for tourism; but travelling is important: you can discover a new world and that’s always a great experience!

Teranga: i miei venti giorni in Senegal

In wolof esiste una parola che indica il senso di ospitalità, di accoglienza e di rispetto verso l’ospite, una delle virtù fondamentali della cultura senegalese. Ne ho sentito parlare solo pochi giorni prima del mio rientro in Italia, e così ho potuto dare un nome alla sensazione che per i venti giorni che ho passato in Senegal mi ha accompagnato in ogni luogo e in ogni situazione: teranga.

Sono partita senza aspettarmi nulla, cercando di avere la mente sgombra da ogni immaginario preconcetto sull’Africa e la sua gente per riempirla della mia esperienza.

Ora il Senegal per me è l’odore speziato dell’aria, i tetti bianchi, le corse in taxi e le piogge torrenziali; è i rumori del traffico, i richiami del minareto e i versi degli animali; è i baobab di Mbour, le spiagge immense di Yoff, le conchiglie di Joal Fadiouth e i colori di Gorée; è la musicalità del wolof, le strette di mano e i colori dei vestiti delle donne, elegantissime; è il riso mangiato insieme da un unico piatto, il sapore forte dell’ataya (tè alla menta) ogni sera e delle guerté bou toy (arachidi tostate nella sabbia) sulla spiaggia, guardando il sole, grandissimo, tuffarsi nell’oceano.

Ma più di tutto il Senegal per me è teranga, e di come mi abbia fatto sentire a casa fin dal primo giorno.

 

In viaggio verso casa, un mese di vita a Dakar

Ripensando Dakar, i primi ricordi che sempre riaffiorano alla mia mente sono le sensazioni provate nei primi minuti, appena atterrata sul continente Africa: la presenza umana e l’odore speziato dell’aria. Sono anche le sensazioni che mi hanno accompagnata per il resto del viaggio,delle mie cinque settimane dedicate a capire e imparare ad amare il popolo di questo Paese, il Paese dell’uomo che ho sposato e della sua famiglia d’origine.

È soprattutto all’interno dei vari quartieri di Dakar che si ha la possibilità di vedere quella vita comunitaria per cui l’Africa è tanto rinomata. La capitale del Senegal è infatti divisa in 19 quartieri, a loro volta divisi in rioni numerati, i cui abitanti sono tendenzialmente accomunati dall’appartenenza ad etnie che da generazioni si tramandano gli stessi mestieri.  La mia tanta, ossia mia suocera, abita ad HLM, non ci è nata: viene da un villaggio, dove ha incontrato il marito che l’ha portata qui; la stessa storia mi racconta la domestica di casa Yacine, di cui i primi giorni non capisco la presenza, visto l’esubero di donne in casa: «Così mi aiutano -mi spiega Yacine- se ogni famiglia fa lavorare in casa una ragazzina dal villaggio, in cambio lei non solo mangia con loro, ma ha anche la possibilità di studiare e fare qualcosa di meglio un giorno».

L’istruzione in Senegal è un diritto imprescindibile e un dovere cui è difficile sottrarsi: gran parte dei bambini frequenta due scuole,una francese e una coranica, dove studia un numero per noi inimmaginabile di lingue: wolof, francese, inglese, arabo.

E i bambini in strada? Loro sono un pensiero fisso della mia prima settimana a Dakar: sono tantissimi, chiedono l’elemosina o vendono piccoli prodotti: noccioline, acqua fresca, arance… Ma mi insegnano che in Africa comunità è anche questo: non avendo un sistema assistenziale statale, la comunità pensa ai più deboli. Così i bambini studiano con l’imam, dormono nelle moschee o sotto le bancarelle dei mercati dove fanno da guardie, si vestono e mangiano di quello che le famiglie lasciano per loro la sera aspettando che bussino alla porta.

Venditrici di angurie

E lungo la strada ci sono tante iai (mamma/donna) pronte a tenere un occhio su loro. Di giorno infatti tutta Dakar sembra trovarsi in strada; tutto si produce e si vende alla luce del giorno: dagli alimenti ai divani, dalle borse alle stoviglie… e per tutto si deve fare waχale, ossia trattare sul prezzo. E così che le strade si riempiono di voci urlanti cifre, prezzi e ciniche battute delle donne senegalesi, che vanno a mescolarsi al caos prodotto dai motori, che qui sono un numero esorbitante. In pochi possiedono un’auto,ma nessuno cammina:Dakar è intasata dai mezzi pubblici,nelle forme più svariate: taxi regolari, taxi abusivi,taxi a 9 per lunghe tratte, dem ak dikk (letteralmente “andata e ritorno”, una sorta di bus di linea) e i cars rapides, pulmini le cui fermate e la cui destinazione si disegnano durante il percorso, a misura di chi ci è seduto o deve salire.

Solo la Grande Moschea può riportare il silenzio, battendo l’ultima chiamata alla preghiera, l’ultimo bagno, l’ultimo momento di ritrovo all’interno delle decine di minareti dispersi per Dakar; poi ognuno torna in famiglia, per sedersi attorno a un unico grande piatto in cui ognuno immerge il proprio cucchiaio. Nelle vie di Dakar resta solo quell’odore speziato, che è il mischiarsi dei fumi della benzina di scarsa qualità all’odore di tostatura delle noccioline, ed il suono portato dal vento di qualche gruppo di uomini in chissà quale quartiere della città che stanotte starà sveglio a cantare il nome di Allah.

Venditori di arance

Africa. La terra nera e selvaggia tra danze e spiriti

Milano. Alla vigilia di EXPO sulla scia di ritardi e polemiche, apre al pubblico uno spazio espositivo innovativo e dal design unico: il MUDEC – Museo delle Culture – risultato di un’operazione di recupero dell’ex fabbrica Ansaldo. Per l’inaugurazione sono state organizzate due mostre in collaborazione con 24 ore cultura – Gruppo 24 ore: “Mondi a Milano” ed “Africa. La Terra degli spiriti” attive fino al 30 agosto 2015.

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Se la prima comporta un viaggio tra le culture extraeuropee già note al grande pubblico, “Africa. Terra degli spiriti” si presenta come un percorso monumentale articolato attraverso più ambienti in successione che occupano buona parte del primo piano dell’edificio progettato da Chipperfield, alla scoperta della cosiddetta art negrè dal Medioevo ad oggi.

Due diversi livelli di interpretazione: uno dal sapore più occidentale con capolavori già noti al pubblico che rimandano quasi automaticamente alle avanguardie del ‘900 tra maestri quali Piacasso o Matisse, in prima linea nella valorizzazione di quest’arte; e dall’altro le opere “selvagge” della tradizione culturale e religiosa del continente africano dal congenito impatto visivo, che ne spiegano simbologia e importanza all’interno del quotidiano della popolazione della fascia subsahariana.

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Il percorso accompagna il visitatore in un viaggio che offre la reinterpretazione, la rilettura di oltre 270 opere della realtà artistica africana. L’allestimento è un gioco di contrasti continuo tra il buio impavido dello spazio espositivo e la luce aurea che illumina maschere, avori, sculture lignee, statuette e reliquari esposti in maniera scenografica; nella prima sala alcune opere all’interno di imponenti teche cilindriche sospese, sembrano fluttuare quasi magicamente, altre si elevano dall’ombra poggiate su sostegni e architetture altrettanto scuri.

Il percorso prosegue con il racconto della ricchezza reale, sovrana e maestosa, passando poi agli oggetti di uso quotidiano, parte integrante della cultura, della quale emerge il forte legame tra uomo e natura. L’ultima sala è la più emblematica e spirituale, cattura l’ospite in una dimensione sonora e colorata, nella quale le protagoniste assolute sono le maschere, simbolo dell’Arte Nera, attraverso le quali gli individui entrano in contatto con gli spiriti e diventano un tutt’uno con esse grazie ai canti e alle danze.

 

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Il visitatore potrà inoltre viaggiare attraverso tre essenziali momenti della religiosità dell’Africa Nera: il mondo degli spiriti, la divinazione che interroga gli spiriti della terra e del vento ed i sacrifici necessari a placare i demoni che minacciano la vita degli uomini e degli animali. In quest’ottica le opere riflettono la maestosità della cultura legata alla vita tanto quanto alla morte, legata al rispetto delle divinità e dei propri antenati.

Un’arte tradizionale, maestosa e colorata che si insinua sottopelle tra un’opera e l’altra, stuzzicando e provocando l’immaginazione, la creatività e la spiritualità personale.

La loro Africa

Fotografie di Flavia Serafini;

Flavia e Davide, italiani d’Italia, si sono conosciuti tre anni fa in Africa, durante un progetto di scambio tra specialisti in veterinaria tra Italia e Namibia. A farli incontrare non solo la passione per il continente africano, ma soprattutto l’incontenibile amore per gli animali. Ed è stato proprio tale sentimento a volerli di nuovo in Namibia quest’estate.

 

Il deserto, la riserva dell’Etosha Park in Namibia, le cascate Vittoria nello Zimbabwe e i parchi in Botswana, tra tutti quello del Moremi sul delta dell’Okavango, meta prediletta per i documentaristi, e il Nxai Pan, con i suoi baobab secolari. In mezzo alla natura primordiale, gli animali: «Il safari è stancante perché puoi girare per 12 ore e non vedere niente; ma se verso la fine della giornata riesci ad avvistare un predatore, la sua maestosità ti ripaga di tutta la fatica».

 

Ma non solo le gite in macchina. Il safari si vive anche durante il campeggio serale: per il pernottamento ci si può affidare alle piazzole, distanti le une dalle altre numerosi chilometri, e talvolta visitate da iene incuriosite che si aggirano attorno alla macchina per poi allontanarsi con passo disinvolto una volta illuminate con la torcia. Nelle ore notturne la presenza degli animali è per lo più percepita attraverso l’udito. State pensando al ruggito dei leoni? Non solo, anche gli ippopotami dicono la loro. E per finire, gli elefanti e i loro branchi, composti da 30/40 esemplari… meglio non tagliargli la strada e spegnere subito il motore, a meno che non si voglia giocare con loro a rincorrersi nella savana.

 

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