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Esperienze Di Attività Con Marco Peri

Cara Arte, vorrei incontrarti tra 10 anni

Quelli appena passati sono stati mesi lunghi e difficili. Mesi in cui molti di noi hanno potuto partecipare a eventi virtuali, come conferenze, lezioni a distanza e webinar, sperimentando l’importanza del digitale che si è dimostrato un supporto funzionale per le realtà culturali e artistiche in un momento di crisi.

È stato infatti necessario operare un cambiamento, che ha condotto l’arte verso una stimolante sinergia con il mondo digitale. Se molti eventi e altrettante mostre sono stati cancellati o rimandati, alcuni organizzatori e direttori invece hanno deciso di sperimentare un modo innovativo per continuare a esserci, impiegando un altro format. Questo è il caso della Milano Digital Week che sta creando conferenze, conversazioni e dirette su Facebook e Instagram, mentre l’attesissima mostra “Raffaello.1520-1483” presso le Scuderie del Quirinale di Roma ha saputo incuriosire il pubblico online grazie a un’abile programmazione di post e video relativi all’esposizione, includendo anche elementi di backstage e interviste ai curatori.

La Casa Testori di Novate Milanese, d’altra parte, ha creato una proposta pensando ai più piccoli: la rubrica “Artist & Son/Daughter” nata dall’idea di Andrea Bianconi, in cui gli artisti, tra i quali Marica Fasoli e Nicola Villa, hanno raccontato e suggerito delle attività laboratoriali da poter svolgere con i propri figli, divertendosi a giocare e imparare durante la quarantena.

Anche le piccole realtà associative attive sul territorio di Bergamo, sono state inevitabilmente toccate da questa ondata di cambiamento. L’associazione Inchiostro.itinerari e incontri d’arte di San Paolo d’Argon ha creato dei video-pillole in cui svela inedite informazioni e curiosità d’arte, dedicate ai luoghi in cui realizza visite e incontri. Al momento sta preparando un corso di formazione di storia dell’arte del territorio bergamasco curato dallo storico dell’arte Dorian Cara. Diversamente si è mossa l’associazione Un fiume d’arte di Ponte San Pietro, che ha deciso di annullare l’Esposizione di settembre e si sta concentrando sulla creazione della mostra delle opere della pittrice Patrizia Monzio Compagnoni, in programma per il 2021 nella Pinacoteca Vanni Rossi.

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Molte realtà, dalle più grandi alle più piccole, hanno trovato il loro modo per restare a galla, tramite soluzioni utili e sostenibili per continuare a dare importanza e pubblica condivisione del loro patrimonio.

La quarantena ha consentito, però, di mettere sotto i riflettori il mondo dell’arte e della cultura, presentandone luci e ombre. Abbiamo potuto ammirare la qualità estremamente duttile e versatile dell’arte e dei suoi mediatori. Musei, gallerie, centri culturali e associazioni sono infatti riusciti ad adattarsi alle nuove modalità virtuali per comunicare, coinvolgere, rendere fruibile e accessibile il patrimonio. Ma è proprio qui che sono sorte le prime domande sul futuro dell’arte, della comunicazione e della didattica museale da qui a 10 anni.

Certamente osservare un video o partecipare a una visita guidata virtuale è un modo facile, pratico e, oserei dire, “veloce” per viaggiare e ammirare musei e opere d’arte che si trovano in altri Paesi. Se questi contenuti rispondono a un’esigenza “fisica” e geografica, manca però una comunicazione più attenta e curata alla concretezza dell’arte, che è fatta di idee, progetti, gesti manuali, strumenti, tecniche e soprattutto di relazioni umane.

Le attività digitali talvolta descrivono le opere d’arte e i luoghi culturali con una certa freddezza e mancanza di “contatto”, di sensibile coinvolgimento. Visitare un museo o una mostra è un’esperienza sensibile complessa, coinvolgente, unica e soggettiva, che richiede una diversa durata e un tempo da dedicare, una disposizione d’animo e una ricerca selettiva delle opere. Durante la visita il fruitore guarda, sceglie, pensa, si muove, si avvicina, si allontana, impara e forma il proprio sguardo e il gusto critico.

Ad oggi abbiamo a disposizione una programmazione ricca, gratuita ed eccessivamente presente sui social network, che rende indispensabile una creazione e una ricerca di tavoli di confronto e di studio. A tal proposito abbiamo intervistato l’artista Angelica De Rosa e lo storico dell’arte Marco Peri, che ci hanno offerto un curioso spaccato di spunti e riflessioni sull’arte e sulla didattica.

Angelica De Rosa è una giovane artista di 29 anni, che lavora a Milano e si dedica alla realizzazione di suggestive opere nelle quali insegue l’elemento sonoro e sensibile creando un’indagine evocativa che spazia tra corpo e mente, tra udito e vista, tra il percepito realmente e il “potenzialmente” percepibile. La sua arte si basa sul concetto di contatto, di volta in volta studiato attraverso diverse forme e tecniche artistiche, quali la pittura, la scultura, i video e la performance.

Angelica De Rosa
Angelica De Rosa. Ogni diritto è riservato.

L’artista, guardando al presente senza perdere di vista il futuro, vede nella tecnologia «un gigante dalle enormi falcate» che «porta ad un appiattimento del valore artistico, che scardina, a suo favore, l’armonia di valori che compongono un’opera d’arte.»

Il valore e il funzionale apporto della tecnologia al mondo dell’arte ad oggi sono indiscutibili. Ciò non toglie che, secondo l’artista, bisogna farne un uso moderato e specifico, che non vada a intaccare «il delicato equilibrio tra filosofia, poesia, esperienza sensoriale, valenza estetica, matericità e tecnica, che è ciò che genera la produzione artistica.» De Rosa infatti sottolinea che «la magia dell’arte sta nel saper creare uno spazio che favorisca l’incontro tra l’intimità dell’artista e l’intimità del fruitore. Da ciò che accade in quell’incontro si sperimenta cosa sia l’arte.»

L’arte è un’esperienza estetica che amplia e confonde i sensi, in cui fruitore e artista dialogano fra loro. È sempre più necessario preservare la sua forza magica, la straordinaria capacità comunicativa che permette a tutti di avvicinarsi, comprenderla e con divertimento sperimentarla. Di certo il legame che insiste con la tecnologia e il mondo digitale deve, come spiega la giovane artista, «essere in funzione dell’arte. Che la tecnologia possa servire l’arte e non esserne il fine.» Non bisogna confondere le due distinte realtà: si deve trovare un equilibrio di forme e strumenti, un’armonia di cultura e comunicazione.

Marco Peri, storico dell’arte che da anni si dedica all’educazione museale e nel 2018 ha ricevuto il Marsh Awards for Excellence in Gallery Education, che premia le eccellenze in questo campo, ci ha parlato della didattica museale e del ruolo dei musei nel futuro.

Marco Peri
Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

«Come cambierà la didattica dell’arte tra 10 anni? Questa è una domanda da libro dei sogni. Il mio auspicio per il futuro è che l’arte possa diventare non solo una presenza ma il fondamento di ogni curriculum formativo. È tempo per un cambio di prospettiva, che sposti l’attenzione dalle qualità degli artefatti ai processi cognitivi e sociali che attraverso l’arte si possono generare. Didattica dell’arte dovrebbe significare educare con arte, cioè considerare l’arte come mezzo e non come fine, uno strumento trasformativo per guardare alla vita e alla realtà. Attualmente le arti hanno un ruolo marginale nei percorsi educativi, ma sono convinto che la musica, il teatro, la poesia, le arti visive, siano strumenti di conoscenza essenziali per sviluppare pienamente le proprie risorse. Il contributo delle arti per la crescita individuale rappresenta un’opportunità di valore aggiunto per generare la conoscenza e la fiducia per immaginare consapevolmente il futuro.»

Ancor più oggi diventa indispensabile capire come l’arte e la sua didattica dovrebbero essere considerate un fondamento imprescindibile per tutti in quanto permettono di imparare e formare il pubblico in modo semplice, diretto e multidisciplinare. Se la didattica può iniziare un percorso di ri-scoperta il ruolo del museo in futuro come sarà? E il suo ruolo nell’educazione culturale?

«Credo che il museo contemporaneo sia un formidabile spazio di relazione, in futuro l’istituzione dovrebbe ambire ad essere sempre di più uno spazio di ricerca sociale democratico e libero», continua Marco. «Tra le istituzioni culturali del nostro tempo, il museo è probabilmente la realtà più promettente nella quale costruire una cultura condivisa. Nel museo si possono esplorare una pluralità di temi insieme a un pubblico ampio ed eterogeneo, dalle famiglie, al mondo della scuola e così via interagendo con tutta la società. In questo senso il museo potrebbe essere un contesto per costruire nuovi modelli di vivere sociale. Non solo un luogo conservativo ma soprattutto un luogo trasformativo che agisce con consapevolezza il proprio ruolo educativo per la società, un laboratorio di idee e di futuro.»

Il museo oggi è un luogo di relazioni umane e di conoscenze condivise, che proprio a partire da questa quarantena può iniziare a sviluppare e approfondire le sue capacità di trasformazione e versatilità: può dedicarsi a pubblici più ampi, trattare temi sempre differenti, diventare luogo di connessione tra le istituzioni universitarie e scolastiche e le realtà cooperative ed associative del territorio, oltre a poter trasformarsi in un centro di ricerca ed elaborazione di buone pratiche di vita. Come evolverà però nel suo rapporto cruciale con il digitale?

Esperienze Di Attività Con Marco Peri

«Questi ultimi mesi», riflette lo storico dell’arte Peri, «in cui i musei sono rimasti chiusi e il distanziamento ci ha impedito di vivere le relazioni in presenza, ci hanno dimostrato le infinite opportunità del mondo digitale.» Misurandoci «con altre modalità di fruizione, divulgazione e creazione di contenuti», continua, abbiamo dovuto anche riconoscere una certa «impreparazione nel gestire le opportunità offerte da questi strumenti.» Investire «intelligenza e creatività» in questo settore, può permetterci di «generare nuovi contenuti di valore», approfittando «del valore aggiunto delle nuove tecnologie come strumento di accessibilità universale e inclusione sociale.»

 

Immagine di copertina e ultima immagine di questo articolo: esperienza di attività culturali assieme allo storico dell’arte Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

Copertina Abbraccio

BOF: il disegno come visione

Disegni, animazioni e parole di Emma Tramontana, in arte BOF.

 

Ho scoperto il disegno pochissimi anni fa. Non sono un’illustratrice. Disegnare non è la mia principale attività. In realtà lavoro nel mondo del teatro, mi occupo di corpo e parola. Potrei dire che il disegno si è aggiunto alla mia elaborazione creativa come parte altrettanto motoria. Corrisponde ad un movimento interiore, che in alcuni momenti posso tradurre solo come visione.

 

4 Gif Rinoceros
GIF Autore autoritario: riflesso arcobaleno di tempi scuri, 2020, BOF, tutti i diritti sono riservati

 

Nel tempo mi sono accorta che la necessità di disegnare arriva sempre in particolari stati, spesso connessi a fasi di transizione importanti, metamorfosi in atto: insomma, è come se il disegno arrivasse laddove si aprono altre finestre sui sensi.

Quindi succede che le tracce che lascio sono spesso molto incisive, sebbene io non possieda alcuna
tecnica e in altri momenti davvero non sappia disegnare. Ecco, potrei dire che il segno diventa
potente quanto più è forte l’emozione e l’urgenza da cui nasce.

3 Gif ScanGIF Senza titolo, 2020, BOF, tutti i diritti sono riservati

 

Il disegno intitolato “Non ancora/Non più/Per tutti/Di nessuno” è nato da un sogno bellissimo. Mi sono svegliata e l’ho gettato sul foglio, letteralmente. È una zona di libertà assoluta per me, perché riesco a trovare una sintesi immediata senza filtri. Questa è la potenza delle immagini. È come se mi spostassi. Quello che in teatro si chiama straniamento.

 

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Non ancora | Non più | Per tutti | Di nessuno, 2020, BOF, tutti i diritti sono riservati

 

Anche quando disegno, mi sposto da me, vado da un’altra parte, gioco, nel senso che mi diverto: cambio direzione. Nella densità dell’esperienza che fisicamente, spiritualmente e psicologicamente, siamo costretti a vivere adesso, è riemersa molto la necessità di dissiparne le ombre.

È la mia personale, intima risposta all’inaridimento umano che stiamo vivendo, alla paura e alla violenza di questo triste periodo. Quello che ho collezionato sono piccole tracce guidate da una ricerca di vicinanza e bellezza, una tensione verso una cura per gli occhi e l’anima.

 

Pagina facebook: @emmatra.bof

Pagina instagram: @emmaboftramontana

 

Immagine di copertina: Segreti, 2020, BOF, tutti i diritti sono riservati

 

ATTENZIONE: La redazione di Pequod Rivista si mette a disposizione di chi vuole raccontare la propria quarantena creativa: inviate la vostra proposta a info.pequodrivista@gmail.com

Cibo, lo street artist che copre le svastiche con i muffin (e non solo)

L’idea di alzarmi questa mattina presto per poter intervistare lo street artist Cibo non mi pesa per niente, anzi. È in Thailandia per lavoro e la nostra chiacchierata deve tenere conto delle sei ore di fuso orario.

Seguo Cibo, nome d’arte del veronese Pier Paolo Spienazzè, da quando ho cominciato a notare i suoi formaggi, frutti e tranci di pizza che riempivano vivacissimi i muri di San Giovanni Lupatoto, attivo comune alle porte di Verona.

Inoltre, i suoi video, in cui ricopre le brutture e le svastiche, sono diventati virali sul web.

Il suo ultimo lavoro, il murales che ricopre la facciata dei magazzini della Cooperativa agricola Apo Scaligera è con i suoi 1100 mq il più grande del Veneto.

Buon giorno, intanto devo chiamarti Cibo o Pier?

(Ride) Visto che m’intervisti come Cibo restiamo nella parte.

Cosa stai facendo adesso in Thailandia?

Beh, sono ospite di italiani e ricambio la loro accoglienza facendo murales. Ne approfitto per disegnare tutta la frutta che c’è qua: il mango, il dragon fruit, le banane. Insomma, sto sull’argomento visto che io da sempre sono legato al territorio. Inoltre, faccio ricerca per il prossimo lavoro che avrò a Marsiglia, che sarà proprio la cucina thailandese.

Torniamo in Italia e parliamo dei tuoi disegni. Da dove parte la tua arte? Dove hai imparato a disegnare?

Beh, io ho fatto il liceo artistico e poi disegno industriale del prodotto. Tecnicamente sarei un designer. Con l’unica eccezione che sono ventuno anni che faccio arte in strada e questo nessuna scuola te lo può insegnare.

Perché proprio il cibo?

È nato quasi per scherzo. Mi serviva qualcosa che avesse tutti i colori e proprio nel cibo ho trovato tutti gli accostamenti cromatici possibili. Tranne l’azzurro. Infatti, lo sfondo dei miei murales è azzurro.

La gente poi ha apprezzato molto, anche perché, se fai arte pubblica, devi essere un po’ “pop”. Essendo la tua tela la strada, devi intercettare la passione che c’è nella gente. In questo modo l’opera la sentono un po’ loro. Infatti, per me il lavoro è finito quando faccio la foto al murales, poi la mia opera diventa di tutta la comunità.

Io lego molto le mie opere al territorio. Per esempio, alla Mambrotta (località della provincia di Verona nota per la coltura dell’asparago bianco, ndr) ci sono gli asparagi, io disegno gli asparagi. Ho questo tipo di relazione perché così la gente si può identificare nei miei graffiti.

La tua arte si è legata a una missione. Sono famosi su Facebook i tuoi video in cui copri le svastiche con angurie, muffin o altro. Questa idea è nata in un secondo tempo?

In verità sono dieci anni almeno che copro svastiche. Ho cominciato quando hanno ucciso Nicola Tommasoli (studente veronese ucciso da un gruppo di giovani di estrema destra il primo maggio 2008, ndr) che era all’Università con me. Ho deciso di mettere i video sui social per senso civico. Perché l’idea andava condivisa. Volevo che altre persone scendessero in strada e facessero altrettanto. Magari in altre città, ognuno con il suo linguaggio. Io identifico Verona e la sua provincia con il cibo, perché è agricola. A Milano questo non avrebbe lo stesso significato. Bisogna che gli artisti trovino il linguaggio adatto al loro territorio.

Ma come hanno reagito a questa tua attività?

Molto male. Mi hanno sporto denunce molto pesanti, cercano di ostacolarmi in tutti i modi. Più che altro mi stupisce perché vogliono attaccare proprio me. Io ho sempre disegnato gratis per gli asili, ho sempre cancellato le scritte senza chiedere nulla. Io riesco ad affrontare una situazione come questa con il sorriso, la democrazia e la cultura. Però non tutti ne hanno la capacità o la forza. Se capitasse a un mio collega, che gli cancellassero trenta murales, lui rischierebbe di chiudere, di sparire. E se una comunità perde un artista, questo è un danno irreparabile per tutti. Non ricordo chi l’ha detto che la legge della relatività, se non l’avesse scoperta Einstein, l’avrebbe scoperta qualcun altro cent’anni dopo, invece Guernica, se non l’avesse dipinta Picasso, non ci sarebbe riuscito nessun altro.

Sentiamo in giro dire spesso “tanto votare non serve” ma tu, solo facendo disegni sui muri, hai innescato tutta questa spirale di eventi. Mi viene da chiedere se al giorno d’oggi ha senso fare questo?

Certo che ha senso. Ha senso per Nicola, ha senso per le ingiustizie che ho vissuto, ha senso per la comunità. Ricevo centinaia di foto di gente che cancella le svastiche e le celtiche nelle loro città. Ci sono moltissimi artisti che lo fanno. Io sono diventato involontariamente simbolo di questa lotta. Bisogna educare le persone a dire la propria opinione e a non essere indifferente di fronte ai soprusi. Ognuno può fare la differenza anche ribattendo a una frase ingiusta detta al bar. Non bisogna stare zitti, perché l’odio prospera nell’ignavia della gente.

Un’ultima domanda, Cibo, ti ricordi il primo cibo che hai disegnato?

(Ride) Il primo cibo mi sa un formaggio, un Montasio sei mesi. Uno dei miei formaggi preferiti assieme al monte Veronese. Era a Treviso, ancora dieci anni fa.

 

Foto tratte dalla pagina Facebook di Cibo, tutti i diritti riservati.

Art Brut, arte di tutti e creata da tutti

Negli anni Sessanta prende piede il termine Underground per definire un movimento culturale e artistico, nato nel secondo dopoguerra in risposta alla società di consumi che si andava delineando, movimento che con forza, talvolta esagerata, si oppone al mainstream, alla cultura tradizionale e ufficiale, alle mode predominanti, e decide di utilizzare strumenti di comunicazione ed espressione alternativi, insoliti e anticonvenzionali, facendo propria l’idea della controcultura, ossia di una filosofia di vita contraria all’establishment dominato dal denaro e dal successo.

È così che esplodono l’arte, l’editoria, la musica, la letteratura e il cinema underground, mossi da un senso di ribellione, di protesta, dal bisogno di volersi esprimere liberamente senza regole, al limite del buon costume e della buona educazione con una nota di trasgressività mista a chiara e fredda provocazione.

Questa cultura sotterranea risponde a un bisogno umano e sociale: è la risposta di una generazione (e di generazioni) alla ricerca di un’area di appartenenza e di un’identità allargata e condivisa in cui potersi riconoscere per sentirsi partecipi della storia.

 

 

Il Graffitismo e l’Aerosol Art di Jean-Michel Basquiat e di Keith Haring, la cultura hip-hop, il fumettismo, la Street Art di Banksy, Blue, Ericailcane, JR sono alcuni dei tasselli che compongono le infinite sfaccettature dell’arte underground; un’arte che si fonda sul principio per cui chiunque è e può essere un artista in quanto l’arte è di tutti e creata da tutti.

Questo stesso principio era stato espresso nel 1945 da Jean Dubuffet con l’Art Brut, un’arte che opera fuori dagli schemi e al di fuori di ogni tipo di istituzione culturale ed economica e che trova la sua espressione autentica nella necessità di raccontare se stessi e il mondo nella più totale libertà, ignorando i linguaggi ufficiali dell’arte e della critica. Dubuffet era attratto dall’arte dei bambini, degli alienati e di tutti coloro il cui istinto creativo non era imbrogliato dalle norme della ragione. Guardava infatti tanto alla pittura infantile e primitiva di Paul Klee, quanto al pensiero antirazionalista di Jean Jacques Rousseau e al mondo dell’inconscio portato a galla dai surrealisti.

«Non soltanto ci rifiutiamo di portare rispetto unicamente all’arte culturale e a considerare inferiori le opere che sono presentate in questa mostra, perché anzi noi riteniamo che queste ultime, frutto della solitudine e di un puro e autentico impulso creativo (ove non interferiscano aneliti di competizione, di applauso e di promozione sociale), sono più preziose di ciò che producono gli artisti professionisti» scrisse Dubuffet in merito alla mostra che nel 1967 organizzò a Parigi al Musée des Arts Décoratifs.

Vennero esposte numerose opere di circa 135 “artisti” di Art Brut, “artisti” che erano malati di mente, vecchi, proletari, eremiti, pittori autodidatti che usavano metodi anticonvenzionali e lontani dal mondo accademico per creare quadri, sculture e composizioni.

 

Jean Dubuffet, Theatre De Memoire, 1977

 

 

L’Art Brut e Jean Dubuffet diedero in tal modo inizio non solo a un nuovo modo di fare e concepire l’arte, ma contribuirono ad aprire la strada all’arte terapia, un interessante e delicato strumento non verbale grazie a cui si può esprimere il proprio mondo interiore.

Questa tecnica ha due distinti pubblici a cui riferirsi: uno più generico in cui chiunque, dal pittore autodidatta all’appassionato d’arte, dalla casalinga al manager può rientrare; questo target durante il laboratorio viene chiamato a esprimersi in totale libertà, a elaborare creativamente le proprie emozioni con l’ulteriore scopo di eliminare ansia, stress e conflitti.

L’altro pubblico, invece, ben più complesso e fragile, è quello dei servizi psichiatrici e per le disabilità, delle strutture per l’adolescenza, dei centri di riabilitazione, degli istituti penitenziari e dei centri diurni di ricovero per anziani. Un esempio a tal proposito è l’Atelier di pittura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nato nel 1990 sotto la guida artistica di Silvana Crescini. I pazienti, ognuno col proprio tempo e spazio, dipingono tele, scrivono poche righe sull’opera, provando e successivamente imparando a esprimersi secondo il linguaggio non verbale dell’arte e a far emergere il proprio mondo interiore, i propri sentimenti e i propri pensieri.

Il laboratorio in tal modo si accresce di un valore terapeutico, riabilitativo, sociale e comunicativo grazie anche al continuo appoggio e sostegno di un’equipe di medici e psicologi con cui si collabora e si creano i programmi ad hoc. Di certo non è un lavoro semplice e rapido, bensì richiede tempo e fiducia non solo in se stessi, ma anche in colui o colei che guida l’atelier pittorico.

 

Le Fabuloserie a Dicy, Francia

 

Un collezionista che mostrò un certo interesse verso l’Art brut, tanto da dedicargli un museo, è l’architetto Alain Bourbannais, che realizzò “La Fabuloserie” a Dicy in Francia. Il museo nato nel 1983, contiene diverse opere d’arte realizzate da pastori, contadini, guardiani, persone comuni che, senza nessuna conoscenza accademica dell’arte e delle sue tecniche, crearono burattini, disegni, giostre, quadri, sculture ed “installazioni”.

Grazie anche a collezionisti come Bourbannais, l’Art Brut è riuscita a trovare un posto nella storia dell’arte, accrescendone il valore proprio del fare artistico e delle sue variegate possibilità di espressione. L’arte non è più un mondo per pochi e per addetti ai lavori, ma si fregia di una grande libertà, diventando così linguaggio di tutti, un medium creativo, istintivo e non verbale che chiunque può impiegare per esprimersi, parlare di sé e della propria relazione con il mondo.

Roma, dove la pubblicità diventa street art

Roma è la città degli echi, la città delle illusioni, e la città del desiderio.
[Giotto]

 

Non c’è artista, poeta o scrittore, regista o attore, che non abbia colto passeggiando per le vie di Roma il fascino di questa città-museo, dove la storia più che mostrarsi, ci viene incontro a ogni angolo di strada, dove si passeggia tra muri di millenni lontani e il bello diventa luogo in cui abitare.

Diversa da qualsiasi altra capitale, proprio per questo suo fascino di dipinto su cui uno dopo l’altro si sovrappongono immagini di stili e forme che appartengono al susseguirsi dei secoli, più di una volta si è tentato di togliere a questa città il suo ruolo di centro politico ed economico, in sostanza statale, d’Italia. Certo, le difficoltà di poggiarsi tutta su fondamenta ricche di beni inestimabili e lo spazio urbano occupato da architetture di difficile restauro non agevolano l’ammodernamento di quest’atipica metropoli, le cui strade si aprono su pericolose voragini e la cui metropolitana, tanto per fare un esempio, conta solo tre linee a brevi tratti, mentre gli scavi per le nuove linee previste rimangono bloccate dal continuo emergere di nuovi siti archeologici.

Tuttavia, Roma non è poi così vecchia e i suoi abitanti sembrano già pronti a creare una sintesi tra l’estetica in cui sono soliti vivere e gli usi di capitali europee tanto distanti dalla nostra per cultura e approccio al territorio. Un vivace esempio di questa moderna idea di decoro cittadino, ce lo regala la Roma notturna, quando i negozi chiudono e le serrande si abbassano: è a quest’ora che le strade si colorano di dipinti a bomboletta spray, una forma d’arte del tutto contemporanea che perfettamente si concilia con le esigenze della moderna economia.

È dai primi anni del duemila, infatti, che a Roma si sta diffondendo un’abitudine già ampiamente diffusa nelle città nordiche, forse prima tra tutte Berlino, esempio principe di una città che non si abbandona alla propria storia, ma ricostruisce la propria immagine con uno stile del tutto nuovo, fondato sul sincretismo tra passato e presente; allo stesso modo, tra un monumento e l’altro della capitale italiana, s’impongono all’attenzione le saracinesche dei negozi, che ripropongono in tratti colorati le attività che si svolgono al loro interno.

 

Negozio chiuso nel quartiere di San Giovanni in Laterano – Roma
ACI Delegazione Re di Roma, via Pinerolo, nel quartiere di San Giovanni in Laterano – Roma
Agenzia di Scommesse SNAI in piazza San Giovanni in Laterano – Roma
Vineriagallia, via Gallia, nel quartiere di San Giovanni in Laterano – Roma

Come spesso accade, nel nostro Paese forse più che altrove, la spontanea iniziativa imprenditoriale è presto stata oggetto di accuse: gli esercenti, infatti, non sono tenuti a chiedere autorizzazione per promuoversi dipingendo direttamente sulle serrande, le quali non sono contemplate come mezzo per veicolare pubblicità dalla legge di riferimento (delibera 100 del 2006), e più di una voce si è sollevata a sostenere che l’obiettivo fosse proprio quello di evadere le tasse dovute allo Stato nel caso d’installazione di un’insegna esterna. Di fatto, gran parte delle attività che usano questa pratica la accompagnano con una regolare insegna, quindi la pittura sulle saracinesche non sarebbe da includersi come operazione a fini pubblicitari, ma come mera decorazione.

A ciò si aggiunge il fatto che, sebbene non in termini di tasse, tale operazione comunque contempla delle spese (mediamente sui 300 €) e offre un’opportunità di guadagno per molti giovani writers, tra i quali diversi hanno ora una firma attestata e altri si sono organizzati in gruppi che agiscono come aziende, comprensive di sito in line attraverso cui contattarli.

Al di là delle polemiche, la pratica continua a diffondersi per le vie della capitale e negli ultimi dieci anni ha preso piede anche in altre città italiane, da Milano a Torino, riflettendo a pieno la politica alla base della street art, che vuole trasformare le grigie metropoli moderne in un «posto migliore da vedere» [Bansky].

Gioielleria Sabatini, via Veio, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
OffLicense, negozio di birre in via Veio, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Edilambiente e panetteria, via Veio, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Happy Feet, calzature per bambini e ragazzi, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Ink Factory Tattoo, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
ZIP Sartoria Rapida, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Pizzeria Delicious, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Robivecchi risto-pub, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Panificio, via Cutilia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Pizzeria Marchese, via Etruria, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
PhotoSì, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Pigneto – Roma
Pigneto – Roma
Bar del Cappuccino, via Arenula, Rione Regola – Roma
Risivi Gioielli, via dei Pettinari, Rione Regola – Roma
Calzaturificio Timberland, Rione Regola – Roma
Negozio Weedo e Adriano Carnovale Hair Dresser Salon, via Appia Nuova – Roma

Fiducia è l’arte dei ciechi. L’incontro con i beni culturali secondo inChiostro

Proviamo a chiudere gli occhi e a muoverci nello spazio. La prima cosa che accadrà, sarà di incontrare un qualche ostacolo sul nostro percorso, un tavolo, una sedia, un divano, sbatterci contro ed inciampare. Con questo seppur semplice esperimento si può capire quanto senza la vista possa essere differente e complesso conoscere e interagire con il mondo. D’altronde gli occhi consentono una modalità estremamente facile ed immediata per conoscere, rapportarsi con gli altri e con l’ambiente circostante. Non tutti gli esseri umani, però, sono uguali. Qualcuno di noi non possiede tutti i sensi della percezione: qualcuno non sente gli odori, qualcuno è sordo, qualcun altro è cieco. Queste situazioni di deficit sensoriale comportano un diverso approccio nella comprensione e nel modo di confrontarsi con il mondo e con le altre persone.

La cecità e l’ipovisione sono fenomeni molto diffusi soprattutto in relazione alle malattie degenerative e all’invecchiamento della popolazione. Ma la mancanza totale o parziale della vista può permettere uno sviluppo facilitato del pensiero e della memoria, inoltre obbliga ad acuire gli altri sensi percettivi, anche quelli poco utilizzati dai vedenti come l’olfatto e il tatto (ricordandoci che quest’ultimo non è proprio solo delle mani, ma concerne tutto quanto il corpo). Se provate a parlare con un cieco, noterete con quale intensità ricordi fatti e persone: la sua capacità sensoriale ed esperienziale è diversa, amplifica l’attivazione delle percezioni e una modalità partecipativa della conoscenza.

La cecità, però, porta con sé un fondamentale problema motorio e spaziale. Spostarsi in una città o in casa propria, andare a fare la spesa, recarsi al lavoro potrebbe diventare un ostacolo quotidiano se non si facesse un buon uso della fiducia. Fiducia in se stessi e negli altri, siano essi persone o animali, che aiutano il non vedente a svolgere azioni ordinarie e quotidiane. Per i non vedenti e gli ipovedenti la fiducia è fattore imprescindibile per la conoscenza della realtà.

In merito a questa condizione umana Daniele Del Giudice scrisse nel 1988 un breve romanzo, Nel Museo di Reims, in cui con grande maestria di linguaggio racconta la giornata di Barnaba, un giovane ex ufficiale della Marina che pian piano perde la vista. Ormai le immagini per lui si confondono in «un’opacità indistinta e chiara», una sensazione che sta diventando quasi tattile. Barnaba decide di sfruttare il tempo che gli rimane per fissare nella memoria alcuni capolavori dell’arte e per questo si trova nel Museo di Reims tra le tele di Camille Corot, Théodore Géricault, Eugène Delacroix e Jacques-Louis David. Durante la visita fa la sua comparsa Anne, che con pazienza e attenzione descrive le opere presenti nelle sale, mostrandosi però talvolta poco precisa ed elusiva. Sembra inventare dettagli, e se deve dire che un vestito è giallo, non dice che è dello stesso colore di un limone o di un girasole, ma è «giallo come l’amore legittimo, o l’adulterio che lo rompe», utilizzando parole simili a quelle del pittore cieco John Bramblitt, che definisce «il nero un colore liscio e fluido, il bianco denso e corposo e le tonalità di mezzo derivano dalla combinazione delle varie densità». Le parole della giovane Anne, come quelle di Bramblitt, arricchiscono le opere di significati e particolari olfattivi ed uditivi, risvegliando poco a poco l’immaginazione di Barnaba e del lettore. Questo piccolo libro ci fa assaporare  tutta la bellezza dell’arte e dei suoi capolavori, facendoci riflettere su quanto sia importante l’accessibilità ai beni culturali.

L’associazione culturale inChiostro.Itinerari e incontri d’arte di San Paolo d’Argon (BG) si occupa di promuovere e valorizzare il patrimonio culturale locale. Come spiega il presidente Marco Ceccherini, «insieme a un gruppo di persone animate dalla passione per l’arte e dal desiderio di condividere la bellezza del proprio territorio, abbiamo iniziato circa due anni fa un percorso di promozione che punta alla conoscenza di questi meravigliosi luoghi d’arte, alla loro tutela e valorizzazione, anche attraverso le modalità di un rinnovato turismo culturale, che utilizza i nuovi sistemi di comunicazione e competenze specifiche nell’arte. Noi crediamo fortemente nel valore del patrimonio culturale locale e pertanto siamo promotori ed ideatori di particolari progetti attraverso visite guidate, degustazioni culturali, la realizzazione e l’accompagnamento di itinerari tematici ad hoc, l’organizzazione di incontri e progetti interdisciplinari finalizzati alla valorizzazione».

Proprio partendo dalla necessità di rendere i beni culturali del territorio accessibili a tutti, inChiostro ha iniziato a sviluppare uno strumento multimediale, un’applicazione che con file audio-visivi di carattere storico-artistico e la loro condivisione tramite social network permette anche ai non vedenti e agli ipovedenti di conoscere e scoprire i beni culturali del territorio.

Un progetto che vuole dare la possibilità a tutti i target di pubblico di ammirare e “vedere” il patrimonio che custodiscono chiese, chiostri e monasteri, presenti sul territorio bergamasco. Grazie anche ai finanziamenti della Regione Lombardia, l’associazione inChiostro. itinerari e incontri d’arte è riuscita ad avviare questo progetto che ad oggi coinvolge l’antica abbazia benedettina di San Paolo d’Argon, i chiostri, la chiesa adiacente e le chiese di Santa Maria in Argon, di San Lorenzo, di San Pietro delle Passere, di San Cassiano e di San Vincenzo della Torre tra San Paolo d’Argon e Trescore Balneario, per un totale di ben sette architetture.

Marco Ceccherini durante l’intervista spiega che il loro obiettivo non termina qui, anzi, l’associazione si pone un arduo compito: coinvolgere altri edifici religiosi che si trovano nei comuni vicini a San Paolo d’Argon, per continuare a rendere accessibile il patrimonio storico-culturale a tutti coloro che non possono fisicamente goderne. Inoltre, aggiunge, «dal 20 al 22 aprile 2018 verrà organizzata una rassegna di conferenze ed eventi per portare all’attenzione del pubblico la questione dell’accessibilità dei beni culturali con seminari, dibattiti e diverse iniziative collaterali come itinerari e degustazioni sensoriali tra Bergamo e provincia». Per il primo giorno è previsto un convegno dedicato agli operatori culturali e museali con relatori provenienti da tutta Italia, che parleranno di questo tema e di eventuali possibili strategie per risolverlo. I giorni successivi saranno ricchi di eventi culturali e incontri, senza tralasciare la possibilità di seguire anche percorsi sensoriali.

Per comprendere quanto la vista sia importante anche per la conoscenza delle bellezze artistiche, si potrebbe fare ancora un piccolo esperimento. Provate ad entrare in un museo, come Barnaba, chiudete gli occhi e fatevi accompagnare da qualcuno nel percorso espositivo, che avrà l’ulteriore compito di descrivere e spiegare le opere presenti al suo interno. Quando aprirete gli occhi alla fine del percorso, sarà quasi sconcertante vedere quei dipinti e quelle sculture che poco prima erano stati descritti, e si constaterà che l’immaginazione e la fantasia creativa del nostro cervello sono affascinanti, riuscendo in modo straordinario a sopperire, senza problemi, alla mancanza della vista. Ci si troverà davanti un’altra esposizione. È un’esperienza che tutti i vedenti dovrebbero fare per capire quanto la vista spesso pregiudichi e talvolta freni l’immaginazione e la capacità di pensiero.

Come è scritto nel Codice Mondiale di Etica del Turismo, «la possibilità di accedere direttamente e personalmente alla scoperta e al godimento delle bellezze del pianeta rappresenta un diritto di cui tutti gli abitanti del mondo devono usufruire in modo paritario». Pertanto è necessario parlarne e proporre soluzioni per consentire a chiunque una pari accessibilità del patrimonio culturale.

Ph. Credits: InChiostro.Itinerari e incontri d’arte. In copertina: chiostro dell’Abbazia di S. Paolo D’Argon (BG).

PUTIA | sicilian creativity, quando l’artigianato fa rete

Bottega: luogo reale e ideale, che identifichiamo con l’artigiano intento sui suoi prodotti, con l’odore del legno e i ferri sul tavolo.
“Bottega”, una parola dal sapore antico. Figuriamoci se la pronunciamo con la cadenza calda e accogliente di un dialetto italiano. In Sicilia, ad esempio, suonerebbe come “putìa”. Ma quella che vogliamo raccontarvi è una putìa dei nostri giorni, che la tradizione vuole circoscriverla e amplificarla al tempo stesso: benvenuti in PUTIA | sicilian creativity, piccolo negozio di Castelbuono (Palermo) e network in espansione; progetto imprenditoriale che valorizza l’artigianato indipendente ma anche gli artisti che sperimentano materiali locali.

«PUTIA nasce un po’ prima del mio arrivo», anticipa Stefania Cordone, art director e responsabile della selezione dei fornitori. Ma lei questa storia l’ha seguita fin dall’inizio, con lo stesso entusiasmo con cui, oggi, racconta ad ogni turista le origini dei prodotti esposti in negozio. Era il 2014 quando Giuseppe Genchi e Michele Spallino, esperti di marketing e comunicazione, decidono di orientare il proprio lavoro sulla valorizzazione degli artigiani locali. Affittano uno spazio incastonato tra le pietre del cortile Poggio San Pietro, accanto al Castello dei Ventimiglia, principale attrazione del paese. L’intuizione arriva presto: l’ufficio è grande e centralissimo, sarebbe un peccato sacrificarlo solo alle riunioni di lavoro. PUTIA diventa una vetrina dell’artigianato e dell’arte.

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Stefania si innamora del progetto e ne sposa la causa: «L’obiettivo è raccontare una Sicilia diversa da quella che intuiscono i turisti filtrando dagli stereotipi. Vogliamo raccontare la Sicilia di chi resta, della resistenza e della resilienza: gli artigiani con cui collaboriamo abitano quasi tutti in Sicilia oppure, se non restano, la portano con sé e la raccontano nei loro manufatti».
Un altro criterio di selezione dei prodotti è la materia prima: «Un racconto della Sicilia attraverso i suoi materiali: ceramica, pietra lavica, corallo, legni autoctoni come il frassino e l’ulivo, e soprattutto la manna, fiore all’occhiello di Castelbuono».

Ne risulta una mappa della nuova creatività siciliana, che trova letteralmente forma nel pannello sagomato sulla forma della Sicilia all’interno del negozio-laboratorio, dove sono indicate le località di provenienza dei diversi produttori, suggerendo un altro modo di vedere e viaggiare in questa regione. «Quello che esponiamo e vendiamo è un pretesto per raccontare tutto quello che di bello c’è in Sicilia, nonostante sia una terra difficile. E io lo so» sottolinea Stefania «perché ho scelto di vivere qui».
Capiamo subito l’obiettivo profondo del team di PUTIA, ossia Michele, Stefania e Cinzia Venturella: scardinare antichi cliché con parole e azioni nuove, come consumo critico e km 0, filiera di qualità e slow life.

E poi ci sono le parole di Stefania, cantastorie che dà voce ai racconti di cui le opere sono testimonianza muta. «Sono il nostro valore aggiunto. Lo faccio ogni giorno e non mi stanco, perché scopro sempre qualcosa di nuovo». E così ci racconta la storia dei taccuini a marchio Edizioni Precarie(in copertina): la fornitrice è Carmela Dacchille, pugliese d’origine e siciliana per vocazione, che con la linea Conserva la tua freschezza! riutilizza la carta alimentare che nei mercati di Palermo avvolge carne, pesce e formaggi, per conservare, stavolta, la freschezza dei pensieri.
Ci sono le ceramiche Don Corleone di Taormina, i gioielli di Roberto Intorre, gli Animalberi di Vera Carollo… ma vogliamo parlare anche del discorso sull’arte sviluppato da PUTIA. E qui ritorniamo al momento in cui Stefania si unisce all’impresa.

 

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Formatasi all’Accademia di Belle Arti di Palermo, Stefania si divide tra PUTIA e il suo studio di disegno e incisione. «Al mio arrivo abbiamo pensato a un restyling del progetto, specificando il tipo di artigianato selezionato, più inusuale e innovativo, e dell’allestimento, per valorizzare PUTIA non solo come negozio ma come esperienza artistica». Inoltre, il livello sottostante, prima dedicato alle riunioni, diventa un’art gallery.
Sede di mostre personali e di una “collezione permanente”, «perché l’arte ha bisogno di un raccoglimento diverso dall’attenzione riservata all’oggettistica», ma anche presentazioni di libri, dischi e workshop. Con PUTIA Gallery l’educazione alla bellezza si unisce all’obiettivo più strettamente commerciale: avvicinare un flusso di visitatori che, attirato dai prodotti, torna periodicamente per partecipare alle iniziative culturali. «Anche di quei turisti che, attratti dai prodotti in vetrina, possono avere un approccio involontario all’arte».

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«In realtà non è stata pensata come strategia commerciale», ammette Stefania, «è una conseguenza delle nostre relazioni con artisti e artigiani: creatività genera creatività». L’input iniziale, insomma, è più genuino, ma la formula funziona: il franchising è un obiettivo ancora futuribile e prematuro, ma il network del “made in Sicily” sta prendendo piede grazie ai nuovi media, una risorsa in più per le nuove realtà artigianali. «Per ora la nostra unica vetrina online è stata la pagina Facebook, poi si è aggiunto Instagram e ora stiamo progettando l’e-commerce».

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Il lavoro non è semplice, ma può dare nuovi stimoli per riflettere sul proprio essere artigiano oggi. «Proporre una visione culturale e politica è un modo importante per noi giovani per dichiarare di esserci, soprattutto oggi che per vendere non sono necessarie delle sedi fisiche e non basta più il passaparola».
Creatività e strategia, queste le due parole chiave per l’artigiano di oggi. «E tanta caparbietà: torno alla parola “resilienza” ». Oggi su TripAdvisor PUTIA è la terza attività di Castelbuono dopo il Museo Civico al Castello: «Questo significa che stiamo lavorando bene e che le persone lo riconoscono. L’esserci su questo territorio, un piccolo paese, ha una gestazione lenta, come la lavorazione artigianale richiede la lentezza del fare. Ma i risultati ci ripagano».

L’influenza del genio: da Brescia a Parigi tra Chagall e Picasso

Sin dall’età ellenistica il termine mimesis è presente nel campo artistico, in quanto si riconduceva il concetto stesso di arte come imitazione della realtà. L’attività dell’artista raramente nasce dal nulla, tutti subiscono influenze, emulano e assorbono le esperienze circostanti.

Esiste certo l’eccezione del genio creativo, dell’autodidatta, ma come disse Picasso: «Gli artisti mediocri copiano, i geni rubano». Il grande estro spagnolo riteneva dunque impensabile che l’opera di talento potesse nascere orfana di qualsiasi influenza, anzi Picasso giustifica, senza filtri, la possibilità di impadronirsi del modello, ma solo se dotati della capacità di attraversarlo e renderlo incredibilmente originale da far scomparire il confine di appartenenza.

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Senza però infrangere alcun copyright più che di imitazione, parliamo di ispirazione, di allievi diretti e indiretti, che intrisi degli insegnamenti del maestro, riproducono opere uguali o a tratti simili, omaggiandolo.

L’eco dell’arte non ha limiti di persistenza tanto da trovare tracce caravaggesche nel realismo ottocentesco e di Picasso e Chagall nei contemporanei.

Oggi Pequod vi propone due esposizioni geograficamente distanti, ma parallele, che seguendo i percorsi di diversi artisti contemporanei, rivelano quanto imparare dai grandi modelli possa rendere ricchi se stessi e l’arte.

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Per i più patriottici si inaugura oggi la mostra dedicata a Mark Zacharovič Šagalov, il celebre artista bielorusso meglio conosciuto come Chagall, che solo qualche mese fa colorò le pareti del Palazzo Reale di Milano. Quest’oggi invece le tinte accese e le linee morbide, quasi impalpabili, sono ospiti del complesso museale Santa Giulia di Brescia. 

Con una piacevole sorpresa: all’esposizione partecipano anche i lavori del premio Nobel Dario Fo (in copertina), attore, scrittore e pittore professionista, che nella sua lunga carriera è stato spesso ispirato da Chagall in molti dipinti. Fo dichiara di sentirsi molto vicino all’artista ebreo per il gusto dell’impossibile, per il surreale e per il paradossale.

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Per chi invece dovesse decidere per un last minute, anche Parigi offre confronti su tela tutti ispirati a Picasso, dall’omonimo titolo Picasso Mania. La mostra, allestita nel Grand Palais della Galerie Nationales ormai dal 7 ottobre, sarà visitabile fino alla fine di febbraio, come quella bresciana.

Le sale museali ci offrono una piacevole rassegna di opere appartenenti alle varie fasi creative e stilistiche di Picasso, affiancate da opere contemporanee di artisti come Lichtenstein, Kippenberge, Hockney, Johns.

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Entrambe le esposizioni intendono dimostrare la relatività di un modello e le sue infinite possibilità di interpretazione. Centrale è anche il ruolo che i colossi della creazione rivestiranno per sempre nella storia dell’arte, ponendo l’accento sulla tradizione moderna come il cubismo, il fauvismo o le avanguardie che, come ogni corrente sovversiva inizialmente colpita da critiche sferzanti, lascia il proprio solco nell’opera delle nuove menti dell’arte.

Cambia_menti: il collettivo Cesura in mostra al MuFoCo

20 settembre 2015 – 31 gennaio 2016

Quattro storie. Quattro vite. Quattro fotografi pronti a raccontarle.

Una mostra dedicata al tema della diversità/inclusione, quella in scena al Museo di Fotografia Contemporanea, all’interno della sede secentesca di Villa Ghirlanda, nel cuore storico di Cinisello Balsamo (Milano); frutto delle ricerche del collettivo di fotografi indipendenti Cesura, a cura di Roberta Valtorta e Diletta Zannelli e in collaborazione con RS Components, un’azienda che della responsabilità sociale d’impresa ha fatto un tratto distintivo della propria identità.

I progetti sono interamente installati nella sala espositiva principale, mentre nella più piccola si trova una presentazione del progetto con materiali informativi su RS Components e sui progetti che il MuFoCo da anni porta avanti con l’azienda.

Quattro protagonisti che, attraverso altrettanti racconti profondamente attuali, affrontano i problemi importanti della controversa società contemporanea, affrontando il tema delicato della capacità di cambiare se stessi e il mondo che ci circonda.

 

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LA BUONA POLITICA
Alessandro Sala racconta, attraverso installazioni toccanti, del sindaco di Petrosino (Trapani) Gaspare Giacalone da anni portavoce di valori quali la tutela del territorio, il turismo sostenibile, la legalità, l’arte e la cultura, lotta oggi contro la costruzione di un parco eolico a sole 2 miglia dalla costa.

 

 

 

TERRE RARE
Arianna Arcara porta in scena il binomio donne – tecnologia, con la storia di Biniana Ferrari, vincitrice del premio internazionale Le technovisionarie che, grazie alla tecnologia unica in Europa adottata dalla sua azienda Relight, ricicla rifiuti hi-tech estraendo alcuni elementi chimici estremamente preziosi per le aziende di elettronica, le cosiddette Terre Rare.

 

 

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TECHNOLOGY
Luca Santese mostra gli ultimi risultati concreti, frutto della collaborazione tra tecnici e artigiani, nella costruzione di protesi e prodotti volti a migliorare le condizioni esistenziali dei pazienti.

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THROUGH THE LIGHT
Gabriele Micalizzi si concentra su disuguaglianza ed integrazione, temi scottanti al centro dei più grandi conflitti internazionali contemporanei. Elemento predominante è la luce che diventa strumento uniformante per le diverse etnie ritratte.

Scatto dopo scatto emerge quanto il cambiamento non possa essere tale se non implica cambia_menti di se stessi e del mondo, attraverso scelte etiche e sostenibili.

Muri che mordono: il ruggito di Turbosafary

 

Rompiamo i cordoni rossi che ci separano dalle tele appese, viaggiamo tra forme spigolose, andiamo a conoscere la ciurma di Tubosafary! Parliamo di un collettivo formato da cinque giovani talenti del graffito urbano che durante l’estate appena trascorsa hanno conosciuto la calce dei muri di tutta Italia, loro sono Cripsta, Dilen, Tybet, Acca ed Est Her.

Amicizia e affiatamento da circa tre anni sono il collante che lega i cinque nomadi, che solo da quest’anno avranno sede a Milano. Si ispirano a Matisse e credono nell’idea di non limitare né la fantasia, né il campo d’azione, fondendo insieme i gusti e la creatività di ogni singolo componente del gruppo, ottenendo un armonioso cocktail geometrico e cromatico. Conosciamoli meglio!

 

Se dico Tubosafary, voi cosa dite?

«Turbosafary è una folle corsa in stile Mad Max, solo che le vetture sono guidate da animali selvaggi. Dopo un infinito brainstorming abbiamo scelto il nome, suonava bene, era unico e ci rappresentava, racchiudeva la nostra voglia di fare e il nostro spirito un po’ tribale. Quando abbiamo finito ci siamo accorti che era solo quello che volevamo diventare. Ci unisce davvero una profonda amicizia e un’incredibile voglia di sperimentare, prendere ciò che di buono ciascuno di noi può dare per imparare e creare qualcosa di nuovo e di bello».


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 L’arte oggi: passione o professione?

«Ci ritroviamo spesso a chiederci, se quello che facciamo sia arte, forse è solo una piccola sfaccettatura, ma intanto proviamo a trasformare le nostre passioni in un lavoro.

I due ambiti possono di certo essere in contatto, ma non crediamo sia giusto vendersi e perdere di vista il proprio stile e la propria ricerca per ricavarne un profitto».

Qual è il marchio di fabbrica inconfondibile? 

«Lo stile Turbosafary è composto da elementi grafici dalla tinta piatta, con colori pastellosi e brillanti, bilanciati da altre forme più aggressive e taglienti, rendendo l’opera finale un gioco armonioso di strutture disarmoniche e apparentemente discordanti.

Vorremmo trasmettere l’essenza di ciò che siamo e di come vediamo il mondo: un equilibrio di elementi diversi che insieme danno vita a qualcosa di fresco, distante dall’accademico. Turbosafary è probabilmente prima un modo di essere, che poi prende vita nei nostri lavori».

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L’estate 2015 è stata ricca di opportunità creative, cosa avete realizzato sotto il sole della bell’Italia?

«E’ stata una bella avventura, nel giro di venticinque giorni abbiamo girato Puglia, Calabria, Sicilia, Abruzzo e Marche a bordo del nostro furgone. In questo viaggio abbiamo avuto la conferma della bellezza del nostro paese, di quanto possa essere ispirante e ricco di persone e luoghi splendidi.

Abbiamo, inoltre, conosciuto molte realtà che operano per lo sviluppo artistico urbano nel sud e centro Italia. Ovviamente abbiamo lasciato, quando abbiamo potuto, un segno del nostro passaggio».

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Per due anni avete collaborato con il Pop up! Festival, quali progetti avete organizzato e cosa vi hanno lasciato?

«La nostra prima collaborazione con il Pop up! Festival risale al 2013, quando ci è stato chiesto di realizzare un progetto di street art con i bambini della scuola

Serendipità, un casolare immerso nella campagna di Osimo e trasformato in una scuola materna libertaria. Abbiamo realizzato un workshop per i bambini, in cui abbiamo raccontato la ‘Storia dell’isola di Ö’, un luogo magico, abitato da personaggi fantastici. Questa fase di lavoro ha permesso di coinvolgere completamente i bambini, rendendoli partecipi della fase progettuale e compositiva. Il passo successivo è stato la riproduzione dei personaggi sui muri della loro scuola! Un progetto davvero ricco e interessante.

La seconda collaborazione con il festival è avvenuta quest’anno e siamo stati chiamati a dipingere la stazione ferroviaria di Castelplanio, nei Colli Esini marchigiani. Siamo molto grati all’associazione MAC per queste due opportunità che ci ha offerto».

 

 

Libri senza figure? No, grazie.

Ti ricordi quando alla scuola materna, prima che arrivasse la mamma a prenderti, la maestra leggeva una storia? Era un grosso librone, la storia spesso l’avevi già sentita, ma era bellissimo lo stesso. Ti eri appena svegliato dal sonnellino pomeridiano e aspettavi, sulla tua seggiolina di legno colorato, che la maestra facesse girare il librone tra le manine del piccolo pubblico per ammirare le immagini della fiaba, ma, giunto il tuo turno, puntualmente, la mamma arrivava e dovevi scappare a casa!

Oggi su Pequod parliamo di letteratura illustrata, ma non della solita polverosa edizione dei Fratelli Grimm, bensì di libri illustrati per adulti, per quei ‘grandi’ che hanno così faticato ad accettare nella loro carriera di lettori i libri senza le figure.

Non sono molti gli autori che si affidano alle illustrazioni per completare il proprio libro, si preferiscono, infatti, fitte pagine di parole stampate.

Ma siamo certi che le immagini non possano farsi largo e rendere un libro dignitoso quanto uno che non le ammette? Le immagini sono uno strumento potentissimo sia ammirate in una galleria d’arte o in un testo, accompagnate da una storia. Nei testi tecnici e scientifici sono impiegate per dare dimostrazione di ciò di cui si deve avere una rappresentazione precisa, ma nelle storie fantastiche, dettate esclusivamente dal genio dell’autore, le illustrazioni possono ostacolare l’immaginario dell’uditorio?

Quante domande! Mettiamo un po’d’ordine: uno degli ingredienti che fanno dell’esperienza della lettura una ricetta da assaporare fino in fondo è immaginare la situazione raccontata, costruire il mondo parallelo creato dall’autore, in un modo speciale, quasi mai simile a quello dell’amico a cui hai consigliato il libro che hai appena chiuso.

 

Diversi autori, tra i quali Lev Tolstoj non permettono al lettore di lasciare la propria mente libera di scorrazzare tra i dettagli di un viso o della personalità dei personaggi, perché tutto è controllato e indirizzato dallo scrittore. Si ottengono, però, risultati incredibili quando ad una storia ambigua e a tratti strana e misteriosa, si aggiungono illustrazioni altrettanto singolari: è il caso del volumetto edito da Einaudi intitolato Sonno, scritto da Haruki Murakami e illustrato da una talentuosa Kat Menschik.

La storia è forse solo un contorto sogno, in cui la protagonista, una normale casalinga, prende coscienza di quanto la propria vita le stia scivolando dalle mani nella sua quotidiana monotonia. La donna inizia a vivere una condizione di insonnia perenne, ma riscoprirà, mentre tutti chiudono gli occhi nella notte, uno spazio per sé. Tutta la dimensione onirica su cui è giocato il libro permette alla mente del lettore di pensare alla protagonista come più gli aggrada, ma quando si gira pagina l’illustrazione della Menschik non è mai ciò che ti aspetti.

I toni usati dall’artista tedesca, che caratterizzano anche tutta l’estetica del volumetto, sono argento, blu e bianco, colori glaciali che evocano gli abissi dell’inconscio inesplorato, disegni di mare dove trovano spazio occhi spalancati, insetti, conchiglie, particolari ai quali, non avevi pensato.

 

Senza illustrazioni questo racconto non sarebbe stato se stesso. Viene spontaneo chiedersi perché le illustrazioni nei libri per adulti siano andate dissolvendosi, soprattutto perché qualche immagine, tra una pagina e l’altra sarebbe in grado di acchiappare nella rete molti più lettori spaesati.

Pequod lancia quindi un appello alle nuove promesse della scrittura: ridateci le figure! Perché non siamo mai abbastanza grandi.

Steve McCurry: oltre lo sguardo di chi?

Quando si parla di Steve McCurry il rimando automatico è al celeberrimo ritratto di Sharbat Gula, la ragazza afgana dai penetranti occhi verdi, curiosi e al contempo spaventati, dietro ai quali si cela una storia di povertà e voglia di riscatto, pubblicato sulla copertina del National Geographic nel giugno 1985. Una mostra dedicata agli scatti di uno dei fotografi più apprezzato al Mondo non poteva che intitolarsi “Oltre lo sguardo”.

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Oltre lo sguardo del fotografo.

Steve McCurry, classe 1950, fotoreporter statunitense, viaggiatore cosmopolita instancabile più volte premiato con il World Press Photo Award. Una carriera trentennale condensata nelle esperienze fotografiche tra India e Birmania, Cambogia e Afghanistan, ma anche Giappone, Africa, Brasile, Italia, America.

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È proprio in India che ha imparato a guardare e aspettare la vita: «se sai aspettare le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto». Una professione avviata e successivamente consolidata tra i conflitti internazionali di maggiore rilievo storico; l’innovazione congenita di McCurry è la prospettiva dalla quale osserva, non si sofferma sulla devastazione dell’ambiente piuttosto su quella del volto umano.

«Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genuina, in cui l’esperienza s’imprime sul volto di una persona. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità».

Un artista magistrale che si plasma al mondo che lo circonda con naturalezza, lingue, culture e tradizioni diverse, distanti, che diventano ponti paralleli da percorrere con umiltà.

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Oltre lo sguardo dei protagonisti.

Dietro ad ogni singolo scatto una storia intera che aspetta solo di essere raccontata. – Ritratto di un ragazzo della tribù Suri (Ethiopia); Operai su una locomotiva a vapore (India); Un uomo anziano della tribù Rabari (Rajasthan). –

Un assaggio dei titoli dai quali non emergono nomi propri, l’ignoto contribuisce a rendere tutto ancora più straordinario. Se vuoi entrare nelle vite di queste persone, nel loro quotidiano, devi farlo in punta dei piedi, con la stessa leggerezza con la quale loro entrano nella tua.

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Oltre lo sguardo del visitatore

Dall’India all’Italia più di 150 scatti fotografici che sembrano fermare il tempo tra i corridoi della mostra. Un percorso studiato per condurre il visitatore tra i primi volti indigeni e modesti presentati al grande pubblico, passando per la guerra del petrolio tra Iran, Israele e Arabia Saudita, una parentesi sulle catastrofi naturali degli ultimi decenni, arrivando infine ad eventi più recenti come l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre.

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Le audio-guide ed i video documentari studiati nei minimi dettagli contribuiscono a trasportare lo spettatore in luoghi lontani e avventurosi, avvolgendolo con scatti, espressioni, paesaggi mozzafiato.

 

Se ve la siete persi a Palazzo Reale a Monza, lo Studio 1 di Cinecittà aspetta solo voi.

Damanhur: i colori dell’umanità nei sotterranei della Valchiusella

A nord di Torino, nella Valchiusella, si incrociano quattro delle linee sincroniche che, come fiumi impetuosi, trasmettono idee e pensieri e mettono in contatto ogni punto del mondo con l’universo. No, non siamo in preda ad una crisi mistica, questo luogo esiste davvero, si chiama Damanhur. Il nome significa ‘Città della luce’ ed è stato premiato dalle Nazioni Unite in quanto più grande società ecosostenibile presente in Europa.

I damanhuriani riciclano, sperimentano nuove tecnologie verdi, si riscaldano bruciando legna nei camini, e, soprattutto, bandiscono accendino e sigarette, anche negli spazi aperti. Inoltre l’eco-società sostiene numerosi enti locali e non, che si occupano di ristorazione, distribuzione commerciale di alimenti bio, o vendita di abbigliamento handmade.

L’ambiziosa etica new age si basa sulla convinzione che in ogni individuo sia presente una scintilla divina da portare alla luce grazie alla meditazione e all’impiego di particolari forme a spirale che permettono il fluire di energie positive.

 

Ma la ‘Città della luce’ è anche la città del colore e dell’arte, infatti è divenuta meta turistica di grande attrattiva per la rilevanza estetica in ambito pittorico, plastico e del vetro soffiato. A Damanhur tutti sono artisti e a tutti è permesso colorare le strade del villaggio con le tinte del proprio pennello.

La comunità offre un ventaglio di possibilità davvero vasto per chi desideri esprimere se stesso attraverso l’estetica delle forme, del colore e dei materiali, è possibile infatti accedere a corsi di formazione artistica o semplicemente frequentare i laboratori di statuaria, della lavorazione del vetro, di ceramica e di mosaico.

 

Tutte le tecniche acquisite nei vari atelier hanno permesso ai damanhuriani di incastonare, nei sotterranei, quello che è stato annoverato tra le meraviglie del mondo: i Templi dell’umanità.

 

Questo organismo sacro è composto di sette sale, sempre visitabili e utilizzabili da gruppi di fedeli di qualunque confessione religiosa per celebrare le proprie cerimonie. La costruzione iniziò nel 1978 ad opera degli stessi abitanti e fino circa al 1991 la sua esistenza rimase segreta anche a molti dei membri della comunità, in quanto non esistevano leggi che autorizzassero la creazione di strutture sotterranee di questo genere.

Gli ambienti sono così distinti: sala degli specchi, dell’acqua, dei metalli, della terra, delle sfere, il labirinto ed infine il tempio azzurro. Una luce particolare inonda l’aura sacrale di questi spazi, nei quali, al di là di ogni convinzione personale, si respira indubbiamente un’intensa spiritualità.

Le varie sale sembrano porsi in una dimensione dove tutte le forme fluttuano, dando vita a linee che nella loro semplicità creano effetti che non possono lasciare l’occhio indifferente. Il colore è l’indiscusso protagonista, tinte diverse e contrastanti si stagliano sui dipinti parietali rappresentanti simboli di ogni culto, figure umane sorprendentemente realistiche, ed elementi naturali.

L’esplorazione procede attraversando numerosi corridoi dalle volte dorate, ai cui lati troviamo curiose statuette in terracotta di soggetti non ben identificabili; vale la pena rivolgere il naso all’insù per ammirare i soffitti, spesso a cupola, finemente decorati da preziose vetrate o mandala dipinti.

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Ma non è tutto vetro quello che luccica, infatti numerose sono le testimonianze dei ‘fuoriusciti’ dalla comunità, i quali la descrivono come una vera setta che opera attraverso meccanismi coercitivi, pressioni psicologiche che porterebbero l’individuo a scindersi dal mondo al di fuori delle mura di Damanhur.

Nota è inoltre l’evasione fiscale di cui fu accusato il fondatore nel 2004 e l’abuso edilizio dovuto alla costruzione dei templi.

La sontuosità e bellezza di questi luoghi segreti rimane indiscutibile, ma non è necessario essere trascinati nella morsa delle forze spirituali per apprezzarne la meraviglia.

Africa. La terra nera e selvaggia tra danze e spiriti

Milano. Alla vigilia di EXPO sulla scia di ritardi e polemiche, apre al pubblico uno spazio espositivo innovativo e dal design unico: il MUDEC – Museo delle Culture – risultato di un’operazione di recupero dell’ex fabbrica Ansaldo. Per l’inaugurazione sono state organizzate due mostre in collaborazione con 24 ore cultura – Gruppo 24 ore: “Mondi a Milano” ed “Africa. La Terra degli spiriti” attive fino al 30 agosto 2015.

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Se la prima comporta un viaggio tra le culture extraeuropee già note al grande pubblico, “Africa. Terra degli spiriti” si presenta come un percorso monumentale articolato attraverso più ambienti in successione che occupano buona parte del primo piano dell’edificio progettato da Chipperfield, alla scoperta della cosiddetta art negrè dal Medioevo ad oggi.

Due diversi livelli di interpretazione: uno dal sapore più occidentale con capolavori già noti al pubblico che rimandano quasi automaticamente alle avanguardie del ‘900 tra maestri quali Piacasso o Matisse, in prima linea nella valorizzazione di quest’arte; e dall’altro le opere “selvagge” della tradizione culturale e religiosa del continente africano dal congenito impatto visivo, che ne spiegano simbologia e importanza all’interno del quotidiano della popolazione della fascia subsahariana.

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Il percorso accompagna il visitatore in un viaggio che offre la reinterpretazione, la rilettura di oltre 270 opere della realtà artistica africana. L’allestimento è un gioco di contrasti continuo tra il buio impavido dello spazio espositivo e la luce aurea che illumina maschere, avori, sculture lignee, statuette e reliquari esposti in maniera scenografica; nella prima sala alcune opere all’interno di imponenti teche cilindriche sospese, sembrano fluttuare quasi magicamente, altre si elevano dall’ombra poggiate su sostegni e architetture altrettanto scuri.

Il percorso prosegue con il racconto della ricchezza reale, sovrana e maestosa, passando poi agli oggetti di uso quotidiano, parte integrante della cultura, della quale emerge il forte legame tra uomo e natura. L’ultima sala è la più emblematica e spirituale, cattura l’ospite in una dimensione sonora e colorata, nella quale le protagoniste assolute sono le maschere, simbolo dell’Arte Nera, attraverso le quali gli individui entrano in contatto con gli spiriti e diventano un tutt’uno con esse grazie ai canti e alle danze.

 

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Il visitatore potrà inoltre viaggiare attraverso tre essenziali momenti della religiosità dell’Africa Nera: il mondo degli spiriti, la divinazione che interroga gli spiriti della terra e del vento ed i sacrifici necessari a placare i demoni che minacciano la vita degli uomini e degli animali. In quest’ottica le opere riflettono la maestosità della cultura legata alla vita tanto quanto alla morte, legata al rispetto delle divinità e dei propri antenati.

Un’arte tradizionale, maestosa e colorata che si insinua sottopelle tra un’opera e l’altra, stuzzicando e provocando l’immaginazione, la creatività e la spiritualità personale.

Vanitas vanitatum et omnia vanitas

I suoi occhi profondi son fatti di vuoto e di tenebre,

e il suo cranio, artisticamente acconciato di fiori,

oscilla mollemente sulle gracili vertebre.

Oh, fascino di un nulla follemente acconciato!

 

C. Baudelaire, ‘Danse macabre’, ‘Fleurs du mal’

 

Chi è la cupa signora che ha stregato Baudelaire? È la stessa che con il suo sguardo cavo ha ammaliato Barbara Frigerio e i visitatori dell’esposizione Lovely bones, in via dell’Orso 12 a Milano. La galleria che ospita la mostra è di modeste dimensioni, ma la portata delle creazioni esposte supera ogni aspettativa.

Ispirata al racconto e film Amabili resti, Lovely bones indaga uno dei temi che sin dagli albori del pensiero lascia insonne la sensibilità umana: la morte, o meglio, ciò che resta dopo che il respiro si è spezzato.

Nessuna audio-guida, nessuna parola, sono teschi e bucrani a spiegare quello che ancora non sai dell’oscura signora incappucciata.

In realtà, il fil rouge che conduce, dall’estremo realismo di Anna Cirillo e le pennellate, così delicate e sottili di Momina Muhamamad, è la vanitas.

La vanitas, in pittura, ritrae nature morte intrise di un forte simbolismo allusivo, prediligendo teschi abbandonati su un tavolo,  tra fiori appassiti, clessidre o strumenti muti. Tutto rievoca la caducità della vita e l’immobilità dopo la morte, quando il nostro corpo sfiorisce e ciò che rimane è solo un misero mucchio d’ossa bianche.

Vanitas vanitatum et omnia vanitas’ (vanità delle vanità, tutto è vanità): sì, tutto è vanità, tutto è scorza, la pelle, le unghie rosse e il belletto, come la terracotta di Paolo Schmidlin, che ci offre una Bette Davis inghiottita dalle cavità ossee del suo volto di cera, che si differenzia dal proprio teschio solo per il rossetto e la messa in piega.

È questo, infatti, l’obiettivo di queste ossa interpretate dagli artisti scelti dalla Frigerio: mostrare il succo dell’uomo, presentare a noi stessi quello che spesso ci scordiamo di essere: tutti uguali e senza scampo.

 

Trovarsi davanti alla verità non è facile, le certezze a cui ti aggrappi non valgono più nulla quando sei messo a nudo, con le spalle al muro. Lovely bones è uno specchio, una finestra personale alla quale affacciarsi in solitaria, così che ognuno si renda conto di non essere migliore di chi gli sta accanto.

Le ultime scarpe che hai comprato ti fanno sentire cool quando passi per strada, ma tornano ad essere solo stoffa e lacci quando ti rendi conto che, sotto sotto, hai la stessa carne di chi quelle scarpe non le comprerà.

I relitti ossei di via dell’Orso diventano così un mezzo introspettivo per scoprirci e per ridere del buio che c’è dopo. Ciò che traspare infatti è anche la spiazzante ironia con cui il tema viene accolto dalla mente degli artisti: del drammatico nemmeno l’ombra, neanche una stilla di sangue, solo una clamorosa risata davanti alle porte dell’Ade.

È tipico dell’uomo sdrammatizzare ciò che teme di più e a partire dall’epoca tardomedievale numerosi sono gli esempi in ambito artistico di Danza macabra, nei quali venivano rappresentate, in risposta alla devastazione delle grandi epidemie, scheletri danzati insieme ad alcuni uomini appartenenti alle diverse categorie sociali.

Lovely bones diventa il memento mori d’eccezione, ricorda a tutti che nulla è per sempre e che abbiamo tutti lo stesso traguardo da tagliare, ma non c’è motivo di angustiarsi.

Leonardo Lussana: I due volti dell’arte

Nel corso delle epoche la definizione di arte si è modificata e ampliata tante volte, grazie a nuove visioni artistiche e l’utilizzo di nuovi stili, potremmo dire che quella che racchiude tutto questo è questa: “Qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva”.

Oggi noi di Pequod parleremo di questo e altro con Leonardo Lussana in arte Leù, giovane artista con la doppia anima: Dottore in Beni culturali e Storia e critica dell’arte e writer; qualcuno direbbe che sono due cose completamente diverse, il fuoco e l’acqua, invece Leù non si identifica con una o con l’altra perché come lui stesso afferma: «Sono entrambe parti che compongo il mio io, come il mio lavoro, le mie altre passioni le mie qualità e i miei difetti.».

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Leù ha iniziato a dipingere graffiti una decina di anni fa; ci racconta: «I motivi che mi hanno spinto a cominciare sono diversi e, alcuni, rispecchiano quei classici stereotipi che la stampa e l’opinione comune sono soliti indicare come tratti caratteristici dei giovani della nostra generazione: al primo posto metto la mia passione per tutto quel che riguarda la pittura e il disegno, a seguire, la fascinazione per i murales che vedevo tutti i giorni lungo la strada andando e tornando da scuola, la ricerca di emozioni diverse nella vita di tutti i giorni, la volontà di dire al mondo: “ehi, guarda che ci sono anche io” e anche un sentimento di rifiuto verso tutto quello che fa la maggior parte della gente. »

Il suo primo graffito l’ha realizzato in un sottopasso: «Non avevo bene chiaro quello che stavo facendo, non avevo nemmeno preparato una bozza, fu una cosa spontanea e il risultato fu più simile ad un occhio di bue che a un pezzo vero e proprio (il mio nome in lettere bianche decorate da pois gialli), insomma, citando Fantozzi, “una cagata pazzesca”».

Lui non si considera affatto un artista, «ma uno che si diverte come un bambino a cui danno i pennarelli e gli dicono di disegnare ciò che vuole. Detto questo posso dire che cerco di trasmettere sul muro le mie sensazioni e i miei stati d’animo, ad esempio cerco di inserire un cielo con delle nuvole nelle mie composizioni: mi soffermo spesso ad ammirare il cielo, che sia nuvoloso, sereno, di notte o di giorno mi restituisce sempre un senso di pace e tranquillità.

Al di là dei soggetti in sé, che sono per lo più animali, un altro elemento ricorrente sono le forme geometriche di diversi colori che si affollano sullo sfondo o entrano in relazione con tutto il resto, le dipingo un po’ per scelta estetica un po’ perché potrei paragonarli ai mille pensieri che mi affollano la testa. Per quanto riguarda l’ispirazione direi che è la mia fantasia la componente più importante, anche se a volte inizia tutto dalla frase di una canzone o dalle sensazioni negative o positive che mi lasciano le persone che incontro e conosco.»

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“Che cos’è l’Arte?” secondo lui è la classica domanda da un milione di dollari: «Sotto la parola arte si possono elencare tutte quelle “cose” realizzate dall’uomo, materiali e non, in grado di emozionare e affascinare dal punto di vista estetico, mi rendo conto che è una definizione un po’ generalizzata ma al giorno d’oggi questo campo è talmente vasto che è difficile trovare delle parole che riescano a comprendere tutto senza cadere in contraddizione. Credo quindi che i graffiti e la street art possano rientrare nella definizione di arte, anche chi opera nell’illegalità può tranquillamente aver creato un qualcosa che possa essere chiamato arte e non sto parlando solo di Banksy o degli altri più quotati ma di chiunque, ovviamente bisogna poi valutare caso per caso, come per tutto il resto d’altronde.»

Attualmente la sua attività procede bene e riesce a dipingere in media una volta a settimana. «Non è molto, c’è gente che fa molto più di me, ma io non mi identifico come writer, anche perché non scrivo lettere ma mi concentro esclusivamente su soggetti figurativi; è solamente una parte di me che coltivo con passione.»

Le sue prospettive del futuro è quella di migliorarsi sempre e di crescere continuamente: «La vedo un po’ come la teoria dell’evoluzione: chi sa stare al passo coi tempi va avanti. Non sono mai pienamente soddisfatto di quello che faccio, mi lascia sempre un po’ di delusione, penso anche di essere molto critico nei miei confronti ma allo stesso tempo credo che sia la condizione necessaria per correggere i propri errori. »

Le difficoltà ci sono e sono « i limiti tecnici che magari non ti consentono di fare ciò che vorresti e la disponibilità di spazi liberi dove poter dipingere; mi sto dedicando quasi esclusivamente alla parte legale dei graffiti: commissioni di privati e dei comuni, hall of fame ecc… E un ostacolo caratteristico di questo lato della medaglia sono le imposizioni di chi ti chiede di fare il disegno, ad esempio il tema scelto piuttosto che i soggetti da rappresentare, a volte li considero un po’ castranti e noiosi. »

 

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MUDEC: la polemica si insinua tra le pareti luminose

Il fermento per Expo ha fatto pensare che il 2015 sarebbe stato l’anno dell’Italia, soprattutto di Milano, ma purtroppo per la città è ancora troppo presto per cantar vittoria. Fioriscono, infatti, nuove polemiche tra il Comune e il genio dell’architettura inglese David Chipperfield.

Il nodo della questione è proprio l’ultimo figlio dell’Archistar: il nuovo museo delle culture di Milano, che Chipperfield vuole disconoscere a tutti i costi.

Il polo museale sorge nell’ala del complesso industriale ex Ansaldo, in zona Tortona, che dopo circa dodici anni di cantiere ha completato il proprio restyling, facendosi strada tra calce e mattoni con i suoi intrighi di luce, giocati su contrasti cromatici. In una zona così ricca di slanci creativi, che si pone come crocevia per le arti, attualmente l’unico ardore che si avverte è quello delle parole di Chipperfield e della sua scorta di avvocati.

L’inaugurazione dell’organismo espositivo prevista per il 26 marzo si è svolta, infatti, in acque tutt’altro che placide: la pavimentazione, completamene discorde con le volontà del progetto originale, che prevedeva l’impiego del basaltino di Viterbo, è stata realizzata con roccia lavica dell’Etna, senza alcuna cura nella posa, in quanto ignorate le venature naturali del materiale.

Il motivo dell’impiego di un materiale differente da quello suggerito dall’idea iniziale è principalmente economico, ma ciò non giustifica che gran parte della superficie risulti graffiata e danneggiata perché non protetta adeguatamente durante i lavori, aspetto che sconcerta ancor di più Chipperfield, poiché la vistosità dei difetti è percepibile anche da uno sguardo non esperto e che ha portato lo stesso ad affermare: «Il mio museo è un orrore».

L’architetto ha vietato che il suo nome venisse attribuito a tale struttura, mostrandosi, però, particolarmente sensibile nei riguardi dei milanesi: egli infatti si rivolge direttamente ai cittadini, i quali hanno finanziato l’opera che sarà il simbolo, non della Città delle culture, ma della pessima amministrazione, della negligenza e trascuratezza. Si mostra anche disponibile a rinunciare a parte del compenso che il Comune deve ancora versare all’architetto, affinché le imperfezioni vengano sistemate a dovere.

Intanto però Chipperfield, con amarezza, definisce ‘incompleta’ l’opera e risponde non presenziando all’evento di inaugurazione, lasciando nell’anonimia la struttura. Al taglio del nastro inaugurale, infatti, non è stato nemmeno menzionato e Del Corno, nonostante le mura esterne dell’edificio già imbrattate di vernice vandalica, ha giudicato inezie le numerose mancanze della struttura, rispetto alla grandiosità dell’evento, annunciando che sarà necessario «attendere l’accertamento tecnico sulle difformità, affidato a un soggetto terzo», prima di ultimare la correzione.

Il MUDEC si getta in pasto al pubblico con andatura pericolante e incompleto, ma sebbene l’evidente disagio Chipperfield viene apostrofato dal Comune come ‘capriccioso e irragionevole’, forse perché semplicemente testimone di una mentalità straniera, differente da quella italiana sempre più spesso amante dell’escamotage e non in grado di far fruttare la propria potenza estetica e culturale.

Non ci resta che attendere che i rapporti si distendano, nella speranza di poter sfoggiare, con orgoglio, questo splendido gioiello italo-inglese firmato Chipperfield.

 

La strada e i suoi abitanti

“E tuttavia non v’è degradazione e turpitudine in questo abbandonarsi con primitiva spontaneità alle leggi naturali e all’istinto individuale, bensì una patetica aspirazione all’innocenza perduta, una ribellione alle aberranti sovrastrutture che soffocano nel conformismo l’istinto creativo dell’uomo”, Jack Kerouac, “on the road”.

Le ricerche statistiche documentano un aumento esponenziale degli homeless in tutte le città, in Italia sono addirittura triplicati e in Europa sono circa 50.000 le persone che si dichiarano senza fissa dimora: una vera e propria popolazione. Di fronte a questi dati, la colpa non può che ricadere sulla famigerata crisi del debito: una recessione che ha portato in strada anche chi non ha scelto di viverci e che ha costretto intere famiglie a sopportare le rigide regole del freddo e della fame.

In un’altra accezione però la strada è vita e arte allo stesso tempo e chi ha scelto di viversela ha saputo sviluppare doti di sopravvivenza che noi, nelle nostre case e sui nostri morbidi letti, neanche immaginiamo.

Questo fotoreportage nasce sostanzialmente come rivisitazione del concetto di strada, attore protagonista della vita quotidiana di ogni città del mondo. Pensateci bene, ogni città è strada e anche ogni uomo è strada, dal momento che ognuno di noi cerca di imboccarne una. Il mio tentativo è quello di dar voce a chi in strada ci è finito e a chi, invece, la strada l’ha scelta come casa, come lavoro o come fonte d’ispirazione; quindi il mendicante, il mercante e l’artista di strada.

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Dall’architetto agli architetti. L’open source è una risorsa aperta a tutti

Un modo di progettare nuovo nonostante le sue origini antiche. Un modo di progettare ufficiale nonostante la partecipazione (anche) di non addetti al lavori.

È l’architettura open source, quella che permette di costruire case e città “dal basso”, la protagonista del nuovo libro dell’architetto Carlo Ratti “Architettura Open Source – Verso una progettazione aperta”, edito da Einaudi: la sua esperienza negli Usa, dove al Massachusetts Institute of Technology dirige dal 2004 il MIT Senseable City Lab, e il lungo lavoro sulle città e la tecnologia, culminato in un intero padiglione alla Biennale di Venezia del 2006, porta oggi l’architetto a considerare un modo di progettare tanto antico quanto innovativo.

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Nel volume vengono infatti sviscerati i momenti salienti in cui l’architettura open source si è sviluppata, e quali mezzi sono oggi a nostra disposizione per poterne beneficiare.

La prima parte è costituita dalla dimostrazione della inadeguatezza della figura dell’architetto “prometeico”, quel “faccio-tutto-io” nata dal Movimento Moderno di inizio del secolo XX con figure del calibro di Le Corbusier. Ratti fa risalire questa sopravvalutazione del singolo a Vasari e alle sue Vite, quando se un edificio non era immediatamente riconducibile al nome di un architetto allora quell’edificio non era degno di considerazione: ne è conseguita l’idea di un’architettura gonfiata oltre ogni limite.

Ma a fronte del fallimento dell’architettura Moderna vengono esaminate anche alcune figure che avevano capito in anticipo: Rudolfsky in Usa con l’architettura senza architetti e il suo ritorno alla tradizione vernacolare, Cedric Price in Uk e Giancarlo de Carlo in Italia, il quale già negli anni Sessanta prevedeva la partecipazione degli abitanti al progetto edilizio.

 

Nella seconda parte si illustrano poi i vantaggi delle nuove tecnologie della rete: Linux, software Open Source, Wiki sono infatti piattaforme aggregative che, accorciando le distanze, permettono alla popolazione 2.0 di aggregarsi in una vera piazza, quella digitale, e scambiarsi idee e pareri in vista della realizzazione di un progetto condiviso.

Nascono così gli effetti dell’open source: stampanti 3D, la costruzione come educazione, ma soprattutto i Fab Lab, quei Fabrication Laboratory in cui la dotazione tecnologica, costituita da macchine a taglio laser, stampanti 3D e frese consentono a chiunque di produrre o aggiustare (quasi) qualunque cosa.

Ratti si dimostra a favore dell’abbandono del copyright per il Creative Commons, licenze che permettono ai creatori di scegliere e comunicare quali diritti riservarsi e a quali diritti rinunciare a beneficio dei destinatari.

 

Molti sono stati i pareri espressi: la constatazione del fallimento dell’architettura moderna sollazza chi gli archistar proprio non li sopporta, mentre il massiccio utilizzo che si farebbe del web è un palese tentativo di riattivare non solo la partecipazione con la tecnologia attuale ma anche l’intervento delle nuove generazioni, forse non esperte di architettura ma sicuramente più ferrate nella modalità open di un progetto on line.

D’altro canto non sono mancate le perplessità: c’è chi ha azzardato il rischio di proporre un mondo virtuale che annullerebbe l’architettura fisica riducendola a uno schermo. Un altro rischio ventilato è stato quello di cadere dalla padella alla brace, passando cioè dalla “macchina per abitare” di Le Corbusier al “computer in cui si vive”. Nostalgici contro innovatori: chi avrà ragione? Ai posteri l’ardua sentenza.

 

In copertina: la torre di Carlo Ratti e Bjarke Ingels a Singapore.

Bun venit la Bucuresti: l’arrivo in città

Volo di sola andata per Bucarest. Cappuccio della felpa prontamente tirato fin sopra gli occhi, braccia conserte e gambe allungate; sono quasi giunta alla soglia dell’inconscio quando sento il familiare rumore della lattina di birra aperta: sono i miei vicini rumeni, che tra una chiacchiera e l’altra, fanno colazione… ho già detto che l’orario di partenza era previsto per le 8.30?

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Questa rubrica nasce dalla volontà di scoprire un Paese che da sempre viene identificato tramite pregiudizi talmente risaputi che non mi do la pena di trascrivere. Purtroppo, essendo anch’io figlia di questo tempo, non posso fare a meno di prescindere da essi ma posso tuttavia decidere di riconoscerli, aggirarli o scavalcarli a piè pari. Iniziamo dunque a curiosare tra le strade di Bucarest con occhi che da principio non possono che essere inevitabilmente turistici, per poi ambientarci e conoscere i veri rumeni, la vera Bucarest e la vera Romania. 

Divenuta capitale nel 1862 grazie alla strategica posizione tra occidente e oriente, nel XX secolo Bucarest si aggiudica il titolo di “Parigi dell’Est” o “piccola Parigi”, grazie alla costruzione di edifici neoclassici e alla realizzazione di eleganti giardini su modello parigino a fine degli anni ’30. Al giorno d’oggi, però, di tale splendore rimane gran poco: i bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra mondiale, il terremoto del 1940, il secondo terremoto nel 1977 che causò 1391 vittime e il massiccio programma di risanamento realizzato negli anni ’80 dal dittatore Nicolae Ceauşescu cancellano definitivamente l’elegante passato di Bucarest. Un esempio è il Palazzo del Parlamento, la famigerata opera di Ceauşescu. Secondo edificio al mondo per dimensioni dopo il Pentagono, è costituito da 12 piani e da 3100 stanze ed è l’attuale sede della camera dei Deputati, di quella del Senato e dal 2004 dell’ecletticoMuseo di ArteContemporanea. Il 20 settembre 2014 la città ha spento la sua 555esima candelina e per l’occasione sono stati proiettati sulla facciata del Parlamento ben cinque performance multimediali raffiguranti la storia e lo spirito di Bucarest.

A voi le cinque performance. Al minuto 25.50 la mia preferita, direttamente dalla Polonia.

Il palazzo del Parlamento.
Il palazzo del Parlamento.

Procedendo verso Nord si giunge a Lipscani, centro storico della città, che prende nome dalla sua via principale. Tra i vicoli stretti, caratterizzati per lo più da edifici degli anni Ottanta non del tutto ristrutturati, si trova l’Antica Corte Principesca di Vlad Ţepeş, meglio noto come Dracula, risalente al XV secolo e in seguito lasciata in stato di abbandono, ma oggi visitabile e in futuro soggetta a lavori di restauro.

Vlad Ţepeş, l’Impalatore.
Vlad Ţepeş, l’Impalatore.

A scrivere il vero, il centro storico è famoso per la sua vita notturna costituita da kebab aperti ventiquattro ore su ventiquattro, da un numero ignoto di club e discoteche ad entrata libera e da spogliarelliste in vetrina che si divertono senza ritegno a prendere in giro gli sguardi accattivanti dei clienti. La maggior parte degli edifici proietta per la strada e per tutta la notte, alba inclusa, le loro luci e musiche composte prevalentemente da un misto di rock, pop e commerciale.

Consumando un po’ di suola e continuando a risalire Calea Victoriei si giunge a Piaţa Revoluţiei, una zona della città segnata dalla caduta del regime comunista. E’ qui, difatti, che Ceauşescu pronunciò l’ultimo discorso dal balcone dell’ex Comitato Centrale del Partito Comunista il 21 dicembre 1989, per poi scappare in elicottero tra le grida di «Abbasso Ceauşescu!», mentre i suoi uomini sparavano sulla folla. Adesso l’edificio è sede del Ministero dell’Interno e di fronte al palazzo si erge il Monumento alla Rinascita: un obelisco bianco circondato da una corona simile a un cesto di dubbia bellezza estetica.

Ex Comitato Centrale del Partito Comunista.
Ex Comitato Centrale del Partito Comunista.
Piaţa Rivoluţiei.
Piaţa Rivoluţiei.

Ma non c’è solo il cemento! Bucarest permette ai suoi abitanti e ai suoi visitatori di riposare membra e occhi nei suoi molteplici parchi, come il più antico parco pubblico della città: il Giardino Cişmigiu, datato 1847.

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Giardino Cişmigiu

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