Tag: Migranti

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#EasyRead Migrazione e COVID-19: cronache da Ventimiglia

L’egoismo dell’Occidente copre con un silenzio assordante la questione migratoria. Mentre noi affrontiamo la difficile questione pandemica, le persone migranti continuano ad approdare sulle coste continentali, a muoversi e a fuggire da situazioni dolorose ed esasperate dall’emergenza sanitaria che sta colpendo la nostra Europa.

Progetto 20K, realtà impegnata nel sostegno alle popolazioni migranti dal 2016, ha potuto osservare l’evolversi della situazione a Ventimiglia negli ultimi mesi. Qui continuano i respingimenti dei migranti verso l’Italia, inclusi i minori non accompagnati arrivanti da Malta e Lampedusa.

Da Marzo pochissime persone sono arrivate in città, così come al campo della Croce Rossa, che ad Aprile contava 250 persone, mentre si lavorava sul trasferimento di famiglie e richiedenti asilo presso alcuni centri di accoglienza. Le attività di assistenza spontanee locali hanno subito una battuta d’arresto dall’inizio della pandemia, mentre alcune ONG continuano a operare sul territorio.

L’emergenza sanitaria rende ancora più difficili gli spostamenti delle persone migranti, e a causa dei controlli intensificati diminuiscono le possibilità di muoversi liberamente. A livello nazionale si è mossa una campagna di regolarizzazione per tutti i migranti residenti in Italia chiamata Siamo qui: Sanatoria subito. Ora più che mai è imperativo che tutti possano accedere al servizio sanitario nazionale.

Un altro effetto della pandemia è che tutti i migranti che sbarcano sulle coste europee sono obbligati a passare per l’Italia. Che si possa parlare di una doppia discriminazione? Allo status di migranti e alla sospensione di Schengen, si aggiunge infatti la complicazione dell’aver transitato in Italia, primo paese europeo a essere colpito dal virus in maniera significativa.

Nel frattempo le autorità francesi hanno rinnovato i controlli ai propri confini per altri sei mesi, dal 1 maggio al 31 ottobre 2020.

Immagine di copertina: foto del mare a Ventimiglia, di Hans Braxmeier (dal sito Pixabay).

 

Una Sala da Thè per l’integrazione

Laura e Lamin sono seduti di fronte a me, 20 anni entrambi, lei dinamica ed entusiasta, lui più timido e riflessivo; Laura è italiana e studia psicologia a Bergamo, Lamin viene dal Senegal ed è un cuoco. Hanno storie e origini molto diverse, ma entrambi fanno parte di Sala da Thè, il nuovo “gruppo informale multietnico” con sede a Bergamo, che, come recita la loro presentazione su Facebook, è “volto a comprendere i bisogni primari tanto quanto i desideri e le ambizioni profonde di migranti e non”. Laura mi spiega che il gruppo è nato a gennaio 2019 dall’esigenza di fare qualcosa di concreto per favorire l’integrazione e lo scambio con i migranti, vista anche la situazione politica attuale che decisamente non rema in questa direzione. «Molti di noi operavano già singolarmente come volontari in centri d’accoglienza, ma ci siamo chiesti cosa potessimo fare di concreto come gruppo, perché qualcosa bisognava fare, e abbiamo quindi deciso di creare Sala da Thè».

Un incontro di Sala da Thè a Bergamo (foto di Sala da Thè, Tutti i Diritti Riservati).

Un nome decisamente curioso, ma che serve a sottolineare il carattere informale e aperto a tutti del progetto: «La sala da thè è un posto informale dove chiunque può entrare, non serve essere “qualcuno” (…) e dove qualunque persona può esprimere liberamente le proprie idee e avanzare delle proposte riguardo la tematica dell’immigrazione». Il gruppo, composto per ora da una quindicina di ragazzi e ragazze italiane e una decina di migranti, è molto eterogeneo e ognuno fornisce il suo apporto personale mettendo a disposizione le proprie competenze: «C’è chi lavora in uno studio legale, chi in un CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria, ndr), chi fa l’educatore, ecc. Abbiamo cercato di raccogliere più esperienze possibili per dare un supporto ai migranti e sopperire alla mancanza di servizi e figure professionali che al momento non ci sono, ma dovrebbero esserci».

Lamin racconta che è stato proprio l’avvocato che lo segue nel processo di richiesta d’asilo a spingerlo a partecipare agli incontri di Sala da Thè e gli ha presentato alcuni membri. In particolare, Lamin si sofferma sull’aiuto che il gruppo fornisce con le pratiche burocratiche: «Quando uno [dei migranti] deve andare in questura, se c’è qualcuno [di Sala da Thè] che è libero lo accompagna. Così con loro va tutto bene».

Tuttavia, Sala da Thè non vuole fornire solo un supporto “pratico” ai migranti, ma anche e soprattutto essere un luogo di condivisione per permettere a tutti di sentirsi compresi e di realizzare i propri sogni e aspirazioni. Quando Laura mi parla di questo obiettivo tanto ambizioso, in un primo momento ammetto di sentirmi un po’ scettica sulla fattibilità del progetto, ma lei non esita a farmi un esempio specifico: “Ci sono due ragazze del gruppo che amano cantare e vorrebbero far conoscere il proprio talento su YouTube. Noi, allora, le abbiamo aiutate a girare un video di una loro canzone a Bergamo. Certo, ottenere i documenti è importante, ma noi crediamo ci sia anche dell’altro”.

Un momento della cena benefit del 16 marzo organizzata da Sala da Thè (foto di Sala da Thè, Tutti i Diritti Riservati).

È proprio con questo spirito che Sala da Thè ha organizzato diversi eventi per far conoscere il gruppo sul territorio e allargare la sua rete di contatti e relazioni. Il primo è stato una cena benefit di presentazione del progetto con un menù senegalese preparato dai ragazzi, tra cui ovviamente anche Lamin, cuoco di professione. È proprio mentre parliamo del “suo” cibo che Lamin, fino ad allora piuttosto timido, improvvisamente si anima e, mentre cerca di descriverci i piatti tipici senegalesi che ha preparato, gli si illuminano gli occhi. Fatica a trovare le parole in italiano, ma grazie a Google ci mostra delle foto davvero invitanti; alla fine, rinuncia a descriverceli a parole e si limita a esclamare con un gran sorriso soddisfatto: “Buonissimo!”.

Laura a queste parole sorride e mi spiega che la partecipazione alla cena è andata ben al di là delle loro aspettative e, per questo motivo, hanno deciso di riproporla in chiave di aperitivo anche per il prossimo evento del 16 marzo presso lo spazio Polaresco di Bergamo, che durerà però un’intera giornata e comprenderà diverse attività. I partecipanti di Sala da Thè proporranno infatti vari laboratori, interamente gratuiti e studiati in base alle competenze dei vari componenti del gruppo: un ragazzo abile con la macchina da cucire, ad esempio, terrà un piccolo laboratorio di sartoria, mentre altri con la passione per la pittura permetteranno a tutti di dare libero sfogo alla propria vena creativa dipingendo su tela. A seguire, ci sarà la presentazione del gruppo, l’aperitivo multietnico e la Jam Session musicale aperta a tutti: “In puro spirito Sala da Thè”, precisa Laura con un sorriso. Infine, la serata si concluderà con il concerto della band Ottocento, organizzato direttamente dal Polaresco. Non è tutto, però. Laura mi racconta con entusiasmo che stanno già lavorando a un nuovo evento per il 31 marzo, una partita interculturale di calcio a cui ci si potrà iscrivere durante la giornata di sabato 16.

Dalle parole di Laura e di Lamin capisco quanto credano nel progetto e quanto siano importanti questi eventi per loro e per tutto il gruppo. A me, in fondo, sembra che il senso del progetto di Sala da Thè stia tutto qui: nell’entusiasmo di Sara e nel “buonissimo!” esclamato da Lamin mentre parla dei suoi piatti con gli occhi luminosi.

 

In copertina: Laura e Lamin (Tutti i Diritti Riservati).

Un viaggio che non può più fermarsi

Mi ricordo bene quando sentii parlare per la prima volta di Progetto 20K, era la primavera del 2016, qualche mese prima che iniziasse l’attività vera e propria sul territorio di Ventimiglia. Come Pequod ha già raccontato più volte, Progetto 20K è un gruppo di persone che tramite pratiche di solidarietà attiva sostiene e supporta le persone in viaggio bloccate al confine italo-francese, precisamente a Ventimiglia. Decine sono le attività e i microprogetti che porta avanti nella provincia di Imperia e non solo, ma più di tutto vorrei raccontare delle modalità: così lungimiranti, aperte, inclusive, forti e trasversali che hanno aggregato tante persone diverse intorno a questa esperienza politica.

Era il 2016, già da poco più di un anno mi interessavo a contesti sociali e politici a Bergamo ed è proprio alle assemblee della Kascina Autogestita Popolare Angelica “Cocca” Casile che sentii parlare del progetto per la prima volta. Qualche mese dopo si organizzò al bar Circolino Basso la prima presentazione. Ne rimasi subito colpito, per la forza dei racconti di chi c’era stato e delle immagini proiettate: queste persone dicevano di stare sul confine a sporcarsi le mani supportando chi dallo stesso confine era bloccato e violentato! Fu proprio amore a prima vista: l’idea di prendere e partire, anche solo per qualche centinaio di chilometri, per oppormi a violenze e ingiustizie che in realtà non troppo conoscevo, mi affascinava moltissimo.

Il cartello posto all’ingresso dell’infopoint Eufemia di 20K a Ventimiglia in sostegno di Mimmo Lucano, sindaco di Riace e promotore del cosiddetto modello Riace per l’accoglienza ai migranti, arrestato il 2 ottobre 2018.

A Ferragosto mi ritrovai così catapultato nella piccola casetta affittata per il progetto, iniziai a conoscere i luoghi di Ventimiglia e a masticare le pratiche di 20K: subito l’entusiasmo aumentò ancor di più, ma anche la difficoltà di agire in quel contesto. Il senso d’impotenza era all’ordine del giorno, sottovalutarsi e criminalizzarsi erano la costante delle discussioni serali; dall’altra parte c’era l’essere gruppo: l’aggregazione con persone che venivano da un viaggio lunghissimo, culture diverse, lingue diverse e la sensazione, nonostante tutto, di aver loro agevolato il percorso.

La cosa che più mi colpì fu l’ordinanza comunale che vietava di distribuire beni alimentari, acqua o vestiti alle persone per strada e che rimase in vigore fino al febbraio 2017: non parliamo di un’ordinanza del Prefetto o del Questore, ma di un sindaco del Partito Democratico che vietava questi semplici gesti di solidarietà e umanità. Tutto ciò rafforzava il mio impegno, ma soprattutto il progetto. Ci rendevamo conto di essere dalla parte giusta e che ricoprivamo un ruolo politico in grado di ridistribuire potere e garantire autodeterminazione.

Con Progetto 20K ho imparato a seguire ed essere partecipe attivamente di un contesto lontano, ma che aveva (ha) disperato bisogno delle boccate d’ossigeno che sappiamo portare. Ce lo si leggeva negli occhi quando, a settembre 2016, abbiamo deciso di trasformare il progetto estivo in uno di lungo periodo.

Coi mesi imparai a conoscere meglio i miei compagni e compagne di viaggio, alcuni già intravisti e mezzi conosciuti, altri completamente estranei, ma con cui da subito si è costruito un rapporto di amicizia e di fiducia, semplicemente perché si condivideva la stessa avventura. In realtà quest’ultima è molto più simile ad un vero e proprio viaggio: spostarsi dal proprio territorio e intrecciare, in un luogo altro, il viaggio delle persone migranti e contemporaneamente quello delle persone solidali, che ti sostengono come fossi un fratello o una sorella.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta organizzata da Progetto 20K il 14 luglio 2018.

Ricordo l’organizzazione della manifestazione “Ventimiglia – Città Aperta”: anche in questo caso si parla di una modalità e di un processo molto esteso, mai visto nell’Imperiese. Un progetto ambizioso che alla fine ha portato diecimila persone il 14 luglio 2018 a Ventimiglia, ma nei mesi prima rinunce, fatica e spossatezza erano all’ordine del giorno. A mano a mano che ci avvicinavamo alla data vedevamo quanto la nostra proposta si rispecchiava negli occhi di migliaia di singoli e organizzazioni in Italia e non solo. Una volta scesi per le strade della città, come molte volte (mi) succede, tutto diventa travolgente e gioioso. Proprio quella spensieratezza che caratterizza Progetto 20K è stata trasmessa ovunque.

Il turbinio di sensazioni che mi hanno attraversato e continuano a farlo le auguro a chiunque si provi ad avvicinare a Progetto 20K o ad altri percorsi. Sicuramente l’essere così inclusivo, aggregativo e stimolante è una peculiarità del nostro progetto, anche dopo aver conosciuto diverse realtà italiane è quasi impossibile trovare la stessa spensieratezza e serenità respirata con questa esperienza. Certo, a volte disordinata e confusa, forse anche avventata, se no che viaggio sarebbe?

 

In copertina: la manifestazione del 29 dicembre 2018 a Ventimiglia, organizzata da 20K per protestare contro la chiusura dell’infopoint Eufemia, che forniva assistenza legale e supporto ai migranti.

Foto tratte dalla pagina Facebook di Progetto 20k, tutti i diritti riservati.

Si ringraziano Claudio, Sara H., Elena e Francesco.

Storie di (non) accoglienza: dalla Nigeria alle Valli Orobiche

Blessed e Wisdom hanno in comune una buona parte del loro viaggio verso l’Europa: partiti entrambi dalla Nigeria, hanno attraversato il Niger, conosciuto l’arsura del Sahara e poi le sofferenze della discriminazione e della carcerazione in Libia. A Tripoli si sono incontrati sul gommone che li avrebbe trasportati fino alle coste italiane; un viaggio che avrebbe dato vita a un’amicizia, corroborata dal freddo dei monti delle valli orobiche prima e delle strade cittadine bergamasche poi.

Nel maggio 2017 sono attraccati a Vibo Valentia e in pochi giorni sono stati trasferiti dall’hotspot calabro al comune di Urgnano, nella pianura bergamasca; trascorse tre settimane hanno di nuovo raccolto i loro pochi averi per essere ricollocati nel Centro di Accoglienza Straordinaria istituito a San Simone (Valleve), località sciistica bergamasca nell’alta Valle Brembana, caduta in disgrazia a seguito del fallimento della società Brembo Super Ski, ente gestore degli impianti sciistici. Convertito a Centro d’accoglienza, l’albergo affacciato sulle piste avrebbe dovuto sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza; di fatto, i suoi ospiti hanno trascorso qui più di tre stagioni, prima della chiusura definitiva della struttura.

Abbiamo chiesto a Blessed e Wisdom, rispettivamente di 25 e 28 anni, che in comune hanno anche la revoca dell’accoglienza e quindi l’espulsione dal sistema dei centri per richiedenti asilo, di condividere con noi idee e opinioni sull’ospitalità italiana e di raccontarci le loro esperienze dal Centro di San Simone a oggi.

La protesta pacifica dei migranti a Valleve il 2 febbraio 2018.

Quanto è durata la tua permanenza nel Centro di Accoglienza di Valleve e perché ne sei stato allontanato? Dove vivi ora?

Blessed: «Ho trascorso a Valleve 5 mesi. A novembre sono stato allontanato dal Centro per un litigio con un altro ragazzo: era un periodo di forte nervosismo, perché arrivava l’inverno e noi ci vedevamo sepolti nella neve di San Simone. Una discussione futile è bastata a scatenare la rabbia di entrambi e il ragazzo è finito in ospedale con il setto nasale leggermente deviato. Ho trascorso due mesi alternando la vita in strada a brevi soggiorni in casa di alcuni ragazzi italiani che hanno deciso di aiutarmi, finché una di loro, trasferendosi in una casa spaziosa, mi ha accolto e ha compilato per me la Dichiarazione di ospitalità».

Wisdom: «Ci era stato garantito che non avremmo trascorso in quel centro più di 5 mesi, poi i tempi sono andati aumentando e la risposta della Cooperativa era sempre che “presto ci avrebbero trasferiti”. All’ennesima promessa disattesa, a febbraio 2018 abbiamo organizzato una manifestazione pacifica per chiedere di essere trasferiti: abbiamo bloccato la strada ai turisti, permettendo l’accesso solo ai bambini delle scuole e ai mezzi spalaneve; in pochi giorni sono arrivati i trasferimenti per la maggior parte di noi ospiti e io mi sono ritrovato a Urgnano e poi a Botta di Serina. Dopo due mesi, però, è arrivato per tutti i manifestanti l’avviso di revoca delle misure di accoglienza e abbiamo dovuto lasciare i vari Centri. Ora vivo per lo più con un connazionale, con documenti regolari, con cui divido le spese di affitto e bollette, ma sempre come ospite in una casa non mia: non ho le chiavi dell’appartamento e non posso aver intestato alcun contratto».

Due migranti intenti a spalare la neve presso il Centro di accoglienza di Valleve.

Cosa pensi del Sistema di Accoglienza italiano?

Blessed: «La sensazione, vivendo nei Centri di Accoglienza, è di essere un morto vivente. Non puoi prendere per te stesso neanche le decisioni più semplici: qualcuno stabilisce cosa mangi, come ti vesti, con cosa ti lavi. Non puoi muoverti liberamente, soprattutto se il Centro è isolato come a Valleve; non puoi cercarti un lavoro, ma al contempo sei obbligato a fare lavori gratuiti senza che nessuno ti ringrazi, anzi dovendo esser tu a ringraziare».

Wisdom: «Gli europei usano gli africani per business. Non ci viene data la possibilità di capire il sistema italiano, né le leggi che lo regolano; veniamo trasportati in questi Centri dove certo veniamo aiutati sulle necessità basilari, ma non abbiamo la possibilità di capire la nostra situazione e veniamo ricoperti di promesse, soprattutto sui tempi e sulle dinamiche per avere i documenti, che sono false. Sarebbe più giusto che ci venisse lasciata dell’autonomia».

Che impressioni hai ricevuto dalle persone incontrate in strada?

Sia Wisdom sia Blessed sottolineano quanti connazionali irregolari siano presenti sul nostro territorio: «Incontro persone nelle città italiane che vivono in Europa da 4/5 anni senza aver mai avuto un Permesso di Soggiorno, alcuni non sono mai stati convocati dalla Commissione Territoriale, altri hanno ricevuto esito negativo. Senza documenti non possono lavorare, né andare a scuola, né stipulare un contratto d’affitto, però rimangono qui perché tornare indietro è impossibile: la libertà che c’è qui non la ritrovi nella situazione che hai lasciato e il viaggio per l’Europa si è già mangiato tutti i tuoi risparmi e ha riempito la tua famiglia di aspettative».

Alcuni migranti fuori dal Centro di Valleve (Bg).

E gli italiani?

Wisdom: «Diciamo che il 40% degli italiani sono amichevoli, il restante 60% è quantomeno diffidente: spesso non ti rispondono quando parli con loro o rispondono in modo maleducato e si offendono se li tocchi».

Blessed è molto più pessimista: «La maggior parte degli occidentali è razzista verso i neri perché sono abituati a concepirci come schiavi. Certo ci sono le eccezioni, come la ragazza che mi ospita e gli amici conosciuti grazie a lei, ma sono una piccola percentuale».

Come pensi potrebbe migliorare il Sistema dell’Accoglienza?

Wisdom:«La cosa più importante è avere dei documenti che diano la possibilità di ricevere una formazione scolastica e accedere al mondo del lavoro. Il fatto di lasciare le persone senza documenti, in lunghe attese, è solo una perdita di tempo; meglio sarebbe dare dei documenti a breve scadenza, ma che diano la possibilità di rendersi autonomi».

Blessed: «Bisognerebbe fare in modo che gli immigrati non si sentano costretti ad attività illegali, quindi fare in modo che possano lavorare secondo le loro conoscenze e capacità e senza venir sfruttati e sottopagati. L’obiettivo di tutti gli immigrati è migliorarsi».

 

Su richiesta degli intervistati, i nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

In copertina: l’ingresso del paese di Valleve, BG (Celendir/Wikipedia/CC BY-SA 3.0)

La criminalizzazione del migrante nel nuovo Decreto Sicurezza

Abolendo le politiche di integrazione, il Decreto sicurezza e immigrazione porta, nei fatti, al formarsi di una situazione di maggior instabilità e insicurezza sociale: le analisi storiche e sociologiche hanno infatti più volte dimostrato (spesso proprio con italiani migranti come principali soggetti d’indagine) che marginalizzazione e criminalità sono fenomeni che spesso si intrecciano. La risposta del Decreto è quella di incrementare la morsa restrittiva nei confronti di chi non rispetta la Legge: reati quali lesioni personali gravi, furto aggravato, con scasso o in abitazione, minaccia o violenza a pubblico ufficiale saranno infatti puniti con la revoca della protezione internazionale per chi sia titolare di tale diritto e l’accelerazione dei tempi del procedimento per chi sia richiedente. Se superficialmente l’ostracismo sociale può apparire come giusta conseguenza del mancato rispetto delle regole della comunità, di fatto il provvedimento pone in questione aspetti tanto etici, quanto pratici.

Di fondamentale importanza è il risvolto teorico ed etico della stretta sulla concessione del diritto di asilo. La nuova norma, infatti, pone sullo stesso piano il rispetto delle leggi in vigore all’interno di uno Stato e la tutela di diritti umani che dovrebbero essere universalmente riconosciuti e che sono appunto materia per il diritto d’asilo; come dire che chi non rispetta la legge è giusto venga privato di diritti inalienabili all’essere umano. Ma anche da un punto di vista meramente pratico, la riduzione dei tempi di attesa è più un’utopia che una possibilità fattuale. Chiunque abbia avuto esperienza degli iter che coinvolgono le richieste di asilo sa perfettamente che in Italia, sebbene la legge preveda che il richiedente svolga il colloquio con la Commissione Territoriale, posta a stabilire il suo diritto o meno allo status di rifugiato, entro 30 giorni dalla data di deposito della domanda e riceva l’esito circa 3 giorni dopo tale colloquio, di fatto i tempi di attesa arrivano a un anno/un anno e mezzo. Durante questo periodo il richiedente dispone di un permesso teoricamente a rinnovo semestrale, nella realtà spesso scaduto, ma considerato valido quantomeno ai fini del diritto alla presenza sul territorio, sebbene inadatto all’accesso a mondo del lavoro e dell’istruzione.

Per sveltire le procedure, la soluzione avanzata è quella di stilare una lista di “Paesi sicuri” e “Aree sicure” all’interno degli Stati, cosicché il richiedente proveniente da tali zone, la cui domanda sarà teoricamente presa in considerazione in tempi ridotti (14 giorni dal deposito della domanda, con esito entro 2 giorni), dovrà dimostrare di avere gravi motivi per non rientrare al proprio Paese o quantomeno in un’area del proprio Paese ritenuta sicura. Così impostata, la domanda si scontrerà con sempre minori possibilità di accoglimento, in quanto molti richiedenti partiranno da una posizione di richiesta illegittima, che dovranno argomentare con prove, non così facili da reperire, oppure si troveranno ad affrontare l’ennesimo ricollocamento in aree che di fatto non sono quelle d’origine, bensì limitrofe a quelle da cui fuggono. A ciò si aggiunga che interpretare la politica di alcuni Paesi di provenienza dei richiedenti asilo non è così semplice: moltissimi Stati dei continenti asiatico e africano, infatti, pur essendo paesi con cui l’Europa ha stabilito un dialogo politico e trattati economici, che fanno sì che ai nostri occhi appaiano come regioni sicure, di fatto vivono una politica interna non identificabile come democratica. Basti pensare, ad esempio, alle deboli democrazie di paesi come il Kenya (investito da guerriglia civile a ogni elezione per via dei brogli elettorali), il Togo (guidato dalla famiglia Gnassingbé dal 1967), la Guinea Equatoriale (in balia di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo dal 1979, seguito alla dittatura del primo presidente post-coloniale nonché suo zio); oppure i numerosi stati in cui è illegale l’omosessualità, dal Bangladesh (in cui è previsto l’ergastolo) alla Nigeria (fino 10 anni di carcere), o addirittura l’omofilia, considerata reato d’opinione.

La cittadinanza dei richiedenti asilo negli Stati dell’Unione Europea, secondo quadrimestre 2018.

Conseguenza diretta del restringersi delle possibilità di asilo e della rimozione del Sistema d’accoglienza  diventa la presenza sul territorio italiano di un sempre maggior numero di individui sprovvisti di documenti che ne legittimino il soggiorno. Ad oggi si calcola che gli immigrati irregolari in Italia siano all’incirca 500˙000 e che il paese sia in grado di rimpatriarne 7˙000 all’anno. Al fine di potenziare le misure di rimpatrio, recita l’articolo 6 del Decreto, il Fondo[…] è incrementato di 500.000 euro per  il 2018, di 1.500.000 euro per il 2019 e di 1.500.000 euro per il 2020. Problema non risolto è il fatto che, per quanto denaro l’Italia decida di investire nei rimpatri, non sussistono accordi internazionali con i Paesi d’origine, eccezion fatta per la Tunisia, e quindi mancano i presupposti politici per attuare quanto disposto per legge.

Del resto, proprio queste carenze nella comunicazione politica internazionale sono stati in passato alla base del problema del sovraffollamento dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), il cui lavoro viene ulteriormente incrementato dal Decreto 480. Da un lato, infatti, nei casi di difficoltà di verifica dell’identità dei richiedenti, si dispone la possibilità di prolungare la permanenza, stabilita a un massimo di 30 giorni, negli hotspot e nelle strutture di prima accoglienza (CAS e CARA), ricollocandoli per ulteriori 180 giorni in CPR e, quindi, su disposizione del Giudice di Pace, in “strutture  diverse e idonee  nella disponibilità dell’Autorità  di pubblica sicurezza”. Dall’altro si raddoppiano i tempi di possibile permanenza in CPR, da 90 a 180 giorni, stanziando a tal fine “1.500.000 euro per l’anno 2019, per i quali si  provvede  a valere sulle risorse  del Fondo Asilo, Migrazione  e Integrazione (FAMI), cofinanziato  dall’Unione Europea per il periodo   di programmazione 2014-2020″.

Numeri dell’accoglienza in CAS e CARA rispetto agli SPRAR; da sempre si evidenzia un sovraffollamento dei Centri di prima accoglienza rispetto al Sistema dell’accoglienza.

Una disposizione che non tiene minimamente conto delle numerose segnalazioni dell’inadeguatezza strutturale e funzionale di questi centri nel garantire dignità e diritti.  Lungi dall’essere aree di accoglienza, queste strutture rappresentano piuttosto centri di detenzione, i cui ospiti sono privati della loro libertà personale, pur non avendo di fatto compiuto alcun reato.

La rete solidale di Progetto 20k a Ventimiglia e oltre

Negli ultimi anni la questione dell’immigrazione si è imposto come tema focale del dibattito politico in Italia e in Europa. Diversi partiti e movimenti in tutto il continente hanno fatto della lotta all’immigrazione il cardine dei propri programmi elettorali, inneggiando alla chiusura delle frontiere e alle espulsioni forzate, senza elaborare delle proposte serie per la gestione adeguata del flusso migratorio e per favorire l’integrazione. A questo clima di populismo opportunista e immobilismo politico, tuttavia, si contrappongono realtà come 20k, progetto nato del 2016 che fornisce supporto ai migranti che gravitano intorno alla frontiera di Ventimiglia (IM). A un anno e mezzo di distanza dalla nostra prima intervista ai volontari del Progetto, li abbiamo ricontattati per capire com’è la situazione al confine di Ventimiglia oggi e come stanno vivendo questo clima politico. Ne abbiamo parlato con Stefano Quaglia, studente di Scienze Politiche a Bologna, che per 20k si occupa dell’organizzazione e coordinazione di eventi e di gestire le relazioni con altre realtà e associazioni esterne.


Come è cambiato il Progetto 20k nell’ultimo anno e mezzo?

20k è un progetto, non un collettivo, e in quanto tale è in continua evoluzione, grazie proprio ai diversi contributi delle persone che man mano vi prendono parte. Nell’ultimo anno e mezzo, infatti, diversi nuovi volontari, di cui un gruppo già facente parte di Non una di meno Genova, hanno iniziato a collaborare al progetto, portando quindi con sé le proprie idee ed esperienze.
La svolta principale per 20k è stata la decisione di organizzare una grande manifestazione a Ventimiglia per l’estate 2018, Ventimiglia Città Aperta, che ha avuto luogo lo scorso 14 luglio. Questo evento, che ha visto la partecipazione di quasi 10.000 persone, è stato un vero salto di qualità per il Progetto, perché ha rappresentato il coronamento degli sforzi compiuti negli ultimi due anni, dandoci un riscontro tangibile del nostro lavoro. La manifestazione ci ha inoltre permesso di allargare la nostra rete di relazioni sia a livello nazionale che locale. Abbiamo ricevuto l’appoggio di piccole associazioni del territorio, studenti delle superiori e anche di privati, cioè in generale della società civile cosciente della questione migratoria e che cerca e vuole essere un’alternativa alle politiche attuali. Diverse realtà locali sono ora partner del Progetto e partecipano attivamente alle nostre iniziative.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta del 14 luglio 2018.

Com’è quindi la situazione a Ventimiglia oggi? Il clima politico ostile ha peggiorato la situazione?

Noi di 20k ci teniamo sempre a far presente che dal 2015 a oggi Ventimiglia è sempre stato un laboratorio di pratiche repressive (ma fortunatamente anche di pratiche solidali). Il Sindaco PD Enrico Ioculano, infatti, non ha mai favorito le attività a sostegno dei migranti, vietando ad esempio la distribuzione di cibo e altre iniziative di solidarietà ben prima che anche altri comuni in Italia si muovessero in tal senso.

Detto ciò, sicuramente le posizioni ostili e intolleranti dell’attuale governo Lega-Movimento 5 Stelle hanno contribuito ad accrescere le tensioni sociali e le tendenze xenofobe e razziste anche a Ventimiglia. Grazie alla manifestazione del 14 luglio, infatti, avevamo guadagnato sostegno nel territorio e godevamo quindi di un po’ più di tolleranza anche da parte delle istituzioni; tuttavia, in seguito al Decreto Sicurezza presentato dal governo a settembre e alla circolare del 1° settembre del Ministero degli Interni che chiedeva ai prefetti di intensificare i controlli delle occupazioni, abbiamo subito percepito un inasprimento della repressione nei nostri confronti. La polizia ultimamente si è presentata sempre più spesso al nostro infopoint Eufemia, che ha sede presso un ufficio da noi regolarmente affittato, chiedendo i documenti e cacciando i migranti dall’area. Questi controlli e rastrellamenti su base etnica avvenivano regolarmente anche ben prima di settembre, ma è innegabile che negli ultimi mesi si siano intensificati.


Qual è invece la posizione della popolazione dell’area di Ventimiglia nei confronti dei migranti e del vostro progetto?

Una componente della popolazione di Ventimiglia rimane purtroppo fortemente ostile ai migranti presenti sul territorio; è filo-leghista e in alcuni casi anche filo-fascista, date le minacce di morte inneggianti a Traini (l’autore dell’attentato di Macerata del 3 febbraio 2018, ndr) ricevute dal Sindaco lo scorso marzo. Il resto della comunità sostiene invece il Sindaco PD Ioculano, considerandolo come il salvatore umano che in realtà non è.

Nell’ultimo anno siamo comunque riusciti a instaurare collaborazioni e portare avanti attività con varie realtà locali di tutto il territorio che da Nizza arriva fino a Sanremo e Imperia. L’eccezione è proprio Ventimiglia, dove riscontriamo ancora difficoltà nel creare una rete di collaborazioni, in quanto le associazioni principali, come ad esempio l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani, ndr) e la Spes (associazione a sostegno delle famiglie di disabili, ndr), sono fortemente legate all’amministrazione Ioculano. Abbiamo invece un buon riscontro dalla popolazione civile, in particolare da parte degli studenti e di diverse famiglie, che hanno aderito con entusiasmo al nostro progetto e ci supportano nelle nostre iniziative.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta del 14 luglio 2018.


Sulla base della vostra esperienza sul campo, qual è secondo voi nella pratica la strada giusta da percorrere per opporsi al razzismo e all’intolleranza?

Noi riteniamo che l’autodeterminazione e la possibilità di decidere della propria esistenza siano  fondamentali. Per questo motivo, non pensiamo che iniziative come l’ “Accademia per l’integrazione” di Bergamo, che ha la stessa impostazione di una scuola militare, siano soluzioni valide.

Per noi la strada da percorrere è quella di fare pratiche di solidarietà attiva creando più sinergie e alleanze possibili. Anche per questo motivo il movimento di Non Una di Meno rappresenta per noi un modello da seguire, perché è riuscito a creare una rete e un lessico globale. Noi stiamo cercando di fare lo stesso, cioè di rendere la soluzione del problema migratorio una questione transnazionale, costruendo alleanze diversificate e coinvolgendo più realtà e persone possibili.


Quali sono i vostri progetti e obiettivi per il prossimo futuro?

In questi mesi vorremmo innanzitutto organizzare dei momenti di “monitoraggio collettivo”, cioè coinvolgere anche piccole organizzazioni e persone locali nelle nostre attività usuali di monitoraggio del territorio, finalizzate a dare informazioni ai migranti, denunciare abusi e testimoniare e comunicare quanto accade al confine.

Oltre a questo, il nostro obiettivo è di organizzare per fine dicembre o inizio gennaio un grande evento pubblico informativo culturale, che coinvolga come detto molte realtà, figure e associazioni diverse tra loro, per raggiungere e sensibilizzare un pubblico più vasto possibile.

 

L’intervista è stata ridotta e riadattata per maggiore chiarezza.

Foto tratte dalla pagina Facebook di Progetto 20k, tutti i diritti riservati.

Voi che vivete sicuri, fuori dai campi di Rosarno

[…] Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane.

Primo Levi

A scuola i ragazzi di tutte le classi conoscono molto bene quello che successe nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale. Negli ultimi anni si sono fatti molti passi in avanti lungo la via della sensibilizzazione. Merito di scelte politiche e didattiche, anche a livello internazionale. Le ghettizzazioni, i rastrellamenti, le deportazioni, le torture, i lavori forzati e le camere a gas. Il dramma di gente che moriva con l’unica colpa di appartenere a quella che veniva considerata una razza impura.
Onori e omaggi alla memoria. Sempre lo stesso spirito e quel mantra: “quello che è successo non deve ripetersi mai più”.

In teoria, ciò dovrebbe prevedere la presa di coscienza e la risposta ferma di ognuno di noi, qualora succedesse di nuovo. In pratica, esattamente un mese fa è avvenuto l’omicidio di Soumalia Sacko, il bracciante maliano ucciso a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia. Soumalia si trovava in un edificio abbandonato, insieme ad altri suoi “coinquilini” della tendopoli di San Ferdinando. È stato freddato da un colpo alla testa mentre stava raccogliendo delle lamiere utili per costruire una baracca sicura che non prendesse fuoco, simile a tutte quelle che affollano l’ex area industriale del paesino a due passi da Gioia Tauro, dove si concentra la maggior parte dei lavoratori che ogni anno, nel periodo della raccolta degli agrumi, affollano le campagne della piana.
Stiamo parlando di gente che si sposta da una parte all’altra dell’Italia in base al tipo di coltivazione che si produce in un determinato luogo e periodo. Immigrati che continuano a migrare.
Molti di loro, giunti in inverno a San Ferdinando per raccogliere arance e mandarini, d’estate si spostano nel Foggiano per la raccolta di pomodori e altri ortaggi.

L’edificio abbandonato dell’ESAC, ex Opera Sila, ARSSA, che nel 2009 era diventato la più grande baraccopoli per i lavoratori stagionali delle campagne tra Rosarno e Gioia Tauro. (foto di Andrea Scarfo/CC BY-SA 3.0)

Come rileva il report dell’associazione “Medici per i diritti umani” (MEDU) I dannati della terra, per la sola San Ferdinando si parla di circa 3000 persone che trovano alloggio nell’ex area industriale tra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti e fatiscenti, bombole a gas per riscaldare cibo e acqua, pochi generatori a benzina, materassi a terra o posizionati su vecchie reti e l’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati.
Le preoccupanti condizioni igienico-sanitarie, aggravate dalla mancanza di acqua potabile, e i frequenti roghi che hanno in più occasioni ridotto in cenere le baracche e i pochi averi e documenti degli abitanti, rendono la vita in questi luoghi quanto mai precaria e a rischio. L’ultimo rogo, il 27 gennaio scorso, ha registrato anche una vittima, Becky Moses, e ha lasciato senza casa circa 600 persone nella vecchia tendopoli.

Consideriamo allora se quelli che vivono nella piana di Gioia Tauro siano uomini. Non hanno tiepide case, bensì baracche e accampamenti di fortuna dove d’inverno si muore dal freddo, ma si rischia la morte anche (e soprattutto) quando si sta al caldo, a causa degli incendi scaturiti dai rudimentali impianti di riscaldamento.

Oltre a tutto questo, occorre poi considerare le condizioni di lavoro. Rosarno è infatti un territorio ad altissima densità mafiosa, dove la ‘Ndrangheta ha il controllo, pressoché totale, su tutte le attività. In un clima del genere, i braccianti immigrati sono deboli creature in pasto alle belve. Senza diritti e con paghe bassissime (circa 20 € al giorno, per almeno 10 ore lavorative), sono le vittime principali dei caporali che “organizzano” le squadre di lavoro. Facile intuire cosa comporti per queste persone denunciare.

Il logo dell’associazione Medici per i Diritti Umani (MEDU).

Quelli che non si voltano

In una situazione di precarietà sociale, economica e sanitaria, a garantire sostegno ai lavoratori provenienti dal Mali, Gambia, Somalia e altre zone sub-sahariane, ci sono associazioni locali e internazionali.
Abbiamo già citato MEDU, un’associazione di medici, ostetriche e volontari che fornisce assistenza sanitaria e legale ai braccianti, che per la maggior parte (circa il 90%) sono immigrati regolari. Sul sito dell’associazione viene precisato in maniera puntuale e dettagliata che “il progetto ha come obiettivo generale la tutela delle condizioni di salute e di lavoro dei migranti impiegati nel settore agricolo italiano in condizioni di sfruttamento e incidere sulle politiche locali e nazionali in tema di contrasto al caporalato e di sfruttamento lavorativo in agricoltura“.

Medu propone azioni essenziali. Porre attenzione alle condizioni sanitarie di donne e bambini, affinché questi abbiano un accesso alle cure molto spesso limitato dalle condizioni economiche e giuridiche. A tal proposito è necessario regolarizzare la loro condizione e rendere attivi e incrementare la rete di centri per l’impiego, con particolare attenzione per il settore agricolo. Naturalmente, sono necessari i controlli e un sistema che sia in grado mettere alle strette il caporalato.

Tuttavia, oltre a questo è necessario anche promuovere informazione. Ecco un altro punto su cui si batte l’associazione. Proprio per questo, la stessa ha realizzato una mappa interattiva delle rotte che percorrono i migranti. Uno strumento che si arricchisce di video e immagini per documentare in maniera dettagliata il dramma di un viaggio che si compone di violenze e atrocità. ESODI, questo il nome del progetto che ha dato vita alla mappa, cerca di spiegare, soprattutto attraverso la visione “in presa diretta’ del dramma, che cosa vuol dire mettersi in cammino dall’Africa sub-sahariana alle coste libiche.

L’idea è di rendere il tutto tangibile. Portare ai nostri occhi e alle nostre orecchie le storie di coloro che vivono in mezzo a noi, e che spesso, se va bene, neppure consideriamo, se va male li disprezziamo. Provare a considerare se anche questi siano uomini e intervenire per smantellare i lager e reprimere la Shoah del terzo millennio, cercare di apparire più umani agli occhi dei posteri.

 

In copertina: la baraccopoli di San Ferdinando, Rosarno, RC (foto di Antonello Mangano/CC BY-NC-SA 2.0).

Immigrazione: la sfida politica del nuovo millennio

La grande agitazione sulle politiche di immigrazione vissuta in Italia negli ultimi anni e gli accesi scontri fra le varie parti politiche rivelano le difficoltà di una Nazione nel gestire uno degli effetti più dirompenti della fenomeno globalizzazione. L’Italia si è trovata a gestire il passaggio da Paese di emigrati a Paese di immigrazione in pochi decenni, fino a giungere ad essere uno degli Stati maggiormente interessati dai flussi migratori con un numero di immigrati, contando i soli soggetti regolari, che oggi supera i 5 milioni di individui. Il rischio di una transizione così veloce ma mal gestita porta ad una chiusura del Paese verso questo fenomeno e, di conseguenza, ad una drastica restrizione dei diritti dei migranti, e le leggi prodotte negli ultimi 20 anni ne sono la prova.

La legge n. 40/1998, la cosiddetta legge Turco-Napolitano, fu la prima legge sull’immigrazione italiana di carattere generale non approvata in circostanze emergenziali. La connotazione principale fu la definizione della programmazione dei flussi migratori integrata alla politica estera nazionale tramite un sistema di quote privilegiate a favore dei Paesi che collaboravano al rimpatrio di immigrati espulsi dall’Italia. Un suo grandissimo merito fu certamente l’introduzione nel sistema normativo italiano del Testo Unico sull’immigrazione, più volte modificato, il quale concentrava al suo interno tutte le norme nazionali riguardanti questo settore, contribuendo a semplificare e rendere più snella ed ordinata la normativa italiana in materia. La legge Turco-Napolitano operò sia in ottica di un’integrazione degli immigrati (tramite la previsione dell’ingresso per ricerca di lavoro, la carta di soggiorno per stabilizzare i residenti di lungo periodo e l’estensione delle cure sanitarie di base anche agli immigrati clandestini), sia potenziando le politiche di controllo ed espulsione, necessarie per i bisogni nazionali. Vennero così aumentati i casi nei quali l’irregolare espulso poteva essere passibile di accompagnamento alla frontiera e vennero previsti i Centri di Permanenza Temporanea ed assistenza (CPT) per trattenere ed identificare gli immigrati ed eventualmente espellerli.

La manifestazione contro i CPT e la legge Bossi-Fini in occasione dello sciopero dei migranti a Bologna nel 2010 (© Gabriele Pasceri / CC BY-NC-SA 2.0).

Negli anni successivi l’immigrazione crebbe ulteriormente anche per effetto dell’ingresso di nuovi Stati nell’Unione Europea e di conseguenza aumentò anche il numero degli aventi diritto al transito ed al soggiorno in Italia, che resero ancora più infuocato il dibattito politico su queste tematiche. Questa stagione venne inaugurata dalla legge n. 189/2002, la cosiddetta legge Bossi-Fini, la quale modificava in modo rilevante la Turco – Napolitano in senso restrittivo per i cittadini extracomunitari interessati ad immigrare in Italia. La nuova legge da un lato inasprì i controlli su chi già risiedeva in Italia, accorciando da 3 a 2 anni la durata dei permessi di soggiorno, introducendo la rilevazione delle impronte per tutti gli stranieri ed il reato di permanenza clandestina; dall’altro intervenne anche sulle nuove entrate, creando una procedura unica, basata sul contratto di soggiorno, la quale rendeva molto più difficile per il cittadino extracomunitario venire a lavorare legalmente in Italia. Questa legge fu però accompagnata da una gigantesca sanatoria, la più massiccia della storia europea, che coinvolse oltre 650.000 individui.

L’avvento di un nuovo governo di centrodestra, nel 2008, portò a un ulteriore irrigidimento della normativa tramite il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, varato dall’allora ministro Maroni, il quale introduceva nuove fattispecie di reato per gli immigrati e l’espulsione per cittadini UE o extracomunitari condannati alla reclusione superiore ai 2 anni. La legge poi prevedeva per la prima volta il reato di ingresso e soggiorno illegale, nonché un ulteriore allungamento dei tempi massimi di trattenimento (fino a 6 mesi) nei CPT, ora ribattezzati CIE, Centri di identificazione ed espulsione.
Tale impostazione, la più restrittiva mai vista in Italia, venne parzialmente mitigata dalla successiva attuazione delle direttive europee, tra tutte, la cosiddetta “
direttiva rimpatri” del 2008, che disciplinava le norme e le procedure di rimpatrio di cittadini irregolari di Paesi terzi col fine di creare una politica di rimpatrio comune degli Stati membri, umana e rispettosa dei diritti fondamentali, coordinando le legislazioni dei vari Paesi UE.
In seguito, la legge n. 46/2017 , accelerò i procedimenti in materia di protezione internazionale, istituendo 26 Corti specializzate in materia di immigrazione e prevedendo procedure più snelle per il riconoscimento della protezione internazionale e dell’espulsione degli irregolari, basate sui colloqui con le Commissioni Territoriali.

Rifugiati siriani e iracheni provenienti dalla Turchia vengono aiutati a sbarcare sull’isola greca di Lesbo dai membri della ONG spagnola “Proactiva Open Arms” nell’ottobre 2015 (© Ggia / Wikipedia / CC BY-SA 4.0).

Da ultimo, l’avvio del nuovo Governo Conte si è caratterizzato, nelle prime settimane, da azioni energiche ad opera del neo ministro degli Interni Salvini, come quella di chiudere i porti alle navi delle O.N.G. che svolgevano attività di soccorso in mare dei migranti naufraghi. Le dichiarazioni che hanno accompagnato tali provvedimenti hanno poi incentivato notevolmente il sentimento di xenofobia e odio etnico già percepibile nel paese. Andando oltre queste azioni eclatanti da campagna elettorale, è il caso di soffermarsi piuttosto sui dieci punti portati dal premier al vertice di Bruxelles lo scorso 24 giugno:

  1. Intensificare accordi e rapporti tra Unione europea e Paesi terzi da cui partono o transitano i migranti.
  2. Istituire Centri di protezione internazionale nei Paesi di transito per valutare richieste di asilo e offrire assistenza giuridica ai migranti, anche al fine di rimpatri volontari.
  3. Rafforzare le frontiere esterne.
  4. Superare il Regolamento di Dublino, secondo cui una domanda di asilo dovrebbe essere lavorata da un solo Stato membro
  5. Superare il criterio del Paese di primo arrivo: chi sbarca in Italia, sbarca in Europa.
  6. Affermare la responsabilità comune tra gli Stati membri dei naufraghi in mare.
  7. Contrastare a livello europeo la “tratta di esseri umani” e combattere le organizzazioni criminali che alimentano i traffici e le false illusioni dei migranti.
  8. Istituire Centri di accoglienza in più Paesi europei per salvaguardare i diritti di chi arriva ed evitare problemi di ordine pubblico e sovraffollamento.
  9. Contrastare i “movimenti secondari”, ossia gli spostamenti dei richiedenti asilo tra i vari Stati dell’UE, attuando i punti precedenti (soprattutto la riforma degli accordi di Dublino), rendendo così di fatto gli spostamenti intra-europei di rifugiati meramente marginali.

     

  10. Stabilire delle quote di ingresso dei migranti economici in ogni Stato.

Tuttavia, solo una governance che non sia impostata sulla responsabilità della singola Nazione ma sia condivisa a livello europeo può gestire queste responsabilità ed un problema che oggi può sembrare affare di pochi Paesi di confine, un domani potrebbe essere avvertito come proprio dell’intero continente. Meglio allora sarebbe incominciare a lavorare tutti per una vera Unione solidale tra Stati.

In copertina: dei migranti siriani provenienti dalla Turchia vengono tratti in salvo sull’isola greca di Lesbo nell’ottobre 2015 (© Ggia / Wikipedia / CC BY-SA 4.0).

Centri d’accoglienza: le difficoltà dell’incontro culturale

Il primo senso a essere colpito avvicinandosi a un centro d’accoglienza è l’udito: ogni campo si configura come una moderna versione della Babele biblica, in cui idiomi arrivati dalle più disparate parti di mondo si mescolano e si confondono in un miscuglio di suoni.

A tentare il ruolo di Esperanto, di lingua franca che permetta un minimo di comprensione, s’impongono da un lato una lingua che quasi tutti gli ospiti cercano di gettare nell’oblio assieme a un bagaglio di ricordi infelici, l’arabo libico; dall’altro una lingua nuova, spesso pronunciata con fatica, scavando nella memoria a breve termine delle parole conosciute da poco, la lingua del Paese di accoglienza.

Su quest’ultima si concentrano gli sforzi di tutti coloro che si muovono all’interno dei campi, dagli ospiti agli operatori, perché la lingua di un Paese rappresenta il primo passo per potersi approcciare a un nuovo Stato, alle sue abitudini, alle sue tradizioni; un imperativo domina infatti sull’operato di tutti, stretto dai tempi di chi da troppi anni è in viaggio coltivando il sogno di realizzare una vita nuova nell’Europa dei diritti e adagiato sul continuo procrastinare dei tempi burocratici: assimilare la cultura di accoglienza.

La corsa all’integrazione prima che arrivi la fatidica chiamata presso la Commissione, che deciderà se assegnare o meno lo status di rifugiato e quindi se legittimare o meno la presenza sul territorio, canalizza tutti gli sforzi e l’apprendimento della lingua, soprattutto in paesi come l’Italia poco avvezzi all’utilizzo quotidiano di lingue internazionali come l’inglese, rappresenta il primo scoglio da superare; il primo ma non l’unico, perché integrarsi significa anche fare proprie le abitudini del popolo di accoglienza.

Primi passi con l’italiano.

 

Una premessa va anteposta a qualsiasi riflessione si voglia condurre sui centri di accoglienza: ognuno di essi rappresenta una realtà a sé. Da un lato ci sono gli aspetti legati al luogo in cui i campi sono collocati, che non si differenziano solo in base allo Stato, ma anche all’ambiente geografico in cui si trovano, alla vicinanza o distanza rispetto a un centro abitato, al tipo di accoglienza che la popolazione residente è disposta a offrire, alle possibilità d’integrazione che l’ambiente offre in termini di servizi.

Dall’altro ci sono l’organizzazione e la struttura del centro stesso, date dalle sue dimensioni (il numero degli ospiti, ma anche e soprattutto il numero di nazionalità accolte e in quale percentuale), e dalla tipologia di accoglienza (a seconda della sua strutturazione, ad esempio, in un campo-comunità o diffusa in appartamenti). Vano è il tentativo di elencare il numero di fattori che intervengono a modificare l’approccio che si cerca di portare avanti, tanto più che imprevisti d’ogni genere (dalle emergenze sanitarie agli abbandoni spontanei, dalle modifiche legislative alla mancanza di fondi) possono in qualsiasi tempo intervenire a bloccare progetti già avviati.

Particolarmente significativo è il numero degli ospiti che il centro accoglie e degli operatori che lavorano per loro: una maggiore disponibilità di tempo su un numero ridotto di persone, infatti, rende possibile tracciare percorsi d’integrazione vera, non univoca, ma di fusione e d’incontro tra culture. Purtroppo, la maggior parte dei campi in territorio italiano, soprattutto se di accoglienza prima o eccezionale, raramente rispettano il rapporto previsto tra numero di operatori e numero di ospiti (approssimando, circa 1 operatore ogni 20 ospiti); nello stesso tempo, essendo le Cooperative società di capitali, le loro scelte di investimenti sulla qualità della vita degli ospiti possono, nei limiti di alcune innegabili necessità di base, variare di molto e, nel momento in cui si rendono necessari tagli al budget, i primi aspetti a esser messi da parte sono quelli riguardanti il recupero della cultura d’origine.

Il banku, tipico piatto nigeriano e ghanese.

Un esempio concreto delle difficoltà che quotidianamente ci si trova ad affrontare è offerto dai pasti. Qualsiasi abitante del Bel Paese sarà pronto a dirvi che il cibo italiano è il più buono del mondo e, se forse un tedesco o un americano potrebbero anche essere disposti ad assecondare l’italica vanità, non così per un bengalese o un africano, abituati a pasti in cui imperano chicchi di riso dalla forma allungata che difficilmente scuociono. Tuttavia, i costi di preparazione di piatti etnici, che prevedono un gran numero di spezie e alimenti d’importazione, esulano dalle spese previste. Se può esser facile accontentare i gusti di alcuni ospiti, ad esempio preparando del banku nigeriano o le chapati pakistane, entrambe a base di farina e acqua, si rischia così di creare scontento tra gli africani occidentali o i bengalesi, che non apprezzano la difficile digeribilità di questi piatti.

Si finisce così per imporre una regola, spesso giustificata col pretesto dell’economia, a cui gli ospiti dovranno inevitabilmente adattarsi anche una volta fuori dal centro d’accoglienza: bisogna imparare a mangiare la pasta! E con questo tipo di approccio si affrontano un’infinità di tematiche e di regole, spesso imposte più che razionalmente giustificate: dagli orari del medico e i limiti di accessibilità degli ospedali, agli indumenti funzionali più che esteticamente piacevoli; dal modo di organizzare le pulizie degli spazi privati ai prodotti igienici da utilizzarsi; fino alle attività ricreative, incasellate in orari e ambienti specifici, in concomitanza con la disponibilità degli operatori di riferimento.

I pochi ambiti che sfuggono a questa forzata assimilazione, sono la religione e l’arte. La prima, riconosciuta ormai come diritto inviolabile dell’Uomo, riesce ancora a incontrare il rispetto dei precetti che di volta in volta la regolano e a trovare spazi per l’autorganizzazione dei momenti di preghiera. Anche se non sempre è facile osservare tutti i riti, la maggior parte delle festività, dalla festa di fine Ramadan al Natale, in molti campi riescono a diventare un sereno momento d’incontro e di scambio culturale.

L’espressione artistica, pur vincolata alla disponibilità di mezzi, diventa per molti occasione di un recupero della propria identità individuale, che porta con sé l’estetica della cultura d’origine: dai dipinti ai racconti nei dialetti materni, dall’intaglio del legno ai lavori di cucito. Laddove i campi offrono i materiali di produzione, si aprono finestre su culture lontane che potrebbero allargare anche gli orizzonti europei, se qualcuno sapesse coglierne gli spunti.

Anche nel più povero dei centri d’accoglienza, all’osservatore che sia pronto ad aprirsi a nuove realtà non possono sfuggire i suoni provenienti dalle innumerevoli cuffiette: note che sanno di ritmi di continenti lontani, di melodie che provengono da culture distanti, da luoghi che gli ospiti chiamano “casa” e che, pur stanchi di un viaggio che sembra interminabile, sognano un giorno di rivedere.

Momento di preghiera mussulmana presso un centro d’accoglienza.

In copertina: Dipinti e lavori artistici di un gruppo di ospiti di un centro d’accoglienza.

“Il mondo che sogno”: migranti e rifugiati contro l’omofobia

Per la Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, che si celebra come ogni anno il 17 maggio, Il Grande Colibrì ha prodotto il video che potete vedere qui sotto, e che vi chiediamo di condividere il più possibile. È stato completamente ideato, progettato e realizzato da persone immigrate, rifugiate o di “seconda generazione”, tutte diverse nella propria nazionalità e nel proprio orientamento sessuale, ma unite dal vivere in Italia e dall’impegno a contrastare lo stereotipo, il pregiudizio e l’odio.

Il messaggio che ci danno è apparentemente semplice, ma in realtà incredibilmente ambizioso: sogniamo un mondo senza omofobia e senza transfobia. Non si chiede un passo indietro del pregiudizio, ma la sua totale capitolazione. Lo ripetono tutti nella propria lingua madre: lo fa la nostra volontaria libica Amani, che ha ideato il video; lo fa il nostro vicepresidente algerino Lyas, che ha coordinato il progetto; lo fa il regista pachistano Wajahat Abbas Kazmi, che lo ha reso possibile tecnicamente e ha aiutato tutti a sfruttare al meglio gli scarsi mezzi a disposizione; e lo hanno fatto tutti i 14 testimoni provenienti da 12 paesi del mondo.

Ogni persona ha anche denunciato la situazione del proprio paese: le leggi omofobe, la persecuzione poliziesca, l’esclusione sociale delle persone omosessuali, gli omicidi diffusi di quelle transessuali. Alcuni di questi testimoni hanno ricevuto asilo in Italia proprio a causa delle discriminazioni e delle violenze che raccontano, altri sono eterosessuali che non sopportano l’intolleranza nei confronti delle minoranze sessuali. Questo sguardo sul pianeta ci ricorda che la lotta è inevitabilmente globale, che dobbiamo impegnarci per il nostro orticello di casa ma anche per il mondo – perché il mondo è il nostro orticello di casa, perché il nostro orticello di casa contiene il mondo, e poi perché è semplicemente giusto così.

Tra le denunce non poteva mancare quella relativa all’Italia: da una parte, anche questo paese ha un lungo cammino da fare, dall’altra non dobbiamo dimenticarci che dalla lotta contro il pregiudizio nessuno può e deve sentirsi escluso, né tanto meno il pregiudizio altrui (che “altrui” non è affatto) può giustificare le nostre forme di intolleranza, come la xenofobia o l’islamofobia.

Non è allora un caso se questo video parla in italiano agli italiani. Tutti i testimoni del video assumono giustamente un ruolo di attori politici pieni, svincolati dalla tutela di un paternalismo benevolo, liberi dal bavaglio di una xenofobia malevola. Parlano di diritti umani nell’unico modo sensato: come esseri umani portatori di diritti e di doveri scritti nella carne della nostra comune umanità, e non nella sabbia di scandalose distinzioni o di fumose riconoscenze. Perché non ci possono essere limiti al rispetto o scuse all’odio in base all’etnia, alla nazionalità, alla religione, all’orientamento sessuale o all’identità di genere.

Non è poi così difficile da capire, basta ascoltare Miguel, splendido e combattivo figlio di due combattive e splendide mamme sudamericane. Lui, “italiano, peruviano e brasiliano”, rappresenta l’Italia nel video, perché è lui l’Italia del futuro. È lui l’Italia e il mondo che sogniamo. È lui l’Italia e il mondo che vogliamo. È lui l’Italia e il mondo che costruiremo, perché gli abbiamo promesso un mondo senza omofobia e transfobia e non potremo fermarci finché non glielo avremo dato.

Articolo di Pier.

Fonte: Il Grande Colibrì

SCONFINAMENTI – We can all pass from here! La solidarietà con Progetto20k

Migrazioni, accoglienza, frontiere e libertà di movimento. Saranno questi i temi protagonisti dell’evento Sconfinamenti – We can alla pass from here! proposto e organizzato da Progetto20k, che si terrà venerdì 31 marzo e sabato 1 aprile 2017, presso gli spazi del c.s.a Pacì Paciana a Bergamo.

In apertura a questa due giorni vi accoglieranno un aperitivo e una cena di autofinanziamento, durante i quali verranno proiettati video ed esposti vari materiali che raccontino al meglio la realtà del confine e di Ventimiglia. Ad allietare la serata ci sarà l’orchestra balcanica Caravan Orkestar.

La parte calda dell’evento partirà la mattina del sabato con un’introduzione del programma previsto per la giornata e un momento collettivo di riflessione sulle frontiere, le nuove politiche migratorie europee e l’accoglienza nei paesi ospiti. In particolare, viene proposto un dibattito sull’intervento solidale a Ventimiglia, arricchito dai racconti e dalle testimonianze di Progetto20k e Presidio Permanente No Borders – Ventimiglia.

Nel pomeriggio saranno aperti a chiunque voglia parteciparvi i tre tavoli tematici di lavoro:

AGIRE IL TERRITORIO: Come raccontare la frontiera e con quali mezzi? Come eludere e fare pressione sul regime dei confini? Come interagire con i/le migranti? Come riconoscere e resistere ai molteplici confini nelle nostre città? Come intendere e costruire “accoglienza degna”?

COSTRUIRE SOLIDARIETÀ: Quale differenza tra carità e solidarietà? Cosa significa fare “assistenzialismo”? Come mettere in atto pratiche di aiuto concreto? Cosa vuol dire garantire il diritto all’autodeterminazione? Come rivendicare la libertà di movimento?

CONDIVIDERE SAPERI, PRATICHE E INFORMAZIONI: Quali modalità utilizzare per la raccolta e il trattamento di dati, informazioni ed esperienze? Come creare reti territoriali efficienti che abbiano obiettivi condivisi? Come costruire linguaggi comuni, integrabili e di supporto alle azioni di solidarietà? Come relazionarsi e confrontarsi con le altre realtà magari non presenti sul territorio?

Un’assemblea plenaria all’ora del thè cercherà infine di unire e amalgamare al meglio tutti i risultati e le idee prodotte da ogni singolo tavolo. Una cena di autofinanziamento verrà proposta grazie a Comitato Zingonia e a seguire la musica senza tempo di Pink Violence Squad.

Ma non solo tavoli e danze! Durante la due giorni resterà attiva una raccolta solidale di cibo (scatolame, pasta, riso, cous cous, alimenti a lunga conservazione, bevande), vestiti (magliette, felpe, pantaloni, scarpe dal 38 in su), cellulari + caricatori, prodotti per l’igiene personale, utensili da cucina, cancelleria. Il ricavato andrà chiaramente a supportare i/le migranti transitanti a Ventimiglia.

Infine, parteciperanno all’evento moltissime realtà sensibili e attive su tali tematiche:
Presidio Permanente No Borders – Ventimiglia, Kascina Autogestita Popolare, Bologna NoBorders, Tpo, Accoglienza Degna, Popoli in Arte, LUME laboratorio universitario metropolitano, Bios Lab, Black Panthers FC, Medici Senza Frontiere, Melting Pot Europa, Casa Madiba Network, Casa Andrea Gallo Rimini #perlautonomia, Barrio Campagnola, BgReport, Onebridge Toidomeni.

“Un momento di discussione per incrociare e rilanciare esperienze e rivendicazioni nei territori e ai confini. Una due giorni di contaminazione e partecipazione con l’obiettivo di trovare percorsi solidali comuni dandosi prima gli strumenti per farlo” – Progetto 20k

A Ventimiglia ci torno di sicuro

Sono almeno cinque le persone attualmente sotto processo per aver caricato dei migranti in auto per portarli dall’Italia alla Francia passando per il famigerato confine di Ventimiglia, in Liguria. Di pochi giorni fa è la notizia che Cédric Herrou, l’agricoltore francese che aveva aiutato circa duecento persone a passare la frontiera e ne aveva ospitate a decine in una cascina, ha ricevuto una multa di 3 mila euro con la condizionale. Qual è la ragione che spinge molte persone, più di quante si possa pensare, a rischiare di essere fermati dalla polizia e coinvolti in processi e cause legali pur di aiutare uomini e donne a passare il confine? Ne ho parlato con chi le dinamiche del confine le conosce bene.

«Chi lo fa solitamente è mosso da pura solidarietà» mi racconta Michele (nome di fantasia), che vive in una regione diversa dalla Liguria ma si è messo più volte in strada per arrivare all’estremità occidentale della riviera ligure. «La gente rischia di morire attraversando il confine, qualcuno ha già perso la vita perché investito in autostrada o nelle gallerie. Per non contare chi magari scivola nei sentieri di montagna e finisce disperso, senza che nessuno lo venga a sapere. Molti cittadini italiani e francesi non riescono a rimanere indifferenti a tali tragedie». Ma non è soltanto il semplice altruismo a guidare la decisione di aiutare i migranti: «Tanti rifiutano il concetto di confine, dando alla loro scelta di essere coinvolti un significato più politicizzato; spesso dietro a questa convinzione c’è la contestazione dell’esistenza degli Stati stessi». Tuttavia, che si condividano o meno certe posizioni politiche estreme, tutti sono concordi col fatto che il confine limiti la libertà di movimento.

Chiedo a Michele se qualche volta gli sia capitato di essere lui stesso in una di quelle auto che accompagnano i migranti aldilà del punto di confine. Mi dice che sì, l’ha fatto, e che molti altri come lui si sono offerti volontari per compiere questo genere di impresa: «Non conosco nessuno passato in auto a Ventimiglia che sia stato fermato; diciamo che in generale vale ancora Schengen, quindi si è liberi di circolare, ma va detto che molto dipende dal colore della pelle. Insomma, essere bianchi e guidare un mezzo con targa italiana o francese non crea problemi». E le persone che si trovano sotto processo ora come ci sono finite quindi? Il fermo da parte della polizia è avvenuto dopo indagini: «Sono stati puntati e seguiti per un po’, non sono stati fermati per caso ma dopo una raccolta di informazioni da parte delle forze dell’ordine, che sfruttando il meccanismo del passaparola riescono a farsi dire chi, generalmente, è disponibile ad agevolare l’attraversamento».

Tuttavia, come già menzionato, essere fermati dalla polizia per questo tipo di attività volontaria non comporta pene particolarmente severe: «Non essendoci evidenti scambi di soldi non possono appiopparti chissà quale reato, non facendolo per lucro cade il presupposto che tu sia un trafficante. Puoi essere semmai imputato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che di per sé non costituisce un grave reato. Chi decide di aiutare i migranti ritiene di fare una buona azione e tendenzialmente in tribunale le accuse a suo carico vengono smontate». E sono davvero molte le persone che vogliono aiutare chi cerca di arrivare in Francia, non soltanto con i passaggi in automobile, ma anche donando vestiti eleganti e trucchi alle donne: «Se sei ben vestito non dai troppo nell’occhio, passi per un cittadino regolare ed è meno probabile che ti vengano chiesti i documenti».

Purtroppo accanto alla solidarietà sono nati parallelamente dei servizi di passaggio a pagamento, forniti dai cosiddetti passeur, in genere autisti magrebini o sudanesi. Curiosamente, i passeur hanno tutti gli stessi prezzi e i loro orari di transito sono regolari. Michele mi accenna un’ipotesi molto plausibile condivisa da diversa gente, che spiegherebbe queste caratteristiche dei trafficanti: «L’impressione è che i passeur lavorino per un’organizzazione criminale che sta alle spalle e gestisce il traffico. La zona di Ventimiglia del resto è da tempo terra di ‘ndrangheta; da tradizione la cosca mafiosa gestisce il confine, in passato erano proprio i suoi membri ad occuparsi della latitanza aiutando i reietti a fuggire».

Volontari, criminali approfittatori e ancora troppe persone disperate accampate nei pressi della stazione di Ventimiglia a tentare il tutto per tutto per giungere in Francia, lottando con la polizia, soprattutto quella francese, che spesso e volentieri rispedisce indietro anche i ragazzi minorenni, che avrebbero invece diritto d’asilo. Come mai la situazione è ancora così complicata? «Il sistema non funziona, i governi non hanno ancora preso un provvedimento efficace che risolva la situazione per tutti. Bisognerebbe concedere un permesso di soggiorno umanitario ed imparare a gestire una volta per tutte questa situazione d’emergenza. Continuando ad attuare soluzioni provvisorie e contenitive, il sistema continua a non funzionare ma senza dare troppo nell’occhio». Difficile replicare a quanto sostiene Michele, che sottolinea come non sia accettabile che sul confine fra due Stati europei nel 2017 la gente viva accampata in condizioni precarie e continui a morire: «È assurdo che la gente muoia a Ventimiglia, in Italia, un Paese considerato civile. Troppi migranti già trovano la morte nel Mediterraneo durante le traversate, non si può permettere che muoiano anche nelle nostre città solo perché non esiste un decreto che regoli i flussi migratori. Quando vedi persone che tentano l’attraversamento e tornano sconfitti con i morsi dei cani che la polizia gli ha lanciato contro, indignarsi contro questa mancanza di provvedimenti effettivi è inevitabile».

Ventimiglia è una terra di frontiera difficile, triste, disperata e allo stesso tempo piena di speranza. È l’emblema del fallimento di un sistema in cui le dinamiche economiche fra i paesi europei impediscono di trovare una soluzione alla crisi umanitaria dei nostri giorni. È la vetrina delle contraddizioni tutte italiane della solidarietà fuorilegge e del populismo alla Salvini, che denuncia lo scandalo dei migranti nullafacenti, forse dimenticando che però i migranti un permesso di lavoro non ce l’hanno. Michele è triste e arrabbiato, ma non rassegnato; a Ventimiglia ci tornerà ancora, perché una volta che ci vai non te lo dimentichi più.

Per un teatro senza confini

Un luogo, o meglio un ambiente: qui e ovunque. Tante storie raccontate evocate e incarnate da persone reali. Il punto di partenza e il punto d’arrivo sono l’incontro: con sé e con l’altro, ma anche con chi quell’incontro non l’ha vissuto in prima persona.

Questo è il teatro, soprattutto nei laboratori con attori e non-attori; questo è il teatro che ci raccontano Teatro Due Mondi, Isabelle il Capriolo e Lucia Palmero con Popoli in arte, realtà che lavorano da tempo con migranti e richiedenti asilo per costruire un teatro capace di accoglienza.

Teatro Due Mondi, l’accoglienza senza confini

Prima tappa obbligata di questo viaggio è l’incontro con Alberto Grilli, regista di Teatro Due Mondi, storico “teatro di gruppo” italiano che dal 1979 crea spettacoli di strada e di impegno sociale. Ogni giovedì sera la sua Casa del Teatro a Faenza (RA) apre le porte a tutti, cittadini e migranti, per il laboratorio teatrale permanente Senza confini (fotografia in copertina), che periodicamente porta in piazza un numero elevatissimo di partecipanti (tra i 50 e i 70) con azioni di strada fondate sull’uso del corpo e perciò in grado di coinvolgere e comunicare a un pubblico eterogeneo.

Tutto è cominciato nel 2011, quando Teatro Due Mondi stava lavorando con un altro gruppo di partecipanti e su un altro tipo di urgenza: il caso delle 340 operaie licenziate dall’Omsa, storica fabbrica faentina, da cui nacque lo spettacolo Lavoravo all’Omsa.

«Da questa esperienza già nata l’idea di un teatro partecipato con attori e non-attori», racconta Grilli. «Nello stesso anno, per caso – ma il caso non è mai un caso [sorride, ndr] – la cugina di una partecipante ci ha chiesto di portare lo spettacolo nel centro di accoglienza di Lugo, vicino Faenza. Noi però abbiamo deciso di proporre un laboratorio. Ci siamo resi conto da subito che anche in città c’erano molti rifugiati, ma c’era poca coscienza tra gli abitanti di Faenza. Abbiamo deciso di continuare qui l’esperienza, con il laboratorio permanente», passando per numerosi progetti europei. Il gruppo continua a creare spettacoli legati alle tematiche del lavoro, alla discriminazione delle donne o al tema dell’accoglienza, «ma dall’esperienza dell’Omsa abbiamo cominciato a interessarci più ai non-attori che agli attori, anche mettendo a punto nuovi metodi del fare teatro».

Alberto Grilli mi parla del metodo di “prima accoglienza linguistica”, un approccio alla lingua italiana attraverso il racconto e la musicalità dei suoni, e di teatro partecipato: teatro di strada e in spazi aperti incontra il lavoro con gruppi misti, in cui dialogano insegnanti e genitori, cittadini e richiedenti asilo. Un teatro inclusivo, in cui conta l’“esserci”, non l’esibirsi.

Per questo la scelta delle azioni in piazza, tutte contrassegnate da titoli suggestivi. Una di queste, l’Azione per la gratitudine (2015), nasce dall’incontro del Teatro Due Mondi con i partecipanti al laboratorio che ogni giovedì sera si tiene nel paese di Ranica (BG), guidato da Sophie Hames e Luciano Togni di Isabelle il Capriolo.

Diritti in movimento: Isabelle il Capriolo

La prima esperienza di Sophie con i richiedenti asilo risale a 14 anni fa, quando ancora si trovava in Belgio, il suo paese natale. Poco più di due anni la collaborazione con il centro di accoglienza della comunità Ruah di Bergamo e oggi un laboratorio aperto a tutti, gratuito e autofinanziato. «Ci teniamo tanto. Il nostro gruppo è diventato una specie di famiglia. Anche un bisogno», racconta Sophie.

Il lavoro al centro culturale di Ranica è finalizzato alla creazione di azioni di strada, «ma questa è solo una parte del lavoro. Tutto il resto è incontro, e il teatro ha un potenziale grandissimo che è il gioco. I richiedenti asilo spesso arrivano in Italia e non hanno amici, non hanno la possibilità di parlare e confidarsi. Hanno bisogno di amicizia, come noi dopotutto. Io non so quanto do, ma so quanto ricevo. E sono mondi, mondi che si aprono».

Le azioni che portano in piazza hanno un valore politico, che si concretizza in tematiche ricorrenti: «Una cosa che ci preme è l’aspettativa: cosa ci aspettiamo da loro e cosa si aspettano loro da noi e dall’Europa?». Ma anche l’attesa e l’impossibilità di muoversi liberi nel mondo. «Il diritto al viaggio: io posso spostarmi ovunque, invece loro hanno una pazienza infinita. Devono stare zitti e aspettare, spesso in condizioni disumane, in centri d’accoglienza con otto persone per stanza».

Il tema del viaggio è centrale nello spettacolo Infinite porte, all’auditorium di Ranica il prossimo martedì 21 febbraio, in cui si fa riferimento anche agli italiani che si mettevano in viaggio verso il Belgio, paese d’origine di Sophie, per mettere nuove radici. Lei ne sintetizza l’essenza citando una parte del testo: «Il mio vecchio amico Augustin diceva che il mondo è come un libro: chi se ne sta sempre a casa sua finisce per leggere sempre la stessa pagina».

La bellezza dimenticata. Lucia Palmero e Popoli in arte

Grazie a Maria Paola Rottino, membro dell’associazione di cooperazione Popoli in arte, capiamo l’importanza della performance Don’t stop the beauty, che si è tenuta lo scorso 22 dicembre nella stazione di Ventimiglia, città che da sempre è un «confine permeabile», attraversato da tensioni sempre più forti. Grazie a lei entriamo in contatto con la regista, la performer Lucia Palmero, originaria della città.

«A noi sembrava importante e simbolico quel luogo, perché è punto di partenza, punto di arrivo e di respingimento da parte della polizia italiana. Per noi era importante sottolineare l’aspetto che non emerge, cioè la bellezza, la ricchezza che porta la diversità. Ed era importante farlo in un luogo in cui fosse possibile coinvolgere tante persone, un “limbo”, simboleggiato dalla sala d’attesa».

Don't stop the beauty_Pequod
Il volantino che i partecipanti alla performance “Don’t stop the beauty” hanno estratto dagli zaini e attaccato alle pareti della stazione di Ventimiglia.

Così Lucia ha contattato alcune corali italiane e francesi e ha chiesto ai richiedenti asilo di scegliere canzoni della loro tradizione che parlasse di viaggio o di frontiera. E poi c’è l’idea del confine. «L’ho materializzata in una porta chiusa ma trasparente, la porta a vetri della sala d’attesa. I gruppi dei richiedenti asilo cantavano dalla sala d’attesa con le porte chiuse: la gente da fuori poteva sentire le loro canzoni “filtrate». L’azione ha avuto un impatto forte sui passanti e sulle forze dell’ordine: «Mi ha colpito il tentativo di una donna di entrare forzando la porta», ricorda Lucia, «un altro uomo ha trovato una porta secondaria e da lì sono entrate persone che hanno chiesto di non smettere di cantare anche ad azione conclusa».

Il momento performativo cambia qualcosa nella percezione, anche per gli artisti che si approcciano a forme d’arte relazionali. Lucia Palmero ci racconta il suo percorso dalla pittura alla performance, centrata sui temi dei diritti umani e su azioni semplici ma intense: «Ho capito che mi interessa continuare a costruire momenti ripetibili, momenti di umanità, per stare insieme, attraverso azioni che si confondano il più possibile con la realtà». E mi corregge quando torno a parlare di teatro: «Più che teatro, più che qualcosa per un “pubblico” attivo, faccio in modo che sia il “pubblico” ad attivarsi».

In copertina: azione di strada presso il cortile dell’Accademia Carrara di Bergamo, realizzata dai partecipanti al laboratorio condotto da Isabelle il Capriolo.

Progetto 20k: diritto alla solidarietà

In questi giorni abbiamo spesso chiamato in causa 20K. Vediamo più da vicino la storia di questo Progetto ed i suoi obiettivi con Francesco, una delle menti promotrici di questa vera e propria iniziativa di solidarietà per intervenire sulla situazione di Ventimiglia

Francesco ha 44 anni, fa l’educatore e ha sempre operato nel sociale, dalle tossicodipendenze ai centri di aggregazione giovanile, dalle comunità per minori alla consulenza per le politiche giovanili in provincia di Milano. Attualmente, lavora per una grande Ong, all’interno di un programma internazionale per minori stranieri non accompagnati.

L’idea del Progetto 20k nasce nella tarda primavera del 2016 su proposta di alcuni ragazzi di Bergamo che erano stati a Ventimiglia l’estate precedente, racconta Francesco. Questi, avendo toccato con mano la realtà della cittadina ligure, sentirono l’urgenza e la necessità di un lavoro strutturato e continuativo per le centinaia di persone bloccate al confine.

credits: Progetto 20k

Alle prime riunioni informali fecero seguito i primi incontri pubblici, al Circolino della Malpensata a Bergamo e presso il Ri-make a Milano, con la volontà di aprire le riflessioni all’esterno e di attivarsi coinvolgendo quante più persone possibili.

«Questi primi incontri ebbero il pregio di riscuotere successo, non tanto dal punto di vista numerico, quanto da quello della concretezza delle individualità coinvolte. E’ venuta meno la dinamica per cui c’è un interlocutore che organizza e propone e uno che eventualmente aderisce all’iniziativa; chi veniva a questi incontri diventava parte integrante del progetto portando la sua professionalità ed il suo contributo nel momento stesso in cui il Progetto era ancora in divenire. Questo ha messo tutti noi sullo stesso livello, creando un clima molto positivo».

Sulla base dell’esperienza di chi era stato a Ventimiglia e di chi per lavoro seguiva le dinamiche migratorie come avvocato, educatore o operatore dell’accoglienza, vennero individuati i principali filoni di intervento.

Questo lavoro preparatorio contribuì al collaudo del Progetto20k che dal primo luglio e fino al 30 settembre 2016 diventò operativo sul campo, prevedendo l’affitto di un locale che potesse ospitare i volontari e garantendo la presenza stabile e quotidiana di una manciata di solidali a Ventimiglia.

credits: Progetto 20k

Durante questi 3 mesi di attività, i membri del Progetto 20K hanno fornito supporto materiale e concreto attraverso la raccolta e la distribuzione di indumenti, cibo e beni di prima necessità; informato gli uomini e le donne sul confine, dando loro gli strumenti per operare scelte consapevoli in autonomia e sicurezza; monitorato e controllato la situazione a Ventimiglia con il proposito di effettuare una più corretta comunicazione pubblica. Continua Francesco: «Raccogliere informazioni, confrontarle, analizzare i cambiamenti il più sistematicamente possibile rende noi più realmente competenti e maggiormente efficaci nella comunicazione che facciamo».

Questa prima parte del Progetto era quella inizialmente preventivata da Francesco e compagni. Con la conclusione di settembre e valutando che il flusso non si sarebbe interrotto, il gruppo prese consapevolezza che tutte le attività messe in moto necessitavano di ulteriore impegno e costanza. Come prima cosa è stato confermato l’affitto dell’appartamento, per permettere ai membri del collettivo di scendere appena possibile a Ventimiglia per mantenere sotto osservazione il frangente.

Dalla fase esperienziale e più intensa del trimestre estivo si è così passati ad un momento di costruzione progettuale.Gli scopi di questo periodo invernale sono l’aumentare il numero di competenze ampliando la rete di contatti ed organizzando incontri di formazione per far sì che tutti siano il più preparati ed aggiornati possibile.

«Una volta ogni tre settimane ci ritroviamo tra Bergamo e Milano, facciamo un’assemblea di una giornata intera in cui partiamo dalla situazione a Ventimiglia e da lì’ valutiamo possibili incentivi. Un lavoro non sul campo ma che è funzionale affinché il nostro impegno abbia risonanza.
Stiamo preparando un nuovo progetto estivo allargando lo spettro delle collaborazioni, intercettando altre realtà locali auto-organizzate come il centro sociale La Talpa e l’Orologio di Imperia o l’associazione Popoli in Arte di Ventimiglia , ma anche Onlus che hanno attivato un proprio staff su Ventimiglia, come Medici senza Frontiere o Save the Children».

Quello che Francesco ha tenuto a rimarcare è l’atteggiamento di apertura di 20K, la volontà di mettere insieme soggetti diversi con lo scopo unico di porre in relazione i migranti con il resto della società.

credits: Progetto 20k

Chiacchierando con Francesco, mi riferisce dei messaggi che arrivano da oltre frontiera al Gruppo. Raccontano di avercela fatta e li ringraziano. Sono messaggi che parlano di amicizia e scambio. Francesco sottolinea come per molti dei chabeb che arrivano a Ventimiglia, loro hanno rappresentato la prima opportunità per potersi liberare dalle tragedie viste o vissute, semplicemente parlando ed essendo ascoltati.

«Sono arrivato a 44 anni compiuti, si può dire tra i fondatori di questo Progetto e sin dal primo momento ho trovato ragazzi con 20 anni meno di me, coinvolti nel progetto solo da qualche giorno, che nel vivere l’esperienza lì a Ventimiglia erano loro riferimento per me; erano loro che tenevano il polso della situazione, sapevano cosa c’era bisogno di fare e io, di conseguenza, mi rivolgevo a loro. Questo per me è stato molto importante perché mi ha dato la percezione di aver costruito qualcosa di fortemente coinvolgente».

credits: Progetto 20k

Com’è oggi la situazione a Ventimiglia?

«Ad oggi, girano insistenti voci sul tentativo di svuotare il campo della Croce Rossa: non si capisce se con l’intenzione di chiuderlo o di alleggerirne le presenze. Come conseguenza di questo allontanamento dal campo, abbiamo registrato un aumento delle persone che dormivano in stazione. In generale, tra campo della Croce Rossa e persone fuori dal campo, ci sono tra i 400 e i 500 migranti a Ventimiglia; poi ci sono le famiglie con i bambini, diciamo 100-120 persone, che sono ospitate alla chiesa delle Gianchette. Se si rivelasse esser vera la notizia della chiusura del campo della CRI e con la continuazione dei flussi, si riproporrebbero situazioni già viste, come l’aumento delle deportazioni, l’intervento massiccio della polizia, ecc ».

Per partecipare attivamente al Progetto basta poco, è sufficiente andare ad uno degli incontri, mettere a disposizione parte del proprio tempo, partecipare alle raccolte di cibo ed indumenti, condividere l’informazione, interessarsi. Prossimo appuntamento, un grande e vento di due giorni, che si terrà il 31 marzo ed il primo aprile al c.s.a. Pacì Paciana di Bergamo, dove presenteranno il progetto 2017 alla luce dei contatti raccolti negli ultimi mesi.

Ventimiglia: al bar Hobbit si serve umanità

Ventimiglia. Temporeggiavamo fuori dalla stazione in attesa di pigliarci un caffè al bar Hobbit: la prima volta che sentivo parlare di questo locale e della signora Delia.

Proprietaria del locale dal 2015, gestisce quello che è diventato un punto d’appoggio ed esempio di degna ospitalità per i migranti che arrivano in città. Continua Delia: «Il bar, essendo situato nelle vicinanze della stazione, è sulla strada che porta alla periferia, per andare a stare sotto i ponti. Si deve comunque passare davanti al bar. A un certo punto qualcuno ha iniziato a fermarsi e a entrare: li ho serviti senza problemi. Complice il fatto che mastico un po’ di inglese e parlo francese (perché siamo in una città di frontiera) si è iniziato ad avere più gente nera e non li ho mai sbattuti fuori. Poi hanno iniziato a chiedermi da mangiare e per un periodo, dopo aver chiuso il bar la sera, portavo il vassoio delle pizze e delle focacce avanzate a chi aspettava fuori o chi stava in stazione. Da lì in poi il passaparola è stato rapidissimo e mi sono trovata ad avere il bar pieno di migranti ogni giorno. Da quel momento è iniziato il rapporto con tutte queste persone».

Delia ascolta e risponde alle domande, lascia usare il bagno ai suoi ragazzi, permette loro di ricaricare la batteria del cellulare, distribuisce indumenti che le vengono donati e prepara un pesto delizioso! «Da me bimbi e donne incinta non pagano». Al bar si impara l’italiano con delle lezioni tenute da una maestra in pensione sua amica: dopo la lezione viene offerto il pranzo agli alunni. «Molti mangiavano solo quando venivano al corso e molti vengono al corso solo per mangiare. Se per qualche inghippo il corso salta una lezione, qualcuno rimane a digiuno fino alla lezione successiva. Il cibo e il materiale per la scuola di italiano che voi mi avete donato è stato un gradissimo aiuto». Si riferisce alle raccolte e donazioni di Progetto 20k con il quale si è creato un forte legame e un sentimento di aiuto reciproco.

Il parcheggio delle Gianchette a Ventimiglia, dove diversi migranti si accampano per la notte. (Rivierapress.it / Vimeo)

Ma al bar Hobbit non si sgarra! “Mamma Delia”, come la chiamano gli chabeb, ha posto delle rigide regole per far funzionare al meglio l’attività: frequenti controlli obbligano a mantenere tutto perfettamente pulito e a norma. Delia è alta un metro e 40 centimetri, ma quando si arrabbia e inizia a urlare il silenzio cala improvvisamente in tutto il locale.

Mi spiega: «Perché sbatterli fuori? Io sbatto fuori la persona maleducata che infastidisce gli altri e crea disordine, a prescindere del colore della sua pelle. Io sono la responsabile del locale. Io non ho mai avuto una rissa. Io urlo perché voglio educazione e bagni puliti, in quanto sono soggetta a controlli praticamente tutti i gironi! Se entrano e trovano qualcosa che non va mi fanno chiudere: io perdo il posto di lavoro e loro il posto in cui stare. Alla domenica, quando io sono chiusa, loro sono in mezzo alla strada: devono capire queste regole per il loro bene ed è giusto spiegargliele. In questo mi aiutano i ragazzi che sono in città da più tempo. Fino ad ora sono riuscita a mantenere l’ordine e soprattutto a lasciare aperto questo punto d’incontro».

L’attività del bar, però, è a rischio ormai da un anno: «Sono stata catapultata in un mondo che non è più il mio. Ho dovuto rivoluzionare tutto e ora il bar è sputtanato, così come la mia faccia. Dicono che “Da Delia si fanno solo i negroni”. Parole che feriscono, ma si va avanti. Non ci si può fermare davanti alla cattiveria della gente». Oltre alle voci maligne, Delia deve anche fronteggiare dei problemi economici: i conti a fine mese non tornano mai!

Ultimamente però, forse la situazione sta cambiando: la gentilezza e l’umanità di Delia han fatto si che altre realtà varcassero la soglia del bar Hobbit. Sabato 4 febbraio ha avuto luogo un aperitivo di beneficenza a cui hanno partecipato alcuni medici di Medici Senza Frontiere, qualche rappresentante francese di Amnesty International, i ragazzi di associazioni  a sostegno dei migranti come La talpa e l’orologio, Articolo2, Presidio Permanente No Bordes e Progetto 20k . La proiezione del video “Per un uso proporzionato della forza”, che unisce testimonianze di alcuni migranti e filmati degli attivisti, e il ricco aperitivo preparato da Delia hanno attirato un buon numero di persone. Un’atmosfera di positività creatasi insieme a persone “nuove” all’ambiente del bar Hobbit: «[è stato] un bel momento di confronto tra di noi, che la pensiamo alla stessa maniera. Sono rimasti tutti contenti per quello che avevo preparato e la serata è riuscita perfettamente. Ci siamo accordati per rivederci in futuro, ci siamo scambiati varie opinioni e, per essere stata la prima volta, credo sia riuscita molto bene. Pensa che hanno partecipato alcune volontarie della Caritas che non erano mai passate dal bar: ora hanno iniziato a collaborare insieme per distribuire coperte e proprio Caritas ha da poco aperto la mensa ai ragazzi dalle 11 a mezzogiorno».

La frontiera con la Francia a Ventimiglia, IM (Guy Lebègue, Wipedia) / Licenza CC-BY-SA-3.0

Piccoli passi verso una maggior collaborazione delle varie realtà che operano sul territorio. Realtà che si sono conosciute da poco, ma tutte accomunate dal rifiuto del razzismo, che invece cresce in questa strana città di frontiera. Una psicologa è rimasta colpita dai racconti di Delia su alcune donne frequentanti il suo bar che hanno avuto delle crisi e si è messa a sua disposizione per dare aiuto e supporto. Delia ripensa ai primi mesi di accoglienza: «Incontrare queste persone in viaggio, ascoltarle… sono tutte esperienze che poi devi vivere giorno per giorno. Di fronte al pianto di un bambino, all’isteria di donne che invece i bambini li avevano persi in mare, alle urla di una ragazzina sotto shock non si può rimanere indifferenti. Anzi, me ne facevo carico talmente tanto che di notte piangevo. Sono figlia di migranti e so per certo che un bambino, se ha un bel ricordo del Paese che lo accoglie poi diventa un bravo cittadino, ma se gli lasci brutti ricordi… poi non ci lamentiamo degli attentati! Della mia infanzia da immigrata ricordo sì il dito puntato, ma anche gente che ci faceva giocare, ci voleva bene. Trasporto la mia vita da immigrata, la mia sofferenza e la mia gioia. Il dito puntato non lo farò a nessuno».

Dopo aver pranzato al bar, prima di rincasare, usciamo a fumare una sigaretta insieme a Delia: dal fondo della via si vede arrivare un nonnino zoppicante dall’andatura lenta che cammina verso di noi. In una mano il bastone e sotto il braccio una zucca gigante. È nonno Giovanni che la regalerà a mamma Delia per preparare una buona zuppa ai suoi ragazzi.

Immagine di copertina: la stazione di Ventimiglia, IM (Lunon92, Wikipedia). / Licenza CC BY-SA 3.0

Sul confine: ai margini della vita nuova

Questo viaggio vede come protagonisti l’entusiasmo di una giovane, una città di confine, un progetto d’amore e fedeltà.

Sara, studentessa e figlia di immigrati integratisi a Milano, aspira a una carriera nelle organizzazioni internazionali, per provare a correggere dall’interno quello che lei coglie come uno scemare di credibilità negli anni. Attraverso l’evento Nuit Debut Milano e una serie di incontri presso il centro sociale Ri-Make, viene a conoscenza del neonato progetto 20K.

Ventimiglia, comune della provincia di Imperia conosciuto come “Porta occidentale d’Italia” in quanto territorio di confine con la Francia, è lo scenario ospite in cui un gruppo di attivisti che credono nel diritto alla libera circolazione hanno organizzato un campo autogestito dove svolgere attività plurime per assistere i migranti che tentano d’attraversare la frontiera.

All’ordine del giorno il costante monitoraggio della situazione, il supporto materiale (distribuzione di beni di prima necessità) e la trasmissione di informazioni relative ai diritti e alla sicurezza di viaggio ai migranti, piuttosto che riguardo la cronaca degli avvenimenti di Ventimiglia al mondo.

L’anno scorso una simile iniziativa era stata condotta per qualche mese presso la spiaggia dei Balzi Rossi (sito archeologico che vede un complesso di grotte ornare la falesia calcarea) dove No borders, solidali e migranti avevano stanziato presidio; sfrattati da quel ritaglio di terra ch’erano riusciti a organizzare, i migranti hanno ricreato quasi spontaneamente un nuovo “campo informale”.

Sara, desiderosa di superare la semplice forma dell’assistenzialismo ed essere parte attiva nella realizzazione del progetto a stretto contatto con questa realtà di “ricerca di vita ”, poche settimane dopo la nascita di 20k parte alla volta dell’estrema punta ligure.

«Il 17 Luglio, assieme a altre due ragazze e una buona dose d’ansia, mi sono messa in viaggio.
Ventimiglia, solcata dal fiume Roja, si è presentata per un istante nelle sue due metà: quella medievale, ch’è secondo centro storico ligure per estensione dopo Genova, e quella più moderna (edificata dall’800 in poi).
Abbiamo proseguito per la valle sino all’ex parco ferroviario dove, nelle vicinanze della struttura d’accoglienza di Croce Rossa e Caritas, sorgeva il campo autonomo».

«Arrivata a destinazione, ho potuto vedere in prima persona la drammaticità della situazione: gli chabeb (“ragazzi” in arabo; termine che preferiamo a “migrante”) che non si fidavano delle procedure identificative al centro della Croce Rossa si riversavano in massa da noi. Ogni giorno abbiamo contato un flusso di 250/300 persone; alcuni tentavano la sorte provando ad attraversare il confine e altri, sfiniti da immensi viaggi o rispediti indietro dalla frontiera Francese, giungevano a momentaneo riparo».

In questo panorama di terra cocente e rotaie, di monti che s’ergono attorno e treni merci che scherniscono al loro passare inscenando una improbabile fuga, il campo era ben organizzato: in 6 strutture (ex stalle) situavano i dormitori, un efficiente info point con libreria che elargiva informazioni legali su questioni principalmente legate alle richieste d’asilo politico, una cucina-dispensa dotata di fornelli, pentole e prodotti per l’igiene e, infine, un ambulatorio per visite mediche dove dottori volontari prestavano quotidiano servizio. Anche gli spazi aperti venivano adibiti a funzioni sociali: segnaletiche in arabo indicavano le zone del parrucchiere, quelle adibite al gioco del pallone e alla preghiera.

«In breve abbiamo avviato dei corsi introduttivi di lingua inglese e francese e trovato il modo di installare una doccia funzionante, anche se l’allaccio all’acqua ci è stato tolto poco dopo».
Dalla sua nascita, il campo informale ha avuto sempre rapporti difficili con le istituzioni e il vicino centro della Croce Rossa, così che i tentativi di sabotaggio dell’iniziativa sono stati molteplici e continui: dai piccoli furti e danni materiali, all’ordinanza della prefettura di bloccare la raccolta dei rifiuti.

«Queste le risposte al fatto che i migranti preferissero stazionare al campo informale piuttosto che a quello istituzionale dove la procedura di registrazione era sempre più simile a un’identificazione: per accedere alla mensa, alle docce e al servizio medico era necessario un badge con codice a barre e fotografia al posto del precedente tesserino nominale. Dei 180 posti disponibili all’interno della struttura solo una sessantina erano occupati».

Sara ricorda con amarezza gli ultimi giorni di Luglio: nonostante i viglili del fuoco avessero decretato, in seguito ad un sopralluogo, la sicurezza della cucina del campo, polizia e digos hanno smantellato tutto, giustificandosi con la supposta inutilità del locale, in quanto il cibo per i migranti era già messo a disposizione dalla Croce Rossa.

Questi i preludi del definitivo sgombero dell’intera zona avvenuto il primo Agosto. Le forze di polizia hanno fatto incursione la mattina presto e gli chabeb, dopo una breve resistenza, hanno ceduto alla paura e sono stati trasferiti obbligatoriamente all’interno del campo governativo. Espulsioni dal Paese e fogli di via per alcuni attivisti italiani ed europei a coronare la disfatta.

«Vivere a stretto contatto dell’alternarsi tra solidarietà quotidiana, repressione, speranza, deportazioni è stata una palestra di conoscenza immensa. Mi spaventa questa intolleranza per il diverso, questa gestione seriale delle vite applicata dall’occidente.

In Dicembre sono tornata a Ventimiglia per un breve periodo: la notte, in stazione, i blindati detengono il bottino della continua “caccia al nero” e chabeb dai visi coperti sgattaiolano terrorizzati dove possono per non farsi catturare.
Vi ho trovato anche l’infelice sorpresa di un’ordinanza che vieta la distribuzione di cibo per le strade della città.

Ora noi siamo quelli che stanno nascosti a sfamare i “mostri”».

Fotografie di Sara/Progetto 20K

Rischiare la vita in viaggio per ritrovarsi sempre dall’altra parte del confine

Il primo mese dell’anno apre a un 2017 che non mostra soluzioni per la “questione migranti”, almeno per come essa appare ai cittadini italiani, sempre più allarmati dal numero di stranieri che vedono sbarcare nel Paese. Preoccupazioni non del tutto prive di fondamento: dal 2015 al 2016 l’arrivo di migranti in Italia ha registrato un incremento del 18%, passando dai 153 mila ai 181.405 sbarchi. Da un punto di vista europeo però, l’allarme immigrazione risulta essere in forte riassorbimento: rispetto al milione di arrivi del 2015, si segnala infatti una riduzione del 64% di sbarchi, quantificata in 361.678 nuovi migranti nel 2016.

Gli arrivi via mare in Italia tra gennaio e dicembre 2016 (Fonte: UNHCR).

La Comunità Europea non sembra di fatto intenzionata a modificare il forte divario tra la situazione italiana e quella del resto dei Paesi europei. Al contrario, i provvedimenti presi sono tutti volti a limitare gli spostamenti, aumentando i requisiti per i richiedenti asilo e innalzando barriere di filo spinato; muri che a oggi separano sempre più stati: dal blocco della rotta balcanica (dalla Turchia a Grecia, Macedonia, Croazia,…) ai confini del territorio italiano, che pur essendo tra le mete meno ambite, risulta di fatto essere il luogo di stazionamento di centinaia di clandestini. Provvedimenti che si preoccupano di tutelare le potenze europee, ma che non tengono minimamente conto dell’umanità che continua a viaggiar per mare, mettendo a rischio la propria vita (nel 2016 si registrano nel Mar Mediterraneo 5022 morti) per ritrovarsi bloccata lungo frontiere più che congestionate.

Non meno allarmante è la situazione al di fuori delle aree di confine, nei centri urbani che sono luoghi di incontro tra vecchi e nuovi migranti. Milano, ad esempio, che a inizio 2017 registra cifre attorno ai 3500 nuovi extracomunitari sprovvisti di regolari documenti (oltre il 20% sopra la soglia prevista dal piano nazionale), è nell’immaginario di molti migranti un punto di snodo, una prima meta dove trovare contatti e da cui ripartire verso il resto d’Europa. «Alcuni sbarcano senza neanche la certezza di essere in Europa, senza sapere di essere in Italia;– racconta a Pequod Marisa, che ha lavorato a Lampedusa in attività di primo soccorso –ma hanno scritto in pennarello sul braccio l’indirizzo di riferimento da cercare e molte volte la meta è Milano». I motivi che spingono verso il capoluogo lombardo sono vari e diversi, ma raramente contemplano la volontà di fermarvisi: dalla presenza di connazionali cui fare riferimento alla vicinanza di mezzi di trasporto per grandi spostamenti; a volte, la speranza di trovare il trafficante che li porterà oltre confine.

Morti e dispersi nel Mar Mediterraneo nel biennio 2015-2016 (fonte: UNHCR).

Una piaga, quella del traffico umano, di cui ci parla Vanda, operatrice di strada in un’organizzazione che si occupa di fornire informazione ai migranti che stazionano nelle vie milanesi: «Nelle strade, sentiamo parlare spesso di traffico umano, sia che si tratti di trasporto di clandestini sia finalizzato alla prostituzione; ma anche offerte di ospitalità in cambio di piccole cifre di denaro o commissioni sulla ricezione di denaro dall’estero; non sempre vengono da migranti o bisognosi, possono essere coinvolti gli stessi operatori nel settore. Allontanare i nuovi arrivi da queste situazioni è tra i nostri principali obiettivi: spieghiamo loro le vie legali, attorno alle quali c’è molta disinformazione e forte disorientamento, e perché evitare scorciatoie, ma capita che siano i migranti stessi a chiedere contatti con i trafficanti. Spesso arrivano a Milano perché sanno che qui è più facile trovarli: vivono in città e a volte entrano loro stessi nei centri di prima accoglienza in cerca di clienti. Capita anche di riconoscerne alcuni e di segnalarli alle Forze dell’Ordine, ma i tempi delle indagini sono sempre troppo lunghi per vederne gli effetti».

Alle Forze dell’Ordine, Comuni come Milano, Chiasso, Pordenone hanno affidato il contenimento dei disagi legati alla presenza incontrollata e disorganizzata di extracomunitari. Chiediamo a Vanda dei rapporti tra questi e i migranti: «Da quello che raccontano le persone incontrate, soprattutto i Carabinieri sono abbastanza cordiali, al più distaccati; mentre ci sono stati riportati episodi di aggressioni da parte della Polizia Ferroviaria: un minore non accompagnato in attesa di documenti, ad esempio, ci ha raccontato di aver ricevuto un pugno in faccia solo perché sprovvisto di biglietto. Qualche problema nasce a volte con la Polizia di Stato, la cui presenza in strada è stata intensificata, insieme a quella dell’esercito, dopo la strage di Berlino. Anche l’applicazione di certe norme è diventata più rigida da quella data: è aumentato il numero di persone che vivono in strada dopo esser state allontanate dai centri di prima accoglienza, escluse dal sistema. I motivi di un’espulsione possono essere diversi: una rissa, una dipendenza, piccoli illeciti… Tra questi, la sospensione della procedura di richiesta d’asilo è prevista per chi lascia il centro d’accoglienza per più di 72 ore; una norma che fino all’anno scorso raramente veniva applicata. Lo stesso per chi lascia il Comune di prima accoglienza, che va a sommarsi ai clandestini che per scelta non si registrano in Italia, non volendo rimanere legati al Paese di primo sbarco, come invece previsto dalla normativa europea».

Sistema europeo d’emergenza di ricollocazione dei rifugiati (Fonte: UNHCR).

Eppure spesso sono proprio i Comuni a instradare i richiedenti asilo verso zone già sature. «Per legge, ogni migrante dovrebbe avviare le pratiche per la richiesta di asilo nel primo centro d’accoglienza in cui viene ospitato, entro 8 giorni dalla data d’ingresso.– Ci spiega Chiara, che lavora all’interno di una di queste strutture – Spesso questa norma è impossibile da rispettare, perché i centri non hanno posto. I Comuni dovrebbero collaborare accogliendo chi staziona sul territorio, ma difficilmente lo fanno; così come la Polizia di Frontiera, che si limita a riportare in territorio italiano chi è stato trovato in Stati limitrofi. In questo modo si mantengono in costante movimento grandi masse umane; attraverso una serie di rimbalzi, nessun’area appare eccessivamente sovraccaricata, ma il problema non arriva mai a soluzione. Si procede di emergenza in emergenza, anche a causa del rifiuto di molti Comuni ad applicare il piano di distribuzione nazionale; chiudiamo l’inverno con un “piano emergenza freddo” e ci prepariamo alla primavera e alle emergenze che annualmente si ripropongono con l’incremento di arrivi in Marzo».

Su richiesta degli intervistati, i nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

Fuga da una democrazia negata: il viaggio di Abdul dall’Eritrea all’Italia

Primavera milanese, scende la sera e la prima folata di vento viene a stuzzicare Hamadou e me, seduti alla pensilina di Lambrate, in attesa del treno per rientrare a casa. Un africano dalla carnagione opaca e il naso stretto si avvicina per chiedere una sigaretta. «Da dove vieni?» chiedo. «Eritrea».

Istintivamente Hamadou si alza a prendere un caffè caldo dalla macchinetta, lo porge al ragazzo che gli si siede accanto e domanda di lui, della salute, della famiglia, secondo i convenevoli in uso nei paesi musulmani. Abdul si presenta e racconta la sua storia.

Asmara - Capitale d'Eritrea
Asmara – Capitale d’Eritrea

«Fratello, non ho notizie da più di un anno della mia famiglia. Mia madre è deceduta mentre ero in viaggio; mia sorella forse è ancora giù, forse partita anche lei».

Da più di un anno, Abdul vive in strada; dal giorno in cui è scappato dal centro di prima accoglienza in Sicilia, ha conosciuto pensiline e stazioni in tutta Italia, attraversando la penisola sui binari e fermandosi su sollecito dei controllori, che di volta in volta lo trovano sprovvisto di biglietto.

«Non potevo più aspettare i documenti nel centro accoglienza: era come una seconda prigionia, dopo quella in Libia. In più c’era il rischio che mi dessero l’asilo umanitario, anziché quello politico: vuol dire che hai passaporto e documenti per viaggiare; da noi è vietato possederli prima dei 50 anni. Il governo eritreo viene informato dei cittadini all’estero che prendono passaporto e può punire le loro famiglie».

L’Eritrea è oggi una delle più terribili dittature: da 21 anni Isaias Afewerki, eletto poco dopo il voto per l’indipendenza, ha imposto un governo assolutista e fortemente militarizzato, che ignora le leggi della pur approvata Costituzione del 1997. La popolazione è totalmente privata dei propri diritti civili, l’informazione è controllata e la leva obbligatoria, estesa per legge a uomini e donne in età dai 18 ai 50 anni e spesso anticipata, è prevista non solo in caso di guerra, ma anche per programmi di lavoro statali.

Incontro tra il Segretario della Difesa Donald H. Rumsfeld e il Presidente Isaias Afwerki ad Asmara, Eritrea, il 10 Dicembre 2002 [ph: by Helene C. Stikkel]

«Sono partito la settimana dopo la morte di mio fratello maggiore, entrato nel campo di servizio militare a 17 anni. Mio padre ci aveva lasciati da meno di un anno per una malattia, quando sono venuti a portarlo via; pochi mesi dopo sono venuti a cercare me e mio fratello minore, perché mio fratello aveva tentato la fuga dal campo ed era stato fucilato. Fortunatamente nessuno era in casa quando arrivarono e fummo avvisati da conoscenti. Fuggimmo nel deserto, io e mio fratello lo attraversammo a piedi; mia madre si nascose per mesi insieme alla mia sorellina di pochi mesi presso una zia».

Abdul racconta molto dei giorni trascorsi nel deserto: il sole cocente sulla fronte, il cibo razionato condiviso, i predoni da cui fuggire nascondendosi sotto la sabbia calda. Racconta del fratello e delle chiacchiere e di come la notte si sdraiassero pochi minuti a osservare la volta stellata:

 «È l’ultimo ricordo felice nella mia terra».

Dopo il deserto, la sua voce trema. Ci racconta sottovoce d’aver perso il fratello nelle prigioni libiche: «Mi sono imbarcato da solo. E sul gommone ogni giorno moriva un fratello».

Il suo racconto s’interrompe e mi fissa con sguardo intenso, duro e fiero:

«Voi europei vi dimenticate spesso delle fortune che avete e di quanto sono costate. Le ricchezze e i diritti che avete ottenuto sono anche grazie allo sfruttamento delle colonie. Noi continuiamo a subire le conseguenze della politica coloniale: gli europei hanno stabilito prima di cedere l’Eritrea all’Etiopia, poi di sostenere la nostra indipendenza. Ora anziché intervenire perché si rispettino i diritti umani, stringe accordi con Afewerki, come fosse un presidente democratico aperto al dialogo. Costerebbe troppo intervenire militarmente e non ci sarebbe nulla da guadagnare».

Vorrei chiedere scusa. Vorrei fargli sapere di come anch’io vorrei che il mio paese aprisse gli occhi e guardasse oltre le frontiere, per accorgersi che una vera democrazia non può esistere finché ci sia anche un solo popolo cui è negato il diritto a parlare, soprattutto quando quel popolo è stato tuo compatriota e ancora bussa alla tua porta per chieder aiuto. Non ci sono parole e forse non servono.

Stringo la mano di Hamadou; guardo il cielo, dove ormai sono apparse le stelle.

Distruggiamo Dublino, costruiamo l’Europa

 

Ma quale crisi.

We’ll create a new legal situation at the borders so it will be given more strict than it was and that could be a good answer at the fear of the people in Hungary and in Europe. We are defending not just the Hungarian border, we are defending the out-side border of Schengen which means that we’ll defend Europe”. Queste le parole chiare e nette del primo ministro ungherese Victor Orban in una conferenza stampa a Bruxelles a fianco del presidente del Consiglio Europeo Donal Tusk, esattamente un mese fa. Cinica e chiara appare quale sarà la politica che l’Ungheria ha deciso di mettere in campo avallata dall’Unione Europea. L’Europa non si farà carico dell’accoglienza dei profughi che scappano dalla guerra in Siria. In contemporanea, parte la macchina mediatica della dis-informazione mainstream che parla di crisi dei rifugiati, di invasione e di una possibile islamizzazione dell’Europa. Inizia così un’insopportabile retorica che parla incessantemente di CRISI. “E’ giusto che l’Europa si faccia carico di ciò? Perché non stanno nei paesi limitrofi? Non possiamo accogliere tutti, non c’è lavoro neanche per noi..” e via di seguito. Se andiamo a vedere i numeri di ciò che sta accadendo (fonti UNHCR, 1 Ottobre), capiamo come queste retoriche non siano altro che schizofreniche bugie utili a qualcuno e forse a più di qualcuno.

Dall’inizio del conflitto in Siria, 12 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case, 8 milioni sono sfollati interni e 4 milioni sono ora fuori dal Paese. Di questi quasi 2 milioni in Turchia, 629 mila in Giordania, 110 mila in Libano, 250 mila in Iraq, 130 mila in Egitto, 24 mila in Libia e 348 mila hanno chiesto asilo in Europa. Numeri alla mano constatiamo come meno del 3% del totale di persone che hanno lasciato le loro case stanno cercando asilo politico in Europa. Se poi paragoniamo il numero di persone che gli stati Europei devono affrontare rispetto agli stati limitrofi alla Siria, capiamo come parlare di Crisi Europea dell’accoglienza non abbia alcun senso. In più dobbiamo considerare che non tutte le persone arrivate vorranno fermarsi in Europa a conflitto cessato.

BUDAPEST, HUNGARY - SEPTEMBER 02 : Migrants protest outside Keleti station which remains closed to them in central Budapest on September 2, 2015 in Budapest, Hungary. Hundreds of migrants protest in front of Budapest's Keleti Railway Terminus for a second straight day on September 2, 2015 demanding to be let onto trains bound for Germany from a station that has been currently closed to them. (Photo by Arpad Kurucz/Anadolu Agency/Getty Images)
BUDAPEST, HUNGARY – SEPTEMBER 02 : Migrants protest outside Keleti station which remains closed to them in central Budapest on September 2, 2015 in Budapest, Hungary. Hundreds of migrants protest in front of Budapest’s Keleti Railway Terminus for a second straight day on September 2, 2015 demanding to be let onto trains bound for Germany from a station that has been currently closed to them. (Photo by Arpad Kurucz/Anadolu Agency/Getty Images)

Se proprio vogliamo parlare di crisi dovremmo parlare di crisi di umanità e di crisi di solidarietà. Interroghiamoci su chi la sta causando questa crisi e perché migliaia di persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa. Possiamo dirlo chiaramente: il regolamento di Dublino causa la crisi, le barriere e i fili spinati causano la crisi, le politiche che rifiutano l’accoglienza sono la crisi. Se consideriamo poi che tra il 2007 e il 2014 l’Europa ha speso 2 miliardi di euro in difese, tecnologica di sicurezza all’avanguardia e pattugliamento di confine capiamo quanto i presupposti andassero in tutt’altro verso rispetto all’accoglienza. Ci sarebbero state le possibilità economiche per affrontare l’emergenza in maniera diversa e salvare migliaia di vite.

Keleti Station.

Ritorniamo al discorso iniziale di Orban e notiamo come nonostante i tentativi intimidatori del governo Ungherese e in contemporanea i pattugliamenti dell’esercito al confine, migliaia di persone continuarono nella loro impresa eroica. Raggiungere l’Ungheria, entrare nell’area Schengen e poi muoversi verso paesi che gli avrebbero garantito migliori condizioni di vita. La criminale legislazione mostrò tutte le sue contraddizioni e si trasformò nella viva metafora delle inefficaci politiche europee a Keleti Station. Migliaia di persone, passato il confine, arrivarono alla stazione per prendere un treno che li portasse in Austria, in Germania o ovunque in Europa. Il governo decise di sospendere i treni e chiudere le frontiere e la situazione divenne esplosiva. In mille partirono in marcia verso l’Austria, attirando l’attenzione mondiale e costringendo così il governo ungherese a cedere momentaneamente. La sensazione era che molti non sapessero esattamente dove andare ma chiara e travolgente era la speranza di trovare aiuto, di trovare un futuro di pace per se stessi, i propri figli, fratelli o amici.

Bastava passarci una mezz’ora per capire che quel posto era speciale, nella sua disperazione e nelle sue contraddizioni si è trasformato in qualcosa di magico. Come sempre, quando avviene un nuovo incontro, un nuovo scambio, una nuova relazione nasce qualcosa che il biopotere non è in grado di catturare o codificare. E’ qualcosa che oltrepassa le logiche ciniche e inumane di una politica che parla di statistiche e si dimentica dei suoi doveri. Una politica che si dimentica delle persone, delle loro relazioni, dei loro desideri, delle loro emozioni e necessità. In molti si saranno chiesti perché in tanti vogliano andare proprio in Germania e non si fermino in Turchia o in Serbia o in Ungheria. Immaginate, per un attimo, di essere una madre con due figli piccoli e di essere stati due anni in un campo profughi in Turchia senza la possibilità di mandare i propri figli a scuola e di venire a sapere che in Germania, nei campi profughi, vengono organizzate classi e momenti ludici per i bambini, voi cosa fareste? Non stiamo parlando di volere il meglio, ma di diritti inalienabili che ognuno vorrebbe per i propri figli.

Ritorniamo a Keleti Station e a quello stupendo clima di solidarietà e complicità che i cittadini di Budapest, le ong indipendenti e alcuni attivisti internazionali sono riusciti a creare in quel microcosmo. Ci troviamo al piano inferiore della stazione centrale di Budapest, scendendo la grande scalinata antistante il frontone della stazione si viene subito immersi in un via vai di persone indaffarate, lingue diverse, facce spaesate e stanche.

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Il colpo d’occhio è forte, tutto l’atrio è cosparso di tende, c’è un punto ristoro al centro dove vengono distribuiti pasti caldi, e vettovaglie varie ad ogni ora del giorno e della notte. Proseguendo sulla destra c’è un ospedale da campo dove medici e infermieri prestano servizi di primo soccorso e distribuiscono medicine a chi ne ha bisogno. Subito dopo un ufficio legale in cui si cerca di chiarire i differenti status legali e i diritti a cui ognuno può appellarsi. Poco distante un magazzino a cielo aperto con tutti i materiali per allestire il campo, tende, materassi, corde, gazebo, scorte di cibo e acqua. Sulla sinistra tre gazebo pieni di vestiti che la cittadinanza ha donato. Una vera e propria montagna di abiti che i volontari hanno provveduto a dividere per età e genere. Ciò per facilitare la ricerca di chi aveva bisogno di un giubbotto piuttosto che un paio di jeans o voleva avere una camicia nuova per arrivare ben vestito una volta arrivato in Germania. Poco distante un punto ludico per i più piccoli con materiali per disegnare, bambole, giocattoli vari e libri illustrati. L’isola di Keleti, così mi piace ricordarla, finiva con due tendoni sempre affollati e rumorosi: l’Internet point! Ad ogni ora del giorno e della notte c’era qualcuno che tentava, con il proprio smartphone, di comunicare con la famiglia, con gli amici o con chi è rimasto indietro. Tra una sigaretta e l’altra alcuni ci raccontano la loro vita prima, il loro viaggio, ci si scambia informazioni utili e si discutono i progetti futuri. La voglia di raccontare la propria storia personale è inarrestabile, di testimoniare l’assurdità di quello che stanno vivendo con video e foto. Tutt’attorno scorre la vita della città, c’è chi passa e butta un’occhiata, chi scatta una foto, chi si ferma a chiedere se serve una mano. Lo sciame di giornalisti, televisioni e fotoreporter è sempre presente e si aggira per la stazione alla ricerca di una nuova storia o della foto più commovente.

Ogni giorno centinaia di persone arrivavano, ricaricavano le batterie, e nei giorni successivi ripartivano in treno. Grazie alla solidarietà di molti, si è riuscito a comprare i biglietti del treno per chi non aveva abbastanza soldi e garantito ad ognuno un altro piccolo pezzo del coraggioso viaggio. Dopo la chiusura definitiva della frontiera, Keleti si è rapidamente svuotata e ora rimangono solo le scritte fatte sui muri a ricordare quello che fu un magnifico esperimento di solidarietà.

Costruiamo l’accoglienza.

Facciamo un passo avanti ora e proviamo a capire cosa può e deve essere fatto per far sì che queste situazioni smettano di causare morti e profughi. Innanzitutto è fondamentale che cessi il conflitto in Siria e, anche se l’Europa non ha una una grossa influenza nella zona, è importante che prenda una posizione netta sulla cessazione immediata dei combattimenti. Nostro compito è nel frattempo fare pressioni sulle istituzioni europee perché si istituiscano canali umanitari che permettano arrivi sicuri. E’ fondamentale far sì che cessino le insopportabili stragi in mare e in terra. Chiedere rotte sicure che permettano ai richiedenti asilo di scappare dalla guerra e presentare le domande nei vari stati senza dover rischiare la vita un’altra volta. Come ci ha magistralmente mostrato Luther Blisset, nella formula della design fiction, basta poco per immaginare il nuovo, per dare forma al possibile che ancora non c’è. La bufala di RyanFair, infatti, ci mette di fronte alla banale e cruda realtà di come si potrebbero far volare delle persone senza dover aspettare di dover rivede il diritto d’asilo europeo. “ Se qualche ong si facesse carico dei rischi insieme a una compagnia, qualche spazio si potrebbe aprire. E’ un umanitario concreto, uno scenario che si va aprendo. A livello di politica istituzionale invece non ci aspettavamo nulla e nulla è successo” commenta Luther Blisset sul Manifesto. Concentrare quindi gli sforzi in questo ambizioso programma invece di rafforzare le barriere e chiuderci nella ipocrita fortezza Europa.foto 7 https1.ibtimes.comsiteswww.ibtimes.comfilesstylesv2_article_largepublic20150908img_1375_0.jpg

Uccidere poi definitivamente il regolamento di Dublino e questa folle legislazione che obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo Paese in cui arrivano. Creare quindi una legislazione europea comune per i richiedenti asilo, che permetta loro di presentare le domande in uno stato membro e poi di godere degli stessi diritti anche negli altri. Diritto all’assistenza, diritto al lavoro, diritto alla residenza, diritto alla circolazione e così via. Avere un progetto comune su come gestire l’accoglienza nel rispetto della dignità e dei diritti di ognuno.

Tutt’altra cosa rispetto al sospendere Dublino per due settimane, come fece la Merkel, dichiarando di accogliere ogni migrante proveniente dalla Siria, per riscattare un po’ la propria immagine dopo il quasi assassinio della Grecia, e subito dopo richiudere le frontiere e iniziare i pattugliamenti armati. Non è parlare di fredde e assurde quote per ogni stato membro senza calcolare cosa i rifugiati pensano sia meglio per loro.

Piuttosto è dare nuovo smalto e mantenere in vita Schengen per quello di buono che ha. Aprire le porte della fortezza e dare vita ad una accoglienza degna che possa dare nuova linfa a un’Europa sempre più in declino. Allo stesso tempo, è isolare e sopprimere le spinte nazionaliste che cercano di accrescere i loro consensi a spese della vita dei rifugiati. Il diritto dei migranti è il nostro destino. Costruiamo l’accoglienza.

Il travaglio dei migranti – la gestione dei flussi alla Stazione Centrale di Milano

Migranti, viaggiatori, ospiti temporanei, nella propria mente forse anche prigionieri di un luogo di passaggio, la Stazione Centrale di Milano. Sfiorati dall’indifferenza e dalle valigie pesanti degli arrivi o delle partenze di chi non sta scappando come loro dal proprio Paese, hanno popolato gli spazi interni ed esterni della Stazione per settimane, nell’attesa di partire, di trovare un posto nei centri di accoglienza oppure di non trovarlo, per paura di essere identificati e non poter proseguire il proprio viaggio.

Queste fotografie sono state scattate tra il 12 e il 14 giugno, nei momenti di massima tensione e attenzione mediatica nei confronti dell’ “emergenza migranti” della Stazione Centrale. In un momento di grandi flussi, generalmente assorbiti senza particolari problemi dai centri di accoglienza di Milano, la chiusura delle frontiere per la temporanea sospensione di Schengen, fra il 26 maggio e il 15 giugno 2015, per il G7 ospitato in Germania il 7 e l’8 giugno, ha bloccato il transito dei profughi che avrebbero voluto proseguire. I migranti siriani, eritrei e provenienti da altre parti dell’Africa, rischiando di essere respinti, hanno dovuto prolungare la propria permanenza a Milano.

Tra il 12 e il 13 giugno inoltre, per ordine della Prefettura, è stato chiuso il mezzanino della stazione, dove i profughi solitamente ricevevano una prima accoglienza da parte dei volontari e dove, grazie al passaparola di chi è passato prima di loro, si aspettano di trovare un punto di riferimento. I migranti sono stati concentrati per una decisione del Comune, della Prefettura e di Grandi Stazioni sotto i portici della stazione, presso quelle strutture in plexiglass progettate per essere spazi commerciali e convertite per necessità: la distribuzione di cibo, di vestiti e altri aiuti, che hanno dimostrato come anche Milano possa rivelarsi solidale, è stata spostata un po’ più lontano dalle partenze e dagli arrivi dei viaggiatori. Da un paio di settimane con l’apertura dello spazio dell’ex dopolavoro ferroviario di via Tonale, dietro alla stazione, i profughi hanno trovato un’altra collocazione, con tutti i pro e contro del caso: migliori condizioni igieniche, un tetto sulla testa, assistenza sanitaria in loco, ma decisamente maggiori difficoltà per i nuovi arrivati nel trovare la struttura.

In queste fotografie si concentrano la stanchezza di un lungo viaggio, terribile come solo lontanamente possiamo immaginare, e la speranza di andare avanti, senza guardarsi troppo indietro.

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