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Il lavoro è cambiato e sta cambiando, ma in meglio?

Quando si parla di lavoro in Italia, di solito le reazioni che si ottengono sono sempre le stesse: scrollate di spalle, sguardi rassegnati e una certa invidia/nostalgia verso un’epoca d’oro ormai perduta. Nonostante una crescita dell’occupazione del +0,8% rispetto all’anno scorso evidenziata dai dati ISTAT di marzo 2018, infatti, la crescita è dettata principalmente dai contratti a termine, mentre calano quelli a tempo indeterminato, riaffermando così la predominanza del precariato in Italia. Rispetto all’Eldorado del lavoro del passato, quindi, molte cose sono oggi decisamente cambiate, ma non solo in peggio. L’avvento di internet ha infatti cambiato radicalmente il mondo del lavoro, facendo sì sparire diverse mansioni, ma creando altresì una miriade di nuove professioni e aprendo nuove possibilità anche per i lavori più classici.

Abbiamo parlato di questi cambiamenti con alcuni lavoratori appartenenti a diverse categorie, alcune sempre esistite, altre sviluppatesi solo di recente, per capire come la loro professione è cambiata o si è sviluppata nel corso del tempo.

Manuela, 55 anni, impiegata amministrativa del settore pubblico in un’ASST (Azienda Socio Sanitaria Territoriale) lombarda, ci racconta come il suo lavoro rispetto al passato sia cambiato già a partire dalle modalità di accesso: «Un tempo per essere inseriti bastava entrare in una graduatoria interna, di modo che appena veniva a mancare un dipendente, si attingeva a tale graduatoria per la sua sostituzione; solo in casi di necessità eccezionali lo stato deliberava un concorso per essere assunti. Oggi i concorsi pubblici sono invece la regola e sono molto più complicati di un tempo, con domande poco pertinenti al lavoro stesso o esagerate per le competenze richieste». Anche Giovanni, 30 anni, borsista in un laboratorio ospedaliero di immunogenetica finalizzato ai trapianti di midollo osseo, ci spiega che per diventare di ruolo occorre aspettare i concorsi pubblici, che però sono molto rari. Nell’attesa, si svolgono tirocini e/o attività di volontariato all’interno del centro trasfusionale e così «si entra in contatto con il personale del laboratorio, che, se ha necessità di incrementare il numero degli occupati e trova nel candidato una figura idonea, propone un inserimento, di solito mediante borsa di studio». Un lavoro precario, quindi, che, continua Giovanni, «non dà la possibilità di fare progetti a lungo termine». Anche il settore pubblico non dà più quindi le stesse certezze del passato, a meno che non si entri in ruolo grazie ai (rari) concorsi. Tuttavia, dice Manuela, «una volta entrati è difficile che si perda il posto, se non in caso di gravi mancanze da parte del dipendente. Si hanno quindi sia un posto garantito sia lo stipendio garantito».

Questi sono obiettivi che a Sara, 28 anni, operatrice socio assistenziale nel ramo dell’accoglienza ai migranti presso una cooperativa, sembrano al momento irraggiungibili: «Difficilmente si trova un posto fisso nel mio settore: il lavoro dipende molto dalla presenza di ospiti, che non è mai costante. In questo momento ad esempio gli sbarchi [di migranti in Italia] sono fermi, quindi non sono affatto sicura della continuità del mio lavoro».

Se il precariato nelle ultime decadi è arrivato a interessare la maggior parte dei settori lavorativi, lo stesso si può però dire per le innovazioni legate alla diffusione di Internet. Alessandro, 58 anni, segretario comunale in pensione da aprile 2018, non ha dubbi in merito, il web ha decisamente facilitato lo svolgimento del suo lavoro: «Con Internet le delibere dei Comuni, così come le decisioni ministeriali, non sono più cartacee ma pubblicate attraverso l’albo online al quale si può accedere quando serve. Prima bisognava invece essere vicini alla sede regionale per accedere ai documenti cartacei e tutto ciò era una perdita di tempo!».

Oggi gli stessi migranti si affidano a Internet per ricevere informazioni sul funzionamento dei sistemi d’accoglienza, ma spesso le notizie sono false o presentate in maniera distorta (foto di Japanexperterna.se/CC BY-SA 2.0).

Sara, invece, ci dice come nel suo lavoro l’avvento di Internet non sia tutto rose e fiori. Se da un punto di vista amministrativo Internet ha senza dubbio rivoluzionato il suo lavoro in meglio (maggiore reperibilità e condivisione delle informazioni, archiviazione online, etc.), lo stesso non si può dire per quanto abbia influenzato il modo in cui la sua professione viene recepita dalla società: «La questione migratoria è oggi una delle più discusse su internet, che però spesso offre informazioni del tutto false o distorte in modo da fornire un’immagine pilotata. Questa continua messa alla ribalta non agevola lo svolgimento del nostro lavoro, soprattutto perché crea preconcetti con cui poi ci scontriamo quando dobbiamo interagire con persone che si trovano al di fuori dal sistema accoglienza e a volte con gli stessi migranti».

Alla domanda su cosa si aspettino riguardo il futuro della loro professione, le risposte sono altrettanto variegate. Giovanni non è molto ottimista: «La ricerca sull’immunogenetica continuerà sicuramente a evolversi, avvicinandosi sempre più alla bioinformatica. Questo comporterà una maggiore automatizzazione del lavoro, con l’invenzione di macchinari sempre più efficienti che svolgeranno da soli molte delle fasi che oggi sono compito di noi borsisti. Nel futuro, quindi, prevedo che in un laboratorio come il mio, che al momento conta sei dipendenti, basteranno due persone». Alessandro, al contrario, ha uno sguardo molto positivo verso il futuro del suo lavoro: «Un ente locale non può fare a meno di un segretario comunale. Finché esiste l’ente locale, conseguentemente non può venir meno tale figura professionale». 

 

Alcuni nomi sono stati cambiati su richiesta degli intervistati.

Interviste di Sara Ferrari e Francesca Gabbiadini, 

Farsa musicale: in scena i lavoratori e la questione popolare

Siamo all’inizio dell’Ottocento e come tutte le arti di questo periodo, anche la musica vede un proprio avvicinamento al reale, una propria via d’uscita dall’ estetica del “bello ideale” e dai codici di riferimento formale e compositivo, rigidi e stilizzati, derivati dallo stile e dal gusto musicale del Settecento.

Il “ben composto” (l’insieme dei caratteri tecnico/compositivi delle norme formali e convenzionali riconosciute dalla tradizione) non basta più: si vuole vedere il reale, soffrire ed emozionarsi e a questo scopo la composizione musicale assume dei tratti nuovi, narrativi, descrittivi e prosastici. In questa direzione ho condotto un lavoro di ricerca musicologica, selezionando quattro esempi tratti da quattro farse veneziane diverse, collocabili in un arco di tempo che va dal 1800 al 1811, tentando capire come, concretamente, questo fenomeno abbia influito sulla musica d’arte e in particolare nella farsa musicale.

Ho scartabellato tra libretti e partiture originali per portare alla luce esempi di lavori e caratteri popolari che per la prima volta facevano capolino sui famosi palchi veneziani della musica d’arte: ho cercato il popolo, il contesto quotidiano e i lavoratori più umili.

Il carretto del venditore d’aceto, farsa giocosa per musica.

Rappresentata nell’ estate del 1800 al teatro S. Angelo a Venezia, su libretto di Giuseppe Foppa e musica di Johann Simon Mayr. La canzone che ho preso in considerazione è quella di Prospero, il venditore d’aceto, che troviamo nell’ ultima scena di questa farsa in un atto, nella quale viene ricreata la situazione tipica del venditore ambulante: «Prospero allegrissimo dalla porta dond’è partito, esce conducendo un piccolo barile sopra un Carretto da Venditore d’aceto con una ruota, facendone più giri per la Scena. Gli altri vanno schermandosi da lui, e mostrano stupore e paura; infine Flaminio».

Chi vuole aceto forte,/ Col mio baril son qua./ È affè ‘l miglior piccante/ Per fare le salsette:/ Miglior corroborante/ Di questo non si dà. […]/ È buon per le signore/ Che vanno in convulsione:/ Ha un certo pizzicore,/ Che in su saltar le fa./ Chi vuole aceto forte/ Col mio baril son qua. […] Per ogni mal cattivo,/ Che fa camminar storti,/ Ha un certo correttivo/ Che in su drizzar li fa./ Chi vuole aceto forte,/ Col mio baril son qua.

In questo pezzo è molto interessante l’introduzione dei violini, proprio nelle primissime battute: eseguono un inciso che richiama in modo evidente gli squilli di quelle trombette che i venditori ambulanti suonavano per richiamare l’attenzione. Questo dei violini è un inciso ricorrente nel brano e funge da intermezzo, ma probabilmente la sua principale funzione è di richiamare musicalmente il motivo del venditore ambulante e della sua trombetta. Altro elemento interessante è questa sorta di ritornello sui versi: “Chi vuol aceto forte,/Col mio baril son quà”, che viene ripetuto in ogni strofa (anche musicalmente è identico ogni volta che viene ripreso). Inoltre, proprio sull’ inizio di questa domanda, Mayr inserisce una corona lasciando la voce da sola, sempre per una questione di richiamo a quello che era il contesto di realtà dei venditori ambulanti. 

L’Amor Conjugale, dramma di sentimento

Il testo è scritto da Gaetano Rossi e la musica di J.S. Mayr; rappresentato nell’autunno del 1808 al teatro Giustiniani in San Moisè.  La fonte letteraria è Léonore, ou L’amour conjugal di Jean-Nicolas Bouilly, scritto nel 1798 (fonte che starà successivamente alla base del Fidelio di Beethoven).

In questa farsa la canzone che ho voluto prendere in considerazione è quella di Cristina, che canta nella prima scena, proprio in apertura allo spettacolo:

«Cristina filando a un molinello, poi Frillo/ Gira, gira, molinello,/ (Cri. Filando canta/ Non ti stare a attorcigliar:/ Questo lino/ Fino fino/ Con piacere sto a filar./ Per Malvino,/ Pel mio bello/ Le camicie voglio far./ (mostra dell’inquietudine, guarderà alla porta di mezzo, come aspettando alcuno/ E il mio ben non vien ancora?/ (ripiglia il lavoro e canta/ Gira, gira, molinello,/ Non ti star attorcigliar:/ Gira lesto,/ Forse presto/ Io m’avriò a maritar./ Presto attorno/ Per quel giorno/ Voglio preparar./ Han picchiato … m’ho ingannato/ (va allo sportello e guarda: ritorna smaniosa./ E non torna.»

La melodia di questa canzone (mi riferisco alla parte del primo violino) riconduce a un movimento circolare e ripetitivo, dato proprio da una scala che sale e scende; non solo i primi violini conducono questa scala di sedicesimi, ma anche il fagotto e le viole: un probabile richiamo al movimento meccanico, costante e rotatorio dell’arcolaio. I secondi violini e il violoncello conducono invece un ostinato ritmico; anch’esso, a mio avviso, potrebbe ricondurre al movimento regolare del pedale che viene usato per azionare la ruota dell’arcolaio. Tutto quest’andamento piuttosto movimentato cambia dopo la corona, in coincidenza con il verso “Per Malvino/ Pel mio bello”: proprio in questo punto, quando il canto ricomincia dopo la corona, notiamo un cambio ritmico che rallenta l’andamento della canzone. Tutto ciò avviene per via di un’analisi più riflessiva nelle parole di Cristina, che culmina con un passaggio da 2/4 a 4/4: “E il mio ben non viene/ Non si vede? Che farà?”, il tempo e la melodia cambiano sulla preoccupazione del personaggio, con il suo cambiare d’umore; ciò coincide inoltre con una sorta di svuotamento per cui Cristina rimane sola nel canto, senza più alcuno strumento. A questo ponte, segue una ripresa melodica che ritorna alla parte iniziale; anche il testo riparte con i versi: “Gira, gira molinello/Non ti star a attorcigliar” e la musica con il ritmo più deciso e quel movimento riconducibile all’ arcolaio.

Elisa, dramma sentimentale in un atto per musica

Venne messo in scena al teatro “nobilissimo” Venier in S. Benedetto a Venezia, nella primavera del 1804. In questa farsa troviamo una canzone con uno dei temi che forse rimanda subito all’estetica del caratteristico e alla tradizione del canto popolare in generale: quello del vino e dei canti di osteria, nonché alle canzoni di montagna tipiche delle zone alpine. La canzone Fermiamoci, amici, beviamo uniti un po’ si trova proprio in apertura alla quarta scena dell’atto unico in cui «Savojardi, Savojarde, portano seco i loro fardelli, suonano delle Lire, e Triangoli: Jonas è con essi».

Savojardi intesi come abitanti della Savoia, regione delle Alpi Occidentali: nel periodo storico che teniamo in considerazione, precisamente nel settembre del 1972, dopo l’ingresso delle truppe d’oltralpe, la provincia venne inclusa nel territorio della Repubblica Francese con il nome di “Dipartimento del Monte Bianco”. La lingua della cultura in Savoia è sempre stata il francese, elevata a lingua ufficiale dopo il passaggio alla Francia, ma la popolazione montana parlava soprattutto in dialetto savoiardo – un dialetto francoprovenzale- e in piemontese. La religione ufficiale di questa contea era il cattolicesimo, ma da non trascurare erano le minoranze valdesi ed ebraiche: nella farsa qui presa in considerazione e in particolare nella canzone che verrà analizzata, è presente il personaggio di Jonas, probabilmente ebreo, che segue e canta con il gruppo di savoiardi.

La scena parte con una lunga introduzione strumentale, in cui abbiamo un bel pedale di accompagnamento eseguito dai bassi (dal violoncello e dalle viole con sordina) che finisce con una corona, dopo la quale inizia il coro dei savoiardi.

«Fermiamoci, amici,/ Beviamo uniti un po’:/ Mentre tocchiamo, / Tutti gridiamo/ Viva il buon Vino, chi l’inventò!/ Ton. (con bicchiere alla mano.)/ Questo è il ristoro, il balsamo/ Del pover galantuomo,/ Corrobora, Vivifica,/ Fa stare in sanità,/ Soldati, Villani,/ Poeti, Artigiani,/ I Ricchi, i Pitocchi,/ I Savj, gli allocchi,/ Sia bianco, sia nero,/ Nostran Forestiero,/ Han tutti bisogno/ Di fare glù, glù./ Coro (bevendo) Evviva il buon Vino!/ Facciamo glù glù.»

Nella partitura manoscritta da J.S. Mayr, in coincidenza della fine dei primi due versi c’è una corona e così anche con i versi successivi della prima strofa: probabilmente (come notiamo anche dall’indicazione del libretto di Rossi) per lasciar tempo ai personaggi di brindare tra loro. Notiamo anche che la parte melodica cantata dal coro, dopo la corona viene ripresa solo strumentalmente: c’è alternanza tra la parte corale e quella strumentale, elemento che riconduce alla canzone popolare in cui questa pratica è molto usata. Questo schema cambia nella parte finale, quando inizia a cantare anche il personaggio di Jonas: il coro dei savoiardi diventa sfasato e delle figurazioni ritmiche si susseguono quasi a canone, forse a richiamo proprio dei canti alpini, anche se questa struttura potrebbe benissimo voler ricreare quelle situazioni da osteria in cui il ritmo e la sbronza spesso non coincidono.

Canto alpino…
…o ebbrezza da vino?

Cecchina suonatrice di ghironda, melo-dramma comico in un atto

Rappresentata durante il Carnevale del 1811 nel teatro Giustiniani San Moisè, a Venezia. Una farsa in cui il libretto è di Gaetano Rossi e la musica di Pietro Generali. Dico, Giannetta, Tu allegra tanto ognora è la canzone di Cecchina:

«Cec. (prende la sua Ghironda, e siede, e accompagnandosi, canta la seguente canzonetta:/ Dico, Giannetta,/ Tu allegra tanto ognora,/ Dov’è il tuo buon umor!/ Ah; poveretta!/ Qualcuno t’innamora;/ E’ fatta pel tuo cuor …/ Stà in guardia, veh, Giannetta,/ Stà in guardia dall’amor…/ (Il Consigliere, e Andrea, che tratto tratto applaudiranno a Cecchina, alfine alzano il bicchiere, e ripetono maliziosamente l’ultima strofa./ Stà in guardia, veh, Giannetta,/ Stà in guardia dall’amor…/ Cecchina ripiglia il canto, e concentrandosi, con passione)/ Io l’ho provato,/ Non ti fidar d’amor,/ Noja, dolor ci dà,/ Se gli dai retta/ Ti burla, poveretta,/ E’ fatta pel tuo cor,/ Stà in guardia, veh, Giannetta;/ Stà in guardia dall’amor…/ (il Consiglere e Andrea come sopra ripetono/ Stà in guardia, veh, Giannetta;/ Stà in guardia dall’amor…/ Cecchina và astraendosi, canta macchinalmente; la musica và cessando, e ripete senza accorgersene./ Stà in guardia dall’amor!../ Oh! Povero mio cor!..»

La canzone è in 6/8 a Tempo Giusto Pastorale, a Tempo andante di canzone Pastorale e già con questi pochi elementi c’è un forte richiamo all’ambito della musica popolare per quello che riveste il tempo in 6/8 in sé e a tutta una sfera musicale a cui è legato: è un tempo usato molto nella musica per danza e in generale nella canzone popolare perché favorisce la memorizzazione della melodia e rende più chiara e semplice la percezione del ritmo. L’accompagnamento, nelle prime otto battute circa, presenta una sorta di ostinati ritmici, per un tipo di scrittura che non sembra avere delle voci troppo polifoniche: è un accompagnamento abbastanza semplice; il canto della parte di Cecchina e il primo violino, che conducono la parte melodica principale, procedono per terze parallele.

L’effetto-ghironda

L’organico previsto per questo pezzo è composto dai violini (primo e secondo), le viole, flauto, oboe, clarinetti, corni, trombe, fagotto e violoncello; per riprodurre il suono della ghironda con questi strumenti era necessaria una “preparazione” di alcuni archi: tra le corde venivano inserite delle carte da gioco per far sì che frizionando con l’archetto uscisse un suono che imitasse il tipico ronzio della ghironda. Accanto, l’ utilizzo “muto” di alcuni legni che dovevano emettere le note solo con le chiavette per imitare il rumore prodotto dai tasti della ghironda.

In conclusione, possiamo quindi osservare come tutti i grandi cambiamenti storico-politici e sociali di questi anni abbiano influenzato la musica: nasce, nell’epoca del grande successo del romanzo, una concezione completamente mutata dell’opera musicale che è ora proiettata al superamento delle stilizzazioni strutturali e foniche per un’assunzione e trattazione frontale, cruda e realistica dei temi che vengono affrontati. Sul palco si vuole la realtà e tutte le figure che la compongono e la caratterizzano tentano di farla aderire il più possibile alle polverose e antiche norme della musica d’arte. 

Al carcere di Bollate… si cucina!

Sono quasi le 18 quando entriamo nel ristorante InGalera. Alcuni redattori di Pequod ed io ci siamo addentrati tra le pentole e i fornelli del carcere più stellato d’Italia, al penitenziario di Bollate in provincia di Milano, per raccontare la storia di questa attività e dei suoi protagonisti. Iniziamo dunque a curiosare in cucina…

Appena varcata la soglia, un profumo di timo e rosmarino ci avvolge: Mirko, il secondo chef, sta tritando con maestria gli ingredienti che poi andranno ad aromatizzare il pane. Esperto di secondi piatti, Mirko racconta delle prelibatezze di carne e pesce che è solito preparare, forte della sua esperienza in cucina iniziata nel 1982. Per stasera verrà servito un timballo di agnello al ginepro, con crema di broccolo e pane: «Il nostro menù è stagionale e segue le differenti disponibilità del mercato». A gestire i fornelli di InGalera ci sono 4 chef e un pasticciere, i quali studiano e provano assieme varie ricette, sebbene la decisione finale spetti all’Executive Chef del ristorante.

Davide è diventato Executive Chef nell’ottobre 2016, dopo aver ottenuto la facoltà di poter lavorare grazie all’Articolo 21 dell’ordinamento penitenziario che permette ai detenuti o agli internati di poter svolgere attività lavorative all’esterno del carcere. «Mi occupo della creazione del menù, faccio la spesa e scelgo i fornitori», racconta Davide: «Quando sono subentrato in autunno, ho voluto portare il mio gusto in cucina, scegliendo ricette che trasmettessero cosa significhi per me cucinare. La mia idea di cucina è una cucina semplice, bella e fatta con passione. La semplicità sta negli elementi, come l’acqua, la bellezza nella presentazione, la passione sta nel fatto che nella mia cucina sono coinvolti i cinque sensi». La passione Davide l’ha dimostrata anche in cella, dove senza strumenti a disposizione ha comunque studiato per non perdere l’allenamento. Nella cucina di InGalera non ci sono tecnologie, è tutta chimica: «Quello che prima, fuori, sapevo fare con la tecnologia, ora lo rifaccio con le mani». Il pasticciere Federico non permette a Davide di proseguire oltre, posando in tavola un esempio pratico di ciò che InGalera può offrire, ossia un piatto che ci farà posare le penne per impugnare i cucchiaini…

Questa è la cheesecake del ristorante! Nell’ampolla di ghiaccio, il vostro cucchiaino incontrerà la purea di kiwi e formaggio fuso da contornare con la base di torta sgretolata ai piedi dell’ampolla, da favorire con un ribes o un kiwi. Una torta tutta da assemblare e assaporare. «La passione per la cucina me l’ha tramessa mio nonno, cuoco professionista – ci confessa Federico – Sin da subito sono rimasto affascinato dal potere del cibo: capitava a volte di sedersi a tavola arrabbiati o frustrati, ma appena il piatto veniva posato di fronte agli ospiti, le persone si rilassavano per godersi la pietanza. Poi, si poteva ritornare alle proprie faccende, ma lo si faceva sempre con tranquillità, dopo la soddisfazione di un bel pasto».

Al ristorante InGalera, collaborano sia cittadini liberi che gli ospiti del carcere di Bollate detenuti, per la maggior parte non a digiuno né dell’arte culinaria né di attività nell’ambito della ristorazione. Il ristorante, aperto dal settembre 2015, nasce per offrire ai carcerati regolarmente assunti la possibilità di riappropriarsi o apprendere la cultura del lavoro. Silvia Polleri, Responsabile della cooperativa “abc La Sapienza in Tavola” e del ristorante, ci spiega come l’idea di aprire un’attività di questo tipo, a Bollate, sia nata «da un’esigenza espressa dai detenuti, dopo anni passati a lavorare nel servizio catering». InGalera è il primo ristorante della storia italiana a essere aperto all’interno di un carcere e sin da subito il penitenziario ha colto l’immensa potenzialità: «In carcere – prosegue Silvia – finiscono coloro che hanno trasgredito le regole e non a caso nei ristoranti si dice “Brigata di sala” e “Brigata di cucina”. È un terminologia ripresa dalla marina e adattata alla ristorazione per sottolineare le ferree regole che necessariamente bisogna seguire».

Per mangiare InGalera bisogna prenotare poiché il locale, curato e spazioso, non sempre riesce ad accogliere tutti coloro che desiderano assaggiare questa cucina. Di conseguenza, ci dirigiamo al nostro tavolo, saggiamente prenotato, e attendiamo che ci raggiunga l’orario di cena. Per ingannare il tempo, fumiamo una sigaretta con il maître Massimo, professionista decennale del settore: «Lavoro in questo ristorante e non in altri per l’esperienza in sé. A volte è difficile interfacciarsi con i colleghi detenuti; alcuni ragazzi vogliono sfruttare semplicemente l’occasione per non stare in cella, altri invece mettono cuore e anima per imparare un mestiere poiché non tutti sono entrati qui con esperienze professionali alle spalle. Il mio lavoro è anche quello di riconoscere questo impegno e incoraggiare i ragazzi». Tuttavia, il confine che separa l’esterno dall’interno di un carcere non è né netto e né definito, ma sottile e varcabile da chiunque: «Spesso arrivano clienti attirati dai pregiudizi che girano attorno alla figura del galeotto. Quello che però la gente non capisce, tante volte, è che non è così difficile finire in un penitenziario. Tutti coloro che non si immaginano di finire in carcere, prima di giudicare per partito preso, dovrebbero realizzare come chiunque possa commettere un errore che lo porti dentro». Un preconcetto che si dovrebbe destrutturare soprattutto nel momento in cui un detenuto ha scontato la pena e ritorna cittadino libero: «Io sono libero da giugno 2016, ma continuo a lavorare qui perché non riesco a trovare lavoro all’esterno. Lo sconto della pena pare non essere abbastanza per il reintegro nella società», mi racconta Mirko.

Arrivano i primi clienti, il menù ci viene consegnato. Non sappiamo scegliere, perciò ci affidiamo a Davide con il menù degustazione che qui voglio riportarvi sotto forma di fotografia. Buon appetito!

Ştefan, ragazzo rumeno di 23 anni, serve come cameriere InGalera da luglio 2016. Si trova molto bene, anche se ogni tanto «è dura». Non posso fare a meno di chiedergli dei suoi clienti: sono educati? Hanno mai rimandato un piatto indietro? «Sono molto variegati e può succedere, come in tutti i ristoranti. Altre volte, invece, capita che insistano sul perché io sia finito in carcere». La vulcanica Silvia, impegnata come responsabile non solo del ristorante ma anche (e soprattutto) dei “suoi ragazzi”, si avvicina e cercando di sussurrare dichiara: «Qui i camerieri sono troppo educati, fosse per me risponderei “Ma fatti i cavoli tuoi!”». Lo Chef Davide invece, senza batter ciglio, ha deciso di percorrere una strada più pacata: «Io di solito rispondo che ho avvelenato un cliente».

Il momento del caffè. Forse l’attimo più intenso della serata: Davide e Federico ci raccontano come tutti i piatti degustati fino ad ora siano frutto di una cucina di alto livello e della loro professionalità. Per il caffè, però, vorrebbero offrirci qualcosa di loro, un assaggio della loro vita quotidiana e accoglierci come ci accoglierebbero in cella, nei momenti liberi: «In cella abbiamo un fornello, una tazza di plastica e un mestolino di legno. Quando ci incontriamo prepariamo il caffè alla napoletana, con una scorza di limone nella moka. La tazza serve invece per montare lo zucchero e creare la crema del caffè… prego, questi siamo noi».

InGalera

Via Cristina Belgioioso, 120

20157 Milano

Tel. 02 91577985 Cell. 334 3081189

www.ingalera.it

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I giovani d’oggi sono nati nel Duemila

«I giovani nati nel 2000 l’anno prossimo diventeranno maggiorenni, hanno già diciassette anni» ho realizzato ad alta voce all’inizio di quest’anno. Invecchiare è normale ed inevitabile, ma rendersi conto di non essere più la generazione giovane che si affaccia alle prime esperienze della vita adulta è una botta di realtà difficile da superare. I miei coetanei, i nati negli anni Ottanta per intenderci, hanno ormai ceduto lo scettro dei “giovani d’oggi” ai figli degli anni Novanta e sì, anche a quelli dei Duemila. Un simbolo affascinante, luccicante e seducente come solo gli anni “teen” e i vent’anni sanno essere, ma anche imponente, alle volte impegnativo con un bagaglio di pregiudizi che lo appesantiscono da sempre. Perché essere giovani significa anche essere la generazione stigmatizzata per eccellenza, essere troppo spesso etichettati come dei buoni a nulla, incapaci, svogliati, mammoni, choosy e disinteressati. Insomma, i tempi cambiano, ma i più giovani, per un motivo o per l’altro, sono sempre il capro espiatorio della società.

In quanto esponente dei giovani che furono ma che ancora un po’ ci si sentono, provo empatia nei confronti delle nuove generazioni, che sul groppone portano il fardello dell’essere i “giovani d’oggi”. Mi sono così prefissata l’obiettivo di sfatare i falsi miti e le calunnie che in genere vengono addossati ai ragazzi, andando a conoscere i famigerati “duemila”, quelli che quest’anno sono alla vigilia della maggiore età. Con Giada e Simona, classe 2000, abbiamo riflettuto sulle colpe e gli errori che la società attribuisce solitamente ai più giovani.

Simona frequenta il terzo anno del liceo delle Scienze Umane, è appassionata di Diritto e si definisce negata nelle materie scientifiche. Quando la chiamo è appena tornata da un pomeriggio di compere, mi spiega che non ha guardato il cellulare per tutto il pomeriggio perché quando è con i suoi amici se ne dimentica totalmente. Da qui lo spunto per la mia prima domanda, che riguarda proprio la tecnologia ed il suo uso-abuso; i giovani infatti sono sempre tacciati di essere schiavi dello smartphone e di non saper socializzare senza. Simona ammette di lasciarsi distrarre dal cellulare, specialmente quando è a casa, ma quando è fuori con le amiche lo controlla raramente. «E poi» aggiunge «è normale che siamo tutti attaccati alla tecnologia: a scuola il cartaceo non esiste più ed i compiti ce li mandano via e-mail

Quando accenno alle ragazze del fatto che non di rado gli adulti tendano a dare degli svogliati ai giovani, entrambe mi smentiscono senza fatica. Simona è impegnatissima con allenamenti e gare di nuoto agonistico, mentre Giada, nel poco tempo libero che resta a chi come lei frequenta il liceo scientifico, si dedica alla danza, alla fotografia e alla lettura, le sue passioni. Certo, entrambe trovano anche il tempo per ascoltare la musica e divertirsi con spensieratezza, ma Simona ci tiene a specificare che preferisce non andare in discoteca tutti i sabati, anche se i suoi genitori sono piuttosto permissivi a riguardo.

Giovani passioni, fotografia di Martina Ravelli

L’energia e l’entusiasmo che trasmettono quando parlano delle loro passioni mi fanno vergognare al pensiero delle scuse che, per mancanza di voglia, mi invento per non fare qualcosa che mi piace. Appurato dunque che i duemila non sono né dipendenti dalla tecnologia, né fannulloni e svogliati come molti li dipingono, discuto con loro dell’importanza che riveste nella loro vita l’attualità, di quanto effettivamente si interessino di ciò che accade in Italia e nel resto del mondo. Insegnanti, genitori e venerandi esperti, infatti, affermano con tono grave che i ragazzi di oggi non sanno nulla, sono ignoranti e menefreghisti. Quello che io percepisco dalle loro risposte è piuttosto diverso però; Giada si informa sull’attualità e anziché fregarsene si dice molto preoccupata dalle vicende che scombussolano il pianeta. «Temo di non essere in grado di sviluppare un’opinione critica» mi rivela umilmente, ed io intanto penso che in molte occasioni “adulte” avere il coraggio di ammettere i propri limiti sia invece sintomo di saggezza. Diversamente, Simona un’opinione se la sta formando, non per sentito dire ma informandosi attivamente: «Ogni tanto vado a delle conferenze organizzate da gruppi giovanili in cui si discutono problemi globali; qualche volta intervengono anche dei migranti.» E quando le chiedo se la scuola aiuta questo percorso di conoscenza e di formazione sui temi attuali, mi risponde che in generale in classe se ne parla pochissimo. Anche in questo caso, le due giovani hanno confermato quello che già sospettavo: disinteresse e superficialità sono etichette appiccicate alle nuove generazioni senza che quelle più vecchie e mature le aiutino a sviluppare una maggiore consapevolezza.

Mi avvio alla conclusione della mia chiacchierata con le due giovani ragazze. È tempo di tirare le somme e di sferrare gli ultimi colpi ai detrattori dei teenager del 2017. Quando chiedo loro di raccontarmi chi sono i loro modelli e le persone che ammirano, non mi sento rispondere nomi di attori, cantanti, blogger o influencer. Giada cita Madre Teresa, Nelson Mandela e Gandhi; Simona mi incuriosisce affermando senza alcuna esitazione che l’esempio da seguire per lei è la sorella maggiore. Mi spiega che ne ammira la maturità e lo sforzo che fa nel guadagnarsi dei soldi lavorando in pizzeria nel fine settimana, nonostante sia ancora giovanissima e i genitori le mettano a disposizione del denaro per uscire e fare acquisti. Che le ragazze non abbiano grilli per la testa e siano decisamente mature lo capisco anche quando mi parlano delle aspirazioni per il futuro. Giada vorrebbe diventare medico o psicologa, anche se non ha idea di come possa essere l’università ed un po’ la spaventa. Simona vorrebbe studiare giurisprudenza per potersi occupare di tematiche ambientali, legate all’inquinamento e alla globalizzazione. Sa che l’università non sarà una passeggiata, i genitori le hanno spiegato che si dovrà impegnare tantissimo. E grazie ad uno stage formativo che sta svolgendo tramite la sua scuola proprio quest’anno sta imparando che anche il mondo del lavoro costituirà una sfida da non prendere con leggerezza: «Non posso sapere come sarà il mio impiego né come saranno i miei datori di lavoro. Quello che so è che dovrò faticare, non mi aspetto che le soddisfazioni arrivino dal nulla

Fotografia di Martina Ravelli

Simona e Giada non sono dei fenomeni, sono due quasi-diciassettenni come tante. Le loro risposte alle mie lievi provocazioni non sono studiate. Non si sono neanche fatte aiutare da Google. Simona e Giada insegnano agli adulti, con una sincerità disarmante, che i giovani d’oggi non sono migliori né peggiori dei giovani di ieri. Che è comodo parlare di superficialità delle nuove generazioni, quando non si ha nemmeno la premura di andare oltre quella superficie e cercare di capire i dubbi, le paure e le potenzialità dei nuovi giovani. Mettere da parte la spocchia da persone vissute, solo perché si ha qualche anno in più, e ricordarsi che tutti siamo stati “giovani d’oggi” un tempo e che tutti siamo stati accusati di essere pigri, senza valori e senza interessi. Questo è quello che mi hanno insegnato due normalissime ragazze del Duemila.

Sovrappopolazione, il caso “informale” dell’India

«Overpopulation is really not overpopulation. It’s a question about poverty», questa l’opinione di Nicholas Eberstadt, demografo dell’American Enterprise Institute di Washington, ripresa dall’autorevole rivista Nature nella lista dei falsi miti della scienza vivi e vegeti tra i comuni mortali, in cui compare anche quello della crescita esponenziale della popolazione. Se per sovrappopolazione s’intende l’eccedenza della popolazione sui mezzi di sussistenza, secondo i dati non ci sarebbe da preoccuparsi: la popolazione umana non è cresciuta e non sta crescendo in modo smisurato e il tasso di produzione alimentare globale supera la crescita della popolazione. L’invito, ovviamente, è quello di spostare lo sguardo da scenari apocalittici futuribili a quei sistemi economici in cui sussistono disparità gravissime all’interno della popolazione, in cui i poveri sono sempre di più e più poveri.

Caso emblematico e contraddittorio è l’India: con una popolazione di circa 1,3 miliardi di abitanti, seconda solo a quella cinese (e ancora per poco: il numero è destinato a crescere fino a 1,7 miliardi nel 2050) e un Pil in aumento del 7,6 % nell’anno in corso, l’India è l’economia mondiale a più rapida crescita, stavolta superando la Cina (+ 6,8%).

All’India millenaria, affascinante e maestosa come i templi del Karnataka e del Kajuraho, si affianca l’immagine di un’India moderna, l’India degli splendori di Bollywood e di Bangalore, l’India come potenza economica emergente e rampante del Sud-est asiatico.

Nei suoi ritratti, però, rimane invariato lo scenario di una povertà estrema e diffusissima che ancora oggi affligge ampi strati della sua popolazione.

L’aumento demografico: la lotteria dei corpi

Dagli anni Settanta ad oggi, il governo centrale e quelli locali del Subcontinente hanno cercato di attuare delle strategie di contenimento delle nascite, soprattutto nelle zone rurali del Paese, dalle campagne di vasectomia forzata volute da Sanjay Gandhi alle più recenti sterilizzazioni di massa delle donne, operazioni più semplici e di gran lunga meno osteggiate rispetto a quelle maschili.

Probabilmente è per questi motivi che l’India ha continuato a preferire questi metodi a una campagna di informazione e sensibilizzazione sull’uso di contraccettivi, nonostante la crescita economica costante, nonostante il sistema sanitario carente.

In cambio? Pochi dollari, ma anche elettrodomestici, auto e perfino il porto d’armi.

Il prezzo? Dolori e complicazioni post-operatorie e, spesso, la morte.

L’aumento del Pil: il boom e il grande (settore) assente

Negli anni Novanta però i tassi di fertilità sono scesi significativamente, mentre l’aumento della popolazione in età lavorativa associato all’aumento del tasso di risparmio ha incoraggiato gli investitori esteri che, ricordando le esperienze delle economie emergenti del Sud-est asiatico e del dividendo demografico di cui hanno goduto quando i tassi di fertilità cominciarono a scendere, hanno contribuito alla grande espansione del settore manifatturiero.

A distanza di un ventennio, di fronte a una forza lavoro potenzialmente immensa (l’età media della popolazione è di 27 anni), il governo non è in grado di convertire la crescita del Pil in nuove opportunità di lavoro: dai 60 milioni di posti di lavoro creati nel quinquennio 2000-2005, quando la crescita era stabile sull’8-9%, si è passati ai poco più di 300 mila del 2015, rallentando drasticamente il passo.

L’anello debole dell’economia indiana è il settore manifatturiero, che contribuisce solo per il 17% del Pil, e più in generale l’industria, rappresentata in larga misura da piccole imprese con meno di 50 dipendenti, in cui manca il lavoro su macchinari moderni e, spesso, persino l’elettricità. Le ultime stime definiscono l’immagine paradossale di un Paese emergente che non è passato per la fase dell’industrializzazione, che incide solo con uno scarso 32% sul Pil.

Da dove deriva, allora, la ricchezza dell’India? Un buon 50% dal settore terziario, in cui coesistono attività di alto livello come servizi informatici, back office e consulenze per l’estero con i servizi più umili. Ma da solo non basta.

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Il lavoro “informale”, l’altra metà dell’economia

Scendendo nella scala produttiva, superando le figure specializzate della scuola e delle università, delle amministrazioni locali e dei colossi dell’hi-tech, troviamo un esercito di lavoratori senza diritti né tutele, che vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Costituirebbero il 20% della popolazione urbana e la quasi totalità di quella rurale.

Sono i lavoratori dell’ “economia informale”, che unisce attività lavorative “non registrate”, più che clandestine. Non registrate fino al momento di tirare le somme della ricchezza prodotta dal Paese, perché «senza questo tipo di lavoro, l’India non potrebbe mai vantare i tassi di crescita ai quali ci ha abituati», dichiara Elisabetta Basile, docente di economia alla Sapienza di Roma.

Aggirare gli standard internazionali di produzione è semplice, soprattutto in un settore cruciale come quello manifatturiero: le multinazionali possono falsificare i documenti o affidarsi a una serie di intermediari che fanno arrivare l’ordine a chi materialmente realizza il prodotto, senza sapere se si tratta di anziani o bambini, se lavorano in condizioni di sicurezza o addirittura dalla propria abitazione.

E così, nell’ombra, questo popolo invisibile contribuisce almeno al 50% del Pil indiano.

Indian dream: un’occasione mancata?

Oggi i mercati finanziari guardano con nuovo interesse allo sviluppo dell’India. Alle ultime azioni del governo di Narendra Modi, che ha lanciato il programma Make in India per attrarre delocalizzazioni e investimenti, o al recente taglio del costo del denaro per incentivare l’imprenditoria interna.
Tuttavia, non si perdono di vista le grandi contraddizioni di un Paese grande e popoloso come un continente, in cui ogni anno si laureano 2 milioni di ingegneri ma solo il 18% dei lavoratori dichiara di avere una posizione stabile e ben retribuita, contro un 50% della popolazione impiegata nell’agricoltura, che produce solo il 16% della ricchezza.
Una situazione, questa, che genera insoddisfazione soprattutto tra i più giovani, che insieme ai lavoratori sottopagati dell’industria e alle donne, costituiscono le categorie sociali più frustrate e incandescenti. E se è vero che l’instabilità socio-politica non è una valida alleata della crescita economica di un Paese sul mercato mondiale, anche questo è un dato importante, al di là del Pil.

Fate l’amore, non fate lo stage. Intervista a Repubblica degli stagisti

Ormai è risaputo: il mondo del lavoro è diventato un po’ strano, soprattutto per i giovani. Peggio se appena usciti da un’università e con una sudatissima laurea in mano. Strane sono diventate le aziende, i vari datori di lavoro e strani sono diventati i contratti proposti. Sia chiaro, non è possibile avere il posto fisso se prima non si impara un po’ il mestiere – con “imparare il mestiere” si intende lavorare otto ore al giorno (anche di più se contiamo gli straordinari) per cinque, sei ma anche sette giorni su sette a settimana e con una paga da fame.

Sì, stiamo parlando dei fantomatici STAGE, tipologie contrattuali che spesso i datori di lavoro propongono a ragazzi con poca esperienza in ambito lavorativo e che dovrebbero (necessario l’uso del condizionale) consentire un primo inserimento nell’azienda in vista di una futura assunzione. Come sempre più spesso accade, però, non va tutto secondo i piani. Lo stage si rivela un modo per assumere dipendenti nuovi quasi a costo zero, con l’unico scopo di sfruttarli fino all’osso per poi non riassumerli a fine contratto. È in questo contesto che nasce il giornale online Repubblica degli stagisti il cui scopo è quello di approfondire la tematica dello stage in Italia e dare voce agli stagisti come si evince dal loro sito.

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«Repubblica degli stagisti è nata nel 2007 come blog e dopo due anni si è trasformata nella testata che è oggi», spiega Eleonora Voltolina creatrice e direttrice della webzine. «Offriamo uno strumento attraverso cui i giovani possano informarsi sulle novità del mercato del lavoro ma dedichiamo anche una sezione alle aziende informandole su come possano rivolgersi al meglio ai giovani in vista di un’assunzione», continua Eleonora. Tutto ciò è frutto di una grande intuizione giornalistica e sociale: «prima di dar vita alla Repubblica degli stagisti ero reduce da ben cinque stage, così intorno ai 27-28 anni ho deciso di dar vita a questo progetto, anche perché mi sono accorta che il mio non era un caso isolato».

Per il futuro sono previste alcune novità: quella più importante, sicuramente, è il target internazionale che la testata sta progettando di darsi. A parlare è ancora Eleonora Voltolina: «l’internazionalità è un tema che ci sta molto a cuore, infatti nei prossimi anni speriamo di riuscire a rivolgerci anche a giovani non italiani, magari con articoli in inglese, proprio perché la disoccupazione è un problema che riguarda moltissimi Paesi avanzati, non solo l’Italia». Interessante è anche l’idea di poter entrare in contatto con le scuole superiori, in modo da poter intercettare i giovani che sono in procinto di terminare gli studi così da orientarli verso la scelta di una facoltà universitaria.

Alla luce dei fatti si può tranquillamente dire che il progetto ha colpito perfettamente nel segno: con più di 12.000 ‘’Mi piace’’ su Facebook e circa 100.000 lettori giornalieri, Repubblica degli stagisti è diventato un ottimo network su cui informarsi per quanto riguarda il mercato del lavoro, soprattutto quello giovanile.

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Ma come si pone Repubblica degli stagisti di fronte alle varie riforme del lavoro che si sono susseguite negli ultimi anni? Specifichiamo: come ci ha spiegato Eleonora Repubblica degli stagisti non si è mai sottratta al dialogo, anzi, negli anni ha dato voce alle varie critiche accompagnate da proposte alternative di miglioramento. Il succo della questione è che il lavoratore va sempre tutelato: «a una riforma radicale del mercato del lavoro e l’istituzione di tipologie contrattuali meno stabili, deve sempre corrispondere una riforma del welfare che aiuti il lavoratore che avesse perso il lavoro in una nuova ricerca dello stesso sostenendolo il più possibile» ci ha illustrato Eleonora. Ciò genera il problema, ad esempio, che molto spesso i giovani italiani “escano di casa” ma siano costretti a rientrare a causa delle difficoltà economiche dovute alla scarsa stabilità economica. Da questo punto di vista, l’attenzione all’abuso di tipologie contrattuali deboli inerenti la stabilità è un altro punto forte della testata.

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Quindi giovane lavoratore e posto fisso è un connubio impossibile? Bella domanda. La risposta è incerta così come incerto è il mercato del lavoro in questi ultimi anni. Forse le generazioni future saranno più fortunate di noi. Si spera. Intanto rimaniamo in balìa del nostro burrascoso presente.

Muoversi oggi nel mondo del lavoro: tra voucher, stage e contratti atipici

Orientarsi nel mondo del lavoro di oggi, regolato da contratti atipici e di formazione, è una sfida che impegna non pochi sforzi: un vero e proprio viaggio alla ricerca di informazioni circa diritti e spettanze del lavoratore. Contratti di lavoro interinale, di apprendistato, formativi sono stati introdotti allo scopo di combattere le forme di lavoro irregolare che abbondano nel nostro Paese. L’intento era di ridurre la realtà del cosiddetto free riding: l’usufrutto di beni pubblici, senza che si abbia pagato per il loro utilizzo. Il fenomeno è diffuso e complesso e, come tale, lo è anche il disegno di governance della politica di emersione, che implica una particolare visione d’inclusione sociale, non intesa come semplice assistenza a imprese e lavoratori, ma come un’occasione di partecipazione in termini occupazionali.

Purtroppo, anche se le intenzioni sono buone, non sempre i risultati sono positivi: smisurata complessità legislativa e eccessiva precarietà del lavoro. Alla precarietà corrisponde una continua rioccupazione in lavori nuovi, il passaggio tra vari settori lavorativi e, di contro, una certa paura nel lasciare una condizione di occupazione stabile. Il viaggio del lavoratore italiano è perciò colmo di svolte e imprevisti, ma è spesso svuotato di sogni e aspirazioni.

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Negli ultimi mesi anch’io mi sono gettata nel marasma burocratico creato dalle leggi che regolano i rapporti di lavoro: provo a dare una svolta alla mia vita, vagliando la possibilità di conciliare il mio lavoro part-time con un’attività che metta a frutto la mia laurea nel cassetto. Prima tappa del mio tour è l’accessibile e vicina rete informatica, che abbonda sia di fonti ufficiali sia di esperienze informali. Purtroppo la prima reazione alle testimonianze condivise sul web è di totale sconforto: numerosissimi i precari non più giovani che esibiscono curriculum di svariate pagine, ricoperte di elenchi di contratti a tempo determinato. Non di maggiore aiuto sono i siti legislativi ufficiali: le leggi che disciplinano i rapporti di lavoro e di formazione variano con molta frequenza e in alcuni casi sono differenti tra regione e regione. Un caso eclatante è la disciplina che regola il compenso degli stagisti: dal 2013, per i tirocini extra-curriculari, ovvero quelli formativi, di inserimento o reinserimento, per disoccupati, neo-laureati e disabili, esiste l’obbligo di riconoscere allo stagista un rimborso spese. Tuttavia ogni Regione ha recepito la normativa a suo modo ed esistono differenze oscillanti tra i 200 e i 300 euro.

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Un comparto a sé è rappresentato da tutte quelle prestazioni pagate sotto forma di voucher. Il pagamento in voucher, detto anche buono lavoro, rappresenta la remunerazione per una particolare modalità di prestazione lavorativa definita accessoria: non è riconducibile a contratti di lavoro in quanto svolta in modo saltuario. Questa formula è quella che più specificatamente è nata con l’intento di regolamentare e tutelare situazioni non disciplinate: contratti di prestazione occasionale, in molti casi stipulati in seno alle famiglie, tanto come assistenza di minori e anziani quanto nel ramo del turismo. Il valore netto di un voucher da 10 euro nominali, in favore del lavoratore, è di 7,50 euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione. Il voucher garantisce la copertura previdenziale presso l’INPS e quella assicurativa presso l’INAIL.

Durante la mia ricerca mi imbatto di rado in offerte di lavoro che specificano che la modalità di pagamento sarà in buoni lavoro. Tuttavia la situazione italiana rivela come, nella realtà, i buoni lavoro siano notevolmente diffusi e utilizzati come sostitutivo per contratti di lavoro a tempo determinato, soprattutto dopo la riforma del lavoro del 2012, che ha esteso il loro utilizzo a tutti i settori lavorativi. Nella mia condizione di lavoratrice part-time il buono lavoro sarebbe una buona alternativa: potrei conciliare un contratto indeterminato al pagamento in voucher, a patto di non superare una certa soglia di guadagno annuale, che cambia a seconda del settore.

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A stuzzicare la mia curiosità è nel frattempo un link che rimanda a uno stage. Provo a vagliare anche questa possibilità, aprendo pagine su pagine di proposte lavorative per neo-laureati, presentate in toni clamorosi da pubblicità e ricche più di requisiti richiesti che di informazioni sull’impiego. Contatto qualche numero disponibile; in risposta ottengo valanghe di domande: «Età? Famiglia? Esperienze? Hai già intrapreso uno stage? Un apprendistato? Hai superato la soglia di remunerazione in prestazioni occasionali?».

Tra una chiamata e l’altra, scovo un paio di stage che sembrano in linea con quello che cerco, ma in effetti i miei sforzi telefonici per avere un’idea chiara dei contratti che mi sono proposti non producono frutti. Il telefono è ancora nelle mie mani, penso allora di comporre il numero di qualche ufficio preposto a fornire informazioni sull’argomento. Lunga la lista: centri per l’impiego, sindacati, assessorati alle politiche giovanili, sportelli informa-lavoro. A domande specifiche circa la possibilità di portare avanti, in parallelo, un lavoro part-time e uno stage formativo le risposte sono discordanti e insicure: il buonsenso dell’operatore, circa la necessità di avere un altro reddito per compensare la retribuzione dello stage, si scontra con la legge che, di fatto, non permettere di avviare uno stage se si ha già un contratto a tempo indeterminato.

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Chiudo la ricerca e rimetto la mia laurea nel cassetto, in attesa di nuove norme che mi permettano di sfruttarla. Gli ultimi anni hanno visto infatti la comparsa di numerosissime nuove tipologie retributive, volte a regolare prestazioni di lavoro solitamente remunerate tramite pagamenti “a nero”; è un segnale positivo sia dell’impegno di una parte della politica, sia di una rinnovata coscienza comune che condanna i rapporti di lavoro che mancano di regolamentazione fiscale. Purtroppo i buoni propositi e il cambiamento culturale in atto sono messi a dura prova: dalle difficoltà che si incontrano nel districarsi tra la regolamentazione dei contratti atipici e dall’impressione che l’ago della bilancia punti solo in direzione delle aziende, che risparmiano considerevolmente sul costo del lavoro. Non da ultimo, per poter fare uno stage e riuscire a mantenermi, sarei costretta ad accettare lavori non regolamentati da un contratto, vista la poca remunerazione dei primi, e l’abbondanza dei secondi. Non resta che la speranza nelle proprie capacità, a spingere i lavoratori italiani a rimettersi in viaggio.

Memorie di stagisti: la generazione del “fa curriculum”

Tirocini di formazione, stage finalizzati all’inserimento in azienda, internship non retribuiti in istituzioni prestigiose… la generazione choosy ha senz’altro l’imbarazzo della scelta per impiegare il proprio tempo dopo la laurea. Certo, di guadagnare qualcosa non se ne parla, ma si sa che ormai l’imperativo categorico che guida le scelte dei neolaureati, così come quelle di chi l’università l’ha finita da un pezzo, è quello del “fa curriculum”. Lavori dodici ore al giorno in un ufficio dove ti trattano come l’ultimo dei falliti, ti riempiono di faccende da sbrigare, per lo più rognose, senza la premura di spiegarti come fare? Non importa, sopporta, perché tutto fa curriculum! Gli sforzi e le vessazioni subite saranno ripagate durante i futuri colloqui, quando l’impiegato delle Risorse Umane, impressionato dalla serie di esperienze formative collezionate, ti proporrà un nuovo tirocinio di sei mesi. Ormai la tua vita funziona a semestri e il tuo conto corrente a rimborsi spesa, se sei fortunato.

Certo, generalizzare è sempre sbagliato, ed è giusto precisare che esistono realtà virtuose in cui fare uno stage rappresenta un’opportunità per imparare una professione e trovare un vero posto di lavoro. Ma si tratta purtroppo di pochi casi, anzi pochissimi. È bene sapere che in Italia solo uno stagista su dieci viene assunto dopo lo stage, mentre negli altri nove casi si tratta dei cosiddetti stage rolling, quelli cioè che non sono volti all’assunzione ma per cui lo stagista si rinnova ogni sei mesi, secondo il noto proverbio “morto uno stagista se ne fa un altro”.

trampolinodilancio.com
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Sono proprio questi stage a rotazione ad alimentare lo stereotipo, tristemente autentico, dello stagista sfruttato e maltrattato. Le testimonianze di alcuni ex-stagisti e le indiscrezioni di chi tuttora sta svolgendo un tirocinio hanno contribuito a stilare un elenco di caratteristiche fondamentali che lo stagista-a-scadenza farebbe meglio ad avere per resistere ai sei mesi di volontariato che lo aspettano.

Lo stagista non ha un nome

Giulia racconta che durante il suo stage le veniva rivolta poco la parola: funzionavano meglio le e-mail, che a decine intasavano la sua casella di posta con richieste di cose da fare, tutte urgenti. Ricorda che spesso leggeva il suo nome storpiato in “Gulia” o “Giula” e che quando il suo responsabile, con cui aveva a che fare ogni giorno per almeno otto ore, le rivolgeva la parola la chiamava “Valentina”, “Giada”, “Enrica”… Quasi preferiva quando semplicemente i colleghi dell’ufficio evitavano di interpellarla direttamente, col rischio di sbagliare nome, ma si limitavano ad alludere alla sua presenza con un più neutrale “la stagista”: «Ah, viene anche la stagista alla riunione?»

Lo stagista non sa fare nulla, ma deve sapere fare tutto

Dopo meno di un mese in azienda Carlo viene mandato in trasferta alla ricerca di clienti. Un’enorme opportunità, certo, ma forse una decisione un po’ avventata, visto che per tre mesi avrebbe dovuto viaggiare per la Cina vendendo un prodotto di cui sapeva poco o niente. Perché è ovvio, i suoi capi erano d’accordo sul fatto che lui, non avendo mai lavorato in ambito commerciale, non sapesse nulla di vendita, di marketing o di strategie di mercato, ma allo stesso tempo nessuno di loro si era preso la briga di seguirlo e formarlo a dovere. Così Carlo, senza alcuna competenza acquisita grazie al suo fantomatico “stage di formazione”, si è ritrovato da solo a gestire nuovi clienti e a cercare di convincerli della competitività dei prodotti venduti dall’azienda raccontando loro improbabili aneddoti, suggeritigli dai suoi capi italiani. Insomma, anche l’arte di arrangiarsi è una competenza da inserire nel curriculum.

west-info.eu
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Lo stagista non dovrebbe bere il caffè

Nel reparto di Giulia i colleghi-non-stagisti si concedevano lunghe pause caffè nella sala relax dell’ufficio, dove c’era una scintillante macchinetta del caffè funzionante a cialde. Nel frattempo le stagiste erano pronte a rispondere alle loro chiamate. Strano ma vero, Giulia e le altre stagiste non potevano accedere alla stanza del caffè, ma per concedersi una pausa dovevano uscire dall’ufficio e recarsi al distributore di bevande calde nel corridoio del loro piano. Niente di grave, è piacevole sgranchirsi un po’ le gambe quando si sta tutto il giorno seduti alla scrivania. Il problema si presentò un giorno in cui Giulia e altre tre colleghe, tutte in stage, presero la decisione di andare insieme a bere un caffè. Al ritorno, dopo cinque minuti, trovarono la segretaria dell’ufficio imbestialita perché in loro assenza nessuno aveva risposto al telefono! Poco tempo dopo i dipendenti dell’azienda (e gli stagisti) ricevettero un’e-mail dalle Risorse Umane in cui si vietavano le pause caffè di gruppo alle macchinette distributrici nei corridoi.

Lo stagista non deve essere entusiasta e deve parlare a bassa voce

A soli ventidue anni Sara era entusiasta di essere stata selezionata per uno stage in una prestigiosa azienda. Il lavoro le piaceva così tanto che spesso portava a termine le sue mansioni prima del previsto. Ma quando chiedeva se potesse essere utile in qualche modo, le veniva risposto che no, le altre faccende da sbrigare erano fuori dalla sua portata. Quindi Sara rimaneva per ore a fissare lo schermo, rispondendo solamente alle chiamate che la sua responsabile non aveva voglia di gestire. In alcuni casi le veniva chiesto di abbassare il tono di voce mentre parlava al telefono, nonostante la capa, colei che le faceva questa richiesta, passasse molto tempo in ufficio a canticchiare, impedendo alle persone attorno a lei di concentrarsi. Alla fine del periodo di stage (ovviamente non finalizzato all’inserimento, ma ripagato con un utilissimo gadget con il marchio dell’azienda) la responsabile ha detto a Sara che era stata davvero molto brava, ma che se avesse dovuto trovarle un difetto, quello sarebbe stato il suo eccessivo entusiasmo. Giovani che vi affacciate al mondo del lavoro, non siate entusiasti, non ce n’è proprio nessun motivo.

ilfattoquotidiano.it
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Lo stagista puzzerà sempre di stagista

Roberta ama il tirocinio che sta facendo e ha un ottimo rapporto con i suoi superiori, i quali ripongono molta fiducia in lei, tanto che qualche mese fa le hanno affidato la preparazione di un discorso in inglese da tenere durante un evento aziendale rivolto ai dirigenti stranieri. Per questo discorso Roberta aveva studiato alla perfezione il catalogo dei prodotti, aveva tradotto termini tecnici, aveva scelto accuratamente un abito elegante e si era messa i tacchi. Del resto, i suoi capi avevano insistito molto sul dress-code. Arrivata in azienda il giorno dell’evento, si reca subito nella sala dove avrebbe dovuto tenere il suo discorso, ma i superiori, palesemente imbarazzati, le dicono che “per ora non c’è bisogno di te, torna pure in ufficio.” E in ufficio Roberta passa il resto della giornata, da sola, per poi scoprire che sì, avrebbero avuto bisogno di lei, ma che le Risorse Umane avevano vietato la presenza di stagisti all’evento.

Che conclusioni si possono trarre da questa serie di esperienze? Con un po’ di rabbia e amarezza prendiamo atto che in Italia la gerarchia e gli interessi ai piani alti hanno molta più importanza di capacità, istruzione e buona volontà. Ma siamo anche sicuri che la “Generazione Stage”, forte di tutte le difficoltà che si trova a dover fronteggiare e degli ostacoli che deve superare, stia crescendo sempre più forte e disposta a tutto pur di farsi valere e di far riconoscere il proprio valore.

 

Fotografia in copertina Mohamed Hassan (https://pxhere.com/it/photographer/767067)

Lavoro cercasi: cronache dall’ufficio di collocamento

Questa mattina a Bergamo c’è il sole, di un caldo piacevole dopo tanti giorni di pioggia.

È mercoledì, e chi sta cercando un lavoro sa che dovrà aspettare per godersi la bella giornata, perché al centro per l’impiego, in mattinata, è possibile consegnare il proprio curriculum.

Alle 9 il parcheggio è già pieno. Le scale esterne sono sempre attraversate da qualcuno, chi sale, chi scende, chi resta sul pianerottolo a telefonare o semplicemente a prendersi una boccata d’aria.

Ci sono poche sedie nei corridoi, lunghi e larghi, e c’è chi sta in piedi, chi si appoggia alle scrivanie, tutti che aspettano di essere chiamati in sala d’attesa, dove potranno passare ai colloqui.

La ragazza accanto a me tiene stretta tra le dita una busta di plastica azzurra, dentro il curriculum e altre fotocopie che sembrano fresche di stampa. Nell’altra mano stringe il telefono, che sbircia di tanto in tanto nervosamente, scrive che forse farà tardi.

Davanti a noi una signora sulla cinquantina parla al telefono, l’accento del sud e i capelli raccolti. Sta parlando a un’amica, vorrebbe vederla per un caffè ma non è periodo, forse le racconterà.

Intanto una bambina corre per il corridoio: lei e la madre hanno accompagnato il papà, un uomo giovane e nordafricano che aspetta in fila e saluta ogni tanto la piccola.

La sala d’attesa si svuota e si riempie, per il corridoio passano tantissime persone: entrano ed escono in silenzio, il curriculum tra le mani, sperando che questa sia la volta buona.

Arlecchino part-time

≪Arlecchino era un mezzo diavolo, ha a che fare coi sogni, quelli che ritrovi in certe persone≫

   Intervista a Paolo Rossi – Andrea Pocosgnich

 

Nella settimana del carnevale non si può non pensare alla figura di Arlecchino, prima espressione del mascheramento, con la sua tunica di pezze colorate e la maschera demoniaca.

Egli nella Commedia dell’Arte è uno Zanni (antica maschera bergamasca) un servo, buffo ma soprattutto furbo, in grado di mandare avanti l’azione improvvisando e rinnovandosi di volta in volta, nella Commedia dell’Arte come nella vita.

Oggi l’Arlecchino, furbo e benevolo, è tornato all’attualità, non solo per l’impresa dei grandi registi contemporanei di rimettere in scena il teatro delle maschere, quanto più come riflesso di un atteggiamento sociale.

Gli Arlecchini nel 2016, sono quelli che tentano di capire come difendersi da una situazione economica, sociale e civile; tanto difficile da non permette di intravedere soluzioni o vie d’uscita. Con prontezza e scaltrezza, giovani e meno giovani, si reinventano per adattarsi e sopravvivere in un mondo in cui il problema principale oltre alla crisi economica è il cibo e la mancanza di materie prime, una società tanto malata che nonostante ciò non sa vedere oltre i concetti di guadagno, successo e visibilità; ma fortunatamente ci sono gli Arlecchini che tentano il confronto e cercano di fare discorsi intelligenti, per smuovere una coscienza critica reincarnandola nella satira.

È questa la situazione dei tanti migranti sociali, intesi non solo come quelli che lasciano la terra natia alla ricerca di nuove vie, ma anche di quelli che per andare avanti cambiano lavoro ogni mese, si mettono nelle mani delle agenzie interinali, sfruttano ogni occasione e non si lasciano abbattere; è la società dei freelance, collaboratori esterni, di quelli con la partita iva, compenti e capaci; che saranno la svolta per una civiltà che guarda al cambiamento.

 

EXPO: aspettative e prospettive di una grande opera italiana

A meno di due settimane dalla chiusura, Pequod torna a parlare di Expo 2015 per riflettere sulle problematiche che hanno segnato la sua storia e capire cosa resterà del grande evento quando si spegneranno i riflettori e i turisti andranno altrove.

Il punto (interrogativo) sui visitatori

La notizia è di questi giorni: Expo 2015 ha tagliato il «traguardo minimo obbligatorio» dei 20 milioni di visitatori. Pochi ci avrebbero scommesso all’inizio, quando le previsioni “expottimiste sui 4-5 milioni di entrate nei primi mesi risultarono, nei fatti, più che dimezzate: l’amministratore delegato Giuseppe Sala aveva diffuso dati “gonfiati” e indifferenziati, includendo biglietti omaggio, volontari e addetti ai lavori. Così è partito il tormentone degli sconti sui biglietti, dai 10 € per gli universitari all’omaggio a persone con imponibile inferiore ai 10 mila euro annui, fino al recentissimo 2×1. Grazie a una campagna pubblicitaria pervasiva, Expo chiuderà con più di 100.000 visitatori al giorno, con il picco dei 259.093 del 26 settembre.

«Non che i numeri siano il fattore principale», dichiara soddisfatto Sala. Ma intanto pensa a un nuovo obiettivo: abbiamo fatto 20, facciamo 21 (milioni).

Code interminabili all’ingresso di Expo, così lunghe che un cittadino romano non è riuscito a visitare i padiglioni e si è rivolto al Codacons: è la prima causa italiana contro Expo.
Code interminabili all’ingresso di Expo, così lunghe che un cittadino romano non è riuscito a visitare i padiglioni e si è rivolto al Codacons: è la prima causa italiana contro Expo.

«Sicurezza» sul lavoro

Le polemiche sui contratti “pirata” giocati al ribasso avevano chiarito agli aspiranti lavoratori prima dell’inaugurazione che non sarebbe stata Expo 2015 a garantire la sicurezza di un impiego. Ma non ci si aspettava nemmeno che per «motivi di sicurezza» si potesse negare il pass o licenziare un neoassunto. Tra i 70 mila dipendenti ignari sottoposti a controlli di polizia, 680 sono stati segnalati dalla Questura di Milano per pendenze risolte o senza ragioni. Dopo i primi ricorsi, il vertice del 23 giugno tra sindacati ed Expo spa decide per la revisione dei profili “non idonei” e il possibile reintegro di 200 persone. Peccato che molte, ormai, avevano perso il lavoro.

Il vero problema è nel metodo per Antonio Lareno, delegato Cgil all’Expo, «quello per cui si possa andare a cercare nel passato di una persona per decidere se darle il diritto di lavorare oppure no».

Per chi il lavoro l’ha ottenuto, comunque, i disagi non sono mancati. Su Change.org è ancora aperta la petizione per chiedere più tornelli e parcheggi riservati, precedenza sulle navette e ai punti ristoro. Ma la fine del mese è vicina, è già tempo di pensare a un nuovo impiego.

 Il volantino dell’organizzazione San Precario, che offre assistenza ai lavoratori precari di ogni tipo, anche agli assunti di Expo
Il volantino dell’organizzazione San Precario, che offre assistenza ai lavoratori precari di ogni tipo, anche agli assunti di Expo

Toto-Expo: l’eredità materiale di Expo 2015

Partiamo dalle buone nuove. Il successo estivo della Darsena fa ben sperare sulla riuscita dell’opera di riqualificazione dell’area: prosegue il piano di pedonalizzazione e si azzarda di arrivare fino a via Tortona; alla movida serale si potrebbero affiancare gare di vela e canoa e le attività di Mercato Metropolitano.

Le proposte più quotate per il dopo-Expo sono la nuova Città Studi dell’Università Statale, con un campus, residenze per studenti e strutture per la ricerca; ma anche la “Silicon Valley” di Assolombarda, un parco tecnologico sull’agroalimentare. E l’Albero della Vita? Lasciarlo dove si trova o portarlo in piazzale Loreto, in Darsena, a Rho? Ma soprattutto, chi ne sosterrà le spese?

Mentre il piano di smantellamento partirà a novembre, il governo sembra voler rilevare le quote di Arexpo per investire sul futuro del sito. Poche certezze per ora, a parte l’attenzione dei cittadini milanesi, lombardi, italiani che chiedono trasparenza: sulla rifunzionalizzazione dell’immensa area e lo smaltimento dei rifiuti speciali, ma soprattutto sul rispetto del protocollo di legalità. Perché non si ripetano le storie di corruzione che hanno macchiato Expo 2015 (tra gli ultimi lo scandalo dell’appalto truccato per Palazzo Italia e il commissariamento di Set Up Live, l’azienda che si è occupata dell’allestimento dei cluster, sospettata di rapporti con la ‘ndrangheta). Perché non si sprechi l’occasione di lasciare alla collettività, principale finanziatore dell’impresa, spazi rinnovati e fruibili.

Il grande sito dell’Esposizione milanese, esteso per 1milione e 100mila metri quadrati…
Il grande sito dell’Esposizione milanese, esteso per 1milione e 100mila metri quadrati…
… e l’Albero della Vita
… e l’Albero della Vita

Carta in tavola: l’eredità culturale di Expo 2015

Nutrire il pianeta, energia per la vita, ovvero salvaguardia delle biodiversità, pratiche agricole sostenibili e diritto al cibo. Questi i temi di cui l’Expo milanese doveva farsi promotrice, ma sembra che, per quanto i padiglioni si siano ispirati alle linee-guida (e non sempre è così evidente), ben poco sia stato percepito dai visitatori. Così la pensa una visitatrice “speciale”, Sara Pezzotta. Appena tornata da 6 mesi di lavoro in Sud Sudan, è stata catapultata nella sfavillante fiera per rappresentare le attività dell’onlus Tonjproject.

«Ho visto molta contraddizione. Ho visitato i padiglioni dei Paesi africani: sembravano delle attività puramente commerciali». Un’altra amara scoperta lo spazio di Save the children, che illustra la cruda storia di un bimbo africano che soffre la fame: «Molto forte, ma troppo “spettacolarizzata”». E infine il supermercato tecnologico di Coop: «Pensavo fosse una provocazione. Tocchi un prodotto e un pannello interattivo ne mostra origine e proprietà. A prendere la frutta ci pensa un braccio meccanico. Uno scenario futuristico angosciante». Più confortante l’«interattività sobria» dei percorsi sensoriali di Slow Food.

L’impressione è che Expo 2015 abbia sacrificato i grandi temi in nome dell’autopromozione dei singoli Paesi e dello spettacolo visivo. Non ci si aspettava una rivoluzione delle coscienze, ma la coerenza di essere i primi promotori del cambiamento che si auspica nel mondo.

Il possibile riscatto è la Carta di Milano, documento sottoscritto da autorità di tutto il mondo e cittadini comuni, discussa l’11 ottobre tra 26 tavoli tematici. Grande assente, per Caritas Internationalis, è «la voce dei poveri»: manca una strategia per la risoluzione di problemi come «la speculazione finanziaria, l’accaparramento delle terre, la diffusione degli Ogm e la perdita di biodiversità». Gli obiettivi a lungo termine di questo grande evento sono ambiziosi e impegnativi: speriamo non rimangano solo parole sulla carta.

Universo Università

Dati inquietanti che si aggirano sul web sostengono che i laureati italiani sono quelli che hanno in percentuale minori probabilità di impiego tra tutti i colleghi europei. La notizia non è certo sconvolgente, basta guardarsi attorno per capire che è davvero così: molti laureati se ne stanno a casa senza riuscire a trovare non solo un lavoro adeguato al proprio titolo di studio, ma neppure un qualunque altro tipo di lavoro. Alla faccia del ministro che sosteneva che i giovani italiani sono “choosy”, capita molto spesso che un laureato, qualora si presenti, mettiamo il caso, per un posto di cassiere al supermercato, si senta dire che avrebbe avuto più possibilità di impiego se si fosse presentato con il diploma o addirittura la licenza media!

Secondo la fonte che ha pubblicato il sondaggio sull’impiego post lauream, il divario esistente tra la situazione dei laureati italiani rispetto agli altri europei sta nel fatto che l’università negli altri paesi d’Europa come ad esempio Francia, Germania e Inghilterra, includa obbligatoriamente dei percorsi di tirocinio o di alternanza studio-lavoro che consentono allo studente di immettersi nella realtà lavorativa del settore che ha scelto prima ancora di aver terminato gli studi e di poter così vantare nel proprio curriculum questa esperienza.

Purtroppo la realtà universitaria nostrana non incentiva questo tipo di percorsi: forse ciò deriva da un pregiudizio che considera a teoria superiore alla pratica, il sapere fine a se stesso preferibile rispetto a quello applicato. Se questo è un discorso che può essere corretto per le scuole superiori, che, infatti, sono tra le più quotate in Europa e nel mondo, nonostante la condizione di svilimento economico e sociale a cui è sottoposta la classe docente da politiche di tagli indiscriminati alla scuola, per la formazione universitaria risulta controproducente. «La pratica senza teoria e cieca, come è cieca la teoria senza la pratica» afferma un aforisma di Protagora. La cultura classica è certamente importante e basilare per la formazione del cittadino, ma, come dimostra questo aforisma, è altrettanto necessario trasporne in pratica gli insegnamenti.

La mia esperienza personale, presso una facoltà umanistica come quella di Lettere della Statale di Milano, mi ha mostrato un mondo asfittico, sterile. Ciò che maggiormente mi ha deluso è stato proprio l’abisso che si è voluto scavare tra la realtà universitaria, il mondo della letteratura, e la società odierna con le sue dinamiche e le inevitabili questioni che ci pone di fronte. Purtroppo molto spesso l’università diventa l’arena in cui i docenti si mettono in competizione fra loro, il palcoscenico in cui fanno mostra di se, non il luogo principe della formazione delle nuove generazioni. E ancor di più mancano adeguati spazi in cui gli studenti possano mettere in pratica le nozioni acquisite, mettendo alla prova se stessi in percorsi extrauniversitari lavorativi o di apprendistato. L’università, per di più, non solo non incoraggia tali esperienze, ma anzi, sembra addirittura ostacolare quegli studenti che, al di fuori dell’ambito universitario, decidono di lavorare, ponendo sul loro cammino continui ostacoli che vanno dalla difficoltà di ottenere colloqui con i docenti al di fuori dei consueti orari di ricevimento (sia inteso, ci sono anche docenti molto disponibili in questo senso che fanno di tutto per venire incontro alle esigenze, ma, purtroppo, non sono la maggioranza), alla penalizzazione che spesso emerge in sede d’esame degli studenti non frequentanti.

La congiuntura economica attuale e l’elevata disoccupazione giovanile mette in primo piano la necessità di una riforma strutturale del sistema universitario che deve maggiormente aprirsi al mondo del lavoro: rischia di produrre schiere di disoccupati senza futuro se dovesse restare ripiegato su se stesso, nel proprio piccolo universo, appunto l’universo università.

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