Eccomi qui dopo molte settimane di isolamento totale. Vivo da sola, e nonostante sia una selvatica di natura, questo distacco totale dal mondo e dalla comunità comincia inevitabilmente a pesare.
Avrei potuto approfittare di questo tempo per pulire casa, sistemare gli armadi, cucinare e molto altro ancora…
In realtà niente di tutto ciò è avvenuto. La mia indole mi spinge inevitabilmente a tirar fuori la vera me, la stessa di sempre. L’isolamento non fa che amplificare il mio essere: mi riscopro. E riscoprendomi ritrovo le peculiarità del mio carattere amplificate da questa inattività obbligata.
Sono una ragazza pigra, malinconica e introspettiva. La profondità è il mio rifugio.
Tra letto, divano, musica, film e pensieri l’unico risultato concreto prodotto in questi giorni sono i miei disegni. Sono una sorta di diario di bordo da sempre, e spero per sempre.
Ogni disegno è un’emozione che segna un istante. Fatti di getto. Pennellate veloci ricche della mia emotività.
Mi chiamo Martina Giavazzi.
Vivo a Bergamo. Via Quarenghi. Classe 1989.
Ho deciso ormai da tempo (almeno 4 anni) di intitolare ogni mio disegno IOCONME.
Questo per esprimere la mia aspirazione, cioè disegnare per me stessa, mostrando chi sono. Per raccontare che la destinazione finale sono io.
Un modo per capirmi meglio.
Riguardando i lavori posso facilmente ricordare il periodo e le emozioni che provavo in quel preciso momento. Cambia il tratto cambia la tecnica senza che neanche me ne accorga proprio in base a quello che la vita mi riserva.
Ci butto dentro tutto. Tutto quello che vivo. In questo periodo di quarantena ho collezionato in circa quattro settimane più di 50 lavori. Di seguito, potete trovare i miei lavori in ordine cronologico. Partono dal 9 marzo, inizio del mio autoisolamento.
Mi sono dedicata a volti femminili che sono la mia grande passione da sempre.
Per i miei lavori uso supporti semplici, a volte di recupero, data anche la scarsa possibilità economica (ho molte idee nella testa spesso però difficili da realizzare). I principali sono carta ruvida di piccolo formato o tavole di compensato utilizzando acquarello, china, pastelli, pastelli a olio, acrilici, bic nera, pennarello indelebile nero.
ATTENZIONE: La redazione di Pequod Rivista si mette a disposizione di chi vuole raccontare la propria quarantena creativa: inviate la vostra proposta a info.pequodrivista@gmail.com
D’abitudine, i giochi a carte si apprendono un po’ per tradizione: ogni famiglia ha i propri giochi prediletti e i nonni spesso hanno l’onore di scegliere a quali vada la preferenza. Da nord a sud Italia i mazzi mutano il loro aspetto, le scimitarre diventano spade e i bastoni si trasformano in mazze.
Ma da dove arrivano queste piccole tessere rettangolari e le regole che ne disciplinano l’uso?
La storia delle carte da gioco si intreccia a quella delle migrazioni umane. Con la semplicità delle piccole cose, questi svaghi semplici e maneggevoli si sono spostati da un continente all’altro attraverso le mani di una miriade di popolazioni, ognuna delle quali le ha rese parte della propria cultura, imprimendo minuscole, infinitesimali modifiche.
La loro invenzione risale all’antichissima Cina, là dove la carta vide la propria nascita; incerto il loro uso: sicuramente ludico, forse anche come carta moneta. Non sappiamo con esattezza né come né quando siano state introdotte in Europa. Probabilmente, dall’estremo oriente sono passate per la Persia e da qui giunte nelle mani dei Mammelucchi, che avrebbero modificato gli originali tre semi cinesi (Jian o Quian, monete, Tiao, stringhe di monete, e Wan, diecimila) nei quattro che si ritrovano negli odierni mazzi tradizionali: Jawkān (bastoni da polo), Durāhim (denari), Suyūf (spade) e Tūmān (coppe). Ciascun seme delle carte mammelucche conteneva dieci carte numerate, cui si aggiungevano tre figure: Malik (re), Na’ib Malik (viceré) e Thānī nā’ib (secondo viceré).
In Europa, la tradizione araba di attribuire identità di ufficiali dell’esercito alle figure, che da precetto coranico non ritraevano persone ma riportavano i nomi della persona di riferimento, venne adattata per rappresentare le famiglie reali, prima nelle figure di “re”, “cavalieri” e “servi” e successivamente in quelle di “re”, “regina” e “fante”. Ciascuno stato elaborò la propria versione dei semi, per lo più discostandosi di poco dagli originali mammelucchi. Furono i francesi, negli ultimi decenni del XV secolo, a semplificare i semi in uso, probabilmente ispirandosi a quelli tedeschi, codificandoli in cuori, quadri, fiori e picche. Negli anni 50 del XIX secolo, poi, gli statunitensi aggiunsero al tradizionale mazzo francese i quattro jolly, andando così a dare forma definitiva al mazzo più diffuso al mondo.
Semi delle carte tradizionali delle regioni italiane e di Spagna, Marocco, Germania e Svizzera
Se tanto mistero resta attorno alle origini e alle migrazioni delle carte, ancora più complesso è ricostruire gli spostamenti e le modifiche dei giochi che con queste si possono fare. Tra i più diffusi al mondo è il Poker; oggi giocato soprattutto on line e nei casinò, conta un infinito numero di specialità e varianti, che vanno dalla presenza o meno di calate, al numero di carte in banco e/o in mano. L’uso forse più singolare è quello adottato durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, quando alle truppe americane venne distribuito il mazzo Most-wanted Iraqi, in cui ad ogni carte corrispondeva il nome, una foto e la carica di un membro ricercato del governo di Saddam Hussein. Le origini del Poker sono d’abitudine associate alla New Orleans di inizio Ottocento o alla poco distante Robtown, in Texas, dove nacque una tra le più diffuse varianti del gioco, appunto Texas hold ‘em; allo stesso modo, è possibile risalire dal nome di altre varianti al luogo in cui nacquero: un esempio tra tutti, il Caribbean Stud Poker, che nel secolo scorso si giocava sulle navi da crociera dirette ai Caraibi. Tuttavia, l’etimologia suggerisce che il Poker sia stato importato negli Statu Uniti dai francesi, che già nel XVIII secolo giocavano a Poque (dal francese pocher, ingannare), forse a sua volta ereditato dal Poken (inganno) tedesco, risalente al XVII secolo. Meno probabile, ma non smentita con certezza, l’idea che le regole potrebbero rifarsi all’italiano Zarro, antesignano della moderna Telesina, che come il Poque si giocava con un mazzo di 20 carte.
Assi del mazzo Most-wonted Iraqi,
Se da un lato i francesi sembrano i più attestati inventori del gioco del Poker, dall’altro negli ultimi anni hanno perso la paternità del gioco in cui si attestano come i maggiori promotori nel mondo: il Belote. Gioco a coppie simile alla Briscola, è stato esportato in quasi tutte le ex colonie francesi, ma la sua influenza si è fatta sentire anche a est: lo troviamo infatti in Bulgaria, in Ungheria, in Grecia e in Croazia. Il maggiore successo lo ha raggiunto in Arabia Saudita e Armenia, dove i giochi più popolari risultano essere, pur con considerevoli varianti rispetto al riferimento francese, rispettivamente il Baloot e il Belot. Nonostante l’etimologia, un gioco molto simile ma soprattutto molto più antico si trova nelle Province Unite Nederlandesi del XVII secolo, il Klaverjassen. In Italia questo gioco, la Briscola appunto, sembra essere arrivato direttamente dai Paesi Bassi, e di qui trasformato nello Schembil, diffusissimo in Libia e in diversi Paesi del Nord Africa. Le esportazioni italiane di giochi di carte sono, del resto, numerose; in primo piano è la Scopa, giocata anche in Spagna con il nome di Escoba, che in Tunisia prende il nome di Chkobba e in Marocco, con qualche modifica, di Ronda.
Numerosissime sono le importazioni in Europa di giochi originari di Paesi lontani: dall’isola di Macao, ad esempio, arriva Baccarà, uno dei giochi d’azzardo tra i più diffusi nei casinò; originari dell’Uruguay sono, invece, Canasta e Burraco; al cinese Khanhoo o al messicano Conquian potrebbero risalire le diverse variazioni del Ramino, incluso il Chinchòn, che si gioca in Spagna, Uruguay, Argentina e Capo Verde. Altrettanto frequenti sono gli scambi all’interno del continente: popolarissimo tra i Paesi dell’ex URSS è, ad esempio, Verju ne Verju, che differisce dal Dubito italiano solo per il numero di carte usate (40 anziché 52); allo stesso modo, l’inglese Beggar-MyNeighbor, si è modificato nel rumeno Razboi e nell’italiano Guerra; discussa è l’origine del gioco italiano del Cucù, identico al Gambio svedese.
Le rotte percorse dai giochi di carte sono complesse e intricate, difficili da ricostruire quasi quanto lo sarebbe una mappatura della genealogia della specie umana. Nelle loro migrazioni, i giochi non conoscono confini e realizzano una vera integrazione: non solo culture che s’incontrano, ma qualcosa di nuovo che ogni giorno, in ogni luogo s’inventa.
Il primo sguardo alla Malpensata, arrivando dalle vie del centro di Bergamo, è uno sguardo che respira: un’improvvisa apertura di polmoni e orizzonti su questo quartiere che si dà come spazio. A imprimersi come immagine d’insieme, una volta lasciati gli infiniti sensi unici delle vie principali e superate le colonne della sopraelevata che permette ai treni su rotaia di attraversare la città in direzione Milano, è l’ampio piazzale, posto quasi a segnale dell’inizio del quartiere di cui condivide il nome.
Piazzale Malpensata, pur con il suo sovraffollamento di auto dentro e fuori le aree delimitate dalle strisce bianche della segnaletica stradale e di parcheggiatori abusivi che scrutano in un’ininterrotta ricerca dell’ultimo rettangolo di cemento libero, nella speranza non pretesa di ottenere una moneta, è uno dei pochi angoli di città non ancora monetizzati. Non ancora, ma ancora per poco, visto il nuovo Piano della Sosta, che prevede lo svuotamento del piazzale dalle vetture, non appena verrà inaugurato il parcheggio all’ex gasometro (già in opera), all’angolo opposto dell’incrocio su cui la Malpensata si affaccia, che prevede 300 posti auto, usufruibili pagando 2 € l’ora. A segnalare l’inizio dei lavori di rinnovamento e decongestionamento dell’area, è stata la comparsa dell’ampia rotonda che da fine gennaio si frappone proprio tra i due parcheggi rivali, quasi a monito di un movimento che cambierà il volto della Malpensata.
Progetto per la realizzazione del parcheggio all’ex gasometro e dell’antistante rotonda.
I progetti di rinnovamento non si arrestano alla viabilità, e tra tutti il più discusso è lo spostamento di uno degli appuntamenti più movimentati del Piazzale: il mercato del lunedì, che da più di 50 anni colora la piazza di oltre 200 banchi e una varietà umana che spesso, una volta finiti gli acquisti, si riversa nell’adiacente parco a condividere il pranzo di inizio settimana. Il Comune ha già avviato un investimento da 1,5 milioni per asfaltare l’area di via Spino, nell’adiacente quartiere Carnovali, che ospiterà circa 200 banchi, cui si aggiungono i lavori per adattare il centralissimo Piazzale degli Alpini, proprio davanti la stazione, dove andrà la restante trentina di ambulanti e che già paga lo scotto della sua riqualifica, con lo sradicamento di 25 alberi storici. Le rimostranze arrivano in primis proprio dai venditori, guidati dall’ANA (Associazione Nazionale Ambulanti), cui si uniscono le voci di molti cittadini, che vedono nello spostamento e soprattutto nella frattura del mercato in due diverse aree, tanto lo snaturamento di una tradizione quanto il pericolo di perdere parte del fatturato. A loro si aggiungono i numerosi movimenti per la tutela del verde urbano, che sottolineano come la rapidità nella cementificazione e nell’abbattimento di alberi adulti non potrà essere velocemente compensata dal progetto di ampliamento del parco della Malpensata, le cui giovani piante impiegheranno necessariamente anni per costituire quel polmone verde di cui la città necessita e diventare punto di riferimento per la fauna che annidava nelle aree verdi ormai scomparse.
Corteo di protesta di lunedì 29 Aprile degli ambulanti che, chiuso il mercato, hanno raggiunto con i loro furgoni il Comune di Bergamo; già l’8 Aprile vi era stata una manifestazione simile contro lo sradicamento del mercato in Malpensata, cui avevano preso parte 63 furgoni, congestionando il traficco delle strade di Bergamo. [ph. ANA – Associazione Nazionale Ambulanti]La speranza è che la natura dimostri ancora una volta quella capacità adattiva che le permette di sopravvivere all’azione umana e che animali e piante, già allontanati da questo quartiere quando a inizio ‘900 sorsero i primi palazzi popolari, siano pronti a riabitare l’area verde prevista dai Piani dell’Amministrazione Comunale. Nell’ambito del progetto Legami Urbani, che prevede lo stanziamento da parte del Governo di 18 milioni di euro per le periferie della città di Bergamo, si pronostica un ampliamento del 30% della superficie del parco (pari a 5200 mq) e la creazione di uno skate park con annessa struttura coperta polivalente che andrà a sostituire il vecchio palazzo del ghiaccio, abbattuto già lo scorso anno. In questo modo, il Comune si dichiara in linea con le trasformazioni che il quartiere sta vivendo dagli anni ’60, quando il cimitero San Giorgio, costruito nel 1813 fuori dalle mura della città e soppresso nel 1904, ma smantellato solo verso gli anni ‘40, venne temporaneamente adibito a mercato del bestiame e ospitò saltuariamente il circo equestre e la fiera di Sant’Alessandro. Per secoli, l’area della Malpensata era stata, come la toponimica del nome stesso evoca, poco più che un luogo infelice appena fuori dalla città: ospite di un lazzaretto d’emergenza nel Seicento, poi sede del cimitero e infine destinata allo stoccaggio del gas, il quartiere Malpensata sembrerebbe dovere il suo nome a una vecchia cascina, ormai abbattuta, nel cui cortile sorgeva un albero usato come gogna per gli evasori del dazio, riscosso presso la vicina porta Cologno. Sono i progetti dell’ingegner Bergonzo a trasformare l’aspetto dell’area, in cui sorgono nel 1908 le prime case popolari.
Progetto relativo all’ampiamento del parco Malpensata.
È forse proprio la “popolarità” la caratteristica che fino a oggi contraddistingue il quartiere Malpensata. “Popolarità” che si dà come conformità all’uso del popolo, come spazio accogliente in cui le case popolari non hanno mai smesso di crescere e in cui oggi abitano circa 200 famiglie, che proprio in questi mesi stanno lottando contro i tagli a un servizio considerato fondamentale: l’Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale), incaricata della gestione di questi spazi, ha scelto di non rinnovare il contratto di lavoro, in scadenza al 31 marzo 2019, del Portiere sociale, che tanto ha fatto per creare coesione e integrazione tra gli abitanti delle case popolari. Il servizio, rivolto a una rete di inquilini formata circa al 28% di immigrati e al 15% di ultrasessantacinquenni, era stato istituito con funzioni burocratiche, amministrative e di manutenzione, ma negli anni ha avviato progetti quali il doposcuola per i bambini, il mutuo aiuto per persone diversamente abili o economicamente svantaggiate (concretizzato, ad esempio, nella raccolta di mobili, abiti e oggetti di prima necessità), l’interazione con le realtà associative di quartiere, la promozione dell’incontro interculturale, andando a definire quel volto comunitario e, appunto, popolare, che è caratteristico di una Malpensata che resiste all’individualismo imperante e alle insicurezze di una società disgregata.
Presidio del 17 Aprile degli inquilini delle case popolari di Bergamo contro ALER per chiedere il ripristino del portierato sociale, per l’aumento delle manutenzioni e per la riduzione di affitti e spese. [ph. Unione Inquilini Bergamo]Una popolarità che non esula dai rapporti con una delle istituzioni più attive nel ramo dell’accoglienza, il Patronato San Vincenzo, che dal 1927, anno della sua fondazione da parte di don Bepo, si preoccupa di dare una casa e un futuro ai più bisognosi: «accoglie nel 1938-39 gli orfani dell’Istituto Palazzolo; nel 1943 i giovani ricercati dai nazi-fascisti; nel 1944 un centinaio di ragazzi Libici e un folto gruppo di bambini sfollati da Montecassino; nel 1945 non pochi minorenni figli di fascisti da reinserire nella società. Nel 1951 un gruppo di alluvionati del Polesine; nel 1952 molti degli orfani costretti a lasciare Nomadelfia fondata da don Zeno; nel 1956 i giovani fuggiti dalla rivoluzione in Ungheria; negli anni ’70 una cinquantina di ragazzi eritrei e 200 orfani dei lavoratori (Enaoli)», si legge sul sito della fondazione. Oggi è uno dei punti di riferimento per chiunque abbia bisogno di aiuto nell’inserimento sociale, dagli adolescenti ai poveri passando per gli immigrati, attraverso una rete di attività che si occupa non solo della sussistenza dell’individuo, ma anche del supporto necessario alla sua formazione; da queste premesse nascono iniziative che hanno risonanza in tutto il quartiere, le cui strade si colorano di un umanità sempre nuova, sempre in movimento.
Murales realizzato da Ericailcane sul muro della sede di Caritas Diocesana Bergamo, nel quartiere Malpensata, per il progetto Pigmenti promosso dal Patronato San Vincenzo come estensione della serigrafia Tantemani, laboratorio formativo e lavorativo per ragazzi con diverse abilità cognitive e relazionali.
Basta una passeggiata al parco per cogliere il senso di questa collettività: sul prato verde si incontrano pelli dai mille pigmenti, bambini delle più disparate nazionalità corrono nelle aree attrezzate, accenti e lingue si mescolano in un nuovo esperanto, mentre gli alberi silenziosi respirano ossigeno nuovo per la città.
In copertina, Bergamo [ph. Tiziano Moraca CC BY 2.0 by Flickr]
Da vent’anni Paolo Berizzi, giornalista de La Rebubblica, denuncia la presenza di formazioni di stampo neofascista e neonazista in Italia; da oltre un anno e mezzo vive sotto tutela per le continue minacce e atti intimidatori a causa delle sue inchieste riguardo ai nessi tra partiti, formazioni di estrema destra e criminalità organizzata.
Ad aprile è stato pubblicato ilsuo libro-inchiesta NazItalia. Viaggio in un paese che si è riscoperto fascista. Che si è riscoperto, appunto, perché, come afferma Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah,in fondo, fascista lo è sempre stato, ma solo adesso i tempi sono diventati maturi per una legittimazione di questo fenomeno.
Alcune delle manifestazioni di protesta contro il libro NazItalia di Paolo Berizzi, inclusa l’irruzione nella libreria di Padova.
Si aspettava una reazione così ostile al suo libro NazItalia?
Da una parte sì e ciò significa che ha colpito nel segno. Non mi aspettavo un’ostilità così sistematica e strutturale: cercano in tutti i modi di screditarlo perché è andato a toccare nervi scoperti, rivelando sponde politiche, finanziamenti, tutto ciò che è meno visibile e che è stato portato a conoscenza di un pubblico più ampio.
L’episodio avvenuto nella libreria di Padova può essere assimilato ad un atto intimidatorio di stampo squadrista?
È quello che è stato. Mentre stavo andando a Padova, la polizia mi ha avvisato che mi avrebbero contestato fuori dalla libreria. Distribuivano a chi entrava volantini con la locandina con il titolo di InfamItalia. Non mi sarei aspettato che sarebbero entrati, invece lo hanno fatto, scattando fotografie ai presenti come per schedarli. Fino a ieri queste cose non accadevano. Io dico sempre che è stato un successo aver portato i fascisti in libreria, ma è grave che si sentano sdoganati.
Quali sono le somiglianze e le differenze tra vecchio e nuovo fascismo?
I tratti comuni sono la tendenza alla prevaricazione e la negazione della libertà, fondamento della democrazia.
Si tratta, tuttavia, di un fascismo completamente diverso, non più quello del fez e della camicia nera. Agisce in forme inedite, difficili da riconoscere: è un fascismo liquido, disgregato, fatto da scorie impazzite. Accomuna queste formazioni il rancore verso il nuovo nemico, l’immigrato, il rom, in secondo luogo il sovranismo, il motto “prima gli italiani”, l’isolazionismo.
Le modalità con cui si esprimono sono fortemente sociali: si rivolgono alle fasce più deboli attraverso il cosiddetto “welfare nero”, rispondono ai bisogni primari dei cittadini laddove lo Stato è assente, sostituendosi ad esso. Questa è una novità.
Restano i simboli, diretta emanazione del fascismo e del Terzo Reich, ma la propaganda politica a volte sorprende, adotta forme del tutto nuove: si propongono come diversi dal regime dittatoriale. Questo è il paradosso dei fascisti di oggi: richiedono spazi e libertà politica, fanno le vittime quando sono stati loro a negare il diritto di parola e persino di esistenza.
Il giornalista Paolo Berizzi (secondo da sx) insieme a Nicola Fratoianni e Eleonora Forenza di Potere al Popolo, durante la presentazione del suo libro NazItalia a Bari il 23 ottobre.
Quali le responsabilità della sinistra in tutto ciò?
Le responsabilità sono tante. La prima è di non essere riuscita ad intercettare il disagio delle fasce più deboli della popolazione, non aver dato una risposta alle paure su cui l’estrema destra e la Lega di Salvini fanno leva. La conseguenza di questo è che la sinistra non si afferma al di fuori delle zone ZTL.
La seconda è quella di essersi allontanata dalle zone periferiche: la pasta, prima, la distribuivano le formazioni di sinistra o il cattolicesimo socialista.
La terza è quella di non aver capito che questa destra nazifascista si stava diffondendo nei piccoli comuni, nelle città, nelle metropoli. “Non c’è rischio” dicevano esponenti PD come Renzi e Minniti. Non hanno capito e hanno dato del visionario a chi ne denunciava il ritorno.
In Europa, ma non solo, si sta affermando il fenomeno del neofascismo. Quali le prospettive?
È chiaro che il “vento nero” è diffuso non solo in Europa, ma anche in altri continenti. Bolsonaro (l’attuale Presidente del Brasile, ndr) non ha mai nascosto il suo nazifascismo, è uno che dice di preferire “un figlio morto piuttosto che gay”, non nasconde le sue simpatie per le parole d’ordine che richiamano la violenza, per i metodi dittatoriali. Negli U.S.A abbiamo Trump, in Russia Putin.
In Europa il “vento nero” soffia da tempo, non solo dove l’Ultradestra è al governo, ma anche nel cuore dell’Europa, in Paesi come Inghilterra, Germania, Francia. E Italia. Salvini è stato il primo a intuire, con grande fiuto politico che gli va riconosciuto, che il vento stava arrivando anche da noi. Ha trasformato la Lega da partito autonomista, e, per un periodo, secessionista, a partito sovranista e centralista. È una creazione politica di Salvini, che vince con il sostegno di gruppi di estrema destra come Lealtà e Azione, ispirato ai modelli dei generali delle S.S. e di Corneliu Codreanu, capo delle guardie di ferro rumene.
Matteo Salvini a cena con i dirigenti di CasaPound nel 2015.
Quali sono le prospettive per le elezioni europee del 2019?
Il rischio di uno sfondamento nero e di una deriva autoritaria c’è: alle prossime elezioni si giocano gli equilibri e l’esistenza stessa dell’Europa. Si confermerà e accrescerà il peso specifico del blocco nero sovranista, di tutti quei partiti iscritti al cartello The Movement di Steve Bannon, tra cui la Lega. Non si sa quali potrebbero essere i risultati di questo fenomeno sull’Italia, ma i sondaggi e gli esiti delle recenti amministrative di Trento e Bolzano confermano la crescita della Lega di Salvini, il ministro degli Interni, responsabile delle Forze dell’Ordine, che coccola i fascisti, indossa i loro abiti e da mesi posta slogan quali “me ne frego”. Il cerchio si chiude, Salvini e i neofascisti sono da tempo sullo stesso terreno, nel 2014-2015 la Lega era alleata di Casapound, ora non più, ma l’amore non è certo finito.
Adesso è più sotterraneo questo legame?
Sotterraneo fino a un certo punto. Nei giorni scorsi ero a Bari ad un evento dove erano presenti Nicola Fratoianni e Eleonora Forenza di Potere al Popolo, una delle vittime dell’aggressione squadrista avvenuta a settembre dopo una manifestazione di Salvini. Il ministro degli Interni non ha condannato apertamente, ha solo detto cose generiche in merito. Infatti nel 2015 una foto lo ritrae in compagnia dei capi di Casapound.
Oggi c’è maggior consapevolezza del pericolo neofascista?
Forse sì, dopo vent’anni in cui le mie inchieste cadevano nel silenzio, vent’anni in cui la sinistra ha dormito. Ora se ne sono accorti, ma non abbastanza.
Oggi non è considerato un disonore l’essere fascista. Liliana Segre afferma che il fascismo c’è sempre stato, ma sono mutati i tempi, prima dirsi fascista era un’oscenità ora è caduta la pregiudiziale sul fascismo, non c’è nessuna indignazione.
Questo è un passaggio fondamentale: le nuove generazioni hanno poca memoria perché chi doveva tramandarla non c’è più, per questo è importantissima l’azione di Liliana Segre, che nelle scuole parla con i ragazzi della sua esperienza. Un Paese che non ha memoria non ha futuro. Tanti giovani non comprendono i rischi: questo li porta ad accettare le proposte di questi gruppi, a farsi incantare dalle sirene. Nelle scuole e nelle università agiscono formazioni di estrema destra, mentre prima i collettivi erano di sinistra. È importante informare l’opinione pubblica, le nuove generazioni. Bisogna conoscere l’avversario: alla base di tutto sta la conoscenza.
Foto gentilmente concesse da Paolo Berizzi (tutti i diritti riservati).
Ci sono luoghi sparsi un po’ in tutto il mondo, in cui interi paesaggi si conservano in forme quasi invisibili: si tratta delle banche dei semi, o meglio del germoplasma, edifici dedicati alla conservazione del maggior numero possibile di forme di vita vegetale.
L’idea di creare spazi in cui fosse garantita la conservazione della biodiversità risale agli anni Venti e alle ricerche dell’agronomo e botanico Nikolaj Ivanovič Vavilov; lo studioso era impegnato a risolvere il problema della produzione di frumento nella Russia sovietica, insufficiente a raggiungere quel livello di autarchia previsto dal regime: concentrando i suoi studi sulle analisi delle caratteristiche di differenti cereali e sulla loro capacità di adattarsi al clima, Vavilov riuscì a creare una nuova specie di frumento, capace di resistere alle rigide temperature e alla siccità che all’epoca colpivano diversi territori dell’orbita sovietica. Per ottenere questo risultato, Vavilov viaggiò tra Oriente e America, raccogliendo campioni delle diverse specie vegetali che di volta in volta incontrava e che conservava all’interno dell’Istituto pansovietico di coltivazione delle piante (VIRV) da lui fondato a San Pietroburgo nel 1925.
La sua visione globale della botanica non era però vista di buon occhio dal regime leniniano, che identificava le sue ricerche con la “borghese” genetica mendeliana, e nel 1940 Vavilov fu processato con l’accusa di “spionaggio a favore della Gran Bretagna e di boicottaggio dell’agricoltura sovietica”; ai tempi dell’arresto, la sua collezione contava già 250 mila specie. Morto per malnutrizione dopo tre anni di carcerazione, fu riabilitato dalla Corte Suprema sovietica solo a metà anni Cinquanta, quando l’archivio creato a San Pietroburgo prese il nome di Istituto Vavilov.
Nikolaj Ivanovič Vavilov (Mosca,1887- Saratov, 1943); accanto, il padiglione russo all’Expo 2015 che mostrava parte della raccolta dell’Istituto Vavilov a San Pietroburgo.
Quella di San Pietroburgo rimane fino a oggi un’istituzione tra gli organi di ricerca e preservazione del patrimonio mondiale vegetale, conservando più del 10% delle piante da coltivazione del pianeta; su modello dell’idea di Vavilov un sempre maggior numero di istituti sono stati fondati dagli anni ’80 a oggi. Non è facile stabilire il numero esatto di banche del germoplasma; la cifra si aggira attorno alle 1500 sedi, diffuse in tutti e quattro i continenti, in connessione tra loro secondo sistemi molto simili a quelli degli omonimi istituti finanziari: diversi centri di raccolta e di conservazione ex situ tra cui le sementi, conservate in celle frigorifere a temperature tra i 20 e i 30 gradi sottozero, sono scambiate e condivise, così che le risorse di uno stesso ecosistema possano conservarsi in luoghi diversi del globo.
Tra le più famose è lo Svalbard Global Seed Vault, il Deposito globale di sementi dello Svalbard, collocato sull’isola norvegese di Spitsbergen, nell’arcipelago artico delle isole Svalbard a circa 1200 km dal Polo Nord; sostenuto dalla FAO, il deposito, finalizzato a garantire la conservazione delle 21 colture più importanti della Terra, funziona come un classico caveau: la banca è proprietaria dell’edificio, mentre i diversi stati depositari restano proprietari del contenuto delle cassette. L’edificio dello Svalbard Global Seed Vault ha dato forte risonanza al progetto, quando nel 2006 l’iniziativa ha avuto inizio trasferendo gli oltre 10̇000 campioni già raccolti dal Nordic Gene Bank (risalente al 1984), e la sua struttura futuristica ha fornito facile spunto per immaginare che incredibile risorsa potrebbe rivelarsi essere nel caso di una catastrofe planetaria. Di fatto, gli obiettivi che queste banche portano avanti hanno una scadenza molto più prossima; a mettere in pericolo la flora autoctona possono essere infatti eventi molto più frequenti di quanto immaginiamo, dall’uso massiccio di sementi sempre più modificate che si sostituiscono alle piante originarie, ai conflitti militari che inevitabilmente danneggiano il territorio che fa loro da palcoscenico: non è un caso che la prima richiesta fatta alla banca norvegese di restituzione delle sementi sia arrivata da Aleppo, in Siria, che a seguito della guerra civile ha visto sparire numerose colture di erbe, frumento e orzo.
Non meno significativi, gli sconvolgimenti che negli ultimi anni sta subendo il clima dell’atmosfera terrestre, che mettono in pericolo non solo la biodiversità, ma i suoi stessi centri di tutela: nonostante sia costruito 120 metri dentro una montagna di roccia arenaria, che garantisce temperature glaciali per molto tempo in caso si fermasse il sistema di raffreddamento artificiale e una temperatura costante mai al di sopra dei 3 gradi sottozero, e 130 metri sopra il livello del mare, così da restare in asciutto anche in caso di scioglimento dei ghiacci artici, l’edificio non ha resistito all’imprevedibile surriscaldamento globale degli ultimi anni e ha subito una prima infiltrazione d’acqua, fortunatamente risultata innocua, nel Maggio 2017.
Svalbard Global Seed Vault, Norvegia [ph. 黃逸樂(世界首窮)CC-BY-3.0]
Legato invece alla cattiva gestione politica e finanziaria è stato il rischio corso da una delle più antiche riserve d’Italia: la Banca del Germoplasma di Bari, che si occupa della conservazione sia a breve termine (a 0° C) sia a lungo termine (-20° C) di circa 56̇000 semi, ha visto ridursi drasticamente gli investimenti da quando nel 2002 il Consiglio Nazionale delle Ricerche aveva preso in mano la gestione della Banca, provocando il mal funzionamento degli impianti di refrigerazione e un conseguente alzarsi delle temperature nelle celle.
Nata nel 1970, la Banca del Germoplasma di Bari è stata solo la prima delle numerosissime riserve fondate in Italia, costantemente connesse tra loro e con gli orti botanici che lavorano sulla raccolta di sementi, attraverso il sistema RIBES (Rete Italiana Banche del germoplasma per la conservazione Ex situ della flora spontanea italiana). Nato nel 2004, il progetto si è posto «per oggetto principale le specie vegetali autoctone in Italia, minacciate di estinzione, incluse anche le specie legnose e forestali (se e dove minacciate); restano invece escluse come oggetto di interesse le specie coltivate. Un secondo filone di attività riguarda invece le specie autoctone di interesse per la rinaturazione, sempre più richieste, ma di difficile reperimento sul mercato».
Si sono chiusi questo weekend i festeggiamenti per una delle festività europee tra quelle che più hanno avuto successo e diffusione nell’antico continente. Se già non l’aveste intuito, stiamo parlando della festa di San Patrizio, tradizione che dall’Irlanda ha negli ultimi anni colorato del suo tipico verde trifoglio gli ultimi giorni d’inverno di ogni angolo d’Europa. La celebrazione del giorno di San Patrizio, commemorativa dell’arrivo del cristianesimo in Irlanda, risale al IX secolo; già nel 1600 fu ufficializzata e divenne festa nazionale, che gli irlandesi esportarono durante i forti flussi migratori del XVIII secolo, in tutta l’Inghilterra prima e nel resto d’Europa poi. Fu forse proprio la nostalgia per le tradizioni della propria terra, in particolare per le bevande alcoliche, accostata alla figura del Santo patrono d’Irlanda, a determinarne il successo e la rapida diffusione: oggi, infatti, dal 17 Marzo al successivo weekend, in tutta Europa giovani in abiti verdi e cilindro in testa, brindano sollevando bicchieri colmi di sidro o birra artigianale, prediligendo la scura dublinese Guinness.
Festeggiamenti per il giorno di San Patrizio al pub irlandese The Old Dubliner di Hamburg [ph. Hinnerk Rumenapf CC BY-SA 4.0 International]
Di feste incentrate sul consumo dell’alcolico nazionale, del resto, è costellato l’intero continente, che dietro commemorazioni e celebrazioni d’ogni tipo, celano (neanche troppo) e giustificano il consumo smodato delle bevande che troneggiano sulle tavole dei diversi paesi. Se la scura più rinomata è infatti senza dubbio quella irlandese, il primato mondiale nella produzione di birra spetta di fatto a un’altra nazione: il Belgio, produttore di oltre 600 tipi di birra differenti, consumate da colazione a notte inoltrata, non solo come bevande ma anche per la preparazione di specialità gastronomiche. Innumerevoli sono le occasioni per veder scorrere litri di questa bevanda durante i festeggiamenti che hanno luogo in questo stato; tra queste, una forse delle meno note ma più curiose è la sfilata di carnevale di Aalst, a 30 Km da Bruxelles, dedicata alla figura della Voil Jeanet, la sporca Jeanet. Nata nell’Ottocento come semplice scambio di indumenti tra uomini e donne nel periodo del carnevale, dettato dall’impossibilità economica di acquistare veri costumi, questa tradizione per cui l’intera cittadina e i suoi turisti l’8 Marzo indossano abiti da donna, o meglio da prostituta, è stata inclusa nel patrimonio culturale UNESCO nel 2009 e sono state codificate le caratteristiche essenziali del travestimento da Voil Jeanet: al primo posto, seguita da corsetto, ombrello, passeggino e alimenti puzzolenti, troneggia un orinatoio portatile riempito di birra e pan di zenzero.
La birra del resto la fa da padrona in occasione di innumerevoli festività, anche in paesi che solo marginalmente si occupano della sua produzione e che prediligono alcolici che poco hanno a che fare con il gusto maltoso di questa bevanda. Un esempio è offerto dall’area balcanica, dove accanto alla tradizionale lattina da 33 cl, enormi bottiglie di plastica da 2 litri o più occupano gli scaffali dei supermercati, sebbene siano i superalcolici a imperare sulle tavole dell’est europeo. Negli ultimi anni, sempre più festival sono nati a riempire le estati balcaniche, ma se si vuole assaporare il clima delle tradizioni, tanto storiche quanto legate alla sintesi etnica che caratterizza le nazioni sorte attorno ai Monti Balcani, l’occasione da non perdere è data dal Guĉa Trumpet Festival, che raduna i trombettisti di tutta la regione di Dragaĉevo, in Serbia. Rievocando la tradizione delle brass band, che univano ai ritmi delle bande militari il folklore balcanico, e la loro sintesi con il movimento delle gipsy band, in agosto il piccolo paese di Guĉa, che durante l’anno conta 2000 abitanti, si riempie dei suoni soffiati dagli ottoni, degli aromi di maialini arrostiti sulla brace e dei fumi di rakija, la tipica grappa di prugne qui prodotta. Altrettanto forte è il legame culturale che fino a oggi unisce i paesi post-sovietici alla Russia, pur declinato nelle diverse sfumature locali: specialità gastronomiche a base di cavoli e patate si possono gustare in gran parte dei paesi che furono nell’orbita comunista, accompagnate dalla tradizionale vodka. Un assaggio di questo inscindibile rapporto si può avere nel periodo della Maslenitza, il carnevale russo che precede la Quaresima, in quei paesi che ospitano fino a oggi una consistente comunità ortodossa: in occasione della festa, balli in abiti tradizionali rallegrano le strade dei quartieri, mentre sulle bancarelle vengono offerti bliny(frittelle tradizionali), cetrioli e bicchierini di vodka.
Sull’altro versante d’Europa, nei caldi paesi a occidente, le tradizioni cambiano, ma l’alcol non sembra perdere il suo ruolo di principe delle feste: nella soleggiata Spagna, ad esempio, cerveza e sangria fresche sono spesso servite in grossi bicchieri di plastica, capaci di contenere quasi un litro delle gustose bevande, godute in abbondanza durante le feste. Un’occasione per godere di questa magnanimità, tanto dei baristi quanto della popolazione locale, è offerta dalla Feria di Malaga, in Andalusia, quando le strade della città si riempiono di musica e luci colorate, mentre sui marciapiedi giovani e anziani preparano freschi mojito, pestando giaccio e menta in sacchetti appoggiati sull’asfalto, e bicchieri di tinto de verano, mischiando gazeosa e vino rosso. La tradizione enologica, oggi diffusa in tutto il mondo, resta sempre un fiore all’occhiello della cultura italiana, che vede coinvolti viticoltori lungo tutta la penisola, in produzioni regionali differenziate, cui spesso corrispondono altrettante feste e fiere: dalla Festa del Vino di Alba in Piemonte all’Appassimenti Aperti di Macerata, dall’Autochtona di Bolzano al Ri-Wine di Riesi, in Sicilia. Tra le fiere vinicole più curiose del nostro paese è la Sagra Enogastronomica che si tiene a metà settembre a Faicchio, in provincia di Benevento: tra le bancarelle che offrono assaggi dei prodotti delle cantine locali e di piatti tipici del posto e i suoni di musiche e danze della tradizione partenopea che si dipanano tra i vicoli caratteristici del centro storico e seguono la processione dedicata a San Nicola, spicca la Fontana delle tre botti, da cui il vino di Massa sgorga per essere liberamente gustato, protagonista di tre notti consecutive di festeggiamenti.
Preparazione di mojito nelle strade di Malaga, Andalusia, Spagna
Entrambi figli degli anni Sessanta e Settanta, entrambi inseguivano il sogno di diventare celebri luoghi di divertimento, entrambi sono stati abbandonati e vandalizzati. Hanno molto in comune il croato complesso alberghiero Haludovo Palace e il nostrano paese di Consonno, soprattutto perché entrambi sono luoghi che emanano il fascino decadente, trascurato e leggermente inquietante di un’epoca passata che non tornerà più.
Nel 1972 Bob Guccione, fondatore della rivista erotica Penthouse, inaugurò poco lontano dalla tranquilla cittadina di Malinska, sull’isola di Krk, l’Haludovo Palace Hotel e l’adiacente Penthouse Adriatic Club Casino. Guccione, dopo aver investito 45 milioni di dollari nel progetto, aveva l’ambizione di rendere questi edifici a cinque stelle dei luoghi di lussuosa perdizione per i ricchi frequentatori dell’allora Jugoslavia, e per un po’ ci riuscì. Si narra di sfarzo e stravaganza, piscine piene di champagne, bellissime cameriere in topless, gioco d’azzardo come se non ci fosse un domani, fiumi di alcool di qualsiasi tipo e la compagnia delle ragazze di Penthouse. Le foto dell’epoca mostrano edifici dal design futuristico e l’hotel, vista mare ovviamente, era inoltre fornito di piscina, bowling, campi da golf e giardini, centro estetico e sauna.
Tanto sfarzo era difficile da gestire economicamente: dopo solamente un anno Guccione andò in bancarotta e il Penthouse Adriatic Club Casino fu chiuso, mentre l’albergo subì un declino più lento, culminato con le guerre nei Balcani degli anni Novanta, che allontanarono definitivamente i turisti. Haludovo Palace, diventato di proprietà statale, ospitò in quell’epoca i numerosi profughi, che inevitabilmente contribuirono alla decadenza materiale dell’edificio. Dopo la fine della guerra in Jugoslavia l’hotel subì diversi passaggi di proprietà e speculazioni finanziarie per poi venire privatizzato e venduto all’imprenditore Božidar Andročec. Egli però non riuscì mai a pagare tutta la somma prevista per l’acquisto e ciò portò alla chiusura definitiva dello stabile nel 2001. Attualmente la proprietà è della compagnia Enmyn Limited e del russo Ara Abramyan. Gli enormi investimenti necessari per recuperare questo edificio, uniti a quella che sembra essere una burocrazia molto intricata, fanno sì che il complesso resti meta di vandali e attrazione per turisti incuriositi, e per il resto completamente abbandonato, tranne per Omar che promette free sex.
Seguendo il filo di un’altra storia finita male a causa di speculazioni economiche ed edilizie, dalla soleggiata costa croata ci troviamo catapultati nel più vicino territorio lecchese, a Consonno, frazione ormai fantasma del Comune di Olginate.
Gli abitanti di questo antico piccolo borgo vissero tranquillamente fino a quando, nel 1962, l’industriale brianzolo Mario Bagno decise di acquistarlo interamente. Egli aveva grandi ambizioni: voleva infatti trasformare Consonno in una sorta di “Las Vegas brianzola”. In poco tempo sgomberò i paesani, rase al suolo le loro abitazioni e vi costruì edifici dalle architetture più disparate: un centro commerciale arabeggiante con tanto di minareto, una pagoda cinese, un castello medievale, fontane esagerate. C’erano anche il Grand Hotel Plaza, una sala per le feste, sale da gioco, ristoranti e bar. Non rimase nulla dell’antico borgo, tranne la chiesa di San Maurizio con la rispettiva casa del cappellano e il piccolo cimitero.
Consonno visse qualche anno di gloria come luogo destinato al divertimento e al gioco d’azzardo, dove tutto era un inno alla spensieratezza. Tra i numerosi visitatori ci furono anche alcuni personaggi del mondo della tv e dello spettacolo, e sul web si trovano ancora immagini di vecchie cartoline e di volantini che pubblicizzavano feste sfrenate. Pian piano però, come succede spesso alle località turistiche che non si rinnovano nella propria offerta, l’interesse verso Consonno cominciò a scemare. Il colpo di grazia in questo caso fu una frana, nel 1976, che cadde proprio sulla nuova strada di accesso al borgo, isolandolo completamente. Evidentemente, far costruire tali imponenti edifici in un territorio ad alto rischio idrogeologico non era stata la migliore delle idee di Mario Bagno. Fu così che la cosiddetta città dei balocchi si trasformò in poco tempo in un paese fantasma, dove il degrado regna sovrano. L’unico edificio che rimase in funzione ancora per qualche tempo fu il Grand Hotel Plaza, che dai primi anni Ottanta venne adibito a casa di riposo. Quando infine venne chiuso e abbandonato, nel 2006, fu immediatamente devastato da uno dei numerosi rave party che ebbero luogo a Consonno nel corso degli anni, e che ora sono severamente proibiti.
Attualmente alcune associazioni stanno cercando di far rivivere il paese fantasma, aprendo la strada ed il bar ogni domenica e organizzando mercatini, feste e manifestazioni, tra cui la festa di San Maurizio a settembre e la “Burrolata” a fine ottobre. Inoltre nel settembre 2017 Consonno è stata un’affascinante location per lo straordinario “Nascondino World Championship”, il campionato mondiale di nascondino, che ha attratto numerosi giocatori. Il borgo è comunque accessibile a piedi ogni giorno, ma a proprio rischio e pericolo: va tenuto infatti in considerazione che la proprietà è privata e gli edifici, una volta scavalcate le precarie recinzioni, non sono affatto sicuri.
Il complesso di Malinska e il paese di Consonno sono solo due dei troppi casi di incuria e degrado di fabbricati a seguito di speculazioni. Gli unici che paiono trarre vantaggio da questo stato di rovina materiale sono vandali, writer e appassionati di questa sorta di “turismo dell’abbandono”. Nel frattempo gli edifici restano lì, sbarrati e silenziosi, affascinandoci con la loro decadenza che racconta di un passato glorioso, aspettano (invano?) tempi migliori per una riqualificazione.
L’anno nuovo porta con sé sempre quella voglia di migliorarsi e di realizzare i propri sogni, e un viaggio cos’è se non un sogno che si realizza?
Ci sono però un sacco di posti meravigliosi da visitare, e decidere dove andare è una scelta difficile. Perciò, dove andiamo nel 2018? L’abbiamo chiesto a Tiziana Mascarello, editor dei titoli fotografici di Lonely Planet.
Ci racconta qualcosa sul suo lavoro?
Lavoro in Edt nell’area Lonely Planet e, oltre che dell’area marketing, mi occupo di selezionare i titoli fotografici che pubblichiamo durante tutto l’anno. Questi libri in genere sono tematici e contengono informazioni e foto di suggestione, che sviluppano da punti di vista diversi per aiutare il lettore a decidere quale meta scegliere. Meta che poi si potrà scoprire durante il viaggio che ne seguirà, sebbene queste pubblicazioni permettano di viaggiare anche rimanendo comodamente seduti in poltrona con il libro in mano.
Lisbona, Portogallo
Qual è stata la meta di maggiore tendenza del 2017 e perché?
Ogni anno a ottobre pubblichiamo Best in Travel, che contiene informazioni riguardanti le mete che Lonely Planet consiglia perché in quel determinato anno accade qualcosa in particolare. Al suo interno vi sono classifiche di destinazioni come i top 10 Paesi, città e regioni, le tendenze di viaggio per il relativo anno e le destinazioni più convenienti.
Nel 2017 le tra le destinazioni top c’era il Canada, perché festeggiava il centocinquantesimo anniversario della nascita del Paese, sancita dal Constitution Act che ne determinò l’autonomia. La meta è piaciuta molto ai nostri viaggiatori, come gli Stati Uniti, consigliati per il centenario dei parchi nazionali: c’erano infatti tariffe particolari, e sono state aperte zone in genere non accessibili al pubblico.
Tra le mete più gettonate negli ultimi anni c’è anche il Portogallo, con un occhio di riguardo per Lisbona che è la destinazione favorita dai viaggiatori all’interno del Paese. Inoltre, tra il 2016 e il 2017 hanno suscitato grande interesse Cuba e l’Islanda, per il fatto di essere entrambe isole molto particolari che incuriosiscono i viaggiatori.
L’Avana, Cuba
Quali saranno le mete da non perdere nel 2018?
Nel Best in Travel 2018 troviamo, per quanto riguarda l’Italia, Matera. La città diventerà Capitale della cultura nel 2019, ma è già pronta a ospitare i visitatori, poiché ha intensificato le attività culturali e, non essendo ancora troppo turistica, è meglio visitabile. Inoltre, a fine dicembre è uscita la prima guida delle Dolomiti, meravigliosa destinazione Patrimonio dell’Unesco, e tra pochi giorni verrà pubblicata la prima guida Piemonte, regione che sebbene poco conosciuta offre un connubio perfetto tra storia, arte e natura tutto da scoprire.
Il viaggiatore Lonely Planet è molto curioso e vuole visitare anche luoghi meno consueti: nel 2018 il Best in Travel consiglia la Georgia, che un secolo fa aveva avuto un breve periodo di indipendenza e festeggia quest’anniversario. Il Paese è ubicato in una regione che ha mantenuto uno spirito tradizionale molto forte, quindi c’è molto da scoprire all’interno di essa.
Per quanto riguarda l’Europa, l’Andalusia è una di quelle regioni che hanno una combinazione vincente tra clima meraviglioso, gente meravigliosa, arte e cultura. Siviglia si sta trasformando in una città sempre più vivibile ed ecologica, e dato che nel 2018 cade l’anniversario della nascita del pittore Murillo, ci saranno diverse mostre dedicate a lui stesso e all’arte barocca.
Un’altra città europea da visitare nel 2018 è Anversa, che quest’anno offre un mix di arte barocca, ospitando un’importante rassegna di pittura a cui prenderanno parte anche artisti fiamminghi. Inoltre, si stanno riqualificando gli spazi più periferici con opere d’arte e architetture particolari e interessanti: la città vuole allargarsi tramite iniziative culturali anche al di fuori del tracciato turistico classico relativo al centro storico.
Anversa, Belgio
Fuori dal continente europeo, la destinazione top del 2018 è il Cile, che festeggia l’importante anniversario dei 200 anni di indipendenza: per l’occasione, è aumentata la quantità di voli che raggiungono il Paese. Il luogo che il viaggiatore indipendente e avventuroso preferisce all’interno del territorio cileno è Valparaiso, città d’arte costiera, dove si respira un’atmosfera suggestiva tra il romantico e il bohémien.
I flussi turistici negli ultimi anni hanno subito anche il fascino del Giappone. Lonely Planet consiglia di visitarne i luoghi meno noti, specialmente la Penisola di Kii che ora è più accessibile e ancora poco turistica.
Ci sono mete che non passano mai di moda?
Una delle destinazioni top di sempre tra le città continua ad essere New York, la cui guida è in cima alle classifiche di vendita da moltissimi anni. In Italia invece è indiscutibilmente la Sicilia, che piace sempre ai viaggiatori.
New York, USA
Ci sono invece destinazioni che hanno riscosso interesse per tempi molto brevi?
La città di Stoccolma ha meno successo rispetto agli anni scorsi per l’emergere di altre destinazioni, e la stessa cosa succede in America latina per la Bolivia, ora meno visitata perché offuscata dal successo turistico di Cile ed Argentina.
Una delle guide meno vendute negli anni è stata quella di Seoul, ma era stata pubblicata anni fa, quando i tempi non erano ancora maturi. Anche la Tunisia era una destinazione molto amata dai visitatori, e oggi Lonely Planet non ha guide su di essa in catalogo.
Viaggi e sicurezza: c’è davvero paura?
La sicurezza inevitabilmente influisce sui flussi turistici, ma alcune destinazioni, come ad esempio Parigi e Barcellona, subiscono un contraccolpo nell’immediato e in seguito si riassestano. Da quello che vediamo e che i nostri viaggiatori ci comunicano attraverso i social e le mail, percepiamo che si continua a viaggiare, per fortuna. Il viaggio è sempre un elemento forte, va oltre alla paura.
Siviglia, Andalusia, Spagna
Cosa cerca oggi il turista?
I viaggiatori di Lonely Planet cercano luoghi particolari e viaggi in cui fare cose, vivere esperienze. È per questo che pubblichiamo anche libri tematici che danno indicazioni su come viaggiare alla scoperta di nuovi luoghi on the road, a piedi o in bicicletta. Si cercano viaggi d’esperienza, che permettano di conoscere un luogo non solo attraverso una visita di passaggio, ma anche tramite attività, per vedere tutto più da vicino. Il viaggiatore è consapevole, si informa e conosce i posti, li vive in modo più approfondito anche attraverso il contatto con i locali e la loro cucina.
Lei dove andrà nel 2018?
A Berlino, che non ho mai visto in estate, e in Asia Centrale, probabilmente nelle zone dell’Iran, ma il viaggio è ancora tutto da costruire.
Il Parlamento è stato sciolto e si voterà il 4 marzo 2018. Ma con quale legge elettorale? Il cosiddetto Rosatellum bis, la legge elettorale promossa da Ettore Rosato, capogruppo PD alla Camera dei Deputati, e approvata definitivamente lo scorso ottobre, è un sistema misto, in cui il 36% dei seggi viene assegnato con sistema maggioritario (in ogni collegio gareggiano un candidato per ogni partito e vince chi tra loro prende anche solo un voto in più) e il 64% con sistema proporzionale (in ogni collegio ciascun partito presenterà un listino composto da due a quattro candidati, che si scontreranno con i listini degli altri partiti). Il “bis” associato al nome del sistema elettorale deriva dal fatto che precedentemente lo stesso Rosato aveva proposto un sistema anch’esso misto (50% maggioritario e 50% proporzionale), detto appunto Rosatellum, che però era naufragato sul nascere.
Come nel precedente sistema Mattarellum, la legge elettorale che fu in vigore dal 1993 al 2005, e nella successiva legge Calderoli (conosciuta come Porcellum, in vigore dal 2005 al 2014), anche nel Rosatellum bis rimane in vigore una rilevante distinzione tra il metodo di elezione dei deputati e quello dei senatori. L’articolo 57 della Costituzione, infatti, impone l’elezione dei senatori su base regionale, mentre l’assegnazione dei seggi della Camera rimane effettuata su base nazionale. Viene così di fatto lasciata intatta la dicotomia tra i due sistemi, che in passato aveva creato governi con “maggioranze zoppe”, ossia esecutivi che potevano non avere una maggioranza in una delle due camere, limitando in questo modo la governabilità del paese.
Quanto allo sbarramento, perché un partito possa entrare in Parlamento, il Rosatellumbis prevede una soglia minima del 3% su base nazionale sia al Senato che alla Camera. In aggiunta è però prevista anche una soglia minima del 10% per le coalizioni di partiti, all’interno delle quali almeno una lista dovrà superare il 3%. Per ciò che attiene la parte proporzionale di questo sistema elettorale è bene sottolineare la presenza delle cosiddette liste bloccate, cioè nelle quali saranno i partiti a nominare la maggior parte dei candidati. Questa è una scelta che per alcuni costituzionalisti sarebbe in contrasto con le indicazioni della sentenza n. 1 del 2014 della Corte Costituzionale, che bocciò i listini bloccati dell’allora Porcellum, poiché non garantivano la possibilità, da parte dell’elettore, di poter scegliere chi votare esprimendo la propria libera preferenza.
Gli italiani saraano chiamati alle urne il 4 mrzo 2018 (Niccolò Caranti/CC BY-SA 2.0).
Dopo la parentesi del cosiddetto Italicum – bocciato dal referendum costituzionale l’anno passato – che premiava le singole liste, tornano inoltre in auge le coalizioni, con le quali i partiti potranno raggrupparsi per sostenersi a vicenda, avendo però la possibilità di scioglierle dopo le elezioni. Ciò potrebbe minare non poco la certezza del voto e la conseguente ricerca di una maggioranza stabile.
Altra novità interessante, anche per le conseguenze politiche, sarà che il voto verrà espresso su una sola scheda (e non con una scheda per la parte proporzionale ed un’altra per quella maggioritaria come prima) senza possibilità di voto disgiunto. Non si potrà cioè votare il candidato dei “Bianchi” presente nella parte maggioritaria e poi scegliere, nella parte proporzionale, il partito dei “Neri”. Ciò di fatto toglierà agli elettori la libertà di scegliere un partito separatamente da un candidato, obbligandoli a scegliere un abbinamento fisso.
Ma quali saranno le ripercussioni sui partiti dopo le elezioni col nuovo sistema? Le larghe intese potrebbero essere l’unica speranza per un governo stabile, ma secondo le stime dei ricercatori dell’Istituto Carlo Cattaneo, anche con questo sistema nessun partito o coalizione riuscirà a ottenere la maggioranza assoluta alla Camera.Per il Partito Democratico, che ha fortemente voluto questa legge, il saldo sarebbe in ogni caso negativo poiché, nonostante possa guadagnare 20 seggi, rispetto alle scorse elezioni sarebbe comunque prevista una riduzione di ben oltre 100 seggi. Al contrario, il Movimento 5 Stelle risulterebbe perdere 24 seggi, ma ne otterrebbe in ogni caso circa 60 in più rispetto alle elezioni del 2013. Sfonda invece la destra con la Lega, che passerebbe dagli attuali 20 seggi a 89, e anche Fratelli d’Italia raddoppierebbe, passando da 10 a 20 seggi. In questa maniera la coalizione di centrodestra supererebbe il Movimento 5 Stelle e il PD.Gli altri partiti della sinistra, nel caso si presentassero uniti, otterrebbero invece poco più di 20 seggi. I piccoli partiti risulteranno quindi fondamentali soprattutto dopo le elezioni, nel caso, molto probabile, in cui le compagini che formano le coalizioni dovessero cambiare. Al Senato è infatti prevedibile un distacco minimo in numero di seggi tra i primi due partecipanti al voto, cosa che farebbe dei piccoli partiti i proverbiali aghi della bilancia in grado di spostare gli equilibri della maggioranza.
Una buona legge elettorale dovrebbe cercare di conciliare due aspetti fondamentali della vita politica di un paese: governabilità e principio di rappresentanza. Il Rosatellum bis, come le precedenti leggi elettorali, segue la bandiera della governabilità a tutti i costi (senza comunque raggiungerla), tralasciando nuovamente il legame, che dovrebbe essere più forte possibile, tra gli eletti e i loro elettori. E’ infatti la contiguità tra il rappresentante e il suo bacino elettorale di riferimento ad generare nel primo quel senso di responsabilità, quella spinta positiva a compiere il proprio operato con disciplina e onore, come recita l’art. 54 della nostra Costituzione, che dovrebbe guidare il mondo della politica. Ad ogni modo, attendiamo fiduciosi di essere smentiti dai fatti.
In copertina: foto di Agenziami (Flickr/CC BY-SA 2.0)
Mi chiamo Anas, sono nato in Marocco e per quasi tutta la vita mi sono riconosciuto in più identità. A 10 anni ritornai in Marocco e i miei zii puntaualmente mi chiedevano: “Ti senti più italiano o marocchino?” Io rispondevo marocchino, ma solo per non deluderli. A 12 anni, mio padre tornò festoso a casa e urlò: “Siamo finalmente cittadini Italiani, 15 anni ho aspettato”. Io non capivo. Ma fino a quel momento, che cosa ero stato? A 13 anni ritornai di nuovo in Marocco, e questa volta risposi ai miei zii in modo diverso: “Sono italiano”. Loro si misero a ridere, perché: “Eh no, sei nato in Marocco e sei musulmano, sarai sempre marocchino, anche per gli stessi italiani“. Diedi la stessa risposta ai miei amici in Marocco e anche loro risero.
A 16 anni, loro, i miei amici d’infanzia in Marocco, sparirono. Prima sparì Zahra, poi Hind, Meriem, Khawla, Abdellah e Semira. Sparirono tutti e anche io un po’ con loro. Sparirono perché a ogni mio ritorno, tutti erano più grandi, avevano interessi diversi, doveri diversi e sogni da realizzare. Ogni volta che ritornavo in Marocco, non avevo che una manciata di parole arabe da usare, poste fra la lingua, le labbra e il mio imbarazzo. Il mio arabo singhiozzante. Quelle poche parole che conoscevo erano l’unità di misura con cui pesavo la mia vita in Marocco. Più di una volta mancarono le parole, ma la mia effeminatezza parlò per me. Tutti avevano compreso la mia omosessualità. “L’Europa l’ha infinocchiato per bene’’. A 16 anni, i miei zii non risero più, anzi. Non ho mai dichiarato guerra alla mia sessualità, ma piuttosto alla mia identità culturale e alla mia cittadinanza.
A 17 anni mi candidai come rappresentante di istituto e di consulta. Vinsi. Mi trovai a difendere la laicità della scuola più di una volta e fui contrario alla messa nell’istituto. Mi dissero: “Tu non comprendi, non capisci la nostra cultura, sei marocchino… Guarda che qui sei solo un’ospite”.
A 18 anni finalmente compresi quello che a 12 non capii, ovvero: avere ufficialmente la nazionalità italiana. A 18 anni votai per la prima volta, mentre vedevo i miei parenti destreggiarsi fra burocrazia e tasse da pagare per rimanere in Italia. A 18 anni mi sentivo anche europeo. A 19 anni avevo già da tempo firmato un accordo di pace con la mia identità marocchina. Mi aiutarono a redigere l’accordo: poeti, scrittori, registi, filosofi, pensatori liberi e artisti. Tutte persone che in quella nazione, il Marocco, sono nate, cresciute e si sono create nel dubbio. A 21 anni, non è la Lega Nord a definire la mia nazionalità o il mio sentire. Sono marocchino, ma anche marchigiano, forsempronese, africano, arabo, italiano, berbero, europeo, mskini e bolognese d’adozione. Se spesso mi contraddico è perché contengo la moltitudine di questi luoghi.
Navigando nei meandri del web capita, a volte, di imbattersi in siti interessanti, particolari. Succede quasi per caso: magari stai ascoltando una canzone su YouTube, sbirciando tra qualche social e, nel frattempo, vuoi compiere una breve ricerca su un argomento che hai poco chiaro. Succede che invece di aprire il primo link, il tuo occhio cada sul secondo e che, spinto dalla curiosità del nome, tu lo apra.
Ecco, questo è ciò che è capitato a me circa due settimane fa. Il sito in questione, o meglio, il blog si chiama Operazione Fritto Misto e, chiaramente, almeno un’occhiata l’ho dovuta dare! Perché… Perché nel nome c’è “fritto misto”; quindi, mi chiedo io: vuoi non aprire un link che ha “fritto misto” nel nome?
Le mie aspettative vengono subito deluse: ingolosito al pensiero di veder apparire sul monitor immagini di ciotole colme di verdure miste e piatti di carni e pesci rivestite di superfici croccanti, non appena lo apro scopro che il blog non tratta solo ed esclusivamente di cucina! Colpa mia che non ho letto tutto il titolo del sito: Operazione Fritto Misto – Ceci n’est pas un blog de cuisine. Causa la mia sbadataggine e forse l’appetito, non avevo colto l’originale punto di vista del blog, racchiuso nella bellissima citazione all’opera di Magritte, Ceci n’est pas une pipe. Di cucina e di ricette se ne parla, diciamo che c’è “Un po’ di cucina” (come titola la rubrica dedicata), ma gli argomenti di cui è possibile leggere spaziano dai libri alle serie tv, passando per i film e diversi viaggi. Insomma, un vero fritto misto!
A incuriosirmi, inizialmente, è più che altro il fatto di capire quale sia il collante, il filo conduttore di tutti questi post; così, esplorandolo un po’ scopro che la proprietaria, nonché unica autrice, si chiama Alice, ha 28 anni, è torinese di nascita e lavora come hostess d’hospitality allo stadio. Una blogger come tante, apparentemente, se non per il fatto che Alice è portatrice della sindrome di Asperger; un disturbo di scoperta relativamente recente, i cui sintomi, difficili da indagare sia per le loro molteplici sfumature sia per la mancanza di informazioni scientifiche circa le cause della sindrome, sono legati alla sfera sociale dell’individuo.
E come nasce l’idea di aprire un blog che parla di sé, in una persona che ha difficoltà nell’avere interazioni sociali? Non resisto all’invito “Contattami” che appare nell’elenco in menù, da cui Alice risponde a tutte le mie curiosità: «Come tutti i possessori di un blog ho iniziato a scrivere per puro piacere. A spingermi ad aprire Operazione Fritto Misto, però, è stata la difficoltà di comunicazione, il bisogno di una forma di socializzazione adatta al mio modo di essere, che conciliasse la necessità di condividere gli interessi alla facilità dell’espressione scritta. Per questo, scrivere, per me, vuol dire comunicare senza pressioni».
Il blog, nato come blog di cucina «vegetariana, simpatizzante vegana», presto si è aperto a una grandissima varietà di temi: «Stavo stretta in mezzo a sole ricette; così ho ampliato gli argomenti e si sono aggiunti i viaggi, Torino, libri e film. Un fritto misto, insomma», mi racconta Alice. E proprio sui viaggi di Alice ritengo opportuno soffermarmi, immaginando non sia facile cambiare ambiente e incontrare nuovi spazi, per chi come lei sente la necessità di vivere in una comfort zone, ossia un ambiente privo di rischi o fonti di ansietà, quanto più familiare possibile: «Per anni ho viaggiato in camper, il che mi ha dato l’opportunità di visitare moltissimo l’Italia, di cui ho amato il giro di tutta la costa sarda e la Puglia; ma anche il sud della Francia, la Svizzera (soprattutto Locarno, città d’origine di mio nonno) e l’Austria. Poi c’è Londra, che mi ha fatto innamorare ancora prima di visitarla, e Copenaghen, che nel periodo natalizio mi è entrata nel cuore».
Così, la sezione “Sì Viaggiare” del blog ha iniziato a prendere forma: in questo spazio, Alice racconta i suoi viaggi, di quelli passati ma anche di quelli che un giorno ha intenzione di fare. A tal proposito ha scritto un articolo, datato Gennaio 2016, dal titolo “Traveldreams 2016 Per Sognare in grande”, in cui stila una lista di quei Paesi che in futuro vorrebbe visitare; dalla Namibia alla Polinesia francese, passando per la Scozia, l’articolo racconta alcune delle fantasie di viaggio che Alice coltiva da tempo . Sorpresa: al punto 6 c’è l’Italia, perché, cito testualmente, «chi l’ha detto che i viaggi da sogno si trovino a distanze transoceaniche?». Nel sito non mancano consigli da viaggiatori: suggerimenti sui trasporti economici, tra cui particolare attenzione ottiene Megabus, cui Alice dedica un #diarioditrasferta su Instagram; innumerevoli recensioni culinarie, non senza riferimenti all’ambienti e all’economia; critiche sincere (irresistibili quelle al Balcone di Giulietta a Verona, la cui parete retrostante è «ormai cimitero di microbi e saliva») e commenti senza peli sulla lingua (ammette che «Parigi mi ha delusa», anche se per affrontarla impara ad apprezzarne il fascino, seguendo il suo principio di «curare la paura con la bellezza»).
Infine una certa attenzione è riservata a Torino, ai suoi eventi, ma anche ai suoi luoghi più nascosti e interessanti; immancabili sono i consigli su dove fermarsi a mangiare, mentre alcune curiosità sui piemontesismi più diffusi potranno aiutarvi nell’approccio ai torinesi.
Alla base di tutti questi viaggi c’è la sindrome di Asperger che la fa (quasi) da padrona. «I primi momenti – mi spiega Alice – non è stato facile perché partire senza i miei genitori, all’epoca parte integrante della mia comfort zone, si è rivelato psicologicamente tumultuoso: ero felice di andare ma inspiegabilmente ero terrorizzata, al punto di stare male per tutta la durata del soggiorno. Non mi sono voluta arrendere, così ho iniziato a cercare un modo per reagire, come faccio nella vita di tutti i giorni».
Ed è da quel momento che le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa, e il viaggio ha assunto, per Alice, un sapore nuovo: «Mi sono accorta che a spaventarmi erano gli imprevisti e l’ignoto come, ad esempio, un metal detector che suona, un quartiere sconosciuto, o persone che mi parlano in un’altra lingua, e che quindi la soluzione era prepararsi adeguatamente, cercando più informazioni possibili senza lasciare troppo al caso. Certo gli intoppi ci sono sempre, ma riderci su e viaggiare con qualcuno di cui mi fido aiuta sempre».
La vita in barca a vela ti insegna a rallentare, ad assaporare ogni momento di libertà e bellezza e ad apprezzare le piccole cose della vita.
Fare il bucato può richiedere due giorni. Spesso l’acqua scarseggia e ti devi lavare con due o tre bicchieri d’acqua. La notte, se senti freddo, devi preparare una borsa dell’acqua calda perché non c’è il riscaldamento. A volte la sera, anche se sei stanco, devi avere pazienza e aspettare di trovare il punto d’approdo giusto per ancorare – non puoi permetterti di lasciare andare la tua casa galleggiante alla deriva.
Questa vita un po’ più difficile ti insegna tanto; ti cambia, ti tempra, ti rende più indipendente, perché libera dall’assuefazione a beni materiali e TV. La sera giochi più spesso a carte o a backgammon; la mattina apprezzi il paesaggio che ti circonda e, lontano da spot e cartelloni pubblicitari, non hai bisogno dell’ultimo modello di cellulare. E’ una vita più ricca, più piena: hai tempo per ammirare altre barche entrare in porto, notare la sagoma di un delfino all’orizzonte e parlare a una foca mentre si avvicina alla tua imbarcazione, sperando venga a salutarti più vicino.
[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]
Dopo aver mollato tutto per andare a vivere su una barca, la nostra tanto attesa avventura è iniziata lenta: Ryan ed io abbiamo trascorso il mese di Maggio ormeggiati sul fiume Penryn, in Cornovaglia, preparando la nostra barca Kittiwake per la traversata della Manica. Da una parte, molto del nostro tempo è stato impegnato in modifiche e migliorie: abbiamo, tra molte altre cose, sostituito tutto il sartiame, installato una nuova toilette ecosostenibile, aggiunto un rubinetto d’acqua salata, costruito un mini armadio per i vestiti. Dall’altra, abbiamo lavorato sodo sui nostri progetti freelance per guadagnare qualche soldo.
Approfittando dei ritagli di tempo tra un lavoretto e l’altro e delle numerose visite di parenti e amichi, venuti a salutarci prima che salpassimo, abbiamo esplorato la costa vicino a Falmouth. Abbiamo portato la maggior parte dei nostri ospiti a St Mawes, un caratteristico paesino della Cornovaglia situato sulla penisola di Roseland. Qui abbiamo ancorato nella bella Cellar Bay: una piccola baia dalle acque calme, circondata dal verde; era il punto ideale per un pranzo al sole sul ponte!
Ci siamo anche avventurati un po’ più lontano, navigando verso la spiaggia di Bohortha. Il freddo ha frenato me, ma Ryan ha avuto il coraggio di fare un tuffo nell’acqua verde smeraldo (indossando muta invernale), per andare a guardare la nostra ancora sott’acqua.
[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]
Verso la fine del mese abbiamo deciso che Kittiwake era pronta per salpare: non potevamo più aspettare! Un veloce sguardo alle previsioni è stato sufficiente a convincerci che attraversare la Manica sarebbe stato impossibile: i venti erano previsti da est (proprio a prua) e sembrava anche tendessero a indebolirsi nei giorni successivi.
Abbiamo deciso di usare il vento a nostro favore e spostarci verso ovest, con la brezza e le onde a poppa. Siamo così partiti alla volta del fiume Helford; la prospettiva di stare all’ancora in un altro fiume non era molto emozionante, ma ci stavamo finalmente muovendo (lentamente) verso sud, abbandonando la sicurezza del nostro ormeggio.
Dopo una lunga e impegnativa giornata di navigazione, abbiamo calato l’ancora vicino a una spiaggia selvaggia, alla foce del fiume Helford. Eravamo stanchi e affamati, quindi appena arrivati abbiamo cenato e siamo andati direttamente a letto.
[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]
Nel mezzo della notte, verso l’una, un rumore ci ha svegliati all’improvviso: era un costante toc toc toc. Ryan è saltato fuori dal letto per vedere cos’era, sperando che nulla si fosse rotto a bordo; dopo meno di un minuto, sento Ryan che mi urla: «Elena! C’è la bioluminescenza!».
Più veloce di un ghepardo sono schizzata fuori dalla cabina senza giacca né scarpe e sono corsa nel pozzetto. Ryan era a poppa, chinato a guadare l’acqua; mi sono avvicinata e ho subito notato l’alone verde che avvolgeva la nostra scaletta. Abbiamo preso un secchio e l’uncino e abbiamo iniziato a muovere l’acqua e schizzarla il più veloce possibile: come per magia, centinaia di particelle di plancton si sono illuminate attorno a Kittiwake. Ryan ed io non potevamo smettere di ridere e condividere espressioni di stupore; siamo tornati a letto mezz’ora dopo, incapaci di dormire.
[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]
Il giorno seguente ci siamo svegliati di fronte ad un paesaggio che somigliava a quello di Jurassic Park: la spiaggia di fronte cui eravamo ancorati aveva una sabbia chiara che rendeva l’acqua verdissima trasparente e, alle spalle, una foresta di alberi altissimi. Nel tardo pomeriggio Ryan ed io, con il nostro tender Marica, abbiamo raggiunto la riva a remi e abbiamo esplorato la spiaggia e il bosco, godendoci una camminata di tutto relax sulle belle rocce.
Mentre remavamo per tornare a “casa”, abbiamo visto dei delfini all’orizzonte nella baia di Falmouth, così ci siamo affrettati per tornare a bordo e guardarli meglio con il cannocchiale: erano almeno una decina. Non appena saliti a bordo, ci siamo accorti che l’acqua formava centinaia di piccoli mulinelli tutto attorno alla barca. Ryan, velocissimo, ha preso la canna da pesca e nel giro di tre minuti aveva pescato uno sgombro gigante, dopo cinque minuti ne ha pescato un altro: la cena era assicurata!
Dopo il delizioso pasto (sgombro in olio e aglio e patate lesse, con burro e rosmarino), verso le dieci e mezza, è calato il buio; non essendo ancora stanchi, abbiamo deciso di testare l’acqua per vedere se c’era ancora bioluminescenza. Non appena abbiamo provocato qualche spruzzo, il plancton è tornato a mostrare la sua vitalità luminescente.
[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]
Ryan ed io siamo saltati a bordo di Marica e abbiamo remato attorno a Kittiwake spruzzando plancton fluorescente ovunque, giocando con l’acqua e ammirando la scia di stelle che il nostro tender si lasciava dietro. E’ stato un momento magico.
Non ci mancava nulla – né il nostro vecchio appartamento, né il riscaldamento, né Netflix. Questa bellissima serata valeva più di tutti i comfort cui avevamo rinunciato. A volte i posti più inaspettati diventano i più cari nella tua memoria.
[ph. Elena Manighetti/Sailing Kittiwake – Tutti i diritti riservati.]
Innegabili i passi da giganti fatti nel XXI secolo dal movimento LGBT, che nella sua costante richiesta di diritti a istituzioni politiche spesso sorde, ha portato a trasformazioni di forte portata sociale, prima ancora che politica: dall’inserimento delle minoranze discriminate nel mondo del lavoro e della politica, al riconoscimento delle unioni civili, fino alla ridefinizione del concetto d’identità di genere. Quelle delle istituzioni italiane, sembrano però più risposte elaborate di caso in caso per far fronte a necessità (spesso già disagi) ormai innegabili, piuttosto che la presa di coscienza della varietà sociale e delle esigenze di una tale varietà. Ciò si traduce in un’assenza di politiche e soprattutto d’infrastrutture al passo con il progresso previsto dalla legislazione, sopperita solo grazie alla straordinaria capacità di coesione e associazionismo che in questi anni il movimento LGBT ha dimostrato possedere. Un esempio concreto viene dal mondo del transgenderismo: già dagli anni ’80, la legge prevede il riconoscimento del sesso di transizione, ma lasciando ai tribunali discrezionalità sulle prerogative richieste e, nello specifico, sulla necessità o meno dell’intervento chirurgico adeguato ai dati anagrafici. Mentre si moltiplicano negli ultimi anni i ricorsi e le sentenze che riconoscono il genere acquisito senza intervento chirurgico, non sembra essere ancora in programma un sistema socio-psico-sanitario nazionale capace di operare nella realtà transgender. È ancora una volta il movimento stesso a dar vita a strutture che, oltre a offrire supporto medico e legale, accompagnino nel percorso di transizione, attraverso sportelli aperti, incontri di gruppo e sedute con psicologi. Un esempio concreto di questa cooperazione arriva dal Veneto, dove dal 2011 è attivo il Servizio Accoglienza Trans (SAT).
Promosso presso la sede del Circolo Pink (una tra le associazioni LGBT più datate della penisola: nata come circolo Arcigay nel 1985), il SAT è stato inaugurato prima a Verona e poi a Padova, accogliendo nell’arco di sei anni di attività le richieste di quasi 300 persone. A spiegarci l’attività del SAT è Ilaria Ruzza, responsabile del punto d’ascolto aperto a Padova nel 2015: «Il Servizio si rivolge alle persone trans, transgender e gender variant che ravvisano la necessità di trovare un luogo in cui le loro esigenze siano accolte e ascoltate. Per alcune persone si tratta di iniziare il percorso di transizione; per altri, anche solo il poter parlare in merito alla propria identità di genere e/o orientamento sessuale è utile per fugare alcuni dubbi. Tutti/e gli/le operatori/trici che prestano servizio nel SAT hanno il compito di accogliere chi a noi si rivolge, ascoltare necessità, incertezze, perplessità e cercare di dare una risposta pratica e concreta a queste esigenze». Il Servizio affianca quanti vi si rivolgono dando rilievo a tutti gli aspetti e alle componenti coinvolti in un processo di transizione: oltre ai colloqui con operatori/trici, si propongono «gruppi di auto mutuo aiuto, gestiti da persone trans per persone trans, e momenti di incontro per i genitori di persone trans/transgender»; sono disponibili inoltre professionisti, «come una psicologa psicoterapeuta, un medico endocrinologo e due avvocati». Servizi non sempre facili da offrire, spesso proprio a causa di una politica che continua a nascondersi necessità impellenti: «La difficoltà più grossa che riguarda il Servizio –spiega ancora Ilaria Ruzza- è senza dubbio la mancanza di un finanziamento stabile e continuo: tutti gli operatori sono volontari, abbiamo le spese di una sede da mantenere (affitto, utenze, etc.), nonché quelle relative alla stampa dei materiali e ai rimborsi spese dei volontari. Inoltre, molto spesso ci scontriamo con una realtà estremamente bigotta e retrograda, soprattutto a Verona, che ci impedisce la realizzazione di alcune iniziative». Tra gli esempi più recenti di questo ostruzionismo silenzioso, la mancata partecipazione di due operatori trans del SAT all’incontro previsto per martedì 16 maggio presso l’Università di Verona, in occasione della Giornata Internazionale contro l’OmoLesboBiTransfobia: l’invito, avanzato dagli studenti di medicina, è stato revocato all’ultimo per ragioni d’indisponibilità di aula e di procedure di comunicazione interna all’università; motivazioni che hanno sollevato diversi dubbi, in primis all’interno dello stesso Circolo Pink.
Del resto, sebbene molteplici siano i segnali di apertura, una forte discriminazione sociale continua a investire l’universo transgender, come ci spiega Ilaria Ruzza quando le chiediamo quali siano le maggiori difficoltà che una persona trans si trova ad affrontare: «Sicuramente le difficoltà provengono al 98% dall’ambiente sociofamiliare in cui la persona trans, transgender o gender variant è inserita. E’ innegabile che vi siano ancora una serie infinita di luoghi comuni negativi che riguardano il mondo T* (uno su tutti, il binomio che è quasi automatico tra donna trans e prostituzione), che molto spesso vengono introiettati dalle famiglie, dai parenti e dagli amici delle persone trans che, dunque, si mostrano ostili o poco disponibili nei loro confronti. L’immagine, poi, che viene restituita dai media non aiuta in tal senso, dato che frequentemente si associano le persone trans (e specialmente le donne) a episodi di violenza, tossicodipendenza o fatti di cronaca. La realtà del mondo trans, in verità, non è molto diversa da quella di tutti gli altri: fatta di quotidianità, difficoltà, affetti e amicizie». Non molto diverso da quello di “tutti gli altri” è anche l’obiettivo che il SAT si propone e che Ilaria Ruzza spiega raccontando di uno dei momenti più felici vissuti lavorando nel SAT: «L’anno scorso, anche a Verona, è stato organizzato Mister T, un concorso di “bellezza” per ragazzi trans. Per noi è stato davvero entusiasmante vederli sfilare sul palco, orgogliosi, fieri, entusiasti e felici. Che poi, è come vorremmo fossero tutti i giorni!».
Spiegando le motivazioni per cui è entrata a lavorare nel SAT, accanto a uno spiccato senso etico sociale che altruisticamente anela a un continuo ampliarsi dei diritti, Ilaria Ruzza mette ancora una volta in luce la portata della rivoluzione cui il movimento LGBT ha dato avvio: «Personalmente, stare nel Sat Pink è il modo più concreto e efficace di fare politica: agevolando il non sempre facile percorso di transizione, in un paese per molti versi ostile come lo è alle volte il nostro. Inoltre, è un eccellente modo per potersi mettere in discussione su quelli che sono gli stereotipi legati al genere e al binarismo sessuale nei quali siamo cresciuti e che quotidianamente si ripresentano nella nostra vita».
Il tema che riguarda la comunità LGBT, che comprende lesbiche, gay, bisessuali e transessuali, è un tema assai sensibile, per via della visione, spesso distorta, che la società ha di questo fenomeno. Vero è che più il tempo passa e più la società (non con poca fatica) cerca di lasciarsi dietro le incrostazioni retrograde figlie di una concezione della vita spesso bigotta e conservatrice, per nulla al passo coi tempi. Per comprendere il fenomeno LGBT (e quello della transessualità nello specifico) è necessario introdurre il concetto di identità di genere. Essa è definita da come ciascun individuo sente di essere ossia il suo sentimento profondo di femminilità o mascolinità, in relazione al ruolo di genere ovvero ciò che è socialmente e culturalmente definito come maschile o femminile e che risponde alla norma sociale e alle credenze condivise dalla maggioranza. L’orientamento sessuale è invece definito dall’attrazione sessuale che ciascuno sente verso uno dei due sessi, o verso entrambi. È evidente perciò che questi tre caratteri sono presenti all’interno di ciascun individuo con combinazioni singolarmente differenti. Legata all’identità di genere è la condizione di “transessuale”, usata per indicare gli individui che sviluppano un’identità di genere definita (maschile o femminile), ma opposta al sesso biologico di nascita, che verrà quindi “corretto” con terapie ormonali o con la chirurgia per adeguare il proprio corpo alla propria identità.
Il processo di transizione è composto da molte fasi: prima fra tutte quella psicologica, con la quale si valuta la situazione e l’impatto che i passi successivi possono avere sulla persona, mentre la seconda fase, quella della terapia ormonale, ha lo scopo di modificare i caratteri sessuali terziari, per quanto possibile, ed inibire manifestazioni fisiche proprie del sesso biologico di appartenenza (erezione, eiaculazione e ciclo mestruale). Successivamente si avrà l’iter legale: la legge 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) prescrive che, nel caso la persona interessata richieda la riconversione chirurgica del sesso, trascorsi due anni dall’inizio del percorso psicologico, i professionisti che l’hanno seguita stilino delle relazioni sulla persona stessa e sul percorso effettuato. Queste verranno utilizzate a supporto della richiesta di autorizzazione all’intervento chirurgico che deve essere inoltrata al Tribunale. Successivamente è necessario un secondo ricorso, col supporto della cartella clinica che attesti l’avvenuto intervento, per ottenere la rettifica dei dati anagrafici, a cui segue la lunga attività di correzione di tutta i documenti (patente, titoli di studio, ecc. ecc.). Va però detto che la Cassazione, con la storica sentenza n. 15138 del 2015, ha statuito che il cambio di sesso di una persona non può essere determinato soltanto dall’intervento chirurgico. Anche in mancanza della demolizione e ricostruzione degli organi genitali “il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale”, onde per cui la rettificazione di sesso legale non è più subordinata in assoluto alla variazione anatomica del soggetto.
Fonte: Pixabay / CC0 Public Domain
Per quanto attiene la situazione delle coppie omosessuali, non è possibile non citare un altro storico provvedimento legislativo, quello della legge n. 76 del 2016 recante Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze. La cosiddetta legge Cirinnà prende spunto dagli annosi dibattiti che hanno spinto in tutta Europa all’approvazione (seppur non uniforme nel tempo e nei modi) di norme che recepissero le istanze della comunità gay. Ciò è avvenuto anche su impulso del Parlamento Europeo, che nel 2007 aveva invitato “tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso”. La legge Cirinnà ha introdotto quindi delle unioni fondate su vincoli affettivi ed economici alle quali l’ordinamento riconosce uno status giuridico analogo a quello attribuito al matrimonio e che possono essere costituite tra persone maggiorenni e dello stesso sesso effettuando una dichiarazione all’ufficiale di stato civile. La coppia assume diritti e doveri quasi del tutto simili a quelli del matrimonio (ad esempio l’obbligo alla coabitazione, all’assistenza morale e materiale, a contribuire ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanze e alla rispettiva capacità di lavoro, sia professionale che domestico), mentre sono stati espunti dalla legge sia l’obbligo di fedeltà che quello di collaborazione, che invece scaturiscono dal matrimonio.
Come previsto per il matrimonio, anche in tema di regime patrimoniale al momento della costituzione di un’unione civile la coppia è chiamata a scegliere tra quello della comunione e quello della separazione dei beni. Oltre a tutto ciò, l’unione civile si differenzia dal matrimonio per altri aspetti. Per prima cosa il cognome di famiglia viene scelto dalla coppia tra quelli dei due uniti, dichiarandolo all’ufficiale di stato civile. Inoltre lo scioglimento dell’unione ha effetto immediato, non essendo prevista l’equivalente della separazione. Altra fondamentale differenza rispetto al matrimonio tra coppie eterosessuali deriva dal fatto che, ad oggi, la legge non contiene l’adozione del figlio minore di un componente della coppia da parte dell’altro (la cosiddetta stepchild adoption), anche se la Cassazione, con la sentenza n. 12962 del 2016, ha dato il via libera all’istituto come garanzia di tutela dell’interesse preminente del minore.
Tanto altro ci sarebbe da fare, come ad esempio una buona legge contro la discriminazione di genere (nel 2013 era stato presento il cd. Ddl Scalfarotto per l’estensione della legge Mancino anche ai crimini motivati dall’identità sessuale della vittima, attualmente fermo al Senato dal 2014), ma come tutti i temi etici resta fermo l’assunto secondo il quale è la società, attraverso un percorso pedagogico, a dover attuare una rivoluzione culturale profonda. Puntare tutto sulle norme giuridiche, seppur importante tassello nel disegno globale, è spesso un approccio fallimentare. Ci auguriamo quindi che in un prossimo futuro la nostra società sia in grado di fare finalmente un salto di qualità sul fronte dei diritti civili e umani fondamentali.
C’è una leggenda nel paese cui sono legate le radici materne di Sara, a spiegazione di una buffa donazione che dal 1500 a oggi fa mostra di sé, non senza polemiche e dispute teologiche, nel Santuario della Madonna delle Lacrime, all’ingresso di Ponte Nossa, nascosto tra le montagne bergamasche: la leggenda del coccodrillo. «Il coccodrillo appeso in Chiesa- racconta da anni la nonna di Sara ridendo -viene dall’Adriatico e ha risalito il Po prima, il fiume Serio poi, arrivando fino a qui. Ma mangiava solo giovani vergini e a Ponte Nossa è morto di fame». Straordinario è che trovi il racconto divertente, anziché offensivo; Antonella, sua figlia, spiega così le origini di un pensiero tanto emancipato: «Il paese è formato soprattutto da forestieri, persone nate in paesi più o meno limitrofi e arrivate qui per lavorare nelle industrie fiorite ai margini del fiume. Quando ero bambina, Ponte Nossa era limitato alla via del centro e poche altre case sparse, circondate da distese di campi e boschi; negli anni ’60 sono apparsi i primi condomini e il paese ha iniziato a trasformarsi in un villaggio operaio, anche se un po’ atipico per via della dislocazione montana». La fissità che gli occhi di Sara hanno sempre attribuito al paesaggio di Ponte Nossa è molto meno datata di quanto avesse supposto: «Dagli anni ’50 il paese è cambiato molto. –continua Antonella- Pensa alla strada provinciale, su cui le case un po’ vecchie si affacciano a strapiombo: da ragazza vedevo passare soprattutto carretti, le macchine erano poche e lente; oggi le sue due corsie non bastano più e quotidianamente è intasata dal traffico».
Ponte Nossa (BG), area industriale [ph. Ago76 /CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons]
A preservare Ponte Nossa è il suo isolamento, la distanza da grandi centri urbani e la collocazione geografica che ostacola una cementificazione eccessiva; negli stessi anni in cui esso assumeva le sembianze di un ameno centro abitativo montano, altri paesi di provincia perdevano il proprio aspetto caratteristico, inglobate da un’urbanizzazione incipiente. «La zona dove abitavo a Mestre, nei pressi di via Garibaldi, è ora parte del centro, ma all’epoca, negli anni ‘60, era quasi in periferia, proprio al limitare della città. –racconta ad esempio Raffaella Rossin- La mia realtà era un misto di città e campagna. Abitavo in un condominio, ma appena dietro casa mia iniziavano i campi, dove andavamo sempre a giocare. Diversi ragazzini del centro venivano apposta nella nostra zona il pomeriggio o la domenica, attirati dai grandi spazi che permettevano più libertà di movimento e di svago; la maggior parte dei nostri giochi si svolgeva all’aperto e in gruppo: mosca cieca, pescatore (una sorta di “lupo”, ndr), campanon, calcio. Spesso ci facevamo dare delle cassette vuote dal fruttivendolo del quartiere e le usavamo di volta in volta come fortino, casa, negozio, a seconda del gioco che si faceva. Da questi campi in cui da bimba scorrazzavo, oggi passa la tangenziale interna». Della stessa drastica trasformazione, Raffaella racconta quando parla della campagna ferrarese, dove da bambina trascorreva le vacanze, ospitata dai nonni: «I miei nonni materni vivevano in un’enorme casa nei pressi di Ro Ferrarese, piuttosto isolata e vicina a un pioppeto, concessa loro in usufrutto per il lavoro di mio nonno, che faceva il taglialegna. La casa era poco funzionale, non aveva elettricità, né acqua corrente, con il bagno in cortile e la stufa a legna per riscaldarla, ma per noi bambini era stupenda, piena di stanze misteriose e con tutto lo spazio per giocare e correre. C’erano inoltre pulcini e conigli da rincorrere e cui dare da mangiare, nonché i giochi in legno costruiti da mio nonno, semplici, ma che a noi bastavano. Gli animali non mancavano anche nella casa dei miei nonni paterni, che abitavano in un borgo di campagna ed erano agricoltori. Qui davamo da mangiare a galline e maiali e spesso aiutavamo i nonni nei campi, raccogliendo la frutta, il frumento e dando una mano nella stagione della vendemmia. Tutti questi luoghi oggi non esistono più: l’enorme casa patriarcale dei miei nonni e il pioppeto sono stati rasi al suolo e rimpiazzati da abitazioni moderne; il borgo agricolo è abbandonato e in rovina. Quando ritorno nei luoghi della mia infanzia, mi si stringe il cuore e non li riconosco più: restano solo i miei ricordi, che mi tengo ben stretti».
Tangenziale di Mestre (Autostrada A57) [ph. Luca Fascia via Wikimedia Commons]
Una campagna che si preserva uguale a se stessa è, invece, quella che descrive Pacifico parlando della casa dei nonni, in provincia di Benevento: «Il casolare è ancora lo stesso in cui è cresciuto mio nonno e io giocavo da bambino, circondato da distese di campi; il terreno andrebbe tenuto meglio, coltivato e organizzato, così come andrebbe ristrutturata la casa, ma per farlo servono soldi che noi eredi non abbiamo. Un amico ha investito un piccolo capitale che aveva da parte in attività di questo tipo: acquista i casolari sparsi nella campagna beneventina e li rimette in funzione, sia recuperando le attività tradizionali sia integrando con il turismo». Ben preservato è anche il paese di Faicchio, dove Pacifico ha trascorso la sua infanzia, che dal monte Acero si affaccia su queste campagne, conservando memoria delle origini sannitiche nella cinta muraria che ne cinge la vetta: «Nel corso del Novecento, il numero di abitanti e case è ovviamente aumentato anche qui, ma fino alla fine del secolo ha mantenuto pressoché lo stesso aspetto, caratterizzato da monumenti delle diverse epoche storiche: dall’acquedotto romano in cui da bambino mi infilavo per attraversare il centro del paese, al Castello Ducale, con le sue cappelle affrescate e gli arredi settecenteschi». Le nuove normative edilizie hanno però comportato rimaneggiamenti per la messa in sicurezza di alcune aree, portando a restauri talvolta molto discussi; Pacifico riporta l’esempio del Ponte Fabio Massimo: «Era un ponte bellissimo, basato su una struttura fatta dai sanniti: qui i sanniti hanno respinto l’attacco dei romani, Fabio Massimo ha frenato l’avanzata di Annibale e la stessa strategia è stata adottata in uno scontro tra un contingente tedesco e una divisione statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 2008 un architetto l’ha restaurato e adesso è orribile: ha una copertura moderna che nasconde tutto il fascino della struttura in pietra, che mostrava i restauri stratificati delle diverse fasi della repubblica romana».
Di un’attenzione particolare alla conservazione dello stile del proprio paese racconta Gabriele, nato a Polizzi Generosa, Comune alle porte di Palermo: «La Soprintendenza alle Belle Arti impone una certa attenzione a qualsiasi rimaneggiamento del ricchissimo patrimonio artistico e culturale del paese, per il quale però spesso mancano risorse. Negli ultimi anni si nota una concentrazione degli sforzi su alcuni punti di maggior interesse: piuttosto che far poco per tanto, si è scelto di fare tanto per pochi. L’esempio più lampante sono i lavori di restauro della Chiesa Madre, che hanno permesso di completare la pavimentazione (assente da che ho memoria), rinnovare la sacrestia e creare un piccolo museo, e quelli del Palazzo Comunale, che hanno riportato alla luce i resti di una necropoli greca, oltre che fatto emergere il vecchio cortile. Dal punto di vista dell’attività edilizia, il paese sembra invece essersi fermato con l’avvento del nuovo millennio: non ci sono più cantieri e anche l’economia sembra aver subito un brusco rallentamento». Il paese di Polizzi, figlio di ventisette secoli di storia, fondato dai sicani e influenzato poi dalle dominazioni greca, araba e normanna, ha fatto della preservazione del proprio patrimonio un baluardo, forse memore di un episodio storico che Gabriele dice tramandato nella memoria popolare fino ad oggi: «Fino al Settecento, il fonte battesimale della Chiesa Madre era retto da una statua della dea Iside ritrovata in uno scavo; nel 1771 il vescovo di Cefalù, ritenendola blasfema, ne ordinò la distruzione, nonostante le proteste degli abitanti, che fino a oggi ne conservano ricordo nell’etimologia di Polizzi: la Polis Isis, la Citta di Iside».
Polizzi Generosa (PA) [ph. Neekoh.fi /CC 2.0 via Wikimedia Commons]Articolo scritto da Sara Ferrari e Lucia Ghezzi Si ringraziano per la disponibilità Antonella Ferrari, Raffaella Rossin, Pacifico Ciaburri, Gabriele Brancato.
[In copertina: Faicchio, vista panoramica da monte Erbano (ph. Adam91/CC BY-SA3.0 via Wikimedia Commons)]
«Fa un freddo terribile e questo vento prima o poi mi porterà via». E’ febbraio e sono a Falmouth, in Cornovaglia, sulla mia barca. Ho guidato sette ore il venerdì sera per arrivare qui per alcuni lavori di sistemazione da fare sull’imbarcazione; e proprio questo weekend c’è una tempesta. Sto aiutando il mio ragazzo Ryan a salire in testa d’albero del nostro piccolo catamarano per misurare il sartiame. Mentre saltello qua e là da un lato all’altro dello scafo, tendendo il metro avvolgibile e scribacchiando numeri, controllo che Ryan ci sia ancora: questo vento potrebbe farlo cadere dai dieci metri d’altezza a cui si trova. Per un secondo l’idea di mollare un buon lavoro, il caldo confortevole di una bella casa, seppure in affitto, gli amici e la famiglia, e partire all’avventura su una barca a vela mi pare assurda. Poi, non appena Ryan scende al sicuro e siamo al riparo nella cabina, con tutte le misure che ci servono scritte sul mio quaderno, sorrido. Lo stiamo veramente facendo: stiamo sistemando la nostra barca e finalmente salperemo per il Mediterraneo. Una decina di mesi fa, lo scorso Maggio, mi stavo rilassando su una spiaggia naturale, camuffata e nascosta tra le coste di Maiorca, lontano dal tempaccio inglese e dai resort affollati dell’isola spagnola. Stressatissima a causa del mio lavoro come capo di dipartimento di un’agenzia di marketing digitale a Manchester e riluttante all’idea di riprendere l’aereo di lì a pochi giorni, ho iniziato a divagare in riflessioni sulla vita: «Perché dobbiamo per forza ammazzarci di lavoro fino ai settant’anni, per poi goderci dieci o quindici anni di dolce far niente, magari costretti in un letto di ospedale? Chi l’ha deciso? Chi dice che dobbiamo per forza accantonare tutti i nostri sogni e sperare di poterli realizzare solo quando saremo vecchi e stremati?» A un tratto, la vita regolare che pure mi aveva regalato non trascurabili soddisfazioni, non aveva più senso. Mi ero resa conto di trascorrere la routine quotidiana di quella vita che i più considerano normale, in attesa di quei momenti di pausa, spesso vissuti a contatto con la natura, che mi ridavano energia; stavo vivendo solo per arrivare al weekend per fare arrampicata oppure per le vacanze dedicate allo scuba diving. Per la prima volta nella mia vita, ho capito che non dovevo per forza adeguarmi. Ho la fortuna di poter fare il mio lavoro ovunque, a patto di avere una buona connessione internet, quindi perché rimanere intrappolata in una città grigia e fredda nel Regno Unito? Ho sempre avuto troppa paura di mettermi in proprio come freelancer perché avevo affitto e bollette da pagare, ma vivere in barca a vela elimina tutti questi costi e i relativi problemi. Quindi, eccomi qui. Sto per iniziare l’avventura più rischiosa, ma anche la più emozionante della mia vita! A fine Agosto 2016, io e Ryan abbiamo comprato un catamarano Heavenly Twins costruito nel ’77, lungo poco meno di otto metri. Non è grande, ma ha tutto ciò che serve: cambusa con forno e fornelli, cuccetta matrimoniale, “soggiorno” e bagno. Sarà la nostra casa galleggiante per il futuro prossimo. La barca, che abbiamo chiamato Kittiwake, ci è costata meno di un’auto nuova e vivremo a bordo frugalmente e in modo ecosostenibile, una scelta etica che avremmo sempre desiderato fare e che ora potremo realizzare. Ciò che fa sentire me e Ryan vivi sono le avventure: campeggiare su isole deserte, scalare scogliere, conquistare la cima di una montagna, fare snorkeling con le tartarughe marine, … Così, nel mese di Maggio sistemeremo al meglio Kittiwake per renderla confortevole e poi partiremo alla volta del Mediterraneo, entro Giugno 2017. Nell’attesa di partire, tra una riparazione e l’altra, fantastichiamo su mete sempre più lontane, pur avendo già ideato un tragitto definitivo. Facilmente ci scontreremo con ostacoli climatici che ci rallenteranno e non siamo certi delle miglia nautiche che realmente riusciremo a coprire: la sicurezza è per noi la cosa più importante, consapevoli che vivremo in balia dei movimenti del mare e del vento, ma la nostra ambiziosa rotta è disegnata sulla mappa! Partiremo da Falmouth, in Cornovaglia, e attraverseremo la Manica vicino a Salcombe, in Devon. Da lì costeggeremo la Francia fino alla baia di Biscay, che in parte dovremo attraversare di notte per mancanza di punti d’approdo cui ancorare la barca. Esploreremo poi il nord della Spagna e il Portogallo, dove trascorreremo le notti cullati dalle tranquille acque delle foci dei fiumi, protetti dalle correnti vigorose dell’oceano. Qui, speriamo di riuscire a fare qualche arrampicata sulle impressionanti scogliere portoghesi e, chi lo sa, magari impareremo anche a fare un po’ di surf. Raggiunto il sud della Spagna, attraverseremo lo stretto di Gibilterra e ci dirigeremo verso le isole Baleari; abbiamo deciso di dedicare un intero mese all’esplorazione delle belle isole spagnole e delle loro cale naturali, cogliendo l’occasione anche per qualche allenamento nel freediving. Navigheremo poi nel Mare di Sardegna, per arrivare sull’isola italiana nei pressi di Portoscuso; di qui, percorreremo la costa sarda verso sud per avvicinarci alla Sicilia, sfioreremo il Tirreno e raggiungeremo quindi il Mare di Sicilia e Marsala. Dopo aver costeggiato la parte sud-ovest dell’isola, dovremmo attraversare nuovamente il Mare di Sicilia, questa volta in direzione di Malta. Qui, trascorreremo l’inverno navigando, tempo permettendo, tra le isole di Comino, Gozo, Cominotto e gli scogli minori di St. Paul’s e Filfola; speriamo anche di poter fare diving prima che arrivi il freddo, così da poter vedere i cavallucci marini. Ci avventureremo alla volta degli spettacolari sentieri e falesie dell’arcipelago maltese tra Novembre 2017 e Marzo 2018; Malta ha inverni molto miti e spesso le temperature sono intorno ai venti gradi fino a Natale, quindi è il posto ideale per svernare. E poi? E poi chi lo sa. Non abbiamo piani per il futuro, ma sappiamo che vogliamo vivere una vita più significativa e avventurosa, una vita che non ci intrappoli dietro una scrivania o davanti alla TV. Potrete seguire la nostra esperienza sul nostro blog sailingkittiwake.com e sui social: per ora siamo su Twitter e Facebook, ma documenteremo il viaggio anche su YouTube, non appena partiremo.
Seduti in giardino, tra l’aria temperata di questo finire di Marzo che illude di una Primavera 2017 che ci restituisca finalmente le mezze stagioni, con Davide osserviamo la fortuna di vivere entrambi immersi nel verde, lui rifugiato tra le colline maremmane, io nascosta tra le montagne bergamasche, ancora a contatto con la natura che ciclicamente muta colori, dando nuovo aspetto ai paesaggi e ricordando lo scorrere del tempo.
Rispettare la scansione dei mesi che la luna impone alla natura è la prima regola dei coltivatori diretti come lui, conoscitori del mutare del tempo e delle stagioni, e non è certo una novità che la produzione intensiva che ha fatto seguito all’industrializzazione e al progresso, affermando esigenze di mercato che vogliono quotidianamente cibi freschi disponibili tutto l’anno, sia tra le principali cause del disequilibrio creatosi tra le risorse a disposizione e il numero di persone che abitano il pianeta Terra; ma fattualmente esiste una possibilità per sfamare la popolazione mondiale senza sfruttare la terra oltre l’eccesso?
«Esiste la permacultura, – mi spiega Davide, che da un paio d’anni sta frequentando seminari su questo criterio applicato in agricoltura – che propone un approccio etico alla terra, in vista di uno stile di vita ecosostenibile».
Bill Mollison, fondatore della permacultura, e il suo manuale introduttivo, tradotto in italiano da Terra Nuova Edizioni
La permacultura, dall’inglese permanent culture (o permanent agriculture), consiste in una strategia di progettazione del territorio, elaborata negli anni ’70 da Bill Mollison e David Holmgren, attraverso lezioni, conferenze e manuali, che parte dall’osservazione dell’ambiente, per una sua organizzazione funzionale finalizzata alla permanenza nel tempo. Nato in un villaggio di pescatori in Tasmania, negli anni ’50 Mollison osservò l’incipiente deterioramento di alcuni ambienti naturali dell’isola natia e la progressiva carenza di risorse; dopo un breve periodo da attivista resistente, dedicò la sua vita all’insegnamento, concentrando le proprie ricerche verso stili di vita sostenibili e ideando con Holmgren questa sorta di disciplina, che raccoglie strategie di produzione etiche elaborate nei più diversificati territori.
«Non ci sono dettami, norme inderogabili prescritte: la permacultura parte dall’osservazione diretta dell’ambiente in cui si vuole vivere, o che si vuole progettare. – continua Davide – Ci sono tre principi etici elaborati da Bill Mollison, che riassumono il punto di vista proposto:
1. cura e rispetto della terra; 2. cura e rispetto degli uomini, delle persone; 3. investimento del surplus (tempo, denaro, materiali) al fine di realizzare gli obiettivi.
In sostanza ci si preoccupa di insediarsi in un ambiente, sfruttandone al massimo le risorse, ma senza mai esaurirle, anzi facendo in modo che si rinnovino ciclicamente».
In primis, la permacultura è una strategia di coltivazione ecologica. Anche Davide è venuto a contatto con le prime nozioni grazie a una coltivatrice diretta che gli ha fornito consigli su come gestire un orto sinergico: «Per orto sinergico s’intende uno spazio coltivato non al solo scopo di nutrirsi, come nel caso delle monocolture settoriali, che separano gli ortaggi per specie, ma al fine di creare un ambiente che, equilibrandosi autonomamente e con un intervento umano minimo, fornisca nutrimento senza debilitare il terreno in cui si trova. Fondamentale è la scelta di piante che creino tra loro un rapporto appunto sinergico, cioè di aiuto reciproco: per fare un esempio concreto, accostando piante di calendula e pomodori si risolve in modo ecologico il problema delle cimici, perché la calendula attira vespe che si nutrono degli afidi dei parassiti del pomodoro. Lo scopo è tanto quello di ridurre l’impatto ambientale al minimo, quanto quello di evitare dispendio inutile di energie e risorse, applicando ad esempio strategie come la pacciamatura e l’uso dei “bancali”. La prima consiste in una copertura in materiale organico (paglia o cartone), una sorta di serra utile a mantenere l’umidità e impedire la crescita delle piante infestanti, che ha il valore aggiunto di concimare il terreno una volta sedimentato. I “bancali” sono invece cunette rialzate, di cui è possibile sfruttare tutta la superficie, concentrando quindi le energie, grazie cui si rafforzano le radici delle piante, costrette a scavare più a fondo per trovare terreno nutriente».
L’orto sinergico di Davide in Toscana
Ascoltando Davide, nella mia mente affiorano ricordi della maestra delle elementari che spiega la grande rivoluzione scaturita dall’introduzione della rotazione delle colture, espressione organizzata della saggezza contadina che si conserva in permacultura in alternanze come quella tra ortaggi e legumi: bisognosi di azoto i primi, azotanti i secondi, si scambiano e condividono sostanze passando attraverso la terra. La permacultura è quindi una sorta di raccolta delle migliori strategie di volta in volta messe in atto dagli uomini nel corso della storia, per insediarsi nei più disparati ambienti con un impatto minimo. Mi chiedo se in questa idea di insediamento vi sia spazio anche per le innovazioni tecnologiche: «Certo! – risponde Davide – Io ad esempio sono molto interessato alla questione delle energie rinnovabili; tra chi frequenta corsi o forum di permacultura, è molto sentita la questione dei pannelli solari, che potrebbero essere una buona fonte energetica, ma sembra ci sia ancora un forte impatto ambientale al momento dello smaltimento, forse anche nella produzione. Ci sono poi moltissime altre fonti ancora da prendere in considerazione!».
Permacultura non è solo agricoltura. Davide mi racconta di quanto esteso possa essere il concetto di permanent culture: «Innanzitutto, è applicabile a qualsiasi tipo di ambiente e clima perché è pensato per ogni area geografica, partendo dalla sua osservazione diretta. In Messico, ad esempio, ho conosciuto un ragazzo che applicava l’urban permaculture: viveva con la figlia in una vecchia casa semiristrutturata con un sistema idrico ad acqua piovana che alimentava l’orto disposto sia sul terrazzamento del tetto sia sfruttando la luce negli interni. Poi non riguarda solo gli orti e la coltivazione: non prevede il vegetarianismo, quindi si occupa anche di allevamento; oltre che della costruzione di abitazioni a basso impatto ambientale e buona resa energetica, ma anche semplici conigli di adattamento di strutture preesistenti per ottimizzarne l’uso, così come di giardini decorativi ecosostenibili. Esiste infine una social permaculture, che si occupa di ristabilire un equilibrio etico sociale tra le persone, secondo principi di condivisione più che di accumulazione, sempre nell’ottica di una corretta dispersione delle energie e delle risorse».
Questo viaggio vede come protagonisti l’entusiasmo di una giovane, una città di confine, un progetto d’amore e fedeltà.
Sara, studentessa e figlia di immigrati integratisi a Milano, aspira a una carriera nelle organizzazioni internazionali, per provare a correggere dall’interno quello che lei coglie come uno scemare di credibilità negli anni. Attraverso l’evento Nuit Debut Milano e una serie di incontri presso il centro sociale Ri-Make, viene a conoscenza del neonato progetto 20K.
Ventimiglia, comune della provincia di Imperia conosciuto come “Porta occidentale d’Italia” in quanto territorio di confine con la Francia, è lo scenario ospite in cui un gruppo di attivisti che credono nel diritto alla libera circolazione hanno organizzato un campo autogestito dove svolgere attività plurime per assistere i migranti che tentano d’attraversare la frontiera.
All’ordine del giorno il costante monitoraggio della situazione, il supporto materiale (distribuzione di beni di prima necessità) e la trasmissione di informazioni relative ai diritti e alla sicurezza di viaggio ai migranti, piuttosto che riguardo la cronaca degli avvenimenti di Ventimiglia al mondo.
L’anno scorso una simile iniziativa era stata condotta per qualche mese presso la spiaggia dei Balzi Rossi (sito archeologico che vede un complesso di grotte ornare la falesia calcarea) dove No borders, solidali e migranti avevano stanziato presidio; sfrattati da quel ritaglio di terra ch’erano riusciti a organizzare, i migranti hanno ricreato quasi spontaneamente un nuovo “campo informale”.
Sara, desiderosa di superare la semplice forma dell’assistenzialismo ed essere parte attiva nella realizzazione del progetto a stretto contatto con questa realtà di “ricerca di vita ”, poche settimane dopo la nascita di 20k parte alla volta dell’estrema punta ligure.
«Il 17 Luglio, assieme a altre due ragazze e una buona dose d’ansia, mi sono messa in viaggio. Ventimiglia, solcata dal fiume Roja, si è presentata per un istante nelle sue due metà: quella medievale, ch’è secondo centro storico ligure per estensione dopo Genova, e quella più moderna (edificata dall’800 in poi). Abbiamo proseguito per la valle sino all’ex parco ferroviario dove, nelle vicinanze della struttura d’accoglienza di Croce Rossa e Caritas, sorgeva il campo autonomo».
«Arrivata a destinazione, ho potuto vedere in prima persona la drammaticità della situazione: gli chabeb (“ragazzi” in arabo; termine che preferiamo a “migrante”) che non si fidavano delle procedure identificative al centro della Croce Rossa si riversavano in massa da noi. Ogni giorno abbiamo contato un flusso di 250/300 persone; alcuni tentavano la sorte provando ad attraversare il confine e altri, sfiniti da immensi viaggi o rispediti indietro dalla frontiera Francese, giungevano a momentaneo riparo».
In questo panorama di terra cocente e rotaie, di monti che s’ergono attorno e treni merci che scherniscono al loro passare inscenando una improbabile fuga, il campo era ben organizzato: in 6 strutture (ex stalle) situavano i dormitori, un efficiente info point con libreria che elargiva informazioni legali su questioni principalmente legate alle richieste d’asilo politico, una cucina-dispensa dotata di fornelli, pentole e prodotti per l’igiene e, infine, un ambulatorio per visite mediche dove dottori volontari prestavano quotidiano servizio. Anche gli spazi aperti venivano adibiti a funzioni sociali: segnaletiche in arabo indicavano le zone del parrucchiere, quelle adibite al gioco del pallone e alla preghiera.
«In breve abbiamo avviato dei corsi introduttivi di lingua inglese e francese e trovato il modo di installare una doccia funzionante, anche se l’allaccio all’acqua ci è stato tolto poco dopo». Dalla sua nascita, il campo informale ha avuto sempre rapporti difficili con le istituzioni e il vicino centro della Croce Rossa, così che i tentativi di sabotaggio dell’iniziativa sono stati molteplici e continui: dai piccoli furti e danni materiali, all’ordinanza della prefettura di bloccare la raccolta dei rifiuti.
«Queste le risposte al fatto che i migranti preferissero stazionare al campo informale piuttosto che a quello istituzionale dove la procedura di registrazione era sempre più simile a un’identificazione: per accedere alla mensa, alle docce e al servizio medico era necessario un badge con codice a barre e fotografia al posto del precedente tesserino nominale. Dei 180 posti disponibili all’interno della struttura solo una sessantina erano occupati».
Sara ricorda con amarezza gli ultimi giorni di Luglio: nonostante i viglili del fuoco avessero decretato, in seguito ad un sopralluogo, la sicurezza della cucina del campo, polizia e digos hanno smantellato tutto, giustificandosi con la supposta inutilità del locale, in quanto il cibo per i migranti era già messo a disposizione dalla Croce Rossa.
Questi i preludi del definitivo sgombero dell’intera zona avvenuto il primo Agosto. Le forze di polizia hanno fatto incursione la mattina presto e gli chabeb, dopo una breve resistenza, hanno ceduto alla paura e sono stati trasferiti obbligatoriamente all’interno del campo governativo. Espulsioni dal Paese e fogli di via per alcuni attivisti italiani ed europei a coronare la disfatta.
«Vivere a stretto contatto dell’alternarsi tra solidarietà quotidiana, repressione, speranza, deportazioni è stata una palestra di conoscenza immensa. Mi spaventa questa intolleranza per il diverso, questa gestione seriale delle vite applicata dall’occidente.
In Dicembre sono tornata a Ventimiglia per un breve periodo: la notte, in stazione, i blindati detengono il bottino della continua “caccia al nero” e chabeb dai visi coperti sgattaiolano terrorizzati dove possono per non farsi catturare. Vi ho trovato anche l’infelice sorpresa di un’ordinanza che vieta la distribuzione di cibo per le strade della città.
Ora noi siamo quelli che stanno nascosti a sfamare i “mostri”».
Il primo mese dell’anno apre a un 2017 che non mostra soluzioni per la “questione migranti”, almeno per come essa appare ai cittadini italiani, sempre più allarmati dal numero di stranieri che vedono sbarcare nel Paese. Preoccupazioni non del tutto prive di fondamento: dal 2015 al 2016 l’arrivo di migranti in Italia ha registrato un incremento del 18%, passando dai 153 mila ai 181.405 sbarchi. Da un punto di vista europeo però, l’allarme immigrazione risulta essere in forte riassorbimento: rispetto al milione di arrivi del 2015, si segnala infatti una riduzione del 64% di sbarchi, quantificata in 361.678 nuovi migranti nel 2016.
Gli arrivi via mare in Italia tra gennaio e dicembre 2016 (Fonte: UNHCR).
La Comunità Europea non sembra di fatto intenzionata a modificare il forte divario tra la situazione italiana e quella del resto dei Paesi europei. Al contrario, i provvedimenti presi sono tutti volti a limitare gli spostamenti, aumentando i requisiti per i richiedenti asilo e innalzando barriere di filo spinato; muri che a oggi separano sempre più stati: dal blocco della rotta balcanica (dalla Turchia a Grecia, Macedonia, Croazia,…) ai confini del territorio italiano, che pur essendo tra le mete meno ambite, risulta di fatto essere il luogo di stazionamento di centinaia di clandestini. Provvedimenti che si preoccupano di tutelare le potenze europee, ma che non tengono minimamente conto dell’umanità che continua a viaggiar per mare, mettendo a rischio la propria vita (nel 2016 si registrano nel Mar Mediterraneo 5022 morti) per ritrovarsi bloccata lungo frontiere più che congestionate.
Non meno allarmante è la situazione al di fuori delle aree di confine, nei centri urbani che sono luoghi di incontro tra vecchi e nuovi migranti. Milano, ad esempio, che a inizio 2017 registra cifre attorno ai 3500 nuovi extracomunitari sprovvisti di regolari documenti (oltre il 20% sopra la soglia prevista dal piano nazionale), è nell’immaginario di molti migranti un punto di snodo, una prima meta dove trovare contatti e da cui ripartire verso il resto d’Europa. «Alcuni sbarcano senza neanche la certezza di essere in Europa, senza sapere di essere in Italia;– racconta a Pequod Marisa, che ha lavorato a Lampedusa in attività di primo soccorso –ma hanno scritto in pennarello sul braccio l’indirizzo di riferimento da cercare e molte volte la meta è Milano». I motivi che spingono verso il capoluogo lombardo sono vari e diversi, ma raramente contemplano la volontà di fermarvisi: dalla presenza di connazionali cui fare riferimento alla vicinanza di mezzi di trasporto per grandi spostamenti; a volte, la speranza di trovare il trafficante che li porterà oltre confine.
Morti e dispersi nel Mar Mediterraneo nel biennio 2015-2016 (fonte: UNHCR).
Una piaga, quella del traffico umano, di cui ci parla Vanda, operatrice di strada in un’organizzazione che si occupa di fornire informazione ai migranti che stazionano nelle vie milanesi: «Nelle strade, sentiamo parlare spesso di traffico umano, sia che si tratti di trasporto di clandestini sia finalizzato alla prostituzione; ma anche offerte di ospitalità in cambio di piccole cifre di denaro o commissioni sulla ricezione di denaro dall’estero; non sempre vengono da migranti o bisognosi, possono essere coinvolti gli stessi operatori nel settore. Allontanare i nuovi arrivi da queste situazioni è tra i nostri principali obiettivi: spieghiamo loro le vie legali, attorno alle quali c’è molta disinformazione e forte disorientamento, e perché evitare scorciatoie, ma capita che siano i migranti stessi a chiedere contatti con i trafficanti. Spesso arrivano a Milano perché sanno che qui è più facile trovarli: vivono in città e a volte entrano loro stessi nei centri di prima accoglienza in cerca di clienti. Capita anche di riconoscerne alcuni e di segnalarli alle Forze dell’Ordine, ma i tempi delle indagini sono sempre troppo lunghi per vederne gli effetti».
Alle Forze dell’Ordine, Comuni come Milano, Chiasso, Pordenone hanno affidato il contenimento dei disagi legati alla presenza incontrollata e disorganizzata di extracomunitari. Chiediamo a Vanda dei rapporti tra questi e i migranti: «Da quello che raccontano le persone incontrate, soprattutto i Carabinieri sono abbastanza cordiali, al più distaccati; mentre ci sono stati riportati episodi di aggressioni da parte della Polizia Ferroviaria: un minore non accompagnato in attesa di documenti, ad esempio, ci ha raccontato di aver ricevuto un pugno in faccia solo perché sprovvisto di biglietto. Qualche problema nasce a volte con la Polizia di Stato, la cui presenza in strada è stata intensificata, insieme a quella dell’esercito, dopo la strage di Berlino. Anche l’applicazione di certe norme è diventata più rigida da quella data: è aumentato il numero di persone che vivono in strada dopo esser state allontanate dai centri di prima accoglienza, escluse dal sistema. I motivi di un’espulsione possono essere diversi: una rissa, una dipendenza, piccoli illeciti… Tra questi, la sospensione della procedura di richiesta d’asilo è prevista per chi lascia il centro d’accoglienza per più di 72 ore; una norma che fino all’anno scorso raramente veniva applicata. Lo stesso per chi lascia il Comune di prima accoglienza, che va a sommarsi ai clandestini che per scelta non si registrano in Italia, non volendo rimanere legati al Paese di primo sbarco, come invece previsto dalla normativa europea».
Sistema europeo d’emergenza di ricollocazione dei rifugiati (Fonte: UNHCR).
Eppure spesso sono proprio i Comuni a instradare i richiedenti asilo verso zone già sature. «Per legge, ogni migrante dovrebbe avviare le pratiche per la richiesta di asilo nel primo centro d’accoglienza in cui viene ospitato, entro 8 giorni dalla data d’ingresso.– Ci spiega Chiara, che lavora all’interno di una di queste strutture – Spesso questa norma è impossibile da rispettare, perché i centri non hanno posto. I Comuni dovrebbero collaborare accogliendo chi staziona sul territorio, ma difficilmente lo fanno; così come la Polizia di Frontiera, che si limita a riportare in territorio italiano chi è stato trovato in Stati limitrofi. In questo modo si mantengono in costante movimento grandi masse umane; attraverso una serie di rimbalzi, nessun’area appare eccessivamente sovraccaricata, ma il problema non arriva mai a soluzione. Si procede di emergenza in emergenza, anche a causa del rifiuto di molti Comuni ad applicare il piano di distribuzione nazionale; chiudiamo l’inverno con un “piano emergenza freddo” e ci prepariamo alla primavera e alle emergenze che annualmente si ripropongono con l’incremento di arrivi in Marzo».
Su richiesta degli intervistati, i nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.
Il battesimo del volo lo presi ch’ero bimbo, a 5 anni, nell’Agosto del ’95. Per quel che i miei ricordano dovette essere anche il primo reale viaggio dopo il mio “arrivo”. Al tempo la trama era quella di un’Orio al Serio che timidamente si approcciava alla scena aeroportuale nostrana, di tratte aeree low cost comparse sporadicamente solo oltreoceano e in nord Europa e assolutamente nessun cenno di velivoli RyanAir sopra i cieli italiani. Così, l’esordio di questa “gita” fu: Milano Linate- Lamezia Terme. 200.000 lire a capo per la traversata del paese. Erano bei soldi all’epoca!
Il primo computer, a casa, lo vidi non prima dei 12 anni; perciò, senza ausilio di scatole onniscienti (per altro la linea internet approdò in Italia soltanto nella seconda metà degli ’80 e ancora pochissimi erano i fruitori del world wide web), il babbo organizzò il soggiorno a Vibo Valentia con l’appoggio di quell’entità capace ch’era l’agenzia turistica. Non si parlava pressoché mai di “Online”; di conseguenza l’agenzia di viaggi operava esclusivamente in un luogo fisico, uno spazio contenitore che tutto offriva in soluzione alla smania organizzativa di itinerari e permanenze, elargendo depliant e guide turistiche per ogni angolo del globo.
Certo, io ero solo un marmocchio prima del nuovo millennio e poco ricordo del nostro peregrinare estivo; tanto meno delle strategie organizzative che permettevano la buona riuscita del viaggio. Inoltre, per i miei (da giovani) le spedizioni lontane erano assai sporadiche. All’epoca erano poche le famiglie che si permettevano viaggi extracontinentali, mentre i più preferivano le vicine coste del belpaese.
Volo Alitalia
Assai più esaustivo l’episodio indiano di Bobo, incallito (ex)amante dell’Asia meridionale incontrato sui colli della Maremma. Ragazzo, nell’81, parte per quello che si rivelerà essere il viaggio più duraturo nel suo bagaglio d’esperienze. Ha indicativamente un concetto vasto di meta (India e dintorni, per l’appunto), un visto di 6 mesi, qualche bottiglia di whisky (poi capirete perché mai) e un biglietto sola andata per Nuova Delhi reperito tramite una delle suddette agenzie: viaggio e avventura risultavano spesso sinonimici. Nel Nord del paese le giornate si spendono tra l’esplorazione, la ricerca di ospitalità o alloggio e gli spostamenti. Spostamenti tramite mezzi pubblici locali o -tadadadam- Autostop!
Obbligo di aprire una parentesi su questa pratica universalmente riconosciuta come hitchhiking (letteralmente: lunga escursione fatta a tratti). In particolar modo negli anni 70, per ristrettezze economiche, ambientalismo (pare…) e ricerca d’avventura, la gioventù (e non solo) tendeva a optare per questo canale di trasporto facendo volentieri buon viso all’espansione notevole delle tempistiche di “crociera”. Già dalla seconda metà degli ’80 però, con l’aumento del tenore di vita e la conseguente diffusione dell’automobile, il pollice alzato si ammoscia cadendo in uno stato di stasi. All’avvento del nuovo millennio è addirittura una pratica osteggiata, diffondendosi i timori per i rischi legati allo salire su automobili sconosciute. Solo oggi un parente stretto dell’autostop sembra tornare alla ribalta, proprio grazie allo sviluppo della rete di una realtà virtuale, che ne permette forma organizzata: BlaBlaCar e simili. Il “nipote” s’è fatto anche furbo e prevede solitamente un esiguo contributo economico da parte del passeggero. Ricomparsa di ristrettezze?
Tornando all’India: dal Rajasthan alla città di Patna dove, mediante dritte giunte per passaparola, Bobo sa di poter racimolare la quota necessaria del biglietto aereo per Kathmandu (Nepal) rivendendo a ottimo prezzo il whisky portatosi dall’Italia. (Questa mi è particolarmente piaciuta).
A questo punto noi infileremmo un what’suppino o una chiamata alla famiglia lasciata dall’altra parte del mondo però… incredibile! Fino a 20 anni fa non solo Internet non era diffuso ma pure il telefono portatile era in una sacca amniotica! Mantenere contatti con casa, in generale, era tanto raro quanto più s’era lontani; ecco che il ruolo della cartolina si rivelava essere molto più sensibile ed essenziale di quello attribuitole oggi. All’alba del 2000 ancora il mondo non era attraversato da onde wi-fi che permettessero di acchiappare conversazioni nell’aere; per avvisare casa era ancora necessario collegarsi alla rete telefonica, che si affacciava ad alcuni angoli di strada nella forma di cabine pubbliche. Oggi queste hanno l’aura dell’archeologico residuo di un passato recente.
Rientrando dalla divagazione: giusto il tempo necessario a perlustrare il nuovo stato ospite e via per il trekking sull’Himalaya. Nessuna guida per Bobo, perlomeno in carne e ossa: solo un minuscolo Lonely Planet, testo sacro e perenne compagno del viaggiatore, unica fonte d’informazioni oltre il sopracitato passaparola. Il salvifico dispensario accompagnava chiunque in ogni tipologia di viaggio: lo trovavi in mano alla madre milanese in visita con famiglia a Firenze come in saccoccia al fricchettone danese volutamente “perdutosi” in Guatemala. E allora, spaziando, rivedo paragrafi nella memoria dove sul cruscotto della Opel Kadett attende, spiegazzata, la tanto fedele quanto criptica mappa stradale. Quel leggendario menomato tomtom cartaceo che, combinato alla segnaletica per la via, era la fonte primaria d’orientamento. E mi fa sorridere pensare che meno di una ventina d’anni fa, spesso, si sbagliava ancora strada; ci si affidava alla capacità (e all’azzardo) di decifrare un disegno intricato di colori, parole e linee e si sbagliava strada. Non è che fosse piacevole in sé: ci scappava anche qualche moccolo, ma ti lasciava quella sensazione di avere una compartecipazione col tempo, che il tuo andare era anche uno smarrirsi e ritrovare, rispecchiando la romantica insicurezza che ci muove.
Telefono Sirio – Gratuitamente distribuito dalla SIP nelle case degli italiani tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000
In una fuga come quella di Bobo certamente vi era una dose di “spartanità” in più rispetto a una vacanza canonica di allora ma c’è da considerare che milioni di giovani optavano per viaggi similari; ne concentravano le caratteristiche, esasperandole. Scandagliavano l’adattabilità coi pochi agi e mezzi disponibili. Pochissima stabilità, la costante dell’imprevedibile.
Per tornare a Vibo Valentia e a una manciata di estati successive la situazione fu molto meno audace; ma mappe stradali, cabine telefoniche e sorprese erano nella quotidianità dello spostarsi.
Rimugini una volta ancora su quanto cambi tutto nel tempo, in miriadi di ambiti delle nostre vite. Viene naturale guardar su. Stelle. Altrove nel trascorso, in cammino, erano loro le guide.
Si sono chiusi ieri, 1 Dicembre, i tempi di arrivo in Italia dei plichi elettorali contenenti il voto degli italiani residenti all’estero sul referendum costituzionale, il voto di coloro tra i circa 490.000 concittadini iscrittisi all’AIRE che hanno esercitato il proprio diritto civico anche fuori dal territorio nazionale. I primi dati raccolti danno un riscontro positivo circa l’affluenza alle urne: rispetto al referendum dello scorso Aprile sul rinnovo delle concessioni per le trivellazioni in mare, che aveva raccolto circa 800 mila voti all’estero, sembra che quest’anno un maggior numero di iscritti alle liste dell’AIRE abbia effettivamente spedito il proprio voto in patria. I primi numeri arrivano dalla Svizzera, che si conferma la nazione da cui gli italiani residenti votano di più, con una percentuale che oscilla tra il 38% e il 42%.
Ancora molte perplessità ruotano attorno alle modalità attraverso cui ottenere il diritto di votare all’estero e alle funzioni svolte dall’AIRE. L’iscrizione all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, fondata nel 1988 e gestita oggi dai Comuni sulla base dei dati e delle informazioni provenienti dai Consolati all’estero, è un diritto/dovere per tutti quei cittadini italiani che si trasferiscono per un periodo superiore ai 12 mesi, oltre ai già residenti all’estero per nascita o coloro che hanno ottenuto successivamente alla nascita la cittadinanza italiana. Oltre alla possibilità di esercizio del diritto di voto, l’AIRE permette di usufruire di una serie di servizi, come il rinnovo dei documenti d’identità e della patente di guida; l’iscrizione è a totale discrezione dei cittadini, così come l’aggiornamento delle informazioni fornite all’Anagrafe, con particolare riferimento all’indirizzo di residenza: fondamentale che sia corretto per poter votare per corrispondenza. Una volta iscritti all’AIRE, infatti, l’iter procede automaticamente, come ci ha spiegato Elena, che quest’anno ha votato da Manchester: «È facile votare: arriva tutto per posta! Il plico contiene certificato elettorale, scheda elettorale, due buste e un foglio informativo; basta fare una croce sulla casella scelta (No/Si) e inserire il tutto nelle apposite buste, su cui non va scritto nulla perché ci sono già indirizzo del destinatario e spedizione prepagata. È molto easy, non devi neanche andare in posta!». E aggiunge: «Ci sono altri vantaggi, dati dall’essere iscritta all’AIRE: primo tra tutti, il fatto di non dover pagare doppie tasse sui servizi inglesi e italiani. Non ho ancora sfruttato la possibilità di poter fare e rinnovare il passaporto senza dover rientrare in Italia, ma è un’altra agevolazione.» Anche Chiara, in Repubblica Ceca, si è avvantaggiata dell’iscrizione AIRE: «Quando mi sono iscritta era per non gravare sullo stato famiglia dei miei genitori, visto che ero stabile e autonoma a Praga; automaticamente ho avuto facilmente diritto di voto dall’estero: il plico elettorale arriva direttamente a casa e la procedura è molto semplice. I vantaggi dell’iscrizione all’Anagrafe però non sono molti, almeno per la mia esperienza; tanti italiani residenti in Repubblica Ceca, ad esempio, non si iscrivono per non perdere il diritto alla sanità gratuita in Italia».
Chiara a Praga
Per gli italiani che si trovano solo temporaneamente residenti all’estero è prevista una procedura a garanzia del diritto di voto, ma nei fatti spesso risulta più complicata del previsto. Gli espatriati per motivi di studio, lavoro o cure mediche, per periodi superiori ai 3 mesi, possono votare dal luogo in cui ritrovano sempre per corrispondenza, inviando una richiesta al loro comune di residenza in Italia; un paio di settimane prima del voto, ricevono a casa il plico elettorale. Nessuna soluzione è invece prevista per i soggiorni all’estero di durata inferiore ai 90 giorni; dato spesso sottovalutato, ma che implica l’esclusione di una fascia di giovani elettori, come gli universitari impegnati in erasmus brevi con un budget economico ridotto. Non meno significata è la situazione che riguarda i flussi migratori interni alla nazione, che vede gli studenti fuorisede costretti a rientrare nel comune di residenza per votare. In territorio nazionale non è previsto il voto a distanza né agevolazioni fiscali per il rientro a casa; unica possibilità per evitare il viaggio è candidarsi a rappresentante di lista di un comitato promotore o di un partito. Difficoltà simili le incontrano i cittadini italiani residenti in quei Paesi con cui il nostro Governo non intrattiene rapporti diplomatici, territori nei quali spesso le attuali condizioni sociali lo impediscono. Nonostante l’impossibilità di votare per corrispondenza o di esercitare il proprio diritto sul territorio, per questi elettori, sparsi in circa 28 nazioni, è quantomeno previsto un rimborso del 75% del prezzo del biglietto di rientro in Italia da parte della loro Ambasciata di riferimento, presentando ricevuta di pagamento e timbro su scheda elettorale presso la stessa. Sara dall’Indonesia ci racconta: «Per iscrivermi all’AIRE dovrei andare a Jakarta, che dista diverse ore di volo da Bali, dove vivo io, ma l’esperienza di altri connazionali mi ha fatto desistere: la burocrazia non è affatto efficiente e comunque non sono previste procedure per votare da qui. Una volta iscritta, poi, perderei l’assicurazione medica per i viaggi all’estero che ho stipulato appena venuta qui, che è la soluzione più comoda nella confusione delle pratiche sanitarie in Indonesia. I vantaggi stanno negli sgravi fiscali che poi si hanno sulle case di proprietà nei due diversi paesi, ma per me che vivo a Bali in affitto e non ho casa in Italia non c’è riscontro economico. Trovo molto più comodo organizzare i miei rientri in Italia, dove ancora vive la mia famiglia, in modo da sbrigare anche tutte le questione burocratiche necessarie».
Balangan Beach, Bali Deli
Sebbene i dati delle ultime ore facciano ben sperare sul grado di coscienza civica dei cittadini italiani residenti all’estero, alcune lacune emergono nella burocrazia italiana, che ancora non arriva a toccare larghe fasce di elettori, spesso giovani o giovanissime, sparse nel mondo. La globalizzazione e il continuo aumento dei movimento migratori hanno messo a dura prova le istituzioni, impegnate in ingenti investimenti per stare al passo con i tempi.
In copertina ph. Christian Horvat CCA-SA 3.0 by Wikimedia Commons.
Dall’alto delle sue colline, possenti e accoglienti al contempo nella dolcezza delle loro curve maestose, la Toscana è un’illimitata distesa di sfumature verdi, che muta di tono alla svolta d’ogni rilievo e seguendo i capricci del tempo, gli spostamenti del sole, l’agire delle intemperie e il ciclo delle stagioni. Lo sguardo si perde nel tentativo di definire le tinte e si aggrappa alla ricerca di pochi dettagli; la presenza umana, sincronizzatasi ai ritmi della terra e adattatasi alle sue esigenze, si è mimetizzata tra il succedersi di boschi da legna e colture d’ulivi, prati per il pascolo e terreni agricoli. La mattina poi, il sole giocando a intrecciare i raggi di luce ai fili d’erba confonde le pupille, illudendo che sia giorno prima del tempo, prorompendo in un cielo che è solo per lui, limpido e sgombro, asciugando coltri di rugiada, sollecitando la fauna a cantare in versi il ritorno alla veglia. È in un mattino così soleggiato che Davide sorprende le mie palpebre, impegnate nella ricerca dentro una tazza di caffè della forza di alzarsi, con una proposta che non mi aspettavo di ricevere qui a Ripacci, in questo ritiro sulle colline maremmane: «Se hai voglia, oggi andiamo a vedere i resti di una villa romana, dopo aver portato le mucche al pascolo».
Con facce pulite e scarpe comode entriamo e usciamo dalle stalle. Accompagnati dal ciondolare lento delle anche bovine, muoviamo i nostri passi su quei paesaggi di cui all’orizzonte è impossibile delimitare i confini: scendiamo attraverso il bosco che con il deposito di legna si affaccia su un piccolo lago artificiale; circumnavighiamo la schiera ordinata di ulivi, che d’inverno si lasciano coccolare dal letame caldo adagiato ai loro piedi; arriviamo a una radura vergine su cui le mucche si disperdono, contaminando la pace mattutina. Lasciamo gli animali liberi di pascolare e torniamo sui nostri passi. All’altezza del piccolo specchio d’acqua, Davide mi indica di svoltare e per qualche passo sembra, in effetti, che seguiamo un sentiero, ma presto la natura prende il sopravvento e noi ci troviamo a passeggiare in un campo di erba incolta da tempo. Mi perdo facilmente dietro il volo di un lepidottero, nel frinito di una cicala, al punto che quasi non mi accorgo di Davide che mi sta prendendo in giro: «Ehi! Almeno entrando in casa chiedi permesso!». Abbasso lo sguardo, scoprendo che mattonelle rosse sbucano dalla terra e via via si fanno sempre più spazio tra i ciuffi d’erba, che s’insinuano tra le intercapedini e slanciandosi verso il cielo nascondono le tracce di quello che un tempo era un pavimento. Indovinando le fondamenta di un angolo, inseguo con lo sguardo ciò che rimane del perimetro dei muri, supplendo con la fantasia le tracce che il tempo ha cancellato; qualche residuo di impiantito, evoca il fasto di un’antica pavimentazione ramata, ottenuta dall’incasellamento minuzioso di piastrelle squadrate con perizia manuale. Davide sa darmi poche informazioni: «Costruita tra il 200 a.C. e il 200 d.C.», dice. Un lasso di tempo troppo vasto, troppo poco definito, che per un istante mi porta a dubitare delle sue parole e della storicità del posto in cui mi trovo; in fondo, si tratta di qualche mattonella e un po’ di cemento abbandonati a loro stessi, in balia degli eventi, senza nulla che ne segnali la presenza, a parte il fatto di esser lì, anonimi e silenziosi. Ad ammonire i miei pensieri, svoltando per avere una vista diversa sulla villa, interviene il basamento di una colonna ancorato a terra, all’incirca al centro dell’abitazione, con il suo stile inequivocabile, che attribuisce significato a tutto quanto lo circonda, rendendo giusto valore all’archeologia del paesaggio.
Sito Archeologico di Giaccioforte, Scansano
Sogno ad alta voce di poter scovare qualche antico reperto, provare l’emozione di spolverare un coccio di anfora romana o tastare un utensile rudimentale; Davide mi disillude immediatamente, facendomi notare con quanta probabilità il passaggio di altri visitatori prima di noi abbia fatto sì che oggi non ci sia più nulla da scoprire. Mi racconta di quanti siti si trovano così, sparpagliati tra un appezzamento e l’altro di terreno, dispersi tra la vegetazione collinare: fin dall’età arcaica, la Toscana ha accolto l’uomo con ospitalità materna nei suoi paesaggi gentili; oggi custodisce testimonianze del passaggio in diverse epoche storiche di diverse culture, dall’età del bronzo al Rinascimento, passando per le civiltà etrusca e romana. «Gli enti istituzionali si fanno carico solo dei siti dove le strutture sono meglio conservate; – spiega Davide – per le aree archeologiche meno significative non ci sono finanziamenti, così chiunque può accedervi e prelevare ciò che vuole. Capita di incontrare sulle colline qualche giovane archeologo, che sfrutta la mancanza di controllo su queste zone per provare a mettere in pratica ciò che ha studiato. Moltissimi ragazzi di Scansano sono laureati in archeologia, spesso proprio con l’obiettivo di recuperare il patrimonio dimenticato della loro terra». Tra il perplesso e l’indispettito, metto ancora una volta in discussione le parole di Davide: possibile che una regione come la Toscana, capace nel corso dei secoli di rinnovare se stessa sempre nel rispetto della sua propria natura, passando ad esempio dall’estrazione di metalli pesanti alle colture d’eccellenza nella produzione dell’olio d’oliva, fino alla conversione negli ultimi anni di molti casali nei principali promotori di un turismo etico e sostenibile; possibile, dicevo, che una terra così rinunci al valore estetico e storico di queste oasi di archeologia? «La maggior parte dei turisti continua a preferire le capitali europee ai rilievi della Maremma, così come avviene per moltissimi centri storici della penisola italiana: bellezze architettoniche dimenticate. – costata Davide – Il comune di Scansano ha puntato molto sul turismo in questo senso, soprattutto nell’area archeologica etrusca di Ghiaccio Forte, ma operare su tutto il territorio è ancora impensabile».
Voglio una prova di questa assenza di controllo, della facilità di frode cui questo spazio si trova in balia: mi abbasso a raccogliere un paio di piastrelle, disancoratesi da terra ma ancora posizionate nell’ordine geometrico dell’incasellamento; le metto in tasca. A letto la sera, riguardo il mio piccolo reperto archeologico, lasciato ancora impolverato sul comodino, all’apparenza muto. Lascio divagare lo sguardo come a sfiorare i bozzi che ne determinano la forma rettangolare; d’un tratto il mio reperto prende a parlare: racconta di uomini che inventavano forme nell’atto di scolpirle; di idee che si tramutano in progetti e diventano strutture; di persone che vivono in quelle forme, quei progetti, quelle strutture e lì pongono le basi per una storia che arriva fino a me. Una storia che solo il mio reperto, dalla nicchia nel pavimento cui l’ho rubato, può raccontare. Domani torno alla villa, a rimettere nel suo disordine il mio angolo di impiantito.
Parlando di estetica e cibo, impossibile non citare il cake design!
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’incredibile ascesa di questa pratica culinaria, attraverso cui realizzare torte dalle forme più incredibili e disparate, ricoprendo il pandispagna con pasta zucchero colorata e modellata. Dai programmi televisivi, ai corsi privati, fino agli innumerevoli tutorial di youtube, la moda del cake design è entrata nelle nostre case e nei nostri palati.
Pequod è andato a casa di un’appassionata di cucina che per qualche tempo si è cimentata in quest’arte, scoperta nella Francia del ‘500 e diventata negli anni 2000 il punto di forza di moltissimi pasticceri, soprattutto d’oltreoceano, ma anche europei.
Paola, la nostra ospite, ci ha regalato qualche scatto delle sue creazioni!
Ma cosa si nasconde sotto quei veli di pasta zucchero?
Abbiamo chiesto a Paola di mostrarci i passaggi necessari per la realizzazione di alcuni suoi dolci.
Tutta questa fatica per la realizzazione di splendidi dettagli, ma quanto poi si gusta di queste torte?
«La torta vera e propria – risponde Paola – rimane sotto la pasta zucchero, che per quanto buona possa essere, risulta sempre troppo dolce per essere mangiata in grandi quantità. Ci si può comunque sbizzarrire sul gusto da dare al pandispagna e alle creme che vi si possono spalmare; oltre alla possibilità di inserire frutta, canditi, cioccolato, croccante… e tutto ciò che la fantasia vi suggerisce!
Uno dei modi in cui io preferisco usare la pasta zucchero è per piccole decorazioni su torte semplici e tradizionali, come la mimosa».
Quando le chiediamo di mostrarci la sua torta preferita, Paola però non indica le decoratissime torte che ci ha mostrato, bensì esibisce la fotografia di una splendida crostata di frutta di stagione!
È passato un paio d’anni dall’incontro con la mia Ford Ka. Un incontro non programmato né voluto: abbandonata improvvisamente dalla mia precedente automobile, sono stata costretta a cercare la migliore offerta tra i rivenditori di usato. La migliore offerta era lei, la Ford Ka. Ci siamo capitate, non certo scelte e in comune avevamo ben poco: lei con le sue curve femminili, diligentemente ricoperte di strass dalla precedente proprietaria; io già preoccupata delle sue ridotte dimensioni. Il più imperdonabile dei difetti della Ka non stava però nelle sue misure, facilmente dimenticabili in virtù dei parcheggi improbabili che è capace di occupare; il più imperdonabile dei difetti era per me l’autoradio incorporata con mangianastri.
Benché io sia nata appena in tempo per veder finire gli anni ’80 e abbia nella mia infanzia consumato centimetri su centimetri di nastro magnetico, sopravvivere della musica delle mie vecchie cassette era alquanto improbabile: tralasciando l’imbarazzo di riascoltare i gusti musicali della mia adolescenza, il problema insormontabile è la scarsa resistenza dei nastri all’usura, per cui i già ridotti minuti registrabili sul supporto svaniscono col tempo e le sbobinature. Non mi restava che imparare a conoscere e usufruire delle frequenze radio.
La prima sensazione era di esser stata incatenata a un passato senza tecnologia. Rivedevo mia nonna svegliarsi la mattina e accendere la sua radiolina, cercando ogni volta di ottimizzare la ricezione e come lei mi vedevo scorrere le frequenze alla ricerca di una stazione stabile. Abitare in alta valle non aiuta; le curve della strada e i rilievi montuosi rappresentano un ostacolo che ben poche onde riescono a sormontare per un tempo dignitoso, perciò si è costretti a saltellare da una frequenza all’altra, sfidando disturbi e interferenze. Eppure ci sono stazioni che riescono a raggiungerti sempre, sebbene tu non le abbia mai cercate! Con assoluta disinvoltura si intrufolano tra i segnali in ricezione e in toni pacati tentano di indurre all’ascolto di riflessioni religiose, di litanie sgranate sui rosari, di messe celebrate altrove. Non c’è ricerca tra le frequenze di un’autoradio che non includa almeno per pochi istanti anche quelle di qualche radio cattolica.
Come non bastasse, i miei gusti in fatto di musica sono abbastanza difficili e assecondarli con melodie che possano piacere anche al resto degli ascoltatori non è cosa né semplice né diffusa. Me ne hanno dato prova fin da subito le stazioni già memorizzate nella Ka: una rassegna di frequenze captanti suoni sempre più rapidi ed elettrici, voci femminili urlanti, testi sdolcinati volti a portare al limite della malinconia, il tutto intervallato da discussioni sempre più futili e vuote di senso. La totale democrazia dei canali radio apre finestre sulla quotidianità delle persone e ci spinge a scoprirla, anche qualora non fossimo per nulla intenzionati a guardarvi dentro; ed è così un fiorire di programmi che invitano a parlare delle proprie più piccole abitudini, a condividere ogni pensiero, a opinare sul nulla. È pur vero che anche a me è successo di veder stuzzicata la mia empatia dalle telefonate dei radioascoltatori; sentirsi un po’ meno folli, un po’ meno avulsi, un po’ meno tonti è una reazione inevitabile, ma bastano già le mie stranezze a riempire le giornate, senza bisogno d’includere nei miei pensieri quelle altrui. Invece la radio t’imbroglia proprio così: trovi finalmente quella canzone che incontra il tuo piacere, già iniziata ovviamente, ma che importa? Inizi a canticchiare il ritornello, ripassando nella mente i versi della seconda strofa… ma no! Le ultime note scompaiono in un decrescendo di volume e le voci dei presentatori tornano a riempire l’abitacolo, quando addirittura non lasciano spazio agli interminabili tempi pubblicitari, che attraverso i segnali radio sembrano essere ancora più penetranti e persistenti.
Eppure dopo due anni di convivenza, anche io e la Ka abbiamo imparato ad andare d’accordo: lei sostituendo ai suoi brillantini il mio ciarpame etnico, io imparando ad apprezzare le risorse dei canali radiofonici. Dopo i primi mesi di estenuante ricerca di audiocassette presso amici e parenti, ho presto scoperto che il ventaglio di onde che potevo captare, una volta memorizzata la localizzazione geografica delle diverse possibilità di ricezione, offre una varietà di generi tale che è ancora più semplice conciliare i miei ascolti ai suoni trasmessi, che non rovistare tra i gusti degli amici. Le mie stesse orecchie ne hanno tratto giovamento: estenuate nel tempo dai miei ascolti monotoni di musiche giamaicane, hanno infatti riscoperto il piacere di generi il cui eco giaceva inascoltato sul fondo dei miei ricordi. Dal cantautorato italiano di cui mia madre riempiva la casa, alla musica anni ’90 della mia giovinezza; dai suoni in bianco e nero delle canzoni dei miei nonni, ai primi rock’n roll ascoltati nell’auto di mio fratello maggiore; senza dover rinunciare all’ascolto tanto delle novità, quanto dei miei amati suoni etnici dal retaggio tribale. Sormontando l’impressione iniziale di una totale assenza d’organizzazione nel funzionamento della ricezione radiofonica, si impara a scandire i propri spostamenti al ritmo dei programmi, a regolarsi al momento giusto sulla frequenza gusta.
Uno dei piaceri ormai irrinunciabili per me e la Ka è ad esempio il giornale radio della sera, che senza richiedere lo sforzo di ricerca e lettura di articoli giornalistici, mi evita i notiziari televisivi, di cui non sono mai stata amante. Eliminato l’elemento di distrazione rappresentato dalle immagini spesso fuorvianti e ridotti i tempi di trasmissione, le informazioni sono riportate nella loro essenza, in modo chiaro e conciso, senza sfruttare le notizie per trasformarle in temi di gossip mediatico. La politica soprattutto trova spazi d’espressione che in tv non sempre sono così ben delineati, permettendo l’approfondimento su aspetti lasciati in ombra o addirittura facendo spazio a fatti che non ne trovano nelle trasmissioni video. Un piacere tutto da tifosa atipica, di quelle che seguono il calcio solo attraverso commenti e repliche dei momenti salienti, è poi quello della radiocronaca sportiva, soprattutto se edulcorata dei momenti morti di gioco.
Per godere del più poetico dei piaceri regalati dalla radio, è però necessario uscire dal proprio raggio di frequenze e avviarsi ad attraversare il Paese: di regione in regione le onde portano con sé le sfumature dialettali degli accenti dei presentatori, accogliendoci con il suono delle voci di chi vive nei luoghi in cui viaggiamo.
Orientarsi nel mondo del lavoro di oggi, regolato da contratti atipici e di formazione, è una sfida che impegna non pochi sforzi: un vero e proprio viaggio alla ricerca di informazioni circa diritti e spettanze del lavoratore. Contratti di lavoro interinale, di apprendistato, formativi sono stati introdotti allo scopo di combattere le forme di lavoro irregolare che abbondano nel nostro Paese. L’intento era di ridurre la realtà del cosiddetto free riding: l’usufrutto di beni pubblici, senza che si abbia pagato per il loro utilizzo. Il fenomeno è diffuso e complesso e, come tale, lo è anche il disegno di governance della politica di emersione, che implica una particolare visione d’inclusione sociale, non intesa come semplice assistenza a imprese e lavoratori, ma come un’occasione di partecipazione in termini occupazionali.
Purtroppo, anche se le intenzioni sono buone, non sempre i risultati sono positivi: smisurata complessità legislativa e eccessiva precarietà del lavoro. Alla precarietà corrisponde una continua rioccupazione in lavori nuovi, il passaggio tra vari settori lavorativi e, di contro, una certa paura nel lasciare una condizione di occupazione stabile. Il viaggio del lavoratore italiano è perciò colmo di svolte e imprevisti, ma è spesso svuotato di sogni e aspirazioni.
Negli ultimi mesi anch’io mi sono gettata nel marasma burocratico creato dalle leggi che regolano i rapporti di lavoro: provo a dare una svolta alla mia vita, vagliando la possibilità di conciliare il mio lavoro part-time con un’attività che metta a frutto la mia laurea nel cassetto. Prima tappa del mio tour è l’accessibile e vicina rete informatica, che abbonda sia di fonti ufficiali sia di esperienze informali. Purtroppo la prima reazione alle testimonianze condivise sul web è di totale sconforto: numerosissimi i precari non più giovani che esibiscono curriculum di svariate pagine, ricoperte di elenchi di contratti a tempo determinato. Non di maggiore aiuto sono i siti legislativi ufficiali: le leggi che disciplinano i rapporti di lavoro e di formazione variano con molta frequenza e in alcuni casi sono differenti tra regione e regione. Un caso eclatante è la disciplina che regola il compenso degli stagisti: dal 2013, per i tirocini extra-curriculari, ovvero quelli formativi, di inserimento o reinserimento, per disoccupati, neo-laureati e disabili, esiste l’obbligo di riconoscere allo stagista un rimborso spese. Tuttavia ogni Regione ha recepito la normativa a suo modo ed esistono differenze oscillanti tra i 200 e i 300 euro.
Un comparto a sé è rappresentato da tutte quelle prestazioni pagate sotto forma di voucher. Il pagamento in voucher, detto anche buono lavoro, rappresenta la remunerazione per una particolare modalità di prestazione lavorativa definita accessoria: non è riconducibile a contratti di lavoro in quanto svolta in modo saltuario. Questa formula è quella che più specificatamente è nata con l’intento di regolamentare e tutelare situazioni non disciplinate: contratti di prestazione occasionale, in molti casi stipulati in seno alle famiglie, tanto come assistenza di minori e anziani quanto nel ramo del turismo. Il valore netto di un voucher da 10 euro nominali, in favore del lavoratore, è di 7,50 euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione. Il voucher garantisce la copertura previdenziale presso l’INPS e quella assicurativa presso l’INAIL.
Durante la mia ricerca mi imbatto di rado in offerte di lavoro che specificano che la modalità di pagamento sarà in buoni lavoro. Tuttavia la situazione italiana rivela come, nella realtà, i buoni lavoro siano notevolmente diffusi e utilizzati come sostitutivo per contratti di lavoro a tempo determinato, soprattutto dopo la riforma del lavoro del 2012, che ha esteso il loro utilizzo a tutti i settori lavorativi. Nella mia condizione di lavoratrice part-time il buono lavoro sarebbe una buona alternativa: potrei conciliare un contratto indeterminato al pagamento in voucher, a patto di non superare una certa soglia di guadagno annuale, che cambia a seconda del settore.
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A stuzzicare la mia curiosità è nel frattempo un link che rimanda a uno stage. Provo a vagliare anche questa possibilità, aprendo pagine su pagine di proposte lavorative per neo-laureati, presentate in toni clamorosi da pubblicità e ricche più di requisiti richiesti che di informazioni sull’impiego. Contatto qualche numero disponibile; in risposta ottengo valanghe di domande: «Età? Famiglia? Esperienze? Hai già intrapreso uno stage? Un apprendistato? Hai superato la soglia di remunerazione in prestazioni occasionali?».
Tra una chiamata e l’altra, scovo un paio di stage che sembrano in linea con quello che cerco, ma in effetti i miei sforzi telefonici per avere un’idea chiara dei contratti che mi sono proposti non producono frutti. Il telefono è ancora nelle mie mani, penso allora di comporre il numero di qualche ufficio preposto a fornire informazioni sull’argomento. Lunga la lista: centri per l’impiego, sindacati, assessorati alle politiche giovanili, sportelli informa-lavoro. A domande specifiche circa la possibilità di portare avanti, in parallelo, un lavoro part-time e uno stage formativo le risposte sono discordanti e insicure: il buonsenso dell’operatore, circa la necessità di avere un altro reddito per compensare la retribuzione dello stage, si scontra con la legge che, di fatto, non permettere di avviare uno stage se si ha già un contratto a tempo indeterminato.
Chiudo la ricerca e rimetto la mia laurea nel cassetto, in attesa di nuove norme che mi permettano di sfruttarla. Gli ultimi anni hanno visto infatti la comparsa di numerosissime nuove tipologie retributive, volte a regolare prestazioni di lavoro solitamente remunerate tramite pagamenti “a nero”; è un segnale positivo sia dell’impegno di una parte della politica, sia di una rinnovata coscienza comune che condanna i rapporti di lavoro che mancano di regolamentazione fiscale. Purtroppo i buoni propositi e il cambiamento culturale in atto sono messi a dura prova: dalle difficoltà che si incontrano nel districarsi tra la regolamentazione dei contratti atipici e dall’impressione che l’ago della bilancia punti solo in direzione delle aziende, che risparmiano considerevolmente sul costo del lavoro. Non da ultimo, per poter fare uno stage e riuscire a mantenermi, sarei costretta ad accettare lavori non regolamentati da un contratto, vista la poca remunerazione dei primi, e l’abbondanza dei secondi. Non resta che la speranza nelle proprie capacità, a spingere i lavoratori italiani a rimettersi in viaggio.