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Un viaggio che non può più fermarsi

Mi ricordo bene quando sentii parlare per la prima volta di Progetto 20K, era la primavera del 2016, qualche mese prima che iniziasse l’attività vera e propria sul territorio di Ventimiglia. Come Pequod ha già raccontato più volte, Progetto 20K è un gruppo di persone che tramite pratiche di solidarietà attiva sostiene e supporta le persone in viaggio bloccate al confine italo-francese, precisamente a Ventimiglia. Decine sono le attività e i microprogetti che porta avanti nella provincia di Imperia e non solo, ma più di tutto vorrei raccontare delle modalità: così lungimiranti, aperte, inclusive, forti e trasversali che hanno aggregato tante persone diverse intorno a questa esperienza politica.

Era il 2016, già da poco più di un anno mi interessavo a contesti sociali e politici a Bergamo ed è proprio alle assemblee della Kascina Autogestita Popolare Angelica “Cocca” Casile che sentii parlare del progetto per la prima volta. Qualche mese dopo si organizzò al bar Circolino Basso la prima presentazione. Ne rimasi subito colpito, per la forza dei racconti di chi c’era stato e delle immagini proiettate: queste persone dicevano di stare sul confine a sporcarsi le mani supportando chi dallo stesso confine era bloccato e violentato! Fu proprio amore a prima vista: l’idea di prendere e partire, anche solo per qualche centinaio di chilometri, per oppormi a violenze e ingiustizie che in realtà non troppo conoscevo, mi affascinava moltissimo.

Il cartello posto all’ingresso dell’infopoint Eufemia di 20K a Ventimiglia in sostegno di Mimmo Lucano, sindaco di Riace e promotore del cosiddetto modello Riace per l’accoglienza ai migranti, arrestato il 2 ottobre 2018.

A Ferragosto mi ritrovai così catapultato nella piccola casetta affittata per il progetto, iniziai a conoscere i luoghi di Ventimiglia e a masticare le pratiche di 20K: subito l’entusiasmo aumentò ancor di più, ma anche la difficoltà di agire in quel contesto. Il senso d’impotenza era all’ordine del giorno, sottovalutarsi e criminalizzarsi erano la costante delle discussioni serali; dall’altra parte c’era l’essere gruppo: l’aggregazione con persone che venivano da un viaggio lunghissimo, culture diverse, lingue diverse e la sensazione, nonostante tutto, di aver loro agevolato il percorso.

La cosa che più mi colpì fu l’ordinanza comunale che vietava di distribuire beni alimentari, acqua o vestiti alle persone per strada e che rimase in vigore fino al febbraio 2017: non parliamo di un’ordinanza del Prefetto o del Questore, ma di un sindaco del Partito Democratico che vietava questi semplici gesti di solidarietà e umanità. Tutto ciò rafforzava il mio impegno, ma soprattutto il progetto. Ci rendevamo conto di essere dalla parte giusta e che ricoprivamo un ruolo politico in grado di ridistribuire potere e garantire autodeterminazione.

Con Progetto 20K ho imparato a seguire ed essere partecipe attivamente di un contesto lontano, ma che aveva (ha) disperato bisogno delle boccate d’ossigeno che sappiamo portare. Ce lo si leggeva negli occhi quando, a settembre 2016, abbiamo deciso di trasformare il progetto estivo in uno di lungo periodo.

Coi mesi imparai a conoscere meglio i miei compagni e compagne di viaggio, alcuni già intravisti e mezzi conosciuti, altri completamente estranei, ma con cui da subito si è costruito un rapporto di amicizia e di fiducia, semplicemente perché si condivideva la stessa avventura. In realtà quest’ultima è molto più simile ad un vero e proprio viaggio: spostarsi dal proprio territorio e intrecciare, in un luogo altro, il viaggio delle persone migranti e contemporaneamente quello delle persone solidali, che ti sostengono come fossi un fratello o una sorella.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta organizzata da Progetto 20K il 14 luglio 2018.

Ricordo l’organizzazione della manifestazione “Ventimiglia – Città Aperta”: anche in questo caso si parla di una modalità e di un processo molto esteso, mai visto nell’Imperiese. Un progetto ambizioso che alla fine ha portato diecimila persone il 14 luglio 2018 a Ventimiglia, ma nei mesi prima rinunce, fatica e spossatezza erano all’ordine del giorno. A mano a mano che ci avvicinavamo alla data vedevamo quanto la nostra proposta si rispecchiava negli occhi di migliaia di singoli e organizzazioni in Italia e non solo. Una volta scesi per le strade della città, come molte volte (mi) succede, tutto diventa travolgente e gioioso. Proprio quella spensieratezza che caratterizza Progetto 20K è stata trasmessa ovunque.

Il turbinio di sensazioni che mi hanno attraversato e continuano a farlo le auguro a chiunque si provi ad avvicinare a Progetto 20K o ad altri percorsi. Sicuramente l’essere così inclusivo, aggregativo e stimolante è una peculiarità del nostro progetto, anche dopo aver conosciuto diverse realtà italiane è quasi impossibile trovare la stessa spensieratezza e serenità respirata con questa esperienza. Certo, a volte disordinata e confusa, forse anche avventata, se no che viaggio sarebbe?

 

In copertina: la manifestazione del 29 dicembre 2018 a Ventimiglia, organizzata da 20K per protestare contro la chiusura dell’infopoint Eufemia, che forniva assistenza legale e supporto ai migranti.

Foto tratte dalla pagina Facebook di Progetto 20k, tutti i diritti riservati.

Si ringraziano Claudio, Sara H., Elena e Francesco.

Quando raggiungere l’Italia era più facile

Negli ultimi articoli su Pequod abbiamo parlato molto dell’attuale sistema dell’accoglienza in Italia, intervistando chi nel nostro Paese è arrivato da poco e analizzando gli effetti dell’ultimo Decreto Sicurezza sulle politiche di integrazione. Ma com’era l’accoglienza dei migranti in passato? Come si arrivava in Italia in cerca di lavoro quando ancora non si parlava di “crisi migratoria”? Ne abbiamo parlato con Rosemary, 69 anni, senegalese arrivata in Italia negli anni ‘70 per seguire il marito italiano, e Deme, 40 anni, emigrato anche lui dal Senegal nei primi anni 2000.

Rosemary racconta di come all’epoca la migrazione fosse un fenomeno completamente diverso, in quanto ottenere un visto per l’Italia era ancora piuttosto semplice e il lavoro non mancava. Grazie al cambio conveniente, inoltre, «gli africani potevano costruirsi una casa al paese d’origine anche solo facendo i venditori ambulanti», mentre ora non è più così. Tuttavia, Rosemary precisa che non era tutto rose e fiori nemmeno in passato e che si è dovuta scontrare con la diffidenza che il suo matrimonio misto suscitava: «Quando sono arrivata io, ero la prima africana del paese e per di più sposata con un bianco, che era una vera rarità!». I pregiudizi nei confronti delle donne nere, infatti, non mancavano e Rosemary se lo ricorda bene: «Nei miei primi anni qui mi capitava che quando camminavo per rientrare a casa verso il tardo pomeriggio, c’erano uomini che mi accostavano con l’auto, dando per scontato che mi prostituissi».

Anche Deme sottolinea come vent’anni fa fosse molto più semplice di adesso trovare lavoro, ma, rispetto agli anni ‘70, ottenere dei documenti era già diventato molto più complicato e bisognava trovare delle strade “alternative”: «Quasi sicuramente trovavi un lavoro in nero, qualcuno ti prestava i suoi documenti, andavi alle cooperative e trovavi lavoro subito». Deme ricorda come fosse fondamentale il sostegno da parte della comunità di africani: i nuovi arrivati venivano accolti e ospitati da altri immigrati che poi li aiutavano a trovare un lavoro: «Dopo un mese di stipendio che rimaneva a te, iniziavi a contribuire alle spese della casa. Poi dal posto letto ti pigliavi una stanza, poi una casa in affitto. Era come una piccola comunità».

Deme (nome di fantasia) ha preferito non farsi ritrarre per evitare di essere riconosciuto.

Anche Rosemary concorda: «Vedrai sempre africani che si aggregano tra loro; superiamo insieme le difficoltà: dalla ricerca del lavoro, in cui saremo sempre la seconda scelta rispetto a un occidentale, all’aiutare chi di noi si ritrova senza documenti, magari dopo anni di presenza sul territorio». Questo spirito comunitario non si riscontra invece tra gli italiani, come ricorda con tristezza Rosemary, per cui lo scoglio più difficile da superare è stato proprio il loro atteggiamento freddo e individualista, ben diverso da quello senegalese a cui era abituata. A questo si aggiungevano le difficoltà linguistiche, che generavano a volte delle situazioni tragicomiche: «Mia suocera mi disse che per far brillare la cucina ci voleva “olio di gomito” e io girai tutti i negozi del paese per cercarlo, senza che nessuno si fermasse a spiegarmi che era un modo di dire».

Nei confronti dell’attuale sistema dell’accoglienza in Italia, Deme si dice piuttosto critico: «Da quello che vedo penso che ci sia troppa propaganda. (…) Dicono le parole, ma (…) i fatti non ci sono». Anche Rosemary, pur riconoscendo l’importanza di un sistema di accoglienza che all’epoca del suo arrivo era invece del tutto assente, nutre delle perplessità sulla situazione attuale, in particolare riguardo all’assenza di opportunità di crescita per i migranti: «Trovare un lavoro era d’obbligo negli anni ’80 se non si voleva diventare clandestini, mentre è quasi impossibile per questi ragazzi chiusi nei centri».

Tante cose sono cambiate rispetto al passato per i migranti che cercano di arrivare in Europa, ma il loro desiderio di scoperta e la voglia di riscatto sono ancora gli stessi di allora. Proprio per questo motivo sarebbe opportuno per noi europei tenere a mente le parole di Deme: «Quando uno parte (…) dal continente Africa per venire qua in Europa, lo fa per vedere con i suoi occhi, per capire e comprendere queste “altre realtà” che prima ha sempre solo sentito raccontare. Partendo da quella realtà africana, si porta dietro tutta la strada che ha fatto per arrivare fino a qua. Non è una strada proprio facile». No, non lo è per niente.

 

Articolo redatto da Lucia Ghezzi. Interviste a cura di Sara Alberti e Sara Ferrari.

Su richiesta dell’intervistato, è stato utilizzato il nome di fantasia “Deme” per proteggerne l’anonimato.

In copertina: foto di Antonello Mangano (CC BY-NC-SA 2.0).

Il sistema dell’accoglienza in Italia spiegato da un’esperta

L’approvazione del Decreto Salvini su immigrazione e sicurezza avvenuta il 5 ottobre scorso ha riportato in auge il tema dell’accoglienza (mai scomparso del tutto) all’interno del dibattito politico italiano. La nuova legge ha confuso un po’ le cose, tanto che se si vuole affrontare come funziona il sistema dell’accoglienza in Italia, bisogna fare una distinzione tra un pre-Decreto ed un post-Decreto. Per fare un po’ di chiarezza ho intervistato Alessandra Governa, operatrice legale all’interno di un ente SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).

«In questo momento lavoro in uno SPRAR come operatrice legale- spiega Alessandra – e sono specializzata in protezione internazionale». Essere un’operatrice legale all’interno di questi centri vuol dire principalmente orientare dal punto di vista legislativo e burocratico gli ospiti che ne abbiano la necessità. «Per diventare operatrice legale ho fatto un corso promosso dall’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) – mi dice Alessandra – che dal punto di vista della formazione è stato ottimo». Alessandra è stata anche a Ventimiglia come attivista del Progetto 20k, dove ha fornito assistenza legale alle persone che oltrepassavano la frontiera. Inoltre, ha lavorato per un certo periodo di tempo a Lampedusa: «Sull’isola ho fatto la volontaria per un’organizzazione umanitaria e devo dire che è stata un’esperienza che mi ha aiutato tantissimo a crescere nel campo dell’accoglienza ai migranti».

Ma cos’è, esattamente, uno SPRAR? A rispondere è sempre Alessandra: «Uno SPRAR è un centro di accoglienza in cui possono risiedere le persone che in genere hanno già ottenuto un certo tipo di protezione internazionale (anche se non è l’unico caso) per un periodo di sei mesi, fino a quando non viene ultimato il loro percorso di inclusione socio-lavorativa. La caratteristica principale degli SPRAR è quella di avere come primi attori i comuni, i quali danno in co-gestione alle organizzazioni umanitarie le abitazioni che accoglieranno i migranti». Parallelamente agli SPRAR, ci sono i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), i quali «non hanno i comuni come attori principali nella gestione, ma sono strutture private direttamente in contatto con la prefettura». CAS e SPRAR, però, sono le destinazioni finali di un percorso che inizia ben prima: «Le persone che arrivano in modo irregolare tramite la rotta balcanica o via mare, dopo aver richiesto asilo, vengono collocati in centri governativi, come gli hotspot dove avvengono i primi soccorsi medici e le prime identificazioni. Qui, i migranti possono formalizzare la domanda di protezione per poi essere trasferiti, a seconda delle necessità, nei centri di prima e seconda accoglienza, ovvero nei CAS o negli SPRAR».

Bisogna però specificare che attualmente, i CAS non offrono strutture adeguate per accogliere persone che provengono da un lungo viaggio come può essere quello dei migranti. I problemi igienico-sanitari ed il sovraffollamento sono più che comuni ed hanno già provocato numerose proteste, tuttavia, una vera soluzione non è ancora stata trovata.

Con il Decreto Salvini è stata inasprita principalmente la legislazione in materia di espulsione: nei CPR (Centri Per il Rimpatrio), infatti, rispetto a prima possono essere portate molte più persone che non necessariamente hanno ottenuto un decreto di espulsione. Inoltre, sempre per effetto del Decreto Salvini, è stato chiesto ai CAS di allontanare le persone con protezione umanitaria, in quanto sarebbero cessati i finanziamenti governativi atti ad aiutare questa categoria di migranti. Agli SPRAR invece: «Viene detto di ricevere solo le persone con protezione sussidiaria (protezione concessa a chi, pur non avendo una protezione internazionale e quindi lo status di rifugiato, fugge dal proprio Paese a causa di ogni tipo di persecuzione ndr) o i richiedenti asilo, ma non coloro in possesso di protezione umanitaria (concessa a chi non ha lo status di rifugiato, ma fugge per motivi umanitari come le guerre o i disastri naturali). Tuttavia, a questi centri di accoglienza viene data la possibilità di accogliere persone con altri tipi di permessi non attinenti alla protezione internazionale», mi spiega Alessandra che aggiunge: «Agli SPRAR è stato però concesso di continuare ad ospitare quelle persone che erano entrati con un permesso di protezione umanitaria prima del 5 ottobre, fino alla conclusione dei sei mesi». Ne consegue che gli SPRAR ed i CAS riceveranno molte meno persone e, in poco tempo, saranno portati a svuotarsi. Ciò va in una direzione completamente contraria rispetto all’idea di integrazione che c’è alla base dei CAS e degli SPRAR: la retorica salviniana, infatti, è incentrata sul potenziamento delle espulsioni e dei rimpatri, cosa che, per quanto la si possa sbandierare, è più facile a dirsi che a farsi.

È difficile immaginare, ora, come si evolveranno le cose, perché il decreto Salvini ha apportato dei cambiamenti significativi, ma, come conclude Alessandra: «sicuramente ci sarà un periodo di transizione per adattare ogni specificità alla normativa vigente. Alla fine, però, l’unica certezza è che le cose cambieranno: non è detto che ciò che c’era prima del 5 ottobre venga stravolto del tutto, ma non è neanche detto che rimanga invariato».

Africa, Europa e sensibilità: cosa sta dietro alla parola accoglienza?

Quanto spesso di sente parlare di accoglienza in questo periodo e quanto spesso questa parola viene strumentalizzata, bistrattata, trasformata, sfruttata? Nella maggior parte dei casi non ci si sofferma a soppesarla, a guardare cosa c’è dietro la facciata di quelle undici lettere, a pensare a cosa è davvero l’accoglienza. A come la vive chi la offre e a come la vive chi la riceve, ammesso che la riceva e che la voglia ricevere.

Pequod ha parlato di accoglienza con Lamine, di origine senegalese, che ha avuto modo di viverla in prima persona, e ha fatto capire a chi scrive che “accoglienza” è una parola piena di significati soggettivi e di punti di vista differenti che spesso, egoisticamente, ignoriamo.

Dove lavori e di cosa ti occupi nel tuo lavoro?

Sono operatore di un centro d’accoglienza e faccio il mediatore culturale in altri progetti. Il mio primo lavoro in Italia è stato da mediatore culturale con l’associazione Arcobaleno, con cui ho girato per le scuole per svolgere dei laboratori sulla cultura africana. In questa intervista, però, parla il Lamine africano, non l’operatore del centro di accoglienza.

Cosa è per te l’accoglienza?

Accoglienza è dare uno spazio, ma non fornire elementi per essere in questo spazio. Ad esempio, se io vengo da te e non ci siamo mai visti prima, tu mi dai il mio spazio, mi metti a mio agio, mi lasci portare quello che ho e quello che sono. Se non sai niente di me, non mi puoi accogliere. Sai quante volte mi è capitato che delle persone volessero cucinare per me un piatto italiano, e ci tenevano parecchio, ma non sapevano che io non mangiavo maiale? In particolar modo una signora, che ha insistito alquanto e lo desiderava moltissimo. Pensa che io ero invitato per la domenica, e lei aveva iniziato a cucinare già il giovedì! Il piatto ovviamente era buonissimo, ma io non mangiavo maiale. La signora però mi aveva dato il suo spazio a casa sua, mi aveva aperto le sue porte e non potevo rifiutare. Ho mangiato, perché per me quel gesto era più importante di ogni credo. In Senegal si dice “Se ti dà uno, non prendere dieci”: lasciare la propria casa per andare a casa di qualcun altro impone lasciare qualcosa all’altro e prendere qualcosa da lui. Altrimenti, se vuoi che le cose vadano come vuoi tu, devi stare a casa tua.

Qual è stata la cosa più difficile da accettare nell’accoglienza che hai ricevuto? E la più soddisfacente?

La mia sensibilità non è stata accolta, perché si vede lo straniero soltanto come uno statuto. Non ci si pensa, ma se si dice a qualcuno “sei un imbecille”, lo si dice alla maschera che ci si trova davanti, senza considerare il fatto che dietro a questa maschera ci sia una persona con la propria personale sensibilità.

D’altra parte, sono riuscito invece a vendere un’Africa che credo che possa essere qui, dei valori che ho ricevuto e che sono vendibili qui, un modo di essere con cui sono stato cresciuto, il modo di vedere la vita che ho e che mi hanno insegnato. Sono il vincitore del premio Tirafuorilalingua 2017 (concorso e festival dedicato a produzioni artistiche che celebrano, promuovono e valorizzano la lingua madre, ndr) per il quale ho scritto una poesia e un racconto sull’introduzione senegalese in società, intitolati Tutti insieme intorno allo stesso piatto. Ho descritto cosa si imparava dalla tradizione di mangiare insieme comportandosi in un certo modo e il significato di ogni singola azione. Credo che questi siano insegnamenti che si possono condividere in tutto il mondo.

Lamine durante la presentazione della sua opera Tutti insieme intorno allo stesso piatto al concorso Tirafuorilalingua 2017.

Reputo che bisogna essere consapevoli del fatto che l’africano in contatto con l’Europa, cioè l’esperienza di un africano che parte dall’Africa e poi arriva in Europa e trova determinate cose, crei un nuovo individuo. Questo individuo non è né africano né europeo, e lui stesso a volte fatica a riconoscersi. Io mi ritengo fortunato e sento di dovere tutto all’Africa, all’istruzione e alla formazione che ho avuto là.

Hai compiuto tutti i tuoi studi in Senegal o anche in Italia?

Ho studiato in Africa e iniziato anche l’Università, ma non l’ho finita. Una volta in Italia, non ho proseguito gli studi, perché non percepisco il riconoscimento del mio bagaglio culturale e perciò ritengo che non mi serva un titolo “vuoto”.

Pensi che le strutture di accoglienza siano adeguate a fornire effettivamente accoglienza?

Il centro di accoglienza mette in pratica quello che c’è nel bando della prefettura, quindi l’impostazione viene dall’alto. Bisogna però capire se si vuole accogliere o no e, soprattutto, per quale motivo accogliere? C’è una grande differenza: se mi accogli in casa tua per una notte e al massimo mi lasci la colazione è un conto, se mi accogli per la notte e poi vuoi farmi fare un lavoro è diverso, devi restare a spiegarmi come si fa, rimanere presente.

Lamine all’evento del lancio dell’edizione 2018 del concorso Tirafuorilalingua.

Cosa può fare un normale cittadino per accogliere?

Tanti normali cittadini già accolgono. La nonna mi diceva che noi non siamo tutti sensibili allo stesso modo. La formazione culturale e intellettuale fa sì che non abbiate nelle vostre corde l’accogliere un africano. C’è una sorta di senso di superiorità, perché dal momento in cui ci si pone in alto e quindi si guarda l’altro da sopra, si definisce l’altro come vittima. Non tutti però si sentono vittima, ognuno ha la propria sensibilità e il proprio modo di vedere le cose in questo caso.

La situazione odierna deriva dal fatto che l’Africa per molto tempo è rimasta immobile. Ricordo benissimo il mio professore di terza media, quando per spiegare la Rivoluzione Industriale ha introdotto l’argomento con queste parole: “mentre l’Africa è affetta da immobilismo, l’Europa affronta una crescita economica senza precedenti”.  Da quel momento ho iniziato a farmi domande su questo immobilismo africano: dall’Indipendenza fino ad ora che cosa si è fatto? Nel 2018 il Senegal ha ancora il programma scolastico che era stato imposto dal colonizzatore! E come mai nelle scuole europee la schiavitù si insegna in modo marginale? Per quanto riguarda i campi di concentramento nazisti tutti si fermano a riflettere, ne mantengono la memoria in una giornata precisa, mentre per la schiavitù non accade niente di tutto ciò. Sai quanti anni, quanti secoli è durata la schiavitù, e quante persone sono morte per questo motivo? Questi dati non vengono approfonditi.

Il discorso è abbastanza semplice: ai dirigenti europei in fondo conviene che le cose stiano in questo modo, se no poi non possono parlare d’altro. Come fai a vincere le elezioni senza parlare di immigrati? Ai governi africani d’altra parte conviene che la forza lavorativa emigri, almeno i dittatori non li butta giù nessuno. Ho un solo desiderio: ai dirigenti africani che vorrebbero comprare armi, date i vaccini.

In copertina: Dia Mouhamadou Lamine alla premiazione del concorso letterario Tirafuorilalingua 2017.

Tutte le foto sono state gentilmente fornite dall’intervistato, tutti i diritti riservati.

Storie di (non) accoglienza: dalla Nigeria alle Valli Orobiche

Blessed e Wisdom hanno in comune una buona parte del loro viaggio verso l’Europa: partiti entrambi dalla Nigeria, hanno attraversato il Niger, conosciuto l’arsura del Sahara e poi le sofferenze della discriminazione e della carcerazione in Libia. A Tripoli si sono incontrati sul gommone che li avrebbe trasportati fino alle coste italiane; un viaggio che avrebbe dato vita a un’amicizia, corroborata dal freddo dei monti delle valli orobiche prima e delle strade cittadine bergamasche poi.

Nel maggio 2017 sono attraccati a Vibo Valentia e in pochi giorni sono stati trasferiti dall’hotspot calabro al comune di Urgnano, nella pianura bergamasca; trascorse tre settimane hanno di nuovo raccolto i loro pochi averi per essere ricollocati nel Centro di Accoglienza Straordinaria istituito a San Simone (Valleve), località sciistica bergamasca nell’alta Valle Brembana, caduta in disgrazia a seguito del fallimento della società Brembo Super Ski, ente gestore degli impianti sciistici. Convertito a Centro d’accoglienza, l’albergo affacciato sulle piste avrebbe dovuto sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza; di fatto, i suoi ospiti hanno trascorso qui più di tre stagioni, prima della chiusura definitiva della struttura.

Abbiamo chiesto a Blessed e Wisdom, rispettivamente di 25 e 28 anni, che in comune hanno anche la revoca dell’accoglienza e quindi l’espulsione dal sistema dei centri per richiedenti asilo, di condividere con noi idee e opinioni sull’ospitalità italiana e di raccontarci le loro esperienze dal Centro di San Simone a oggi.

La protesta pacifica dei migranti a Valleve il 2 febbraio 2018.

Quanto è durata la tua permanenza nel Centro di Accoglienza di Valleve e perché ne sei stato allontanato? Dove vivi ora?

Blessed: «Ho trascorso a Valleve 5 mesi. A novembre sono stato allontanato dal Centro per un litigio con un altro ragazzo: era un periodo di forte nervosismo, perché arrivava l’inverno e noi ci vedevamo sepolti nella neve di San Simone. Una discussione futile è bastata a scatenare la rabbia di entrambi e il ragazzo è finito in ospedale con il setto nasale leggermente deviato. Ho trascorso due mesi alternando la vita in strada a brevi soggiorni in casa di alcuni ragazzi italiani che hanno deciso di aiutarmi, finché una di loro, trasferendosi in una casa spaziosa, mi ha accolto e ha compilato per me la Dichiarazione di ospitalità».

Wisdom: «Ci era stato garantito che non avremmo trascorso in quel centro più di 5 mesi, poi i tempi sono andati aumentando e la risposta della Cooperativa era sempre che “presto ci avrebbero trasferiti”. All’ennesima promessa disattesa, a febbraio 2018 abbiamo organizzato una manifestazione pacifica per chiedere di essere trasferiti: abbiamo bloccato la strada ai turisti, permettendo l’accesso solo ai bambini delle scuole e ai mezzi spalaneve; in pochi giorni sono arrivati i trasferimenti per la maggior parte di noi ospiti e io mi sono ritrovato a Urgnano e poi a Botta di Serina. Dopo due mesi, però, è arrivato per tutti i manifestanti l’avviso di revoca delle misure di accoglienza e abbiamo dovuto lasciare i vari Centri. Ora vivo per lo più con un connazionale, con documenti regolari, con cui divido le spese di affitto e bollette, ma sempre come ospite in una casa non mia: non ho le chiavi dell’appartamento e non posso aver intestato alcun contratto».

Due migranti intenti a spalare la neve presso il Centro di accoglienza di Valleve.

Cosa pensi del Sistema di Accoglienza italiano?

Blessed: «La sensazione, vivendo nei Centri di Accoglienza, è di essere un morto vivente. Non puoi prendere per te stesso neanche le decisioni più semplici: qualcuno stabilisce cosa mangi, come ti vesti, con cosa ti lavi. Non puoi muoverti liberamente, soprattutto se il Centro è isolato come a Valleve; non puoi cercarti un lavoro, ma al contempo sei obbligato a fare lavori gratuiti senza che nessuno ti ringrazi, anzi dovendo esser tu a ringraziare».

Wisdom: «Gli europei usano gli africani per business. Non ci viene data la possibilità di capire il sistema italiano, né le leggi che lo regolano; veniamo trasportati in questi Centri dove certo veniamo aiutati sulle necessità basilari, ma non abbiamo la possibilità di capire la nostra situazione e veniamo ricoperti di promesse, soprattutto sui tempi e sulle dinamiche per avere i documenti, che sono false. Sarebbe più giusto che ci venisse lasciata dell’autonomia».

Che impressioni hai ricevuto dalle persone incontrate in strada?

Sia Wisdom sia Blessed sottolineano quanti connazionali irregolari siano presenti sul nostro territorio: «Incontro persone nelle città italiane che vivono in Europa da 4/5 anni senza aver mai avuto un Permesso di Soggiorno, alcuni non sono mai stati convocati dalla Commissione Territoriale, altri hanno ricevuto esito negativo. Senza documenti non possono lavorare, né andare a scuola, né stipulare un contratto d’affitto, però rimangono qui perché tornare indietro è impossibile: la libertà che c’è qui non la ritrovi nella situazione che hai lasciato e il viaggio per l’Europa si è già mangiato tutti i tuoi risparmi e ha riempito la tua famiglia di aspettative».

Alcuni migranti fuori dal Centro di Valleve (Bg).

E gli italiani?

Wisdom: «Diciamo che il 40% degli italiani sono amichevoli, il restante 60% è quantomeno diffidente: spesso non ti rispondono quando parli con loro o rispondono in modo maleducato e si offendono se li tocchi».

Blessed è molto più pessimista: «La maggior parte degli occidentali è razzista verso i neri perché sono abituati a concepirci come schiavi. Certo ci sono le eccezioni, come la ragazza che mi ospita e gli amici conosciuti grazie a lei, ma sono una piccola percentuale».

Come pensi potrebbe migliorare il Sistema dell’Accoglienza?

Wisdom:«La cosa più importante è avere dei documenti che diano la possibilità di ricevere una formazione scolastica e accedere al mondo del lavoro. Il fatto di lasciare le persone senza documenti, in lunghe attese, è solo una perdita di tempo; meglio sarebbe dare dei documenti a breve scadenza, ma che diano la possibilità di rendersi autonomi».

Blessed: «Bisognerebbe fare in modo che gli immigrati non si sentano costretti ad attività illegali, quindi fare in modo che possano lavorare secondo le loro conoscenze e capacità e senza venir sfruttati e sottopagati. L’obiettivo di tutti gli immigrati è migliorarsi».

 

Su richiesta degli intervistati, i nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

In copertina: l’ingresso del paese di Valleve, BG (Celendir/Wikipedia/CC BY-SA 3.0)

L’abolizione dell’integrazione nel nuovo Decreto Sicurezza

Siamo ormai prossimi al compimento del primo bimestre dall’entrata in vigore del Decreto sicurezza e immigrazione, sebbene solo quindici giorni fa sia stata data convalida per convertirlo in legge. La sua applicazione decorre già dal 5 ottobre, per via dei connotati di emergenza della sua materia; titola infatti il Decreto: Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Già queste prime righe basterebbero a suscitare almeno un paio di perplessità. Da un lato, l’accostamento tra due problematiche che hanno tra loro caratteristiche di legalità decisamente diverse: se, infatti, è indubbio che la criminalità organizzata e le associazioni di stampo mafioso siano un problema storico in Italia, che continua a creare situazioni di sfruttamento di esseri umani e di uso illecito di denaro e a originare, in alcune città italiane, uno stato di vera e propria guerriglia armata, tuttavia, accostare tale problematica al fenomeno migratorio sembra quantomeno forzato.  In primo luogo perché la migrazione non sempre coincide con la clandestinità (e il Decreto discute anche aspetti legati all’acquisizione della cittadinanza italiana), ma soprattutto non per forza determina una situazione di insicurezza per lo stato accogliente.

Dall’altro lato, invocare lo stato di emergenza per rendere attivo il Decreto nell’immediato sembra più una mossa propagandistica che di politica assennata, dal momento che le problematiche sottolineate sono di vecchia data e necessitano di una programmazione di largo respiro per trovare soluzioni concrete. Inoltre, il fenomeno migratorio negli ultimi due anni ha mostrato un netto calo, stimabile intorno al -85%, passando dai 164˙872 immigrati del 2016 ai 114˙611 del 2017 e 22˙518 a metà Novembre 2018. A ciò si aggiunga la considerazione che, come più volte ribadito dal direttore dell’Inps Tito Boeri, l’arrivo di popolazione giovane in un Paese come l’Italia, caratterizzato da una contrazione del numero delle nascite (circa -2,65% dal 2017 al 2018) e in cui non si arrestano i movimenti di emigrazione (circa 285˙000 cittadini usciti dal Paese nel 2017, soprattutto appartenenti alle fasce giovani), è di supporto al bilancio economico. La questione era già stata affrontata nel 1998 con la Legge Turco-Napolitano che, considerando che per mantenere un bilancio attivo sarebbe stato necessario mantenere flussi di ingresso di circa 170.000 unita annue, stabiliva politiche volte a favorire l’immigrazione regolare.

Con il Decreto 480/2018 cambia innanzitutto l’approccio della Repubblica Italiana nei confronti dei richiedenti asilo. Attraverso l’Articolo 1 viene infatti abolito il diritto alla protezione umanitaria, previsto dal Testo unico sull’immigrazione del 1998 e figlio di un percorso della politica italiana che risale agli arbori della Costituzione stessa, che garantisce diritto di asilo a chiunque non goda nel Paese d’origine di una democrazia uguale a quella istituita in Italia. Dall’autunno di quest’anno, tale diritto non è più riconosciuto, ossia si disconosce la tutela nei confronti di coloro i quali rischiano nei paesi d’origine trattamenti disumani, degradanti o in conflitto con i loro diritti democratici. Si istituiscono invece “permessi speciali”, che variano dal permesso per cure mediche o per gravi maltrattamenti e/o sfruttamento (di validità annua fino al permanere delle condizioni ma convertibile in permesso di lavoro o di studio), al permesso per calamità naturali, valido solo su territorio nazionale per 6 mesi e non convertibile in un permesso di lavoro o di studio. A questi si aggiunge un permesso di soggiorno per chi si distingue per atti di valore civile, della durata di due anni e non rinnovabile.

La limitazione del rinnovo dei permessi, presentata come mezzo per garantire che non stazionino in territorio italiano persone che hanno perso il diritto a risiedervi, comporta nei fatti l’emarginazione, con la logica conseguenza che chi godrà di questi permessi speciali non sarà nei fatti motivato a essere contribuente dello sviluppo economico e sociale di una comunità di cui farà parte per un periodo di tempo ridotto. Allo stesso modo agisce l’articolo 13, che esclude il richiedente asilo dal diritto alla residenza nel comune in cui abita: la mancata residenza, infatti, comporta l’impossibilità di accesso al mondo del lavoro, rendendo impossibile l’assunzione regolare, così come l’esclusione da ogni tipo di formazione scolastica, dall’apprendimento della lingua italiana ai percorsi di specializzazione.

Ulteriore ostacolo al percorso integrativo è dato dall’abolizione del Sistema dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sprar), istituito nel 2002, che rimarrà attivo solo per minori non accompagnati e titolari di protezione internazionale. Il sistema verrà sostituito da Cara e Cas, ossia centri per l’accoglienza straordinaria, il cui orientamento non va in direzione di un’integrazione utile dei migranti, bensì del mero stazionamento di persone, limitate nei diritti di movimento, ricerca di lavoro, formazione scolastica e soprattutto autodeterminazione. Con la scusa di contrastare l’operato, senza dubbio non sempre corretto, delle cooperative cui lo Stato aveva delegato la gestione dei flussi migratori irregolari, anziché istituire un sistema di vigilanza volto a una trasparenza delle spese e a una garanzia dei fondamentali diritti degli ospiti di questi centri, si aboliscono insomma i diritti stessi, si tagliano le spese ricusando ogni utilità di investimento e si creano spazi in cui si nega ogni valore allo scambio interculturale e all’integrazione.

L’articolo 10, comma 3 della Costituzione italiana.

La criminalizzazione del migrante nel nuovo Decreto Sicurezza

Abolendo le politiche di integrazione, il Decreto sicurezza e immigrazione porta, nei fatti, al formarsi di una situazione di maggior instabilità e insicurezza sociale: le analisi storiche e sociologiche hanno infatti più volte dimostrato (spesso proprio con italiani migranti come principali soggetti d’indagine) che marginalizzazione e criminalità sono fenomeni che spesso si intrecciano. La risposta del Decreto è quella di incrementare la morsa restrittiva nei confronti di chi non rispetta la Legge: reati quali lesioni personali gravi, furto aggravato, con scasso o in abitazione, minaccia o violenza a pubblico ufficiale saranno infatti puniti con la revoca della protezione internazionale per chi sia titolare di tale diritto e l’accelerazione dei tempi del procedimento per chi sia richiedente. Se superficialmente l’ostracismo sociale può apparire come giusta conseguenza del mancato rispetto delle regole della comunità, di fatto il provvedimento pone in questione aspetti tanto etici, quanto pratici.

Di fondamentale importanza è il risvolto teorico ed etico della stretta sulla concessione del diritto di asilo. La nuova norma, infatti, pone sullo stesso piano il rispetto delle leggi in vigore all’interno di uno Stato e la tutela di diritti umani che dovrebbero essere universalmente riconosciuti e che sono appunto materia per il diritto d’asilo; come dire che chi non rispetta la legge è giusto venga privato di diritti inalienabili all’essere umano. Ma anche da un punto di vista meramente pratico, la riduzione dei tempi di attesa è più un’utopia che una possibilità fattuale. Chiunque abbia avuto esperienza degli iter che coinvolgono le richieste di asilo sa perfettamente che in Italia, sebbene la legge preveda che il richiedente svolga il colloquio con la Commissione Territoriale, posta a stabilire il suo diritto o meno allo status di rifugiato, entro 30 giorni dalla data di deposito della domanda e riceva l’esito circa 3 giorni dopo tale colloquio, di fatto i tempi di attesa arrivano a un anno/un anno e mezzo. Durante questo periodo il richiedente dispone di un permesso teoricamente a rinnovo semestrale, nella realtà spesso scaduto, ma considerato valido quantomeno ai fini del diritto alla presenza sul territorio, sebbene inadatto all’accesso a mondo del lavoro e dell’istruzione.

Per sveltire le procedure, la soluzione avanzata è quella di stilare una lista di “Paesi sicuri” e “Aree sicure” all’interno degli Stati, cosicché il richiedente proveniente da tali zone, la cui domanda sarà teoricamente presa in considerazione in tempi ridotti (14 giorni dal deposito della domanda, con esito entro 2 giorni), dovrà dimostrare di avere gravi motivi per non rientrare al proprio Paese o quantomeno in un’area del proprio Paese ritenuta sicura. Così impostata, la domanda si scontrerà con sempre minori possibilità di accoglimento, in quanto molti richiedenti partiranno da una posizione di richiesta illegittima, che dovranno argomentare con prove, non così facili da reperire, oppure si troveranno ad affrontare l’ennesimo ricollocamento in aree che di fatto non sono quelle d’origine, bensì limitrofe a quelle da cui fuggono. A ciò si aggiunga che interpretare la politica di alcuni Paesi di provenienza dei richiedenti asilo non è così semplice: moltissimi Stati dei continenti asiatico e africano, infatti, pur essendo paesi con cui l’Europa ha stabilito un dialogo politico e trattati economici, che fanno sì che ai nostri occhi appaiano come regioni sicure, di fatto vivono una politica interna non identificabile come democratica. Basti pensare, ad esempio, alle deboli democrazie di paesi come il Kenya (investito da guerriglia civile a ogni elezione per via dei brogli elettorali), il Togo (guidato dalla famiglia Gnassingbé dal 1967), la Guinea Equatoriale (in balia di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo dal 1979, seguito alla dittatura del primo presidente post-coloniale nonché suo zio); oppure i numerosi stati in cui è illegale l’omosessualità, dal Bangladesh (in cui è previsto l’ergastolo) alla Nigeria (fino 10 anni di carcere), o addirittura l’omofilia, considerata reato d’opinione.

La cittadinanza dei richiedenti asilo negli Stati dell’Unione Europea, secondo quadrimestre 2018.

Conseguenza diretta del restringersi delle possibilità di asilo e della rimozione del Sistema d’accoglienza  diventa la presenza sul territorio italiano di un sempre maggior numero di individui sprovvisti di documenti che ne legittimino il soggiorno. Ad oggi si calcola che gli immigrati irregolari in Italia siano all’incirca 500˙000 e che il paese sia in grado di rimpatriarne 7˙000 all’anno. Al fine di potenziare le misure di rimpatrio, recita l’articolo 6 del Decreto, il Fondo[…] è incrementato di 500.000 euro per  il 2018, di 1.500.000 euro per il 2019 e di 1.500.000 euro per il 2020. Problema non risolto è il fatto che, per quanto denaro l’Italia decida di investire nei rimpatri, non sussistono accordi internazionali con i Paesi d’origine, eccezion fatta per la Tunisia, e quindi mancano i presupposti politici per attuare quanto disposto per legge.

Del resto, proprio queste carenze nella comunicazione politica internazionale sono stati in passato alla base del problema del sovraffollamento dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), il cui lavoro viene ulteriormente incrementato dal Decreto 480. Da un lato, infatti, nei casi di difficoltà di verifica dell’identità dei richiedenti, si dispone la possibilità di prolungare la permanenza, stabilita a un massimo di 30 giorni, negli hotspot e nelle strutture di prima accoglienza (CAS e CARA), ricollocandoli per ulteriori 180 giorni in CPR e, quindi, su disposizione del Giudice di Pace, in “strutture  diverse e idonee  nella disponibilità dell’Autorità  di pubblica sicurezza”. Dall’altro si raddoppiano i tempi di possibile permanenza in CPR, da 90 a 180 giorni, stanziando a tal fine “1.500.000 euro per l’anno 2019, per i quali si  provvede  a valere sulle risorse  del Fondo Asilo, Migrazione  e Integrazione (FAMI), cofinanziato  dall’Unione Europea per il periodo   di programmazione 2014-2020″.

Numeri dell’accoglienza in CAS e CARA rispetto agli SPRAR; da sempre si evidenzia un sovraffollamento dei Centri di prima accoglienza rispetto al Sistema dell’accoglienza.

Una disposizione che non tiene minimamente conto delle numerose segnalazioni dell’inadeguatezza strutturale e funzionale di questi centri nel garantire dignità e diritti.  Lungi dall’essere aree di accoglienza, queste strutture rappresentano piuttosto centri di detenzione, i cui ospiti sono privati della loro libertà personale, pur non avendo di fatto compiuto alcun reato.

La rete solidale di Progetto 20k a Ventimiglia e oltre

Negli ultimi anni la questione dell’immigrazione si è imposto come tema focale del dibattito politico in Italia e in Europa. Diversi partiti e movimenti in tutto il continente hanno fatto della lotta all’immigrazione il cardine dei propri programmi elettorali, inneggiando alla chiusura delle frontiere e alle espulsioni forzate, senza elaborare delle proposte serie per la gestione adeguata del flusso migratorio e per favorire l’integrazione. A questo clima di populismo opportunista e immobilismo politico, tuttavia, si contrappongono realtà come 20k, progetto nato del 2016 che fornisce supporto ai migranti che gravitano intorno alla frontiera di Ventimiglia (IM). A un anno e mezzo di distanza dalla nostra prima intervista ai volontari del Progetto, li abbiamo ricontattati per capire com’è la situazione al confine di Ventimiglia oggi e come stanno vivendo questo clima politico. Ne abbiamo parlato con Stefano Quaglia, studente di Scienze Politiche a Bologna, che per 20k si occupa dell’organizzazione e coordinazione di eventi e di gestire le relazioni con altre realtà e associazioni esterne.


Come è cambiato il Progetto 20k nell’ultimo anno e mezzo?

20k è un progetto, non un collettivo, e in quanto tale è in continua evoluzione, grazie proprio ai diversi contributi delle persone che man mano vi prendono parte. Nell’ultimo anno e mezzo, infatti, diversi nuovi volontari, di cui un gruppo già facente parte di Non una di meno Genova, hanno iniziato a collaborare al progetto, portando quindi con sé le proprie idee ed esperienze.
La svolta principale per 20k è stata la decisione di organizzare una grande manifestazione a Ventimiglia per l’estate 2018, Ventimiglia Città Aperta, che ha avuto luogo lo scorso 14 luglio. Questo evento, che ha visto la partecipazione di quasi 10.000 persone, è stato un vero salto di qualità per il Progetto, perché ha rappresentato il coronamento degli sforzi compiuti negli ultimi due anni, dandoci un riscontro tangibile del nostro lavoro. La manifestazione ci ha inoltre permesso di allargare la nostra rete di relazioni sia a livello nazionale che locale. Abbiamo ricevuto l’appoggio di piccole associazioni del territorio, studenti delle superiori e anche di privati, cioè in generale della società civile cosciente della questione migratoria e che cerca e vuole essere un’alternativa alle politiche attuali. Diverse realtà locali sono ora partner del Progetto e partecipano attivamente alle nostre iniziative.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta del 14 luglio 2018.

Com’è quindi la situazione a Ventimiglia oggi? Il clima politico ostile ha peggiorato la situazione?

Noi di 20k ci teniamo sempre a far presente che dal 2015 a oggi Ventimiglia è sempre stato un laboratorio di pratiche repressive (ma fortunatamente anche di pratiche solidali). Il Sindaco PD Enrico Ioculano, infatti, non ha mai favorito le attività a sostegno dei migranti, vietando ad esempio la distribuzione di cibo e altre iniziative di solidarietà ben prima che anche altri comuni in Italia si muovessero in tal senso.

Detto ciò, sicuramente le posizioni ostili e intolleranti dell’attuale governo Lega-Movimento 5 Stelle hanno contribuito ad accrescere le tensioni sociali e le tendenze xenofobe e razziste anche a Ventimiglia. Grazie alla manifestazione del 14 luglio, infatti, avevamo guadagnato sostegno nel territorio e godevamo quindi di un po’ più di tolleranza anche da parte delle istituzioni; tuttavia, in seguito al Decreto Sicurezza presentato dal governo a settembre e alla circolare del 1° settembre del Ministero degli Interni che chiedeva ai prefetti di intensificare i controlli delle occupazioni, abbiamo subito percepito un inasprimento della repressione nei nostri confronti. La polizia ultimamente si è presentata sempre più spesso al nostro infopoint Eufemia, che ha sede presso un ufficio da noi regolarmente affittato, chiedendo i documenti e cacciando i migranti dall’area. Questi controlli e rastrellamenti su base etnica avvenivano regolarmente anche ben prima di settembre, ma è innegabile che negli ultimi mesi si siano intensificati.


Qual è invece la posizione della popolazione dell’area di Ventimiglia nei confronti dei migranti e del vostro progetto?

Una componente della popolazione di Ventimiglia rimane purtroppo fortemente ostile ai migranti presenti sul territorio; è filo-leghista e in alcuni casi anche filo-fascista, date le minacce di morte inneggianti a Traini (l’autore dell’attentato di Macerata del 3 febbraio 2018, ndr) ricevute dal Sindaco lo scorso marzo. Il resto della comunità sostiene invece il Sindaco PD Ioculano, considerandolo come il salvatore umano che in realtà non è.

Nell’ultimo anno siamo comunque riusciti a instaurare collaborazioni e portare avanti attività con varie realtà locali di tutto il territorio che da Nizza arriva fino a Sanremo e Imperia. L’eccezione è proprio Ventimiglia, dove riscontriamo ancora difficoltà nel creare una rete di collaborazioni, in quanto le associazioni principali, come ad esempio l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani, ndr) e la Spes (associazione a sostegno delle famiglie di disabili, ndr), sono fortemente legate all’amministrazione Ioculano. Abbiamo invece un buon riscontro dalla popolazione civile, in particolare da parte degli studenti e di diverse famiglie, che hanno aderito con entusiasmo al nostro progetto e ci supportano nelle nostre iniziative.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta del 14 luglio 2018.


Sulla base della vostra esperienza sul campo, qual è secondo voi nella pratica la strada giusta da percorrere per opporsi al razzismo e all’intolleranza?

Noi riteniamo che l’autodeterminazione e la possibilità di decidere della propria esistenza siano  fondamentali. Per questo motivo, non pensiamo che iniziative come l’ “Accademia per l’integrazione” di Bergamo, che ha la stessa impostazione di una scuola militare, siano soluzioni valide.

Per noi la strada da percorrere è quella di fare pratiche di solidarietà attiva creando più sinergie e alleanze possibili. Anche per questo motivo il movimento di Non Una di Meno rappresenta per noi un modello da seguire, perché è riuscito a creare una rete e un lessico globale. Noi stiamo cercando di fare lo stesso, cioè di rendere la soluzione del problema migratorio una questione transnazionale, costruendo alleanze diversificate e coinvolgendo più realtà e persone possibili.


Quali sono i vostri progetti e obiettivi per il prossimo futuro?

In questi mesi vorremmo innanzitutto organizzare dei momenti di “monitoraggio collettivo”, cioè coinvolgere anche piccole organizzazioni e persone locali nelle nostre attività usuali di monitoraggio del territorio, finalizzate a dare informazioni ai migranti, denunciare abusi e testimoniare e comunicare quanto accade al confine.

Oltre a questo, il nostro obiettivo è di organizzare per fine dicembre o inizio gennaio un grande evento pubblico informativo culturale, che coinvolga come detto molte realtà, figure e associazioni diverse tra loro, per raggiungere e sensibilizzare un pubblico più vasto possibile.

 

L’intervista è stata ridotta e riadattata per maggiore chiarezza.

Foto tratte dalla pagina Facebook di Progetto 20k, tutti i diritti riservati.

Immigrazione: la sfida politica del nuovo millennio

La grande agitazione sulle politiche di immigrazione vissuta in Italia negli ultimi anni e gli accesi scontri fra le varie parti politiche rivelano le difficoltà di una Nazione nel gestire uno degli effetti più dirompenti della fenomeno globalizzazione. L’Italia si è trovata a gestire il passaggio da Paese di emigrati a Paese di immigrazione in pochi decenni, fino a giungere ad essere uno degli Stati maggiormente interessati dai flussi migratori con un numero di immigrati, contando i soli soggetti regolari, che oggi supera i 5 milioni di individui. Il rischio di una transizione così veloce ma mal gestita porta ad una chiusura del Paese verso questo fenomeno e, di conseguenza, ad una drastica restrizione dei diritti dei migranti, e le leggi prodotte negli ultimi 20 anni ne sono la prova.

La legge n. 40/1998, la cosiddetta legge Turco-Napolitano, fu la prima legge sull’immigrazione italiana di carattere generale non approvata in circostanze emergenziali. La connotazione principale fu la definizione della programmazione dei flussi migratori integrata alla politica estera nazionale tramite un sistema di quote privilegiate a favore dei Paesi che collaboravano al rimpatrio di immigrati espulsi dall’Italia. Un suo grandissimo merito fu certamente l’introduzione nel sistema normativo italiano del Testo Unico sull’immigrazione, più volte modificato, il quale concentrava al suo interno tutte le norme nazionali riguardanti questo settore, contribuendo a semplificare e rendere più snella ed ordinata la normativa italiana in materia. La legge Turco-Napolitano operò sia in ottica di un’integrazione degli immigrati (tramite la previsione dell’ingresso per ricerca di lavoro, la carta di soggiorno per stabilizzare i residenti di lungo periodo e l’estensione delle cure sanitarie di base anche agli immigrati clandestini), sia potenziando le politiche di controllo ed espulsione, necessarie per i bisogni nazionali. Vennero così aumentati i casi nei quali l’irregolare espulso poteva essere passibile di accompagnamento alla frontiera e vennero previsti i Centri di Permanenza Temporanea ed assistenza (CPT) per trattenere ed identificare gli immigrati ed eventualmente espellerli.

La manifestazione contro i CPT e la legge Bossi-Fini in occasione dello sciopero dei migranti a Bologna nel 2010 (© Gabriele Pasceri / CC BY-NC-SA 2.0).

Negli anni successivi l’immigrazione crebbe ulteriormente anche per effetto dell’ingresso di nuovi Stati nell’Unione Europea e di conseguenza aumentò anche il numero degli aventi diritto al transito ed al soggiorno in Italia, che resero ancora più infuocato il dibattito politico su queste tematiche. Questa stagione venne inaugurata dalla legge n. 189/2002, la cosiddetta legge Bossi-Fini, la quale modificava in modo rilevante la Turco – Napolitano in senso restrittivo per i cittadini extracomunitari interessati ad immigrare in Italia. La nuova legge da un lato inasprì i controlli su chi già risiedeva in Italia, accorciando da 3 a 2 anni la durata dei permessi di soggiorno, introducendo la rilevazione delle impronte per tutti gli stranieri ed il reato di permanenza clandestina; dall’altro intervenne anche sulle nuove entrate, creando una procedura unica, basata sul contratto di soggiorno, la quale rendeva molto più difficile per il cittadino extracomunitario venire a lavorare legalmente in Italia. Questa legge fu però accompagnata da una gigantesca sanatoria, la più massiccia della storia europea, che coinvolse oltre 650.000 individui.

L’avvento di un nuovo governo di centrodestra, nel 2008, portò a un ulteriore irrigidimento della normativa tramite il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, varato dall’allora ministro Maroni, il quale introduceva nuove fattispecie di reato per gli immigrati e l’espulsione per cittadini UE o extracomunitari condannati alla reclusione superiore ai 2 anni. La legge poi prevedeva per la prima volta il reato di ingresso e soggiorno illegale, nonché un ulteriore allungamento dei tempi massimi di trattenimento (fino a 6 mesi) nei CPT, ora ribattezzati CIE, Centri di identificazione ed espulsione.
Tale impostazione, la più restrittiva mai vista in Italia, venne parzialmente mitigata dalla successiva attuazione delle direttive europee, tra tutte, la cosiddetta “
direttiva rimpatri” del 2008, che disciplinava le norme e le procedure di rimpatrio di cittadini irregolari di Paesi terzi col fine di creare una politica di rimpatrio comune degli Stati membri, umana e rispettosa dei diritti fondamentali, coordinando le legislazioni dei vari Paesi UE.
In seguito, la legge n. 46/2017 , accelerò i procedimenti in materia di protezione internazionale, istituendo 26 Corti specializzate in materia di immigrazione e prevedendo procedure più snelle per il riconoscimento della protezione internazionale e dell’espulsione degli irregolari, basate sui colloqui con le Commissioni Territoriali.

Rifugiati siriani e iracheni provenienti dalla Turchia vengono aiutati a sbarcare sull’isola greca di Lesbo dai membri della ONG spagnola “Proactiva Open Arms” nell’ottobre 2015 (© Ggia / Wikipedia / CC BY-SA 4.0).

Da ultimo, l’avvio del nuovo Governo Conte si è caratterizzato, nelle prime settimane, da azioni energiche ad opera del neo ministro degli Interni Salvini, come quella di chiudere i porti alle navi delle O.N.G. che svolgevano attività di soccorso in mare dei migranti naufraghi. Le dichiarazioni che hanno accompagnato tali provvedimenti hanno poi incentivato notevolmente il sentimento di xenofobia e odio etnico già percepibile nel paese. Andando oltre queste azioni eclatanti da campagna elettorale, è il caso di soffermarsi piuttosto sui dieci punti portati dal premier al vertice di Bruxelles lo scorso 24 giugno:

  1. Intensificare accordi e rapporti tra Unione europea e Paesi terzi da cui partono o transitano i migranti.
  2. Istituire Centri di protezione internazionale nei Paesi di transito per valutare richieste di asilo e offrire assistenza giuridica ai migranti, anche al fine di rimpatri volontari.
  3. Rafforzare le frontiere esterne.
  4. Superare il Regolamento di Dublino, secondo cui una domanda di asilo dovrebbe essere lavorata da un solo Stato membro
  5. Superare il criterio del Paese di primo arrivo: chi sbarca in Italia, sbarca in Europa.
  6. Affermare la responsabilità comune tra gli Stati membri dei naufraghi in mare.
  7. Contrastare a livello europeo la “tratta di esseri umani” e combattere le organizzazioni criminali che alimentano i traffici e le false illusioni dei migranti.
  8. Istituire Centri di accoglienza in più Paesi europei per salvaguardare i diritti di chi arriva ed evitare problemi di ordine pubblico e sovraffollamento.
  9. Contrastare i “movimenti secondari”, ossia gli spostamenti dei richiedenti asilo tra i vari Stati dell’UE, attuando i punti precedenti (soprattutto la riforma degli accordi di Dublino), rendendo così di fatto gli spostamenti intra-europei di rifugiati meramente marginali.

     

  10. Stabilire delle quote di ingresso dei migranti economici in ogni Stato.

Tuttavia, solo una governance che non sia impostata sulla responsabilità della singola Nazione ma sia condivisa a livello europeo può gestire queste responsabilità ed un problema che oggi può sembrare affare di pochi Paesi di confine, un domani potrebbe essere avvertito come proprio dell’intero continente. Meglio allora sarebbe incominciare a lavorare tutti per una vera Unione solidale tra Stati.

In copertina: dei migranti siriani provenienti dalla Turchia vengono tratti in salvo sull’isola greca di Lesbo nell’ottobre 2015 (© Ggia / Wikipedia / CC BY-SA 4.0).

La vita a Bruxelles dopo gli attentati

Raccontando i luoghi della storia della guerra che si combatte tra terrorismo islamico e cultura europea,  è impossibile non citare Bruxelles, città più e più volte protagonista in questi anni di articoli e telegiornali, illuminata da riflettori che piovono da più direzioni.

In questa florida città, capitale della piccola Monarchia Costituzionale del Belgio, l’Europa ha infatti posto il proprio centro politico e decisionale; qui si incontrano politici da tutto il mondo per prendere accordi, da qui dipartono tutte le direttive rivolte all’Europa come Comunità.

In questo senso, stupisce quasi che i primi attentati non si siano verificati proprio qui, nella culla del potere politico europeo; ma il ruolo di Bruxelles nelle dinamiche dei progetti degli estremisti era di tutt’altro tipo: di cittadinanza belga sono molti degli attentatori e dei programmatori degli attacchi, di cui diversi fermati proprio a Bruxelles.

Bruxelles è oggi contemporaneamente sede del Parlamento Europeo, della Commissione Europea e del Consiglio dell’Unione Europea, rappresentando il luogo delle decisioni sulle misure antiterroristiche, e centro delle preoccupazioni dei politici europei, che accusano il Belgio tanto di essere il paese che fornisce più combattenti alla jihad, quanto di essere uno Stato disorganizzato dal punto di vista della sicurezza.

  

Una preoccupata attenzione è sempre stata rivolta al quartiere Molenbeek, a dieci minuti dalla Grand Place nel centro di Bruxelles, presunto rifugio di diverse cellule terroristiche. A Molenbeek si raccoglie una delle più coese comunità islamiche: il quartiere conta circa 90̇000 abitanti, di cui l’80% di religione musulmana; in poco meno di 6 km² si contano 22 moschee. Qui è stato arrestato Salah Abdeslam, attentatore di Parigi.

E’ stato invece il quartiere di Maelbeek che ha subito un attacco e ricevuto la sua ferita: il 22 Marzo 2016 un’esplosione distrugge la fermata metropolitana del quartiere, provocando una ventina di morti.

A raccontarci di quel giorno è Olga, ventiquattrenne belga che da quattro anni vive in centro a Bruxelles, a dieci minuti di metro da Maelbeek: «Il giorno dell’attentato, ero a letto quando la mia coinquilina ha bussato alla porta della stanza per dirmi di guardare i giornali. C’era appena stato il primo attacco all’aeroporto. Lei era in panico: avrebbe dovuto prendere un volo il giorno dopo e continuava a pensare che sarebbe potuta essere lì. Un’ora dopo, alle 9 del mattino, c’è stato l’attacco alla stazione metropolitana di Maelbeek. Molte persone prendono la metropolitana per andare al lavoro a quell’ora; era spaventoso pensare che alcuni amici potessero essere lì. Sono rimasta a casa tutto il giorno controllando gli aggiornamenti, chiedendo alle persone se erano al sicuro e rassicurando gli altri che io stavo bene. L’atmosfera a casa era davvero pesante. Avevo un appuntamento quel giorno; volevo andare, ma ho realizzato che non c’erano treni in circolazione».

La risposta della popolazione di Bruxelles, però, è stata immediata; non c’era alcuna intenzione di lasciarsi schiacciare dalla paura suscitata da questi attacchi: «Nel tardo pomeriggio ho letto i messaggi su Facebook di alcuni amici che dicevano di riunirsi in Bourse Square, portando dei gessetti per scrivere messaggi di pace e tolleranza. Ho partecipato e mi ha fatto sentire meglio. È stato bello vedere le persone riunirsi, cantare e portare fiori. L’atmosfera era strana, davvero molto strana: ricca di emozioni!».

Certe ferite non si rimarginano in un giorno, ma Olga ci racconta di come in breve tempo la vita di tutti giorni abbia ripreso il suo ritmo regolare, probabilmente anche grazie alla resistenza pacifica portata avanti dai cittadini di Bruxelles, fin da quella prima serata di Marzo 2016.

«Il giorno dopo l’attentato, – ricorda Olga – i trasporti pubblici erano ancora vuoti. Alcune persone della mia famiglia dovevano venire a Bruxelles per una performance, ma non hanno potuto farlo. Credo però che per le persone che vivono nella città, la vita sia ricominciata abbastanza velocemente. Ad oggi, non noto nessun cambiamento, né è cambiato qualcosa nella mia vita di tutti i giorni. Ma quest’anno ho lavorato con i rifugiati e ho realizzato che sono loro le vere vittime di questi attentati».

Il problema che Olga mette in luce non è di poco conto: se i cittadini di Bruxelles hanno immediatamente risposto al terrore suscitato dagli attentati con spirito di coesione, non così è stato per le decisioni prese dal Governo, volte a contenere l’immigrazione e ridurre le possibilità di asilo. «Per gli immigrati è diventato sempre più difficile ottenere i documenti. – spiega ancora Olga – Le leggi emanate, che pretendono di proteggere la sicurezza nazionale, stanno di fatto disconoscendo i diritti degli stranieri».

Le sue preoccupazioni, sebbene più vaghe, sembrano passare da un livello nazionale ad uno più ampio, quando chiediamo a Olga un’opinione sugli effetti di questi attacchi sulla Comunità Europea: «Non so molto riguardo l’Europa e il terrorismo; non conosco esattamente le misure prese a livello europeo per combattere il terrorismo, quindi non posso dire se sono o meno d’accordo. Tuttavia, da diversi punti di vista, sono decisamente scettica riguardo le politiche europee».

Dentro e fuori la Polonia post elezioni

La Polonia decide di svoltare drasticamente a destra: il partito nazionalista PiS (Diritto e Giustizia) dell’ex primo ministro Kaczynski ha raggiunto la maggioranza assoluta dopo le ultime elezioni. La premier designata Beata Szydlo ha la possibilità, quindi, di formare un esecutivo senza coalizioni politiche e con oltre la metà dei seggi della Dieta (Sejim in polacco, la camera bassa del parlamento) disponibili. Non era mai successo dal 1989. Come non era mai successo che, dalla caduta dell’Unione Sovietica, ad entrare in parlamento fossero solo partiti di destra o di centro-destra lasciando fuori quelli tradizionalmente di sinistra. Foto 1

‘’Portiamo Budapest a Varsavia’’, recitava uno degli slogan in campagna elettorale e il rischio che la Polonia si trasformi in un’Ungheria stile Orbàn è più di una semplice ipotesi. Del resto l’ideologia nazionalista anti-europeista, xenofoba, e anti-immigrazione del partito di Kaczynski è ben nota. Tanto è vero che, sempre in campagna elettorale, la destra polacca sosteneva la necessità di fermare i flussi migratori perché ‘’portatori di malattie e minaccia alla sicurezza del Paese’’ (da La Stampa on-line del 25/10/2015) considerandoli un vero e proprio ‘’problema’’. Posizione che trova terreno fertile in Polonia anche perché buona parte della popolazione non ha visto di buon occhio il fatto che il governo precedente abbia accettato le quote di rifugiati richieste da Bruxelles. Non meno pesante è la dichiarata volontà di sottrarsi ai diktat europei e alla non adesione all’euro, rilanciando la crescita del Paese difendendo i valori cattolici e patriottici. La Polonia sarà un po’ meno tedesca, quindi, e sempre più lontana dall’orbita di Mosca a tal punto che si fa largo l’ipotesi di incrementare il numero di basi militari Nato sul suolo polacco.Foto 2 (1)

Gioisce Matteo Salvini che, appena dopo le elezioni, scrive sul suo profilo Facebook ‘’Grazie Polonia! Il libero voto dei polacchi è la vittoria di chi sogna un’Europa diversa, più attenta al lavoro e meno agli interessi di banche e multinazionali, incalzando sul tema dell’immigrazione ‘’ha stravinto chi vuole controllare l’invasione clandestina e pensa prima al lavoro e ai diritti della sua gente’’. Si schiera dunque a favore del nuovo governo polacco la Lega Nord, prospettando che presto una svolta radicale di tale portata arriverà anche in Italia. Chi non è contento è la cancelliera Angela Merkel che vede andare in fumo il processo di integrazione portato avanti con Varsavia negli ultimi anni, e l’ombra del sentimento anti-tedesco aleggiare sulla Germania.Foto 3 (1)

L’Europa sta vivendo un periodo di transizione: le elezioni polacche hanno messo in ginocchio il continente contribuendo alla nascita di un forte fronte anti-europeo e soprattutto ultranazionalista. Quali conseguenze porterà tutto ciò? È presto per dirlo, ciò non toglie che quello che aspetta l’UE potrebbe essere un futuro molto incerto.

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
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