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Natale con chi vuoi: famiglie disfunzionali e rapporti tossici, per un Natale alternativo

Mentre al cinema, in un’annata segnata dal declino dei cinepanettoni all’italiana, troviamo  la drammatica reunion familiare di È solo la fine del mondo di Xavier Dolan, vi proponiamo alcuni suggerimenti per opere capaci di elaborare, in modo sempre nuovo, sia dal punto di vista narrativo, sia da quello linguistico, l’universo – non sempre pacifico, né lineare – dei rapporti umani. Un breve viaggio tra piccole gemme indipendenti o capolavori di alcuni anni fa, che sezionano famiglie disfunzionali, riallacciano morbosamente rapporti perduti, accettano la sfida di rinnovati incontri e la nascita di nuove prospettive relazionali.

Nel 1998, Thomas Vinterberg esce nelle sale con Festen (in copertina, gli attori), vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes e primo film del provocatorio movimento Dogma 95, di cui è co-fondatore assieme a Lars von Trier. Una festa in famiglia per i sessantanni del patriarca della famiglia Klingenfeldt finisce per esplodere in un incontro-scontro generazionale amarissimo ma mai privo di un cinico humour; con una vertiginosa camera a mano che ci conduce all’interno di salotti e camere in cui la rigidità della forma e il rispetto delle gerarchie si ritrovano a fare i conti con chi fa emergere segreti che si pensavano dimenticati.

Natale Pequod The Reunion
The Réunion

Poco meno di vent’anni dopo, The Reunion dell’artista danese Anna Odell – presentato alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia – è un documentario-performance unico nel suo genere, un’esperienza totalmente disarmante per lo spettatore. Una volta scoperto di non essere stata invitata alla rimpatriata organizzata dai vecchi compagni di classe, la filmmaker decide di mettere in scena una cena fittizia, un grido di vendetta nei confronti dei ripetuti episodi di bullismo subiti in passato, in una continua sovrapposizione tra il piano del reale e quello della finzione.

Più classico, Racconto di Natale, capolavoro di Arnaud Desplechin, dipinge l’incontro di una famiglia che si ritrova a festeggiare un natale più amaro che dolce, un racconto corale tra antichi rancori, la possibilità di nuovi speranze e riconciliazioni apparentemente remote. Una splendida saga familiare condensata in poco più di due ore, che sicuramente rappresenta uno dei  migliori esempi del cinema francese dell’ultimo decennio e un imperdibile recupero nelle malinconiche serate natalizie.

God Bless the Child intreccia nuovamente documentario e fiction seguendo i cinque figli del regista Robert Machoian – autore del film assieme a Rodrigo Ojeda-Beck – in un viaggio all’interno di una giornata in cui, abbandonati senza apparente motivo dalla madre, si vedono costretti a lasciarsi andare ad un’innocente autarchia. Un liberatorio, divertente sguardo su un microcosmo di bambini capaci di farsi intera famiglia, dimentichi di ogni costrizione imposta  dall’alto. Un’autodeterminazione che nasce dal racconto e dal mezzo, per un film che sfugge ad ogni categorizzazione, che incrocia e mescola reale e trasognato, scrittura ed interpretazione dei piccoli protagonisti che dominano, con grande naturalezza, lo schermo.

Natale Pequod God bless the child
God bless the child

Presentato a Torino nel 2014 e mai distribuito in Italia, The Guest è uno splendido thriller che echeggia il Refn di Drive e che trova la sua forza anche in una colonna sonora dominata dalla darkwave e dal synthpop, che accompagna magistralmente la discesa in spazi sempre più claustrofobici.  La visita di un soldato alla famiglia di un compagno morto in battaglia diventa occasione per accoglierlo all’interno della loro luttuosa quotidianità, mentre incubi e fantasmi dell’ospite inatteso cominciano lentamente a prendere  il sopravvento.

Un thriller che emerge questa volta dalle pieghe del reale è invece al centro del caso raccontato da Bart Layton in The Imposter, documentario che pedina le vicende che seguono il ritorno a casa, a tre anni e mezzo dalla sua scomparsa, di un adolescente nel cuore del Texas. Ma è un ricongiungimento che si tinge di giallo perché il ragazzo, sebbene riaccolto calorosamente tra le mura domestiche, appare sin da subito radicalmente trasformato sul piano fisico e caratteriale.  Il sospetto che non tutto sia realmente al posto giusto monta pian piano, mentre si ricompongono i pezzi di un puzzle dalle tessere frastagliate…

«I’d rather be a rebel than a slave»: per un nuovo cinema femminista

Suffragette è uno dei tanti film del 2015 ad aver superato il test di Bechdel: ci sono almeno due donne identificate con il proprio nome, le quali parlano tra loro, ma l’argomento della discussione non sono gli uomini. Il rispetto di questi parametri non lo rende in sé un film femminista, e nemmeno un film qualitativamente migliore di altri; ciò che conta è il fatto che in esso vi siano donne presentate come soggetti non dipendenti dalla figura maschile. Suffragette è un film pensato da una donna (Sarah Gavron), basato su una storia femminista e interpretato da personaggi femminili, con i quali lo sguardo della spettatrice si incontra e sulle quali si posa. Fidatevi, non è cosa da poco. Volendo render merito a qualcuno, bisognerà rintracciare un testo del 1975 di Laura Mulvey, fondandmentale per gli studi della Feminist Film Theory: Visual Pleasure and Narrative Cinema. Sono passati quarant’anni, eppure su quelle ricerche si fonda quell’evoluzione del paradigma filmico alla quale abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, cambiamento che inaugura l’apertura alla figura femminile nella visione come soggetto attivo.

La striscia “The Rule” di Alison Bechdel (1985)

La presa di coscienza politica e sociale delle donne protagoniste di Suffragette si verificò nello stesso periodo storico in cui il cinema vedeva la luce. Di questa arte non si parla esplicitamente, sebbene le loro proteste avessero molto a che fare con i media visuali. Basti pensare alla scelta di Emily Davison di sacrificare la propria vita sotto l’occhio di cinque macchine da presa, durante il Derby di Empson del 1913. Far entrare il soggetto femminile all’interno del discorso filmico implica una rivoluzione vera e propria: il cinema è l’arte voyeristica per eccellenza, essa «soddisfa un desiderio primordiale di piacere nel guardare», ma non solo. Il cinema è l’arte in cui la scopofilia (rendere un individuo oggetto e sottoporlo a uno sguardo di controllo) si manifesta nella sua forma più narcisistica, nella quale — come spiegato dalla Mulvey — la donna ha una sola possibilità: quella di porsi come oggetto sessuale, contemplazione erotica per lo sguardo del maschio. Elaborando questa teoria, la Mulvey faceva riferimento al cinema classico hoolywoodiano, che vedeva l’uomo come attivo promotore della storia e la donna come oggetto passivo. Le spettatrici, osservando i personaggi femminili, non facevano altro che adattare il proprio sguardo a quello maschile. Davanti alla cinepresa, la bellezza del soggetto femminile infatti non può far altro che rompere l’unità del racconto, finendo talvolta per diventare un pericolo mortale per l’uomo — si pensi alla femme fatale. Anche nei film “per donne”, le inconsapevoli fruitrici della visione dovevano in realtà confrontarsi con le immagini di dive costruite sul discorso del desiderio dell’uomo (una per tutte: Marilyn Monroe, sulla quale ha scritto Richard Dyer in Heavenly Bodies: Film Stars and Society). E il desiderio femminile in tutto ciò?

Marilyn Monroe in The Seven Year Itch (1955)

Attenzione: questo campo di analisi non aveva nulla a che vedere con il ruolo delle donne all’interno del sistema cinematografico. Nell’epoca d’oro dello Studio System si contava un alto numero di registe donne, come ha infatti ricordato Lee Marshall: «La metà di tutti i film registrati negli elenchi dei diritti d’autore a Hollywood tra il 1911 e il 1925 erano scritti da donne». Egli dimentica però di ricordare come in quel periodo della storia del cinema ogni soggetto partecipante alla realizzazione di un film non fosse nulla più che un semplice ingranaggio del meccanismo di produzione volto al profitto: in fondo, un film è pur sempre una merce. Oggi, il ruolo di una regista è diametralmente opposto, eppure quello che continua a contare è il sistema sociale e politico all’interno del quale si colloca. Da un lato, ancora oggi la figura femminile è determinante per la costruzione dell’immagine filmica, rendendo di fatto il suo corpo un feticcio sul quale posare lo sguardo. Dall’altro è anche vero che i gender studies hanno imposto un nuovo paradigma, che ha scavalcato il concetto stesso di femminismo, arrivando a riconoscere alcuni film come “postgenere” (ad esempio i film di Pedro Almodóvar).


Questo non può essere chiaramente il caso di Suffragette, per evidenti motivi tematici. Esso si situa piuttosto in un ristretto filone di film che, a partire dagli anni Novanta, si sono posti l’obiettivo di scomporre le narrazioni tradizionali, abbattendo gli stereotipi. L’epoca della la signora Laszlo è giunta al termine, dunque ben venga Maud Watts! Un certo cinema si è svegliato e ha capito che la rappresentazione degli stereotipi non rispecchia più la realtà liquida nella quale viviamo e sceglie di proporre una diversità delle immagini, dietro alle quali si cela il pensiero della differenza. È un cinema femminista, che ridefinisce finalmente le relazioni di genere e indica alle donne un’alternativa possibile alle dinamiche del patriarcato.

Protesta delle attiviste Sisters Uncut durante la presentazione di Suffragette al London Film Festival

Roberta Cristofori

Articolo pubblicato originariamente su The Bottom Up.

Proiezioni pocket: tutta la magia del cinema in meno di venti minuti

L’idea è quella di un pezzetto di legno che si incastra nella pelle e ci rimane, infastidendo, ma stimolando: da qui sono partiti i ragazzi della Scheggia, associazione culturale milanese nata nel 2004, che collaborando sotto il segno della ricerca e della sperimentazione propongono nuovi percorsi visivi e riflessivi.

Negli anni l’organizzazione cresce e diventa punto di riferimento per eventi e rassegne cinematografiche, realizzando grandi progetti come i festival Milano Wants to Be Independent, Dispersival e Cinemartpresso il Parco Martesana.

Dopo aver lasciato la sede storica di via Dolomiti a Milano, hanno iniziato un pellegrinaggio che ha proposto il cinema in svariati luoghi e formati: locali, muri di città; nasce poi una collaborazione duratura con Santeria in via Ettore Paladini con le Cinemerende-film belli e poco visti, dove si proietta in lingua originale, e Spazio Ligera in via Padova.

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Tra le bancarelle di Levi’s consumati del mercatino delle pulci pettinate di via Stazio, abbiamo scorto un furgoncino e una gran folla: il furgoncinema!

L’idea di un cinema itinerante era già nota in Italia, ma non in formato ridotto e vintage: tutto nasce un anno e mezzo fa dall’incontro della passione della Scheggia con l’estro della Salumeria del design indirizzandosi verso rassegne legate alla città, con proiezioni che non durassero più di venti minuti, come Milano calibro nove, L’amore in città e Cinema da tavola.

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Nelle vostre rassegne è quasi sempre presente una nota marginale ed insolita, unita all’inusuale luogo delle proiezioni, da dove nascono tutti i progetti?

«Le nostre rassegne sono il frutto di collaborazioni e proposte che riceviamo, con il tempo il livello è cresciuto e noi con loro, ma quello che abbiamo sempre ricercato è il “poco visto”, qualcosa di interessante e originale, perché crediamo nella scoperta del nuovo, la conferma del vecchio la lasciamo ad altri».

Entrare nel vostro furgone è come partire per un viaggio rimanendo fermi, chi sceglie le mete visive? Cosa vorreste che rimanesse a chi si accomoda sulle vostre poltroncine?

«Le mete visive sono selezionate e montate ad hoc da uno di noi. La scelta di realizzare episodi legati a Milano ci è parsa subito la più adatta in virtù dello spazio e del tempo e anche per questo non consideriamo ripetibile il progetto altrove, vorremmo compiere un viaggio in una sorta di scatola della memoria: com’era Milano, com’è cambiata. Ci piacerebbe rimanesse la magia del cinema, anche se in formato pocket».

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Al mercatino vi abbiamo visti tra i meandri dell’handmade, del vecchio che trova nuova vita nelle mani dei nuovi arrivati: l’eredità cinematografica dei colossi della settima arte che fine è destinata a fare?

«Il cinema italiano dagli anni cinquanta in poi e quello di genere ha lasciato davvero una grande eredità e alcuni periodi, come alcuni autori, sono ancora considerati all’estero come dei maestri a cui rifarsi.  Ora l’industria del cinema crediamo sia cambiata: si va verso un cinema sempre più tecnologico, tridimensionale, dimenticandosi appunto che la magia del cinema e il suo stupore sono molto più semplici da realizzare, consigliamo a questo proposito di andare a vedere i film di Georges Méliès!»

Progetti per il futuro?

«Ad ora, quello a cui stiamo lavorando è il festival all’aperto nel parco della Martesana: Cinemart Film Festival, giunto alla sua terza edizione, si tratta di un progetto davvero ambizioso e che crediamo possa crescere negli anni. Però come diceva Joe Strummer: “il futuro non è scritto“».

 

Discovery: Metropolis di Fritz Lang

«There can be no understanding between the hand and the brain unless the heart acts as mediator».

10 gennaio 1927, all’Ufa-Palast am Zoo di Berlino ha luogo la proiezione di un film  visionario, caposaldo del cinema espressionista e precursore del cinema di fantascienza moderno, destinato ad avere un impatto inesauribile sull’intera storia del cinema a venire.

Capolavoro indiscusso sui generis, Metropolis del regista austriaco Fritz Lang è tornato lo scorso 20 Settembre, per il ciclo Discovery, al Teatro degli Arcimboldi di Milano in una rimusicazione dal vivo ad opera della Filarmonica della Scala guidata dalla bacchetta del direttore Frank Strobel.

 

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Una proiezione che avviene in occasione di un nuovo e inedito restauro a seguito del ritrovamento, nell’agosto del 2008 a Buenos Aires (presso il Museo del Cine), di un negativo 16 mm in formato sonoro. Il lavoro di restauro della pellicola è stato realizzato a opera di Friedrich-Wilhelm-MurnauStiftung, Deutsche Kinemathek con la collaborazione della Cineteca di Bologna, che lo scorso marzo ne ha curato la proiezione in 70 sale italiane.

La stessa componente sonora, firmata da Gottfried Huppertz, ha subito un rimaneggiamento a opera di Frank Strobel, che ha saputo rimodernizzare l’opera mantenendo le sfumature cromatiche e la ricercatezza armonica che caratterizzarono lo stile di Huppertz.

Un universo distopico dalle geometrie surreali, dominato da due mondi antitetici: nelle profondità della terra il mondo claustrofobico della forza lavoro, in superficie la futuristica e viziosa città del potere. Lang elaborò e creò tali realtà sulle stesse immagini della propria esperienza personale, più combattuta nella Repubblica di Weimar, più onirica e immaginaria nello skyline di New York e del Nuovo Mondo.

 

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Contrapposizione, ma anche lotta tra due mondi, che rendono Metropolis un’opera dagli stilemi fantascientifici, impregnata da visioni apocalittiche al limite del profetico, speranze messianiche e spunti per una rigenerazione sociale (o nazionalsocialista se pensiamo all’orientamento politico di Thea von Harbou, autrice del romanzo da cui il film e tratto e, all’epoca, moglie del regista Lang).

Un dualismo tra due realtà contrapposte, eppur inevitabilmente dipendenti l’una dall’altra. Pensatori e Lavoratori, Mente e Braccio. Ma come ci ricorda la compassionevole Maria: «non vi sarà alcuna comprensione tra Mente e Braccio, fintanto che il Cuore non agirà da Mediatore».

 

#MilanoFilmFest: Song of the sea

Nei giorni in cui tutti sembrano celebrare il ritorno della Pixar con Inside out, arriva al Milano Film Festival una delicata e altrettanto suggestiva animazione che proprio con le emozioni ha molto a che fare.

Song of the sea, secondo lungometraggio del regista irlandese Tomm Moore, è semplicemente un capolavoro. La storia è quella di  Saoirse, tenera bambina orfana di madre che vive insieme al fratello e al padre su un isolotto lontano dal mondo, dove la vita scorre lenta e monotona.

Saorise non sa parlare e vive le giornate chiusa in se stessa, isolata dal fratello che imputa alla sua nascita la morte della madre. Ma nel destino della piccola c’è qualcosa di più; lei, discendente delle selchidh, esseri magici legati al mare, è la sola che con il suo canto può sconfiggere la strega dei gufi e riportare alla vita tutti coloro che perdendo le loro emozioni sono stati tramutati in pietra.

Candidato all’Oscar, proprio come il precedente lavoro di Moore (The Secret of Kells – 2009), Song of the sea mostra tutto il talento dell’animazione europea. Se l’animazione americana cresce ormai – dall’avvento della CGI – solo di tecnica, e ogni sua sperimentazione è principalmente di ingegneria informatica, altra è la strada degli studi europei che i mezzi della Disney e della Dreamworks non hanno mai avuti.

Qui la sperimentazione è in senso artistico, come alla Cartoon Saloon di Moore, dove il disegno in 2D incontra il digitale in una fusione di tecniche e stili così fluida da lasciare una sensazione di puro incanto. Song of the sea è semplicemente incanto. E se la grafica, la musica e gli incredibili giochi di luce fanno la magia del film è anche vero che il regista non cede mai all’estetica fine a se stessa di molti altri lungometraggi.

Song of the sea è potente perché è prima di tutto una bella storia. La sceneggiatura originale di Will Collins tiene incollati allo schermo; avvincente quanto intelligente trascina con sé tutto il resto del film riuscendo a stupire un pubblico di adulti e bambini.

Difficile immaginare un lungometraggio d’animazione più meritevole dell’Oscar – specie se a portarlo a casa davvero sono prodotti come Big Hero 6 – ma in termini di potere l’animazione europea sarà sempre inferiore a quella d’oltreoceano. Rammarico insignificante, comunque, finché i lavori restano di questo livello.

#MFF – Linea Gialla, una fotografia di Milano che cambia

In occasione dei suoi sessanta anni, MM (Metropolitana Milanese) in collaborazione con il Milano Film Festival, presenta Linea Gialla, quattro proiezioni, tre lungometraggi e una serie di cortometraggi dove Milano e il genere noir/giallo sono il filo conduttore.

Con la scelta di queste pellicole hanno costruito una fotografia di Milano che mostrata la trasformazione che nel corso degli anni la città ha vissuto. Linea Gialla si apre con Milano Nera di Gian Rocco e Pino Serpi, film-caso dei primi anni sessanta, lo sceneggiatore, che era Pier Paolo Pasolini, ritrattò poi il suo contributo per apparire solo come collaboratore. Il Film conserva però lo “sguardo” di Pasolini, perfetto per inquadrare i margini della società milanese mentre il boom rilevava le sue contraddizioni.

Vermisát di Mario Brenta, è invece un disperato ritratto di un ex contadino senza fissa dimora e senza lavoro che per vivere raccoglie vermi nei fossati del milanese per venderli come esche ai pescatori. Si ammala ma non si fida degli ospedali e delle loro medicine, si affida alle cure di un ciarlatano, il Medicon, che gli fornisce delle medicine, fasulle, in cambio di sangue.

La città che sale, una serie di cortometraggi di autori milanesi sulla città: scorci di vite vissute e in divenire, e di luoghi familiari.
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Ieri sera è stata la volta, invece, di  A casa nostra, in ordine cronologico si può considerare come ultimo film di questo percorso; del 2006, è diretto da Francesca Comencini con Valeria Golino, Luca Zingaretti, Giuseppe Battiston, Laura Chiatti e Luca Argentero. È una fotografia spietata di una Milano degli anni duemila, dove se hai il denaro, di conseguenza, hai il potere, e ogni personaggio raccontato ha una propria ossessione.

Racconta diverse storie, vite parallele che non s’incroceranno mai, e il denaro protagonista di tutto; denaro per acquistare oggetti, sentimenti, vite, favori, potere. Nel finale invece tutte le micro-storie si incrociano. Il potere e il denaro subiscono una sconfitta, l’amore e la giustizia, ottengono un parziale riscatto.

Il personaggio di Valeria Golino, Rita, nella scena del primo confronto faccia a faccia con Ugo (Zingaretti), dice una frase che nell’arco di nove anni non è diventata vecchia e rappresenta la voce di molte persone: «No, voi, come vi permettete! Pensate di fare come vi pare, eh? Ma questo paese è anche casa nostra».

Linea Gialla racconta perfettamente con l’uso delle storie raccontate nei vari film, il cambiamento che Milano ha vissuto e che tuttora è in corso.

XXth Milano Film Festival: la città e le storie

Si è ufficialmente aperta con la conferenza stampa a Palazzo Reale la ventesima edizione del Milano Film Festival, il sempre più atteso appuntamento del capoluogo lombardo con il cinema internazionale. Un appuntamento che negli anni ha saputo offrire eventi unici che lo hanno ampiamente ripagato in termini di pubblico e sponsor e che oggi lo rendono uno dei festival culturali più interessanti in ambito cinematografico.

Lontano dallo stile red carpert, il Milano Film Festival è un festival di storie e sguardi da tutto il mondo che specie nell’anno di Expo ha saputo coinvolgere e intrecciare lingue e culture differenti in un cinema etico ed estetico allo stesso tempo. E nasce sempre da questo desiderio di apertura e connessione al mondo il progetto del Milano Film Network, la rete che unisce l’esperienza e le risorse dei sette festival cinematografici di Milano (Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Festival Mix Milano, Filmmaker, Invideo, Milano Film Festival, Sguardi Altrove Film Festival, Sport Movies & Tv Fest) per una città che non sente mai la mancanza del grande evento ma vive il cinema tutto l’anno.

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La ventesima edizione del MFF si snoda attraverso varie sezioni: Concorso lungometraggi, Concorso cortometraggi, le varie rassegne (Colpe di stato, The Outsiders, Breathe.Austria, Linea Gialla), e i focus (dedicati all’animazione, al documentarista Nikolaus Geyrhalter, al regista francese Jean-Gabriel Périot e allo svizzero Nicolas Steiner).

Il MFF è senza dubbio un’occasione per vivere il cinema e la città in un connubio perfetto che ha portato ad estendere sempre di più le location utilizzate e a coinvolgere il pubblico: tra le novità di quest’anno la “proiezione segreta”, il gioco che coinvolgerà il pubblico in una sorta di caccia al tesoro cinematografica, snocciolando nei prossimi giorni indizi circa luogo di proiezione e film in questione (che possiamo anticiparvi sarà un’anteprima assoluta).

Ma il MFF è anche e soprattutto un festival giovane. Giovane per i tanti eventi musicali in programma, ma giovane anche perché da sempre interessato ai registi alle prime armi. A tal proposito, assolutamente da non perdere gli incontri della sezione Schermi di classe, dedicata ai progetti in collaborazione con le università milanesi (in particolare: Accademia di Brera, Politecnico di Milano, IULM e Università degli Studi di Milano) e le scuole di cinema della città (Centro Sperimentale di Cinematografia e Civica Scuola di Cinema).

Infine da seguire anche le proiezioni al “Salon des refusés”, lo spazio allestito alla Scatola Magica per dare voce anche alle opere non ammesse al festival. Insomma tanti gli appuntamenti dal 10 al 20 settembre; il programma più dettagliato potete trovarlo al link seguente: MilanoFilmFestival.

 

 

A Bologna, Sotto le Stelle del Cinema

Bologna. E’ una calda serata estiva in una delle più belle piazze d’Italia. Un mormorio diffuso si solleva dall’enorme folla che occupa Piazza Maggiore. C’è gente di tutti i tipi: famiglie, anziani, giovani e studenti, bambini, turisti, ecc..

No, non è una manifestazione di protesta, ma una manifestazione d’amore. Amore per il cinema.

Il contesto è suggestivo, non si potrebbe immaginare una cornice migliore. Anzi, la cornice più bella è lì, presente, una cornice, nata ormai 120 anni fa, che fa quasi rabbrividire la gigantesca facciata incompiuta dell’antica Basilica di San Petronio che gli sta di fronte. E’ l’enorme schermo cinematografico, uno dei più grandi d’Europa, che da ormai 29 edizioni accompagna le estati bolognesi.

Signore e signori, cinefili di tutto il mondo, accorrete! E’ tempo del cinema sotto le stelle, che ci permette di rivivere in questa atmosfera i capolavori restaurati dalla Cineteca di Bologna, riconosciuta a livello internazionale per i suoi eccellenti lavori di restauro. Venite, Sotto le Stelle del Cinema!

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“52 sere d’estate nel ‘cinema’ più bello del mondo”. La serata d’apertura, domenica 21 giugno, è stata un omaggio a Sergio Leone e ha visto la proiezione di quel capolavoro che è Per un pugno di dollari. Ma non temete! Avete tempo fino al 15 agosto quando la rassegna si concluderà con la proiezione di Amici Miei di Monicelli in onore dei 40 anni dalla realizzazione del film. Tutte le sere alle 21.45 la folla si azzittisce per un palinsesto che vedrà come protagonisti Mario Monicelli, Orson Welles e Ingrid Bergman, nati tutti e tre esattamente cento anni fa, nel 1915. E se ancora non vi basta ecco qui una carrellata di titoli: 2001: Odissea nello Spazio, Rocco e i suoi fratelli, Paisà, Quarto Potere, Notorious – L’amante perduta, Il processo, La Grande Guerra, Nuovo Cinema Paradiso (la cui versione restaurata sarà presentata dallo stesso Giuseppe Tornatore), solo per citarne alcuni, accompagnati anche da “classici moderni” come Gravity, Dallas Buyers Club, American Hustle e Grand Budapest Hotel.

Lo so, vedere questi titoli così, tutti insieme, farebbe tremare le gambe a qualsiasi cinefilo. Ah, forse ho tralasciato un particolare di non poca importanza: il tutto è assolutamente gratuito, un regalo che ogni anno la Cineteca fa alla città di Bologna.

Quindi? Che ne dite? Ritaglierete uno spazietto nella vostra estate per il cinema più bello del mondo?

Qui il programma completo con tutte le informazioni del caso: Cineteca di Bologna

The Insidious Series: squadra che vince non si cambia

Prendiamone atto: dell’horror spesso si abusa. I tempi dei grandi cult del brivido sono passati ed è raro che un film oggi riesca a porre le giuste premesse per smarcarsi dall’etichetta di genere di serie B. È raro, ma esistono delle fortunate eccezioni che gli appassionati dell’orrore non possono far altro che cercare, vagando da una pellicola all’altra.

 

 

In questo contesto troviamo la coppia di amici e cineasti australiani: James Wan e Leigh Wannell. I due iniziano a lavorare insieme nel 2004, dando vita al franchise cinematografico di Saw e da allora collaborano praticamente per ogni film. Wan è il regista, mentre Wannell compare in veste di sceneggiatore e, spesso, di attore.

 

È con questa formazione che, nel 2010, prende vita Insidious, una di quelle rarità, ricco di suspense e dal sapore retrò, che ricorda i classici dell’horror, in primis opere di Dario Argento.

Il film racconta la storia dei Lambert, una famiglia che diventa vittima di eventi inspiegabili, quando il figlio Dalton (Ty Simpkins) cade in un apparente coma. In realtà la mente di Dalton è intrappolata in una dimensione ultraterrena, l’Altrove. In loro soccorso arrivano Elise Rainier, la medium interpretata dalla bravissima Lin Shaye, e i suoi aiutanti, i nerd Specs (lo stesso Wannell) e Tucker (Angus Sampson).

 

Il film ha successo e permette a Wan di dare il via a una serie. Nel 2013 esce Oltre i confini del male: Insidious 2, che conferma Wan alla regia e Wannell alla sceneggiatura. Il secondo capitolo si apre dove si chiudeva il primo: ritroviamo la famiglia Lambert, Elise con Specs e Tucker e, ovviamente, l’Altrove con i suoi demoni.

 

 Il 3 giugno 2015 è uscito nelle sale il terzo capitolo, Insidious 3: L’inizio, con alcune differenze rispetto alle prime due pellicole. La prima riguarda la trama, il film è un prequel che, attraverso i problemi paranormali di Quinn Brenner (Stefanie Scott), ci racconta qualcosa in più sul passato della medium Elise Rainier. La seconda  differenza riguarda l’abbandono di Wan alla regia, che torna solo come produttore. A sostituirlo c’è Leigh Wannell, alla sua prima prova dietro la macchina da presa. E questa sostituzione, purtroppo, si fa sentire eccome.

Wannell prova a ricostruire le ombre e le insidie create dall’amico, ma con risultati poco soddisfacenti. La prima ora scorre in maniera piuttosto piatta: Elise, il fulcro della storia, è il fantasma di se stessa, spaventata dalle sue capacità. Le scene prettamente horror risultano prevedibili e poco terrificanti, ben poche riescono a instillare ansia nello spettatore. La svolta arriva quando Elise torna in sé, riprendendo il suo ruolo di medium, e inizia a collaborare con Specs e Tucker, aiutando Quinn e famiglia. Ritroviamo l’Altrove, che funziona abbastanza bene, ma non ha lo stesso fascino macabro e le terribili figure simili a manichini (da sempre feticci del genere) dei primi due film.

In fondo, il segreto di un bravo regista horror è un po’ lo stesso di un bravo cuoco: non basta seguire passo passo la ricetta, per realizzare un buon piatto devi avere la mano. James Wan, come ha dimostrato anche con The Conjuring – L’evocazione (2013), riesce a trovare il giusto equilibrio, combinando gli attimi più crudi e spaventosi a quelli di suggestione pura, che accompagnano il pubblico anche dopo la fine del film.

Leigh Wannell è uno scrittore capace, ma, almeno per ora, gli manca quel quid che lo renda un regista di film di paura. Probabilmente la serie continuerà, ma speriamo che la prossima volta torni con l’accoppiata dei primi due capitoli.

 

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