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Esperienze Di Attività Con Marco Peri

Cara Arte, vorrei incontrarti tra 10 anni

Quelli appena passati sono stati mesi lunghi e difficili. Mesi in cui molti di noi hanno potuto partecipare a eventi virtuali, come conferenze, lezioni a distanza e webinar, sperimentando l’importanza del digitale che si è dimostrato un supporto funzionale per le realtà culturali e artistiche in un momento di crisi.

È stato infatti necessario operare un cambiamento, che ha condotto l’arte verso una stimolante sinergia con il mondo digitale. Se molti eventi e altrettante mostre sono stati cancellati o rimandati, alcuni organizzatori e direttori invece hanno deciso di sperimentare un modo innovativo per continuare a esserci, impiegando un altro format. Questo è il caso della Milano Digital Week che sta creando conferenze, conversazioni e dirette su Facebook e Instagram, mentre l’attesissima mostra “Raffaello.1520-1483” presso le Scuderie del Quirinale di Roma ha saputo incuriosire il pubblico online grazie a un’abile programmazione di post e video relativi all’esposizione, includendo anche elementi di backstage e interviste ai curatori.

La Casa Testori di Novate Milanese, d’altra parte, ha creato una proposta pensando ai più piccoli: la rubrica “Artist & Son/Daughter” nata dall’idea di Andrea Bianconi, in cui gli artisti, tra i quali Marica Fasoli e Nicola Villa, hanno raccontato e suggerito delle attività laboratoriali da poter svolgere con i propri figli, divertendosi a giocare e imparare durante la quarantena.

Anche le piccole realtà associative attive sul territorio di Bergamo, sono state inevitabilmente toccate da questa ondata di cambiamento. L’associazione Inchiostro.itinerari e incontri d’arte di San Paolo d’Argon ha creato dei video-pillole in cui svela inedite informazioni e curiosità d’arte, dedicate ai luoghi in cui realizza visite e incontri. Al momento sta preparando un corso di formazione di storia dell’arte del territorio bergamasco curato dallo storico dell’arte Dorian Cara. Diversamente si è mossa l’associazione Un fiume d’arte di Ponte San Pietro, che ha deciso di annullare l’Esposizione di settembre e si sta concentrando sulla creazione della mostra delle opere della pittrice Patrizia Monzio Compagnoni, in programma per il 2021 nella Pinacoteca Vanni Rossi.

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Molte realtà, dalle più grandi alle più piccole, hanno trovato il loro modo per restare a galla, tramite soluzioni utili e sostenibili per continuare a dare importanza e pubblica condivisione del loro patrimonio.

La quarantena ha consentito, però, di mettere sotto i riflettori il mondo dell’arte e della cultura, presentandone luci e ombre. Abbiamo potuto ammirare la qualità estremamente duttile e versatile dell’arte e dei suoi mediatori. Musei, gallerie, centri culturali e associazioni sono infatti riusciti ad adattarsi alle nuove modalità virtuali per comunicare, coinvolgere, rendere fruibile e accessibile il patrimonio. Ma è proprio qui che sono sorte le prime domande sul futuro dell’arte, della comunicazione e della didattica museale da qui a 10 anni.

Certamente osservare un video o partecipare a una visita guidata virtuale è un modo facile, pratico e, oserei dire, “veloce” per viaggiare e ammirare musei e opere d’arte che si trovano in altri Paesi. Se questi contenuti rispondono a un’esigenza “fisica” e geografica, manca però una comunicazione più attenta e curata alla concretezza dell’arte, che è fatta di idee, progetti, gesti manuali, strumenti, tecniche e soprattutto di relazioni umane.

Le attività digitali talvolta descrivono le opere d’arte e i luoghi culturali con una certa freddezza e mancanza di “contatto”, di sensibile coinvolgimento. Visitare un museo o una mostra è un’esperienza sensibile complessa, coinvolgente, unica e soggettiva, che richiede una diversa durata e un tempo da dedicare, una disposizione d’animo e una ricerca selettiva delle opere. Durante la visita il fruitore guarda, sceglie, pensa, si muove, si avvicina, si allontana, impara e forma il proprio sguardo e il gusto critico.

Ad oggi abbiamo a disposizione una programmazione ricca, gratuita ed eccessivamente presente sui social network, che rende indispensabile una creazione e una ricerca di tavoli di confronto e di studio. A tal proposito abbiamo intervistato l’artista Angelica De Rosa e lo storico dell’arte Marco Peri, che ci hanno offerto un curioso spaccato di spunti e riflessioni sull’arte e sulla didattica.

Angelica De Rosa è una giovane artista di 29 anni, che lavora a Milano e si dedica alla realizzazione di suggestive opere nelle quali insegue l’elemento sonoro e sensibile creando un’indagine evocativa che spazia tra corpo e mente, tra udito e vista, tra il percepito realmente e il “potenzialmente” percepibile. La sua arte si basa sul concetto di contatto, di volta in volta studiato attraverso diverse forme e tecniche artistiche, quali la pittura, la scultura, i video e la performance.

Angelica De Rosa
Angelica De Rosa. Ogni diritto è riservato.

L’artista, guardando al presente senza perdere di vista il futuro, vede nella tecnologia «un gigante dalle enormi falcate» che «porta ad un appiattimento del valore artistico, che scardina, a suo favore, l’armonia di valori che compongono un’opera d’arte.»

Il valore e il funzionale apporto della tecnologia al mondo dell’arte ad oggi sono indiscutibili. Ciò non toglie che, secondo l’artista, bisogna farne un uso moderato e specifico, che non vada a intaccare «il delicato equilibrio tra filosofia, poesia, esperienza sensoriale, valenza estetica, matericità e tecnica, che è ciò che genera la produzione artistica.» De Rosa infatti sottolinea che «la magia dell’arte sta nel saper creare uno spazio che favorisca l’incontro tra l’intimità dell’artista e l’intimità del fruitore. Da ciò che accade in quell’incontro si sperimenta cosa sia l’arte.»

L’arte è un’esperienza estetica che amplia e confonde i sensi, in cui fruitore e artista dialogano fra loro. È sempre più necessario preservare la sua forza magica, la straordinaria capacità comunicativa che permette a tutti di avvicinarsi, comprenderla e con divertimento sperimentarla. Di certo il legame che insiste con la tecnologia e il mondo digitale deve, come spiega la giovane artista, «essere in funzione dell’arte. Che la tecnologia possa servire l’arte e non esserne il fine.» Non bisogna confondere le due distinte realtà: si deve trovare un equilibrio di forme e strumenti, un’armonia di cultura e comunicazione.

Marco Peri, storico dell’arte che da anni si dedica all’educazione museale e nel 2018 ha ricevuto il Marsh Awards for Excellence in Gallery Education, che premia le eccellenze in questo campo, ci ha parlato della didattica museale e del ruolo dei musei nel futuro.

Marco Peri
Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

«Come cambierà la didattica dell’arte tra 10 anni? Questa è una domanda da libro dei sogni. Il mio auspicio per il futuro è che l’arte possa diventare non solo una presenza ma il fondamento di ogni curriculum formativo. È tempo per un cambio di prospettiva, che sposti l’attenzione dalle qualità degli artefatti ai processi cognitivi e sociali che attraverso l’arte si possono generare. Didattica dell’arte dovrebbe significare educare con arte, cioè considerare l’arte come mezzo e non come fine, uno strumento trasformativo per guardare alla vita e alla realtà. Attualmente le arti hanno un ruolo marginale nei percorsi educativi, ma sono convinto che la musica, il teatro, la poesia, le arti visive, siano strumenti di conoscenza essenziali per sviluppare pienamente le proprie risorse. Il contributo delle arti per la crescita individuale rappresenta un’opportunità di valore aggiunto per generare la conoscenza e la fiducia per immaginare consapevolmente il futuro.»

Ancor più oggi diventa indispensabile capire come l’arte e la sua didattica dovrebbero essere considerate un fondamento imprescindibile per tutti in quanto permettono di imparare e formare il pubblico in modo semplice, diretto e multidisciplinare. Se la didattica può iniziare un percorso di ri-scoperta il ruolo del museo in futuro come sarà? E il suo ruolo nell’educazione culturale?

«Credo che il museo contemporaneo sia un formidabile spazio di relazione, in futuro l’istituzione dovrebbe ambire ad essere sempre di più uno spazio di ricerca sociale democratico e libero», continua Marco. «Tra le istituzioni culturali del nostro tempo, il museo è probabilmente la realtà più promettente nella quale costruire una cultura condivisa. Nel museo si possono esplorare una pluralità di temi insieme a un pubblico ampio ed eterogeneo, dalle famiglie, al mondo della scuola e così via interagendo con tutta la società. In questo senso il museo potrebbe essere un contesto per costruire nuovi modelli di vivere sociale. Non solo un luogo conservativo ma soprattutto un luogo trasformativo che agisce con consapevolezza il proprio ruolo educativo per la società, un laboratorio di idee e di futuro.»

Il museo oggi è un luogo di relazioni umane e di conoscenze condivise, che proprio a partire da questa quarantena può iniziare a sviluppare e approfondire le sue capacità di trasformazione e versatilità: può dedicarsi a pubblici più ampi, trattare temi sempre differenti, diventare luogo di connessione tra le istituzioni universitarie e scolastiche e le realtà cooperative ed associative del territorio, oltre a poter trasformarsi in un centro di ricerca ed elaborazione di buone pratiche di vita. Come evolverà però nel suo rapporto cruciale con il digitale?

Esperienze Di Attività Con Marco Peri

«Questi ultimi mesi», riflette lo storico dell’arte Peri, «in cui i musei sono rimasti chiusi e il distanziamento ci ha impedito di vivere le relazioni in presenza, ci hanno dimostrato le infinite opportunità del mondo digitale.» Misurandoci «con altre modalità di fruizione, divulgazione e creazione di contenuti», continua, abbiamo dovuto anche riconoscere una certa «impreparazione nel gestire le opportunità offerte da questi strumenti.» Investire «intelligenza e creatività» in questo settore, può permetterci di «generare nuovi contenuti di valore», approfittando «del valore aggiunto delle nuove tecnologie come strumento di accessibilità universale e inclusione sociale.»

 

Immagine di copertina e ultima immagine di questo articolo: esperienza di attività culturali assieme allo storico dell’arte Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

Africa, Europa e sensibilità: cosa sta dietro alla parola accoglienza?

Quanto spesso di sente parlare di accoglienza in questo periodo e quanto spesso questa parola viene strumentalizzata, bistrattata, trasformata, sfruttata? Nella maggior parte dei casi non ci si sofferma a soppesarla, a guardare cosa c’è dietro la facciata di quelle undici lettere, a pensare a cosa è davvero l’accoglienza. A come la vive chi la offre e a come la vive chi la riceve, ammesso che la riceva e che la voglia ricevere.

Pequod ha parlato di accoglienza con Lamine, di origine senegalese, che ha avuto modo di viverla in prima persona, e ha fatto capire a chi scrive che “accoglienza” è una parola piena di significati soggettivi e di punti di vista differenti che spesso, egoisticamente, ignoriamo.

Dove lavori e di cosa ti occupi nel tuo lavoro?

Sono operatore di un centro d’accoglienza e faccio il mediatore culturale in altri progetti. Il mio primo lavoro in Italia è stato da mediatore culturale con l’associazione Arcobaleno, con cui ho girato per le scuole per svolgere dei laboratori sulla cultura africana. In questa intervista, però, parla il Lamine africano, non l’operatore del centro di accoglienza.

Cosa è per te l’accoglienza?

Accoglienza è dare uno spazio, ma non fornire elementi per essere in questo spazio. Ad esempio, se io vengo da te e non ci siamo mai visti prima, tu mi dai il mio spazio, mi metti a mio agio, mi lasci portare quello che ho e quello che sono. Se non sai niente di me, non mi puoi accogliere. Sai quante volte mi è capitato che delle persone volessero cucinare per me un piatto italiano, e ci tenevano parecchio, ma non sapevano che io non mangiavo maiale? In particolar modo una signora, che ha insistito alquanto e lo desiderava moltissimo. Pensa che io ero invitato per la domenica, e lei aveva iniziato a cucinare già il giovedì! Il piatto ovviamente era buonissimo, ma io non mangiavo maiale. La signora però mi aveva dato il suo spazio a casa sua, mi aveva aperto le sue porte e non potevo rifiutare. Ho mangiato, perché per me quel gesto era più importante di ogni credo. In Senegal si dice “Se ti dà uno, non prendere dieci”: lasciare la propria casa per andare a casa di qualcun altro impone lasciare qualcosa all’altro e prendere qualcosa da lui. Altrimenti, se vuoi che le cose vadano come vuoi tu, devi stare a casa tua.

Qual è stata la cosa più difficile da accettare nell’accoglienza che hai ricevuto? E la più soddisfacente?

La mia sensibilità non è stata accolta, perché si vede lo straniero soltanto come uno statuto. Non ci si pensa, ma se si dice a qualcuno “sei un imbecille”, lo si dice alla maschera che ci si trova davanti, senza considerare il fatto che dietro a questa maschera ci sia una persona con la propria personale sensibilità.

D’altra parte, sono riuscito invece a vendere un’Africa che credo che possa essere qui, dei valori che ho ricevuto e che sono vendibili qui, un modo di essere con cui sono stato cresciuto, il modo di vedere la vita che ho e che mi hanno insegnato. Sono il vincitore del premio Tirafuorilalingua 2017 (concorso e festival dedicato a produzioni artistiche che celebrano, promuovono e valorizzano la lingua madre, ndr) per il quale ho scritto una poesia e un racconto sull’introduzione senegalese in società, intitolati Tutti insieme intorno allo stesso piatto. Ho descritto cosa si imparava dalla tradizione di mangiare insieme comportandosi in un certo modo e il significato di ogni singola azione. Credo che questi siano insegnamenti che si possono condividere in tutto il mondo.

Lamine durante la presentazione della sua opera Tutti insieme intorno allo stesso piatto al concorso Tirafuorilalingua 2017.

Reputo che bisogna essere consapevoli del fatto che l’africano in contatto con l’Europa, cioè l’esperienza di un africano che parte dall’Africa e poi arriva in Europa e trova determinate cose, crei un nuovo individuo. Questo individuo non è né africano né europeo, e lui stesso a volte fatica a riconoscersi. Io mi ritengo fortunato e sento di dovere tutto all’Africa, all’istruzione e alla formazione che ho avuto là.

Hai compiuto tutti i tuoi studi in Senegal o anche in Italia?

Ho studiato in Africa e iniziato anche l’Università, ma non l’ho finita. Una volta in Italia, non ho proseguito gli studi, perché non percepisco il riconoscimento del mio bagaglio culturale e perciò ritengo che non mi serva un titolo “vuoto”.

Pensi che le strutture di accoglienza siano adeguate a fornire effettivamente accoglienza?

Il centro di accoglienza mette in pratica quello che c’è nel bando della prefettura, quindi l’impostazione viene dall’alto. Bisogna però capire se si vuole accogliere o no e, soprattutto, per quale motivo accogliere? C’è una grande differenza: se mi accogli in casa tua per una notte e al massimo mi lasci la colazione è un conto, se mi accogli per la notte e poi vuoi farmi fare un lavoro è diverso, devi restare a spiegarmi come si fa, rimanere presente.

Lamine all’evento del lancio dell’edizione 2018 del concorso Tirafuorilalingua.

Cosa può fare un normale cittadino per accogliere?

Tanti normali cittadini già accolgono. La nonna mi diceva che noi non siamo tutti sensibili allo stesso modo. La formazione culturale e intellettuale fa sì che non abbiate nelle vostre corde l’accogliere un africano. C’è una sorta di senso di superiorità, perché dal momento in cui ci si pone in alto e quindi si guarda l’altro da sopra, si definisce l’altro come vittima. Non tutti però si sentono vittima, ognuno ha la propria sensibilità e il proprio modo di vedere le cose in questo caso.

La situazione odierna deriva dal fatto che l’Africa per molto tempo è rimasta immobile. Ricordo benissimo il mio professore di terza media, quando per spiegare la Rivoluzione Industriale ha introdotto l’argomento con queste parole: “mentre l’Africa è affetta da immobilismo, l’Europa affronta una crescita economica senza precedenti”.  Da quel momento ho iniziato a farmi domande su questo immobilismo africano: dall’Indipendenza fino ad ora che cosa si è fatto? Nel 2018 il Senegal ha ancora il programma scolastico che era stato imposto dal colonizzatore! E come mai nelle scuole europee la schiavitù si insegna in modo marginale? Per quanto riguarda i campi di concentramento nazisti tutti si fermano a riflettere, ne mantengono la memoria in una giornata precisa, mentre per la schiavitù non accade niente di tutto ciò. Sai quanti anni, quanti secoli è durata la schiavitù, e quante persone sono morte per questo motivo? Questi dati non vengono approfonditi.

Il discorso è abbastanza semplice: ai dirigenti europei in fondo conviene che le cose stiano in questo modo, se no poi non possono parlare d’altro. Come fai a vincere le elezioni senza parlare di immigrati? Ai governi africani d’altra parte conviene che la forza lavorativa emigri, almeno i dittatori non li butta giù nessuno. Ho un solo desiderio: ai dirigenti africani che vorrebbero comprare armi, date i vaccini.

In copertina: Dia Mouhamadou Lamine alla premiazione del concorso letterario Tirafuorilalingua 2017.

Tutte le foto sono state gentilmente fornite dall’intervistato, tutti i diritti riservati.

Sullo Ius Soli

Mi chiamo Anas, sono nato in Marocco e per quasi tutta la vita mi sono riconosciuto in più identità.
A 10 anni ritornai in Marocco e i miei zii puntaualmente mi chiedevano: “Ti senti più italiano o marocchino?” Io rispondevo marocchino, ma solo per non deluderli. A 12 anni, mio padre tornò festoso a casa e urlò: “Siamo finalmente cittadini Italiani, 15 anni ho aspettato”. Io non capivo. Ma fino a quel momento, che cosa ero stato?
A 13 anni ritornai di nuovo in Marocco, e questa volta risposi ai miei zii in modo diverso: “Sono italiano”. Loro si misero a ridere, perché: “Eh no, sei nato in Marocco e sei musulmano, sarai sempre marocchino, anche per gli stessi italiani.
Diedi la stessa risposta ai miei amici in Marocco e anche loro risero.

A 16 anni, loro, i miei amici d’infanzia in Marocco, sparirono. Prima sparì Zahra, poi Hind, Meriem, Khawla, Abdellah e Semira. Sparirono tutti e anche io un po’ con loro. Sparirono perché a ogni mio ritorno, tutti erano più grandi, avevano interessi diversi, doveri diversi e sogni da realizzare.
Ogni volta che ritornavo in Marocco, non avevo che una manciata di parole arabe da usare, poste fra la lingua, le labbra e il mio imbarazzo. Il mio arabo singhiozzante. Quelle poche parole che conoscevo erano l’unità di misura con cui pesavo la mia vita in Marocco. Più di una volta mancarono le parole, ma la mia effeminatezza parlò per me. Tutti avevano compreso la mia omosessualità. “L’Europa l’ha infinocchiato per bene’’. A 16 anni, i miei zii non risero più, anzi.
Non ho mai dichiarato guerra alla mia sessualità, ma piuttosto alla mia identità culturale e alla mia cittadinanza.

A 17 anni mi candidai come rappresentante di istituto e di consulta. Vinsi. Mi trovai a difendere la laicità della scuola più di una volta e fui contrario alla messa nell’istituto. Mi dissero: Tu non comprendi, non capisci la nostra cultura, sei marocchino… Guarda che qui sei solo un’ospite”.

A 18 anni finalmente compresi quello che a 12 non capii, ovvero: avere ufficialmente la nazionalità italiana. A 18 anni votai per la prima volta, mentre vedevo i miei parenti destreggiarsi fra burocrazia e tasse da pagare per rimanere in Italia. A 18 anni mi sentivo anche europeo.
A 19 anni avevo già da tempo firmato un accordo di pace con la mia identità marocchina. Mi aiutarono a redigere l’accordo: poeti, scrittori, registi, filosofi, pensatori liberi e artisti. Tutte persone che in quella nazione, il Marocco, sono nate, cresciute e si sono create nel dubbio.
A 21 anni, non è la Lega Nord a definire la mia nazionalità o il mio sentire. Sono marocchino, ma anche marchigiano, forsempronese, africano, arabo, italiano, berbero, europeo, mskini e bolognese d’adozione. Se spesso mi contraddico è perché contengo la moltitudine di questi luoghi.

 

Anas Chariai

Fonte: Io sono minoranza.

 

Pedagogie d’altri continenti

«In metro, un bimbo di una ventina di mesi stava seduto sulle gambe della mamma e teneva in mano un gioco di gomma: si divertiva a gettarlo in terra, ridendo per il rumore prodotto, e il papà a ogni tonfo si abbassava a raccoglierlo. In un movimento monotono la scena continuava a ripetersi, il gioco cadeva e il papà si abbassava, ma a nessuno veniva in mente di innervosirsi e sgridare il bambino», un amico di rientro dal Giappone mi racconta di quest’episodio per spiegarmi la libertà totale di cui godono i bambini nel Paese del Sol Levante. Nell’immaginario occidentale, i piccoli giapponesi crescono addestrati fin dall’infanzia a essere parte di una società operosa e produttiva, alle cui regole è imposto sottostare acriticamente; in realtà, in età prescolastica il modello educativo giapponese è tra i più lassisti e liberali del mondo. Ne Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict dà un’immagine grafica di questo modello educativo: l’arco di vita dei Giapponesi segue una curva ad U (contrapposta al modello americano che ha forma Ո), «in cui i massimi di libertà e di indulgenza sono riservati ai bambini e ai vecchi, mentre le limitazioni all’autodeterminazione individuale aumentano lentamente dopo la fanciullezza per raggiungere il punto più basso della curva nel periodo che immediatamente precede e segue il matrimonio».

L’educazione degli infanti avviene quasi totalmente per mezzo di provocazioni psicologiche, di cui la Benedict offre interessanti esempi: «quando un altro pic­cino viene a far visita, la madre in presenza del proprio bambino, si mette a vezzeggiare il piccolo ospite e dice: “Ho intenzione di adottare questo bambino; desidero proprio un bambino così carino e così bravo. Tu invece non ti comporti come dovresti per la tua età” […] oppure la madre dice al bambino: “Tuo padre mi piace più di te: lui sì che è un uomo come si deve”». In questo modo si ottiene il risultato di far sorgere nel giapponese adul­to quel timore del ridicolo e della condanna sociale che è un elemento così tipico della sua mentalità e che trova il suo fondamento nel kimochi-fugi, che Azuma definisce come «la tendenza a dare importanza ai sentimenti degli altri, o a tentare di simpatizzare con i sentimenti degli altri e di percepire le loro intenzioni».

Sempre grazie a questa filosofia, i bambini sono educati a essere membri di una società imperniata sul gruppo, di cui presto dovranno imparare le gerarchizzazioni, riflesse per la loro importanza nel linguaggio quotidiano: le espressioni “fratello” e “sorella” esistono, infatti, in Giappone solo accompagnati da riferimenti all’età, ossia come ani (fratello maggiore) o otōto (fratello minore), ane (sorella maggiore) o imōto (sorella minore).

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Questa gerarchizzazione, data dall’ordine di nascita, che attribuisce un vero e proprio potere, una vera e propria autorità, mi ricorda in qualche modo quello che in Senegal ho osservato essere l’ordine che naturalmente si costituisce all’interno delle famiglie. In tutta l’Africa, l’età è motivo di vanto e la persona anziana considerata più saggia dei successori; questo principio è tanto radicato da diventare significativo anche tra individui della stessa generazione, soprattutto in età infantile, quando ancora non subentrano titoli acquisiti e meriti, a mutare la piramide voluta dalla cronologia di nascita.

Come in Giappone, in Senegal il bambino sotto i tre/quattro anni sembra in qualche modo escluso dalle interazioni sociali, quindi esonerato dalle norme che le regolano: trascorre gran parte del tempo fasciato sulla schiena della madre, viene preso in braccio ogni volta che piange, mangia e dorme quando decide. Crescendo invece, l’infante è tenuto a obbedire a qualsiasi richiesta l’adulto ponga e a rispettarne le regole, ma gode, a differenza dei giapponesi, di totale autonomia nella gestione del tempo libero, anche grazie alla presenza di una comunità priva di pericoli e coinvolta nell’educazione; è tipico veder correre per i vicoli tra le case dei quartieri di Dakar gruppi di bambini che liberamente giocano, entrano ed escono dai cortili, litigano, fanno pace e stabiliscono gerarchie entro le loro microsocietà. Totalmente differente è però l’approccio dei genitori all’educazione scolastica; un’altra similitudine emerge tra Senegal e Giappone: fin dai primissimi anni d’istruzione, fondamentale è il successo scolastico, che viene misurato attraverso una vera e propria classifica di confronto tra compagni di classe. In entrambi i paesi, inoltre, la distinzione tra periodo scolastico e vacanze è molto meno netta di ciò cui sono abituati gli studenti europei: sull’isola asiatica il periodo festivo è impegnato tra club sportivi, attività extrascolastiche e servizi volontari per i comuni; i bambini senegalesi trascorrono invece buona parte delle mattinate estive nelle scuole coraniche, dove imparano il testo sacro attraverso forme di educazione rigide, che non escludono la punizione corporale. Quest’attitudine all’obbedienza prende periodicamente forma rituale nelle cinque preghiere comandate, quando il richiamo del muezzin fa correre le bimbe a coprirsi il capo e i bambini a prendere i tappeti da stendere in direzione della Mecca, senza che gli adulti intervengano a sollecitare.

Le riflessioni pedagogiche sul bambino come adulto, che tanto hanno caratterizzato l’Europa tra ‘800 e ‘900, sembrano aver appena sfiorato la cultura senegalese, in cui i rapporti tra adulti e bambini sono regolati dalla mera interiorizzazione di una gerarchia, che giustifica l’autorevolezza dei primi sui secondi. Di quest’ordine i bambini non soffrono, perché hanno autonoma gestione del tempo non impiegato in attività necessarie. Diverso è il caso dei bambini di strada, numerosissimi a Dakar, che trascorrono gran parte del tempo elemosinando e chiedendo gli avanzi di cibo nelle case, per poi rientrare nella scuola dove l’imam impartirà la lezione coranica; o ancora dei bambini che sui marciapiedi lavorano con le madri, vendendo acqua, frutta di stagione, piccoli dolcetti. Nessuna legge vieta il lavoro minorile né impone un’istruzione obbligatoria, benché a Dakar si trovino moltissime scuole pubbliche.

Alla base delle numerose similitudini tra i due paesi, geograficamente tanto distanti tra loro, sta il comune denominatore di un’idea di società come di una comunità coesa, i cui membri interagiscono collaborativamente tra loro, a formare una sorta di estensione dell’ambito domestico, che si esprime nella creazione di gruppi all’interno della società giapponese e nell’idea del social living senegalese. Caratteristica di entrambi i popoli è il rispetto sempre dovuto all’infante, aldilà dell’estensione della possibilità di rivolgergli richieste. Nel bambino, infatti, entrambe le culture vedono un riflesso dell’adulto che sarà in futuro; entrambe le culture hanno considerazione dell’individuo che racchiude in potenza e che sarà un giorno il punto di riferimento dei genitori che oggi si occupano della sua educazione.

In primis, nel bambino, Giapponesi e Senegalesi vedono la speranza di una continuità nel tempo della stirpe famigliare.

Festival Internacional de Cine de Talca: voler essere liberi di fare cultura

Una delle forme di libertà d’espressione maggiormente d’impatto è senza dubbio quella artistica e culturale. Ma quanto questa è realmente garantita, valorizzata e libera di esprimersi? Ne parliamo con Marco Díaz, 40 anni, produttore artistico, cileno di nascita e formazione. Per molto tempo, Marco ha lavorato a Santiago nel mondo artistico e audiovisuale, ma negli anni ha coltivato un sogno parallelo: importare l’arte e la cultura cinematografica nella sua regione, il Maule. Ed è così che da dodici anni, ogni anno, presenta il Festival del Cinema Internazionale di Talca, che nasce dall’esigenza di «rompere con l’egemonia imposta dal governo centrale, attraverso la creazione di processi, circoli ed eventi culturali ed artistici nelle province».

La grande sfida del Festival è quella di decentralizzare la cultura e aprire nelle regioni «uno spazio di condivisione, riflessione e dibattito sulle realtà cinematografiche emergenti dentro e fuori il nostro Paese». In uno stato altamente centralizzato come il Cile, l’accesso al diritto alla cultura non è sempre garantito o protetto: i grandi eventi artistici e culturali restano a Santiago, e le province si trasformano in isole lontane dai riflettori della capitale.

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Prima giornata di presentazione del Festival

«Dal suo inizio, il festival, ha mostrato alla città e alla regione più di 800 cortometraggi, 400 lungometraggi, documentari, film; abbiamo organizzato  workshop e laboratori audiovisuali, dibattiti ed incontri con cineasti nazionali e internazionali», ci racconta Marco. Il Festival ha aperto una finestra di esibizione, riflessione e dialogo sulla nuova estetica e narrativa del cinema cileno, latino americano e internazionale e, soprattutto, è diventato «un polo di sviluppo del linguaggio audiovisuale regionale, in cui gli artisti locali possono esibire le proprie opere».

Ma le difficoltà d’esprimersi in un linguaggio cinematografico e artistico non sono poche: «sebbene in Cile esista la libertà di espressione culturale,  non è ancora prevista una piattaforma in cui questa libertà possa manifestarsi in maniera egualitaria in tutto il Paese». La mancanza di politiche pubbliche orientate alle attività artistiche e culturali e l’inesistenza di fondi stabili per finanziare eventi di questo tipo, precarizzano ancor di più esperienze come quella di Talca. «Oltre alla difficoltà di trovare ogni anno dei finanziatori, si aggiunge quella di trovare spazi sufficientemente aperti per sviluppare nel migliore dei modi un’attività cinematografica di qualità».

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Proiezioni per le scuole di Talca

Nonostante le difficoltà per organizzare questo tipo di eventi, anche quest’anno il Festival Internacional de Cine de Talca si è realizzato con non pochi sforzi, ma con gran successo:  dal 12 al 16 aprile si sono proiettati più di 40 film, cortometraggi e documentari; per la prima volta si è aperto il programma ai più piccoli, con la partecipazione di diverse scuole della città; le sale di proiezione hanno visto la partecipazione di più di mille persone e il generarsi di dibattiti intensi e interessanti.

Tutto ciò dimostra quanto sia necessario creare spazi culturali alternativi, soprattutto in città in cui la presenza del cinema è per lo più commerciale e poco riflessiva. Produrre cultura dal basso è difficile, ma diventa possibile quando si uniscono le energie, i desideri e l’impegno di chi pensa ancora che la cultura sia sinonimo di sviluppo. L’appello di Marco, come quello di molti suoi colleghi è semplice: sognano uno stato in cui «le diverse entità culturali, pubbliche e private, possano lavorare insieme per promuovere e sviluppare circuiti culturali che permettano agli artisti locali e nazionali di avere uno spazio dove esprimersi e far conoscere la propria arte».

 

 

In copertina, organizzatori e partecipanti nella cerimonia di chiusura.

Fotografie di Caca Bernardes

Stavropoleos, una chiesa nella vita notturna di Bucarest

Nell’anniversario dell’attentato al Museo del Bardo, Pequod vuole farsi promotore di tutte quelle realtà culturali che per un motivo o per l’altro diventano bersaglio di un pensiero a loro avverso.  Personalmente, la prima volta che incontrai una realtà appartenente a questa tipologia, o la prima volta in cui concretizzai tale consapevolezza, fu durante la mia prima passeggiata nel centro storico di Bucarest. Appena arrivata, mi diressi verso il luogo che ho sempre pensato essere cuore vivo e pulsante della cultura cittadina: questa volta però ad attendermi al varco del centro storico non vi erano cattedrali, musei o gallerie d’arte… solo pub, discoteche e kebab, affiancati talvolta da negozi di souvenir.

Tra un morso a un panino e un sorso di birra (poiché bisogna pur sempre restare ottimisti), cominciai a vagare tra le vie che vantano la vita notturna più sfrenata del Paese, sino a quando per pura coincidenza mi ritrovai di fronte al cancellino della minuziosa e incantevole Chiesa di Stavropoleos. Risalente al 1721, la chiesa vi conquisterà per l’accoglienza; una volta nel cortile, i rumori cittadini sembrano sparire per lasciare spazio alla quiete e alla curiosità, alimentata dalle numerosi lapidi e ricche decorazioni di legno. Seppure l’interno della chiesa meriti una visita, chi scrive suggerisce altamente di godervi il cortile, progettato dall’architetto rumeno Ion Mincu. Non esiste difatti un solo parco della capitale capace di tener testa alla pacatezza della Biserica Stavropoleos, che cerca imperterrita di resistere all’avanzare del consumismo in un angolino dimenticato del centro storico (in via Stavropoleos, per l’appunto).

Il folklore condiviso: la compagnia bergamasca de Gli Zanni in Siria

Cinquanta anni fa nasceva nella provincia bergamasca la compagnia folkloristica de Gli Zanni (nome derivato dai personaggi più antichi della Commedia dell’Arte). Nell’impegno per l’indagine storico-sociale e culturale, il gruppo sperimenta il ricostruire in atti teatrali momenti comunitari e aspetti tradizionali di varie popolazioni, nonché la pratica di musiche, danze e canti etnici. L’intento è quello di ritrovare la “storia dal basso” che è punto iniziale d’una comprensione della realtà attuale.
Annualmente l’associazione organizza momenti d’incontro con rappresentative estere di folklore e tournée di lavoro fuori porta per un diretto contatto col patrimonio straniero.

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Tra le numerose mete, nel 2005 la Siria: l’Unione Folklorica Italiana propose alla compagnia di rappresentare il paese al Festival Internazionale del Folklore di Bosra.
I componenti della “spedizione” rievocano estatici i ricordi delle tappe intermedie tra uno spettacolo e l’altro: la visita alla fortezza di Krak dei cavalieri, residuo architettonico delle crociate; gli immensi mulini di legno (Norie) della città di Hama, che da secoli recuperano dal fiume Oronte l’acqua destinata all’irrigazione di frutteti e giardini; i monasteri e le abitazioni arroccate sulle rocce del villaggio cristiano di Ma’lula (devastato tra il 2013 e il 2014)   i cui abitanti parlano ancora un dialetto aramaico; la capata alle moschee nella periferia di Damasco e nei suoi Suq (mercati organizzati in corporazioni); i pasti consumati all’arrangiamento delle fidule sotto tende beduine.
Le ragazze del gruppo menzionano il pomeriggio passato nell’hammam (complesso termale) condividendo il lavacro con le donne del luogo che, accompagnandosi col suono dei darbuka, hanno tentato d’insegnare i rudimenti della danza del ventre alle forestiere.
Infine la messa in scena del proprio spettacolo nell’anfiteatro romano di Palmira, al centro del deserto Siriano circondati dalle stupende rovine in un sorprendente stato di conservazione, a Bosra in presenza di migliaia di spettatori e nel palazzo Azm di Damasco.

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«Raccontare a diversi anni di distanza quest’esperienza – appuntano Gli Zanni – ci rende consapevoli di quanto siamo stati privilegiati nel posare direttamente gli occhi sull’architettura e l’arte in generale di quei luoghi, materia che oggi è parzialmente andata distrutta.
Difficile scordare l’intera giornata passata a visitare il sito archeologico di Palmira avendo come guida d’eccezione il direttore del museo.
Difficile credere che tanta di quella bellezza oggi non esista più.»
Spiegano come a Palmira abbiano potuto costatare l’effettiva importanza culturale sviluppatasi attorno a quest’oasi nei millenni, come il passaggio di numerosi popoli ne abbia impreziosito l’aspetto, come la città potesse essere esempio rappresentativo dei diversi modi in cui nel corso dei secoli le popolazioni si siano spostate, incontrate e mescolate, dando vita a un paesaggio unico, capace di raccontare una parte della storia dell’uomo.

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Negli anni, più volte la cultura della città, in ogni sua forma d’espressione, è stata oggetto di censura da parte del potere che vi si voleva affermare. Nell’ottobre dello scorso anno, gran parte del sito è andata distrutta a seguito della conquista da parte dell’ISIS, che ha organizzato una demolizione sistematica di tutti i luoghi di culto dell’antica città, cancellando, almeno materialmente, un’importante traccia storica e artistica.
Per chi però ha avuto la fortuna di posare lo sguardo su quell’amalgamarsi di culture, i monumenti di Palmira resteranno nel ricordo un baluardo d’integrazione e bellezza, resistenti a qualsiasi assedio. Così per gli attori bergamaschi la Siria ora è un ricordo fotografato: la loro danza nel tramonto, nel deserto.

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«I’d rather be a rebel than a slave»: per un nuovo cinema femminista

Suffragette è uno dei tanti film del 2015 ad aver superato il test di Bechdel: ci sono almeno due donne identificate con il proprio nome, le quali parlano tra loro, ma l’argomento della discussione non sono gli uomini. Il rispetto di questi parametri non lo rende in sé un film femminista, e nemmeno un film qualitativamente migliore di altri; ciò che conta è il fatto che in esso vi siano donne presentate come soggetti non dipendenti dalla figura maschile. Suffragette è un film pensato da una donna (Sarah Gavron), basato su una storia femminista e interpretato da personaggi femminili, con i quali lo sguardo della spettatrice si incontra e sulle quali si posa. Fidatevi, non è cosa da poco. Volendo render merito a qualcuno, bisognerà rintracciare un testo del 1975 di Laura Mulvey, fondandmentale per gli studi della Feminist Film Theory: Visual Pleasure and Narrative Cinema. Sono passati quarant’anni, eppure su quelle ricerche si fonda quell’evoluzione del paradigma filmico alla quale abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, cambiamento che inaugura l’apertura alla figura femminile nella visione come soggetto attivo.

La striscia “The Rule” di Alison Bechdel (1985)

La presa di coscienza politica e sociale delle donne protagoniste di Suffragette si verificò nello stesso periodo storico in cui il cinema vedeva la luce. Di questa arte non si parla esplicitamente, sebbene le loro proteste avessero molto a che fare con i media visuali. Basti pensare alla scelta di Emily Davison di sacrificare la propria vita sotto l’occhio di cinque macchine da presa, durante il Derby di Empson del 1913. Far entrare il soggetto femminile all’interno del discorso filmico implica una rivoluzione vera e propria: il cinema è l’arte voyeristica per eccellenza, essa «soddisfa un desiderio primordiale di piacere nel guardare», ma non solo. Il cinema è l’arte in cui la scopofilia (rendere un individuo oggetto e sottoporlo a uno sguardo di controllo) si manifesta nella sua forma più narcisistica, nella quale — come spiegato dalla Mulvey — la donna ha una sola possibilità: quella di porsi come oggetto sessuale, contemplazione erotica per lo sguardo del maschio. Elaborando questa teoria, la Mulvey faceva riferimento al cinema classico hoolywoodiano, che vedeva l’uomo come attivo promotore della storia e la donna come oggetto passivo. Le spettatrici, osservando i personaggi femminili, non facevano altro che adattare il proprio sguardo a quello maschile. Davanti alla cinepresa, la bellezza del soggetto femminile infatti non può far altro che rompere l’unità del racconto, finendo talvolta per diventare un pericolo mortale per l’uomo — si pensi alla femme fatale. Anche nei film “per donne”, le inconsapevoli fruitrici della visione dovevano in realtà confrontarsi con le immagini di dive costruite sul discorso del desiderio dell’uomo (una per tutte: Marilyn Monroe, sulla quale ha scritto Richard Dyer in Heavenly Bodies: Film Stars and Society). E il desiderio femminile in tutto ciò?

Marilyn Monroe in The Seven Year Itch (1955)

Attenzione: questo campo di analisi non aveva nulla a che vedere con il ruolo delle donne all’interno del sistema cinematografico. Nell’epoca d’oro dello Studio System si contava un alto numero di registe donne, come ha infatti ricordato Lee Marshall: «La metà di tutti i film registrati negli elenchi dei diritti d’autore a Hollywood tra il 1911 e il 1925 erano scritti da donne». Egli dimentica però di ricordare come in quel periodo della storia del cinema ogni soggetto partecipante alla realizzazione di un film non fosse nulla più che un semplice ingranaggio del meccanismo di produzione volto al profitto: in fondo, un film è pur sempre una merce. Oggi, il ruolo di una regista è diametralmente opposto, eppure quello che continua a contare è il sistema sociale e politico all’interno del quale si colloca. Da un lato, ancora oggi la figura femminile è determinante per la costruzione dell’immagine filmica, rendendo di fatto il suo corpo un feticcio sul quale posare lo sguardo. Dall’altro è anche vero che i gender studies hanno imposto un nuovo paradigma, che ha scavalcato il concetto stesso di femminismo, arrivando a riconoscere alcuni film come “postgenere” (ad esempio i film di Pedro Almodóvar).


Questo non può essere chiaramente il caso di Suffragette, per evidenti motivi tematici. Esso si situa piuttosto in un ristretto filone di film che, a partire dagli anni Novanta, si sono posti l’obiettivo di scomporre le narrazioni tradizionali, abbattendo gli stereotipi. L’epoca della la signora Laszlo è giunta al termine, dunque ben venga Maud Watts! Un certo cinema si è svegliato e ha capito che la rappresentazione degli stereotipi non rispecchia più la realtà liquida nella quale viviamo e sceglie di proporre una diversità delle immagini, dietro alle quali si cela il pensiero della differenza. È un cinema femminista, che ridefinisce finalmente le relazioni di genere e indica alle donne un’alternativa possibile alle dinamiche del patriarcato.

Protesta delle attiviste Sisters Uncut durante la presentazione di Suffragette al London Film Festival

Roberta Cristofori

Articolo pubblicato originariamente su The Bottom Up.

A forza di essere vento

 

 

Čvava sero po tutea
i kerava
jek sano ot
i taha jek jak kon kašta
vašu ti baro nebo
avi ker.
kon ovla so mutavla
kon ovla
ovla kon aščovi
me ğava palan ladi
me ğava
palan bura ot croiuti.
Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
perché l’aria azzurra
diventi casa.
chi sarà a raccontare
chi sarà
sarà chi rimane
io seguirò questo migrare
seguirò
questa corrente di ali.

 

Questi i versi finali in romani, lingua madre del popolo Rom, della canzone Khorakhané scritta da Fabrizio De André e parte dell’album Anime salve. Versi di una poesia del Rom Giorgio Bezzecchi e cantati nel disco da Dori Ghezzi. Versi che concludono una ballata lenta che ci parla dello stile di vita e dell’assoluta libertà del popolo Rom e in particolare dei Khorakhané.
Nel suo tredicesimo album il cantante genovese insieme al concittadino Ivano Fossati intraprende un viaggio nell’anima del mondo degli umili, degli spiriti solitari, dei reietti, degli emarginati. Il filo conduttore è la solitudine che permette di essere liberi e non condizionati dalla società. Solitudine che trae origine, spiega De André, da comportamenti diversi dalla maggioranza degli esseri umani e quindi considerata deviante. Comportamenti dovuti a culture millenarie che certi popoli si portano dietro e non hanno intenzione di abbandonare. Questo è il caso dei Khorakhané, Rom musulmani, originari del Kosovo e migrati in Italia prevalentemente nella seconda metà del 1991, in concomitanza con l’aggravarsi della situazione nella ex-Jugoslavia.

 

Zingari, Gitani, Rom come li si sente chiamare oggi, sono composti al loro interno da diverse comunità che parlano, o parlavano in passato, dialetti variamente intercomprensibili che derivano dal sanscrito. Originari dall’India del Nord, girano il mondo da più di duemila anni e sono distribuiti principalmente nei Balcani e in Europa centro-orientale. Un dato costante lo si ritrova nelle persecuzioni che hanno sempre subito, dal loro apparire nel medioevo europeo fino alla programmazione del loro genocidio durante il nazismo. Insieme agli ebrei almeno mezzo milione di Zingari persero la vita nei campi di concentramento. Nonostante ciò, sembrava non fossero poi così importanti e nessuno fu chiamato a testimoniare nei processi ai gerarchi nazisti.

“i figli cadevano dal calendario
Jugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via”

Il viaggio è parte della loro natura, è necessità e diventa metafora di libertà, di vicinanza alla natura e allo spirito naturale. Il vento è ciò che più gli assomiglia e raffigura meglio la voglia di libertà del campo rom. De André non nasconde che questa loro propensione li porti, a volte, a dover affrontare condizioni dure e di miseria in cui sono costretti a vivere. Tuttavia essi conservano qualità conosciute solo ai viaggiatori che li rendono saggi, sensibili e vicini alla natura. Il viaggio stesso rende ricca e dolce la loro esistenza, canta magistralmente Fabrizio.

“quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio, viaggiare”

foto 3

Alcuni Rom rubano, è vero. Alcuni italiani rubano, è vero. Alcune banche rubano, è vero. Che siano dei ladri è uno degli stereotipi che più si sentono sui Rom. Tradizionalmente erano, e sono ancora in parte artigiani, lavoratori di metalli, addestratori di cavalli, giostrai, indovini e cartomanti. Lavori, in gran parte, ora caduti in disuso a causa delle grandi fabbriche e del concorrenza sfrenata del capitalismo in cui viviamo. Si difendono, quindi, come possono e alcuni di loro rubano. I comportamenti illegali di alcuni tuttavia non giustificano il fatto di etichettare un’intera cultura millenaria come tale. E in più, non mi sembra onesto puntare il dito su di loro quando viviamo in un periodo storico in cui la corruzione e i furti sono all’ordine del giorno, soprattutto a livello istituzionale. In questo clima diffuso indignarsi di fronte a chi ruba per sopravvivere lo trovo squallido, ipocrita e populista.

“e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio”

Pure Salvini ha usato De André per farsi pubblicità e darsi arie da intellettuale che palesemente non gli si addicono. Purtroppo le canzoni non le ha capite e nessuno gliele ha spiegate. Lui e la sua rozza retorica razzista continuano ad attaccare e strumentalizzare la questione rom senza aver capito nulla di questa cultura secolare. De André lo cantava divinamente e attraverso l’intensa lirica rilascia tutta la meraviglia di essere vento in una società sempre più omologata. Matteo Salvini avrebbe dovuto studiare di più o semplicemente provare a guardare al di là del suo ego o del suo opportunismo politico che passa sopra tutto, proprio come le ruspe che tanto osanna.

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Affetti o afflitti, si interroga De André, da “dromomania” viaggiano e si spostano di continuo, girando il mondo e non stabilendosi mai in un posto. Da duemila anni sempre in cammino senza armi e, malgrado le dicerie, non hanno mai fatto del male a nessuno o iniziato guerre. “Se si dovesse dare un Nobel per la pace ad un popolo, quello Rom sarebbe il più indicato” spiega Fabrizio presentando questo brano a Roma nel ’98 e aveva tremendamente ragione.

 

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