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Il batik tra arte e vestiti di Sapsafart

Passeggiando tra i quartieri di Dakar, accade spesso, soprattutto la notte, di venire sopresi dal rullante rumore delle macchine da cucire. Basta seguire il suono e affacciarsi a uno degli usci dei laboratori per ritrovarsi immersi nel fruscio di stoffe e tessuti, che alla luce di lampade opache scorrono sotto gli aghi al ritmo dato dai movimenti sui pedali, per lo più avviati da giovani uomini.

Tra le decine e decine di laboratori, ce n’è uno, nascosto tra i vicoli sabbiosi del quartiere di HLM, che spicca invece per il suo silenzio, interrotto solo dal suono dello stereo che accompagna le lunghe ore di lavoro: è il Sapsafart Atelier, dove Daouda colora i tessuti che verranno trasformati in abiti, tovagliato, quadri e arazzi.

Daouda al lavoro nell’Atelier di Sapsafart.

Come molte delle botteghe senegalesi, anche Sapsafart è uno spazio ricavato all’interno di un’abitazione, in questo caso ne è il cortile, ma immerge fin dal primo ingresso in un’atmosfera artistica tutta sua: accanto alle immancabili icone religiose, quadri e bassorilievi si affacciano sulle pareti, su cui si addossano poltroncine un po’ bohémien raggiungibili solo dopo aver scavalcato vasche e stender. Qui non si cuce, si dipinge con una tecnica approdata in Africa nell’Ottocento, trasportata dai colonizzatori dalla lontana Indonesia, ma subito tradotta nei disegni e nei colori del continente nero.

Daouda Ndoye è il proprietario, l’artista del batik. Sulle stoffe traccia i disegni ispirati dalla sua immaginazione e all’estetica africana, quindi inizia la loro trasformazione in tessuti adatti a diventare vestiti: «A volte inizio a lavorare sulle pezze seguendo la mia fantasia – mi spiega – e solo dopo mi preoccupo di come tagliarle, in base all’uso che decido di farne; più spesso, chiedo alla sarta con cui collaboro di iniziare il confezionamento dell’abito con il tessuto grezzo e solo dopo mi occupo di dipingerlo, così che i disegni si adattino alle forme».

Daouda mentre dipinge; alle sue spalle, alcune camicie.

Come funziona la tintura attraverso la tecnica del batik?

«La prima fase riguarda il disegno; una volta tracciate le linee guida, queste vanno ricalcate coprendo con la cera calda le parti che non si vogliono tingere. Si tratta di un lavoro che richiede una certa precisione perché non può essere corretto: una volta che la cera è colata nel tessuto, lo impermeabilizza e quindi non può più essere tinto. Una volta che la cera si è asciugata si procede al bagno di tintura, che consiste nell’immergere la stoffa in una vasca piena di acqua e pigmenti colorati. La procedura si ripete poi tante volte quanti sono i colori scelti, andando di volta in volta a sovrapporre diversi strati di colore. Ogni passaggio richiede dei tempi di attesa, che servono per l’asciugatura della cera e poi del colore, quindi più complesso è il disegno e maggiore è il numero di colori impiegato, più sarà lungo il procedimento».

Da quanto tempo lavori con questa tecnica? Come l’hai imparata?

«Faccio lavori in batik dal 1989, ma solo dall’anno scorso ho fondato il Sapsafart Atelier. Ho frequentato una scuola in Casamance, nel sud del Senegal, dove mi hanno insegnato questa tecnica entrata a far parte della nostra tradizione e ho deciso di farla diventare la mia principale attività lavorativa. Ho sempre voluto avere un lavoro in cui poter esprimere le mie inclinazioni artistiche, infatti mi sono dedicato a lungo alla creazione di sculture e quadri e a questi ultimi ho deciso di provare ad applicare la tecnica del batik. I miei primi lavori erano pensati come arazzi, destinare a decorare le pareti, poi ho iniziato a lavorare la stoffe perché diventassero tovaglie o cuscini. Da qualche anno, ho iniziato a collaborare con alcune sarte e a usare il batik per creare abiti».

Tintura e asciugatura.

Perché hai scelto proprio il batik?

«Mi piace particolarmente creare abiti in batik perché sono pezzi unici e originali, imitabili ma non riproducibili in maniera identica. La tecnica del batik di per sé rimanda alla tradizione panafricana, anche se di epoca piuttosto recente, soprattutto se usata in modo artigianale come faccio io; le linee e i colori sono molto diversi rispetto al più moderno vax, che è la versione industriale del batik: le sfumature che si possono applicare ai pigmenti rimandano ai colori della terra e le forme dei disegni che scelgo si rifanno all’iconografia della cultura africana. Allo stesso tempo, sui tessuti posso esprimermi liberamente, pensare a disegni e composizioni sempre nuovi, spesso nati dall’incontro tra la mia immaginazione e quella della persona che mi ha commissionato l’abito e che poi lo indosserà. Questo fa sì che ogni vestito sia assimilabile a un’opera d’arte, pensata su misura del contesto in cui verrà esposta o, in questo caso, indossata».

Chi sono le persone che ti commissionano abiti batik?

«Ho una clientela molto varia, che include sia uomini sia donne. Confeziono spesso camicie da uomini, ma anche semplici t-shirt, mentre le donne scelgono soprattutto pagne e abiti con lunghe gonne. Anche i turisti sono attratti dal mio lavoro: possono portarsi a casa un pezzo unico di Africa, spesso pensato apposta per loro, e piace molto il fatto che possono assistere e partecipare alla tintura degli abiti che poi acquistano, cosicché l’abito non sia più solo un oggetto, ma un souvenir che porta con sé un ricordo delle loro vacanze. Questo entusiasmo da parte degli stranieri mi ha spinto a cercare uno sbocco per la mia attività anche nelle esportazioni: attraverso la pagina facebook di Sapsafart espongo le mie creazioni e grazie a una rete di amici che vivono in Europa riesco a confezionare abiti anche per chi non può raggiungermi fisicamente».

Due creazioni di Sapsafart: un abito da donna e una camicia da uomo.

Quali sono i soggetti che preferisci dipingere?

«Mi piace che le mie creazioni rimandino a sensazioni ed emozioni legate alla mia terra. Gran parte dei miei soggetti sono legati a oggetti di uso quotidiano di oggi o del passato, come i cauri, le conchiglie che un tempo fungevano da moneta, o le calebasse, le ciotole in legno di zucca; anche gli strumenti tradizionali, dai tamburi alla kora, sono un motivo che uso spesso, così come alcuni soggetti tipici del paesaggio africano, prima tra tutti la pianta del baobab. Molte volte mi ispiro a momenti della vita quotidiana, in cui il più delle volte le protagoniste sono le donne: una madre che porta il figlio nel mbotou (fascia portabebè, ndr) o una giovane che porta un otre in bilico sulla testa. A darmi maggior soddisfazione sono però le composizioni meno realistiche, ma in cui riesco a trasmettere un messaggio che va oltre l’immagine, che spesso nascono da un adattamento dei miei quadri».

Fotografie nel testo di Sapsafart / Tutti i diritti riservati.

Quando l’amore ha un prezzo. Viaggio in Senegal tra prostitute e ‘mbaraneuses

Aprile 2014, Dakar. Io e Hamadou ci aggiriamo per il quartiere di Fass, alla ricerca di un amico come noi tornato a casa a trovare la famiglia. Un passante ci indica una casa a cinque piani. Saliamo gradini sbilenchi su cui si affacciano ampi appartamenti e sbuchiamo su un tetto a terrazza, costellato di porte che nascondono stanzette in affitto. Dietro una di queste porte, Doudou ci aspetta con un piatto di riso fumante; seduta sul letto accanto a lui, una ragazza magra, avvolta in jeans stretti, si aggiusta il rossetto. Mi presento e la invito a mangiare con noi, ma lei distoglie lo sguardo e aspetta che noi siamo sazi per afferrare il piatto e ripulirne il contenuto con gesti lenti, ma che tradiscono un certo appetito.

Mariama, il nome appena sussurrato, ci segue per il resto della serata come una presenza discreta. Andiamo a ballare, beviamo, fumiamo e lei, nascosta in un angolo, risponde di no a qualsiasi invito, con occhi stanchi che reclamano il sonno. Anche se ha detto di non volerla, le porto una bibita e il suo sguardo si sposta dalla bottiglietta a Doudou, quasi a sottolineare che non è stata lei a richiederla. Chiedo spiegazioni di tutta questa circospezione: «È una domestica, -spiega il mio amico- viene dal villaggio per lavorare in una casa qui a Dakar, ma ha perso l’autobus per rientrare nel giorno di riposo. Stanotte dorme con me; in cambio, abbiamo contrattato per il letto e la cena».

Capisco all’istante che la stanchezza del suo volto e la pelle secca delle sue mani non sono solo un’impressione, ma i segni di una giornata di lavoro che non si concluderà quando noi andremo a dormire. Chiedo di andare a casa, fingendo sia mio il suo bisogno di sonno, mentre sento montare dentro me la rabbia per un trattamento ingiusto che trova ulteriore conferma all’arrestarsi del taxi di fronte al bar vicino casa di Doudou: una senegalese avvolta in un miniabito leopardato chiama Doudou con voce suadente. Scorgo appena il gesto di rifiuto del mio amico, ma la voce della donna si staglia chiara nella notte: «Ah stasera risparmi con la ragazzina, ma domani ti aspetto».

L’indomani mi presento anch’io all’appuntamento, incuriosita da tanta disinvoltura in un paese in cui la verginità è ancora un valore utile a ottenere un buon matrimonio. Perdiamo qualche minuto in giochi di sguardi d’indifferenza finché la ragazza non decide un approccio da finta offesa: «Ciao, piacere, Diara», dice rivolgendosi a me. E poi verso Doudou: «Non mi offri da bere?». Le pago una birra e cerco di intavolare una conversazione, ma dopo poche chiacchiere percepisco un’irritata agitazione: «Perdonami cara, ma io sono qui per lavorare». Scopro così che Diara è una prostituta a tutti gli effetti e solo quando mi offro di pagare il prezzo di una prestazione (5˙000 cfa, pari a circa 8 €), o meglio due visto che sono bianca, ottengo il diritto a fare qualche domanda.

Diara, 22 anni, mi racconta che è di Saint Luis, ma vive a Dakar, lontano dalla famiglia così da poter guadagnare facendo il mestiere senza disonore: «Se mai vorrò sposarmi, posso sempre tornare nella mia città, anche se non avrò più il valore di una vergine». Dalla borsetta estrae un documento: «È la mia licenza», spiega. E con sguardo soddisfatto aggiunge: «C’è scritto che sono pulita». Pulita, cioè non contagiata dal virus dell’HIV. La sua soddisfazione non è cosa di poco conto: si calcoli che nel 2017 nella sola Africa subsahariana si contavano poco meno di 26 milioni di individui affetti da HIV (dati avert.org); eppure il Senegal rappresenta un modello a dir poco virtuoso per gli stati confinanti. Lo stato senegalese ha infatti negli ultimi vent’anni intrapreso una battaglia serrata contro la diffusione del virus, le cui armi sono state tanto la prevenzione attraverso la diffusione di anticoncezionali e il monitoraggio delle fasce di popolazione più a rischio, quanto l’incremento di terapie sia in fase di evoluzione del virus in forma di AIDS sia a malattia contratta. Particolarmente efficace è stata la decisione di normare la prostituzione per le ragazze al di sopra dei 21 anni, le quali devono registrarsi presso le amministrazioni locali e in cambio ottengono preservativi e assistenza sanitaria gratuita, che prevede l’obbligo di controlli medici mensili. L’iniziativa ha presto dato i suoi frutti: dal 2010 al 2016 la percentuale di prostitute sieropositive è scesa dal 21% al 7%, mentre i casi annuali di HIV sono diminuiti del 75%. Le donne che risultano positive al virus non sono costrette ad abbandonare il mestiere, ma possono vedere rinnovata la licenza solo se assumono farmaci retrovirali, che non solo riducono la carica virale, ma allungano anche l’aspettativa di vita.

«Quindi tu hai rapporti protetti, usi il preservativo?», chiedo sorpresa, conscia di quanto gli africani siano tendenzialmente restii all’uso di anticoncezionali. E infatti Diara sorride sorniona: «Non sempre, però posso usarlo come motivo per aumentare il prezzo, anche perché io a differenza dei clienti garantisco sul mio stato di salute». Mi chiedo se il rovescio della medaglia non sia stato un aumento del numero di ragazze che offre il proprio corpo, ma Diara pensa che le cose stiano in tutt’altro modo: «Tante ragazze hanno paura di regolarizzarsi, anche perché spesso i poliziotti che si occupano di consegnare o controllare le licenze approfittano di noi; la soluzione più semplice è accettare di avere rapporti con loro gratuitamente, evitando almeno la violenza. E poi c’è la questione dell’onore: se fai la prostituta la società ti giudica, molto più comodo fare ‘mbarane».

Per capire cosa significhi questa parola, ‘mbarane, mi serve qualche giorno e un po’ di dimestichezza con la cultura locale; le prime donne cui chiedo la definiscono come l’abilità di seduzione femminile che permette di ottenere soldi e denaro, senza necessariamente concedersi sessualmente né perdere l’onore. ‘Mbarane è una capacità che quasi quotidianamente si vede applicare per le vie di Dakar: la si impara fin da bambine come abilità nello sgranare gli occhi per chiedere doni agli zii che vivono in Occidente, la si sfrutta da adolescenti per ottenere monili e vestiti dai ragazzi che sperano di far innamorare una vergine, la si applica da adulte per evitare che i mariti cerchino donne più giovani. All’origine però ‘mbarane definisce un comportamento che prende sempre più piede tra le senegalesi, sinonimo quasi di poliandria; le ‘mbaraneuses, infatti, collezionano fidanzati in numero pari alle loro esigenze, facendosi pagare abiti, cosmetici e gioielli, ma anche affitto e bollette. In linea teorica, non è previsto il sesso nei rapporti tra amanti e ‘mbaraneuse, ma conoscere come stanno realmente le cose è praticamente impossibile: le giovani nubili sostengono praticamente tutte di preservarsi per l’uomo che sposeranno, mentre i loro amanti si crogiolano nell’illusione che l’aver colto la loro illibatezza sia garanzia di esser già prescelti per la vita, quindi mantengono il segreto.

Il pensiero di una civetteria così ben calcolata mi spinge a osservare con nuovi occhi gli atteggiamenti dei giovani che passeggiano per Dakar: un velo che quasi casca, braccialetti che tintinnano al momento giusto, nuvole di profumi che avvolgono i pensieri; il più piccolo gesto basta ad attrarre per un istante l’attenzione, a illudere con sogni e desideri mai pronunciati, a garantire il prossimo, seppur modesto regalo.

Spiriti danzanti dietro le maschere africane

È un afoso pomeriggio di fine Agosto tra le vie di Dakar; mio nipote Ndiaw ed io passeggiamo soprappensiero, divincolandoci tra le bancarelle stipate di donne dalle formosità abbondanti del mercato di HLM e chiacchierando del più e del meno ci gettiamo nel quartiere successivo. Improvvisa boccata d’ossigeno: il caos delle voci di bancarellisti che trattano il prezzo in un infinito waχale s’interrompe e i vicoli tornano a essere percorribili, inaspettatamente quasi deserti.

Danze rituali in Ruanda

Faccio appena in tempo a chiedermi dove siano i bambini che riempiono dei loro giochi quasi ogni angolo di quest’immensa città, quando da un vicolo trasversale arriva un allegro e agitato vociare; infilo la testa nella stradina rumorosa e tra il polverone sollevato da decine di piedini scuri che scappano e grida di divertito spavento, vedo una massa di stracci e filamenti di corteccia rossa che si erge al di sopra di tutti quei corpicini vestiti di tuniche bianche. Una mano scura copre i miei occhi e il mio corpo è trascinato lontano; mentre cerco di divincolarmi dalla presa e tornare ad assistere allo spettacolo, una spiegazione giunge alle mie orecchie: non posso partecipare al rituale per almeno due motivi, sono una turista e sono donna.

Conosco bene il nome della maschera che il mio sguardo ha appena intravisto: il kankouran, evocato dalle madri ogni volta che un bambino combina qualche disastro o fa capricci; la versione senegalese del nostro babau, che porta via con sé i monelli di casa. La sua missione per le strade della capitale è però ben diversa, rievocando una tradizione mandinga, ancora forte nelle regioni di Mbur e della Casamance e che accomuna Senegal e Gambia: il kankouran arriva al termine del mese d’isolamento che segue al rito della circoncisione, incarnando l’ordine e le regole sociali ed esorcizzando le paure che accompagnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta; un corteo munito di bastoni, cui si mescolano gli spiriti dei nuovi circoncisi, lo accompagna al ritmo di tamburi sciamanici e nessuno dei membri che lo compongono osa alzare lo sguardo agli occhi del kankouran, che celano antichi segreti.

Sfilata di kankouran in Casamance [ph. Dorothy Voorhes CC BY-SA 2.0 Generic]

Di queste tradizioni è ricca l’intera Africa subsahariana, che proprio nel mascheramento riversa buona parte dei più antichi significati spirituali: i travestimenti, infatti, riservati a pochi uomini che godono della forza morale necessaria ad avere il privilegio di vestirsene, servono a evocare spiriti presenti e passati, energie che si celano dietro immagini simboliche; chi li indossa rinuncia alla propria identità, assumendo quella del soggetto o del significante rappresentato dalla maschera posta sul volto.

Numerosissime sono le raffigurazioni di animali, più o meno stilizzate: tra le più maestose, il serpente Bansonyi della Guinea, nato in seno all’etnia Baga, che alto fino a 2 metri, custodisce lo spirito del villaggio, protegge dal male e dona prosperità; le antilopi Bambarà, usate durante le danze tyi-wara in Mali, sono legate invece all’agricoltura, favorita dallo spirito di quest’animale erbivoro; acquatici sono i soggetti delle maschere Ijo, etnia nigeriana stabilizzata sulla costa del delta del Niger, che rappresentano in modo stilizzato teste di pesci; uno degli animali più gettonati, infine, è il bufalo, simbolo di forza virile, rappresentato in tutto il continente e soggetto prediletto delle maschere policrome dei Douala, in Camerun.

Non meno diffuse sono le rappresentazioni astratte o antropomorfe; impossibile non citare come esempio del primo caso le maschere nwantantay dei Bwa del Burkina Faso, che rappresentano in forme puramente astratte gli spiriti volanti e senza volto della foresta, ma anche le maschere a forma di torre degli Idoma di Benue State, in Nigeria. Maschere rappresentanti volti umani si incontrano con stili diversi in tutto il continente: dagli ovali bombati degli Yoruba nigeriani e dei Makondé della Tanzania, alle maschere elmo dei Batetela del Congo, dei Bayaka dello Zaire, dei Bobo del Niger. Molte di queste maschere, si accompagnano a indumenti che celano le fattezze umane e sono utilizzate in danze rituali che accompagnano eventi sociali, momenti della tradizione e riti d’iniziazione.

Da sinistra a destra: Maschera Bwa, Burkina Faso, rappresentante una civetta [ph. Raccolte Extraeuropee del Castello Sforzescho / CC BY-SA 3.0] Maschera Bobo, Burkina Faso, rappresentante un’antilope [ph. Sailko / CC BY-SA 4.0 International] Maschera Dogon, Mali, rappresentante una lepre [ph. Raccolte Extraeuropee del Castello Sforzesco / CC BY-SA 3.0]

Molte delle tradizioni dell’Africa ancestrale, si sono perse nella morsa di colonizzazione e decolonizzazione, ma grazie soprattutto all’attenzione rivolta alle maschere africane dal movimento cubista, il valore dell’arte subsahariana è stato rivalutato, sebbene talvolta il significato veicolato sia stato travisato in favore dei gusti di un pubblico si acquirenti. Di contro, la tradizione del carnevale europeo è stata assorbita da questi popoli, già dediti ai festeggiamenti in maschera, e non è forse un caso che la patria del Carnevale più famoso al mondo, Rio de Janeiro, sia caratterizzata da una popolazione nata dalla mescolanza storica di indios, europei e africani.

Nel continente africano non si contano i giorni e i colori delle feste di carnevale introdotte dai coloni: il più maestoso è sicuramente quello di Calabar, in Nigeria, caratterizzato da cortei fastosi e culminante nella premiazione della maschera più bella; mentre tra i più duraturi spiccano quelli delle capitali di Angola, Mozambico e Guinea, che per una settimana si riempiono giorno e notte di acrobati, maschere e giocolieri. In Costa d’Avorio, il Popo Carnaval è stato introdotto da reduci dell’esercito francese; quasi tutte le ex colonie portoghesi organizzano sfilate carnevalesche nei giorni di festa del patrono locale; in Sud Africa, a Città del Capo, il Minstrel Carnival, il giorno dopo la festa di Capodanno, rievoca i festeggiamenti degli schiavi, nell’unico giorno di libertà concesso loro dai padroni bianchi.

Danzatrici nigeriane a Calabar, River State, Nigeria. [ph. Akintomiwaao / CC BY-SA 4.0 International]
In copertina: Maschere antropomorfe Edo, Benin State, Nigeria. [ph. Sailko/CC BY-SA 3.0 Unported]

Musica di conchiglie e desideri da ostrica sulla Petit Côte

Arriviamo a Mbur sul far della sera, macinati chilometri di asfalto impolverato di terra rossa a bordo di una station wagon da 10 posti, caricata di valigie e umani raccolti in una stazione autobus ai bordi di Dakar. Tra questi umani, Hamadou ed io, in cerca di una pausa dal caos della capitale nelle oasi della Petit Côte, che da Dakar si allunga fino ai confini con il Gambia, ci accoccoliamo nei posti più stretti sul fondo dell’auto, dove è possibile sonnecchiare tenendo un occhio sui bagagli, che a ogni cambio di passeggeri per cui più volte interrompiamo il viaggio, rischiano di esser dimenticati in strada o consegnati alla persona sbagliata.

Ci fermiamo in un parcheggio autobus non molto diverso da quello di partenza, senza un’idea precisa su dove alloggeremo: un amico di Hamadou lavora in città e accoglie il nostro arrivo con una naturalezza, che contrasta lo stupore sul suo viso, ma conferma le nostre speranze ben riposte. Veniamo guidati in vicoli stretti, i cui residenti si affacciano a osservare i nuovi arrivati dalla pelle così chiara, fino a sbucare su una via leggermente più ampia, dove sta la casa del nostro ospite, in tutto simile a quelle che l’affiancano. All’interno, molte stanze abitate da senegalesi sorridenti e gentili, che qualche giorno dopo copriranno le mie braccia di braccialetti come souvenir; docce ampie rinfrescanti e l’afa del giorno che qui non sembra trovare riposo. Salendo le scale, troviamo la pace per cui abbiamo lasciato Dakar: il tetto è un ampio terrazzo, coperto da una volta di stelle che solo il buio e il silenzio di certe notti africane riescono a far risplendere. Chiediamo di poter dormire qui e il nostro ospite, tra lo stupito e il divertito, allestisce per noi una stanza all’aperto.

Pochi minuti dopo l’alba a Mbur, Senegal
Saly, nella regione di Thiès, sulla Petit Côte del Senegal

Il nostro idillio d’oscurità e quiete è presto infranto dalla prima chiamata alla preghiera del muezzin, diffusa da un altoparlante sul tetto della moschea non molto distante da noi, che ci avverte dell’imminente arrivo dei primi raggi di sole, che presto si abbattono sulle nostre palpebre ancora semi chiuse. Ne approfittiamo per avviarci presto verso sud, lungo la costa oceanica di Saly, che è un susseguirsi di spiagge di granelli finissimi, su cui si affacciano resort massicci ed eleganti, dove scoviamo caffè italiano con cui far colazione. Prima che il sole sia troppo alto, cerchiamo un taxi e in meno di un’ora ci troviamo all’ingresso di un’oasi unica: Joal Fadiouth, l’isola creata dall’etnia serere, allontanata dalle sue terre forse dai berberi Almoravidi, forse dall’invasione da parte dell’Impero Kaabu.

Per accedere, è necessario acquistare un lasciapassare, che permette la traversata sull’ampio ponte di legno che collega l’isola alla terraferma e offre, incluso nel prezzo, la compagnia di una guida locale; a tale scopo, ci viene chiesto da dove veniamo, perché qui a Joal per qualsiasi lingua parlata, c’è un residente capace di esprimervisi. La difficoltà di descrivere il paesaggio che si mostra dai corrimani del ponte, sta nella sintesi perfetta già raccolta nel soprannome di Isola delle Conchiglie, attribuito a Joal: tutto ciò che la vista coglie è “conchiglia” nella sua essenza, dagli edifici costruiti impastando gusci di mollusco tritati, conservati a tale scopo in mucchi agli angoli delle strade, fino alle strade stesse; l’intera superficie dell’isola è infatti creata artificialmente accumulando da secoli conchiglie diligentemente svuotate e conservate. La nostra guida ci spiega che è questo uno dei motivi del lasciapassare, che permette un monitoraggio del numero di persone presenti sull’isola, evitandone l’affossarsi per sovraffollamento. Altrettanto importante è ovviamente l’aspetto economico, essendo il turismo una delle maggiori risorse di Joal, ma anche da questo punto di vista, la conchiglia rappresenta il cardine di questa comunità: accanto alla pesca, infatti, la raccolta dei molluschi, oltre a rappresentare la base dell’alimentazione, è il baluardo del commercio culinario.

Il ponte da cui si accede all’isola di Joal-Fadiouth
Joal-Fadiouth, l’Isola delle Conchiglie, nella regione di Thiès, Senegal

Se un’immagine fotografica può riuscire a trasmettere un’idea del candore che il riflesso del sole attribuisce al bianco dell’isola, solo passeggiando per le sue vie è possibile godere della melodia prodotta dallo scricchiolio dei gusci sotto i propri passi, al ritmo dei propri passi. È forse questo suono che arriva direttamente dal terreno che spinge a parlare abbassando un po’ la voce, spostandosi in una dimensione più raccolta e quasi fiabesca; assaporata e fatta propria questa nuova dimensione, si è nello spirito adatto a cogliere la poetica vista del cimitero di Joal.

Disposto su una seconda isola, di dimensioni più ridotte e collegata alla prima da un ponte più stretto, il cimitero è reso unico dal fatto di essere a religione mista: i ¾ della sua superficie sono come ammantate da un susseguirsi di croci bianche identiche tra loro, difficili da guardare nelle ore più calde, quando lo sguardo preferisce spostarsi sulle nere lapidi musulmane, tutte rivolte verso la Mecca, cui è destinata la restante parte del cimitero. Questa piccola isola, racchiusa in un paese musulmano, al cui primo presidente Sédar Senghor ha dato i natali, ha una popolazione al 90% cristiana, un’eccezione originata dalla penetrazione missionaria del XXVII secolo. È questo anche il motivo per cui, nelle ore di bassa marea, maiali allevati dai residenti cristiani sono lasciati sfamarsi del pattume organico lasciato per loro sulle coste.

Ponte che collega l’isola principale di Joal-Fadiouth all’isola minore che funge da cimitero
Croci cristiane nel Cimitero di Joal

Lasciata l’incredibile poesia dei paesaggi di Joal Fadiouth, sappiamo che solo la natura delle oasi più a sud può eguagliare la bellezza impressa nelle nostre iridi; nostra nuova meta è il Sine-Saloum, regione a nord del Gambia che prende il nome dal corso di fiume che la attraversa e che crea in prossimità dei suoi confini occidentali un labirinto di oltre 200 isole. Anche qui il nostro ingresso è vincolato a una guida locale, che trascina la mia mente in un volo pindarico tra mitologia greca e poetica dantesca: accogliendoci sulla sua piroga, infatti, il nostro traghettatore ci trasporta tra corsi del delta del Saloum, in cui si gettano le radici delle mangrovie, a fungere d’appiglio per le larve di ostrica. Appena cresce il guscio, ostricoltori locali spostano i giovani molluschi negli allevamenti, protetti degli europei golosi che ne hanno quasi provocato l’estinzione.

Cullati dall’acqua e rapiti alla vista degli stormi variopinti che vediamo muoversi sopra le nostre teste e poi adagiarsi sui vegetali che affiorano in superficie, Hamadou ed io quasi non ci accorgiamo che la piroga ha accostato alle mangrovie e il traghettatore ci sta invitando a scendere: siamo arrivati nel cuore magico di quest’angolo di Senegal, dove si nasconde un baobab che finge di essere una mangrovia. Come indicatoci, avvicinandoci scegliamo un guscio d’ostrica cui sussurrare un desiderio; un desiderio da lasciare qui, sui rami di questo baobab alto forse mezzo metro, nella speranza che le sue radici profonde possano farlo arrivare lontano.

Stormi d’uccelli nel Parco Nazionale del delta del Saloum, Senegal
Baobab, ricoperto di gusci d’ostrica, che si nasconde tra le mangrovie del delta del Saloum, Senegal

Nei mercati di Dakar tra ebano senegalese e bijiouterie

A restarmi impressa dal mio primo viaggio a Dakar, c’è un’osservazione che trova conferma a ogni ritorno in città, quasi a rassicurarmi che a ogni rientro ritroverò sempre la stessa umanità accogliente: qui sembra che tutto avvenga in strada, alla luce del sole.
Il pensiero mi ha sopraffatta alla prima delle passeggiate chilometriche che riempiono i miei giorni senegalesi, una volta riuscita a sbucare dal fitto intrico creato dalle bancarelle del Marché HLM e avviatami in Boulevard du General de Gaulle, su cui si affaccia Place de l’Obelisque e che sbuca nei pressi della Grande Moschea, attraversando longitudinalmente il centro della capitale.
Lungo tutta l’estensione del viale, di per sé ampio, i marciapiedi sono ingombri delle più svariate attività: dallo sfrigolare della carne d’agnello dalle macellerie dove sta appesa, ai pianti delle bambine sedute a farsi intrecciare i capelli dalle abili dita delle coiffures; dai beni come straripati dalle stipatissime boutique, agli pneumatici di ricambio dei meccanici. A colpire il mio sguardo furono soprattutto i mobili d’arredo, venduti anch’essi ai margini delle strade, adagiati sulla nuda terra dei marciapiedi; a calamitarmi fu la vista del lavoro, svolto alle spalle del mobilio già finito: i falegnami trasportano, infatti, grandi pezzi di legno dalle forme già abbozzate direttamente in centro città, dove le intagliano e piallano secondo le richieste degli acquirenti, che personalizzano così forme e colori dell’arredo di casa.
Ai miei occhi europei, la possibilità di avere un mobilio su misura sembra uno straordinario lusso, ma qui anche nella più umile delle case è possibile trovare un letto o un divano intagliato a mano, mentre alle tipiche sedie africane, diventate un must nell’arredo etnochic, è riservato lo stesso trattamento destinato in Europa alle sedie pieghevoli: usate in spiaggia, nei cortili o come sedute di scorta, rappresentano infatti il mobilio povero del paese.

Il legno, usato in Senegal fino ai giorni nostri nella costruzione di strutture che richiamano le forme delle capanne tradizionali, destinate principalmente alle adunanze collettive o a soddisfare le aspettative dei turisti, è una delle risorse di cui il paese è più ricco. Moltissimi oggetti, anche di uso quotidiano, sono tutt’oggi fabbricati in questo materiale: oltre a sedie e sgabelli, numerosissimi sono gli utensili da cucina tradizionali, come mortai e pestelli rigorosamente in legno, o le immancabili calebasses, ciotole ottenute dalle zucche svuotate.
Accanto alle elastiche palme bentamaré e al resistente bambù, alle acacie resinose e agli antichi baobab, cresce qui il granatiglio nero, l’ebano senegalese, in cui al tipico colore nero si intrecciano fibre che vanno dal bianco al rosso. Impiegato principalmente a scopi estetici, è il materiale più diffuso sulle bancarelle destinate ai turisti: nel Village Artisanal Soumbédioune, affacciato sull’oceano, è ad esempio possibile ammirare l’arte d’immaginare maschere variopinte e imprimerne le espressioni nel materiale legnoso, conservatasi dalla tradizione animista e trasposta in oggetti moderni. Statue e gioielli, scatole e oggetti d’uso sono intagliati, lucidati e laccati da gesti rapidi, nascosti tra le capanne chiuse nel cuore del mercato, dove il legno entra grezzamente ricamato di venature policrome ed esce con forme lisce ben definite.

Sono gli stessi artigiani/artisti di Soumbédioune a raccontarmi che i loro lavori d’intaglio più ispirati sono riservati a una categoria di oggetti che di moderno ha poco, se non la capacità di reiterare nel tempo il richiamo dei ritmi che risuonano nelle terre d’Africa: le loro cure più attente sono dedicate agli strumenti musicali tradizionali, la cui vibrazione si muove a tutte le ore nel vento di Dakar. Accanto a una batteria di percussioni difficili da distinguere per occhi e orecchi inesperti (ad esempio: sabar, neunde, tama, thiol), la musica tradizionale senegalese, tra cui spicca l’intramontabile mbalakh, è caratterizzata dalle armonie di kora (arpa a 21 corde) e balafon (xilofono con lamine di legno ricoperte di cuoio), entrambi ricavati dalle calebasses.
Perché questi strumenti della tradizione possano emettere il suono della loro vibrazione, è necessario che al lavoro degli intagliatori si accosti l’opera di un’altra categoria di artigiani, altrettanto versatile e intramontabile: quella dei lavoratori del cuoio, la cui maestria fa mostra di sé fin dall’esalazione dell’animale, spesso un montone ucciso reiterando i gesti di Abramo all’atto di sacrificare il figlio, da scuoiarsi prima che la pelle si raffreddi indurendosi. Quasi in un unico gesto, lo scuoiatore recide il capo dal corpo, apre il ventre, taglia i tendini e separa lo spesso strato cutaneo dai muscoli fibrosi, stendendolo ad asciugare al sole. La produzione ricavata dalla lavorazione delle pelli non è diversa da quella di qualsiasi conceria: oltre agli strumenti musicali, borse e calzari, selle e finimenti.

Tra i compiti dei conciatori, vi è anche quello di predisporre la pelle a un uso squisitamente africano, che ha radici nella tradizione vudù: moltissimi senegalesi indossano, infatti, i gri-gri, ossia amuleti costituiti da buste di piccole dimensioni, braccialetti o cinture rivestiti di cuoio, da tenere a contatto con la pelle per godere della loro protezione. Recentemente, l’abilità artigiana di lavorare il cuoio in gioielli e monili è stata applicata anche a ornamenti privi di poteri esoterici e alternata all’uso di stoffe colorate che imprimano uno stile esotico.
Come per l’arte povera in legno, gli acquirenti prediletti per questi monili, venduti sui banchi dei mercati artigianali da Sandaga a Colobane, sono senegalesi nostalgici migrati all’estero e, soprattutto, turisti stranieri; i senegalesi, infatti, pur possedendo spesso di questi manufatti, scambiati come beni di poco valore, prediligono gioielli in metallo a ornare le loro pelli scure. Enormi orecchini dorati, pesanti bracciali laccati, collane di perle intrecciate con rame e argento, da cingere al collo e alla vita, straripano dalle boutique dei mercati meno turistici come Ouakam, Parcelles Assainies e HLM. Tra una bancarella e l’altra di bijiouterie scadente, si affacciano le piccole botteghe artigianali che lavorano i metalli di valore, cui la popolazione locale commissiona gioielli, spesso dotati degli stessi poteri mistici dei gri-gri. Caratteristici sono i bracciali d’argento incisi con il nome del portatore o gli anelli molto alti, finalizzati a contenere piccole inscrizioni; tradizionalmente destinati agli uomini, spesso servono a proteggere chi si mette in viaggio e ad assicurarsi che torni a casa.

In cerca di birrette nei Paesi dell’Islam

«Ho sentito bar? Siete stati in un bar?» mia cognata mi guarda esterrefatta, mentre racconto uno dei tanti episodi capitati la sera a Dakar. Per lei, un’ultracinquantenne senegalese, giovanile e in splendida forma, sentirmi parlare di “bar” nella sua terra natia, oltretutto in compagnia di nostro nipote, è sorprendente: già immagina fiumi di alcol, prostitute e ubriaconi. Eppure qui in Italia, dove vive, non si fa certo problemi a ordinare un cappuccino a un bancone!
Mi affretto a rassicurarla: il mio racconto è ambientato in un locale “alcol free”, per dirla in modo trendy, “tradizionalista”, a voler essere più corretti; situato dalle parti di Almadies, tra le aree di Dakar che più hanno investito su turismo e divertimento, presentandosi anche nell’aspetto quanto più possibile simile a una realtà europea. «Ci hanno portato liste di succhi di frutta a dei prezzi livellati a quelli dei cocktail delle discoteche occidentali, tra gli 8 e i 10€; – spiego- allora abbiamo chiesto se potevamo avere qualcosa da mangiare. Essendo considerato un contorno, un piatto di patatine fritte costava solo 1000 cfa (circa 1.50€): ne abbiamo ordinati quattro con una bottiglia d’acqua e abbiamo speso meno che per un bicchiere di succo!»
Un’esperienza simile mi viene riportata da Beatrice di rientro dal Marocco, più volte ritrovatasi a elencare la lista delle proprie allergie, nell’impossibilità di comprendere gli ingredienti dell’incredibile varietà di frullati dei locali marocchini: «Tutti buonissimi, ma anche molto costosi! E la sera che siamo andati in una discoteca dove servivano alcol è stato anche peggio: quasi 20€ per un cocktail.»
Nelle famiglie musulmane l’alcol è spesso un tabu, per questo motivo difficilmente le attività che servono alcolici si integrano con quelle della realtà quotidiana e chi vi investe preferisce rivolgere la propria offerta a chi vive in occidente, turisti o espatriati, approfittando dei vantaggi economici del cambio monetario. Tanto in Senegal quanto in Marocco, tè e succhi di frutta fresca sono al centro dei rituali di accoglienza, ma è assolutamente vietato, salvo rarissime eccezioni, introdurre bevande alcoliche all’interno delle case musulmane!

Di fatto, in entrambi i Paesi acquistare alcol a poco prezzo è in realtà molto più semplice di quanto non sembri a una prima occhiata e i consumatori sono più di quanti si pensi. A Dakar le rivendite di alcolici sono principalmente di due tipi: alle stazioni di benzina di grandi dimensioni si trovano negozi simili ai nostri autogrill, forniti di varietà di cibi e bevande confezionati, spesso d’importazione francese; più caratteristici sono invece i piccoli negozi specializzati di quartiere, identici nell’aspetto alle attività vicine, davanti cui non è raro si fermino motorini arrivati da altre aree di Dakar per acquistare alcolici lontano da occhi indiscreti.
È Anna a descrivermi lo stesso tipo di attività in Marocco, scovate nelle vie secondarie di Marrakech: «Non sono negozi troppo in vista e hanno gli alcolici dietro il bancone, non puoi prenderli da solo. Ti vengono venduti in sacchetti appositi, più scuri in modo che non si veda il contenuto; però mi mettevano in imbarazzo perché così era più evidente che avessi acquistato dell’alcol!»
In Senegal la discrezione è la parola d’ordine e i sacchetti sono omologati per ogni tipo d’acquisto: la plastica nera intervallata dalle scritte bianche “Senegal” è in ogni mano che esce da un negozio, in ogni pattumiera, abbandonata in ogni angolo di strada, qualche volta portata alla bocca in un gesto dissimulato.


Il consumo di alcolici è però per lo più circoscritto a contesti notturni, che tanto in Senegal quanto in Marocco sono una realtà piuttosto recente, che le generazioni più adulte conoscono poco. A Dakar i locali che offrono musica la notte sono numerosissimi e d’ogni tipo: dalle costose discoteche della costa di Almadies, da cui ragazze fasciate in tubini all’europea escono correndo in direzione dei taxi, ai bar tanto temuti da mia cognata, frequentati da senegalesi attempati che offrono drink a bellezze più o meno giovani; dai discreti localini in legno a ridosso del mare dove fermarsi a chiacchierare, alle discoteche affacciate sulle spiagge attorno cui ronzano i motorini. Qui protagonista della notte è la bière Gazelle!
Venduta allo stesso prezzo di un litro e mezzo d’acqua (raramente in Senegal si vende il mezzo litro), in virtù tanto della sua bassa gradazione quanto del riciclo del contenitore: rigorosamente in vetro, non è raro che abbia l’etichetta incollata un po’ storta, lasciando intravvedere i residui della precedente, sopravvissuti al lavaggio.

Un’esperienza del tutto particolare è quella che ho avuto la fortuna di vivere a Dakar qualche anno fa, grazie a un amico che ha voluto portarmi a scoprire una realtà che sta ormai scomparendo. Una notte, ci siamo addentrati in un vecchio quartiere cristiano in una delle aree più vecchie e povere di Dakar; per accedervi era necessario scavalcare un basso muretto e scendere sotto il livello della strada, ritrovandosi in un labirinto di baracche in legno con decorazioni colorate. Abbiamo bussato a una delle porte che intervallavano le pareti legnose e questa si è aperta mostrandoci una stanza piuttosto ampia, totalmente ingombrata da una tavolata dove un gruppo di uomini discuteva bevendo birra. La padrona di casa ci ha fatti accomodare, portandoci da bere e prendendo qualche moneta dalle mani del mio amico. È questo il modo in cui un tempo i cristiani più poveri di Dakar riuscivano ad arrotondare: vendendo alcol ai musulmani nella discrezione delle loro case, dove nessuno ha mai considerato scandaloso trovare bevande alcoliche e i peccati dei musulmani potevano restare segreti.

L’isola degli schiavi e delle bouganville, Gorée

Ripescando tra i ricordi le immagini di Dakar impresse nella memoria, tra la frenesia di motori e clacson, la confusione dei venditori in strada, l’incanalarsi stretto delle vie dei quartieri di quest’enorme capitale, si aprono fotografie di oasi pacifiche colorate in modo acceso e vivace, profumate di fiori e brezza marina, rallegrate dai suoni della natura e di musicisti muniti di strumenti tradizionali: sono le isole di Ngor e Gorée, piccole perle ornate di bellezze floreali, custodite nel ventre dell’oceano e disvelate all’uomo come un dono.

Passare a Gorée a ogni rientro in Senegal è ormai come un rituale, che garantisce all’animo una scorta di serenità da riportare con sé in Europa. A ogni rientro in Senegal, prendo la strada per il porto e qui, a pochi metri dal mare e dal traghetto dove alle mie origini verrà dato un valore monetario (5000 cfa per gli occidentali, qualcosa meno i cittadini africani, solo qualche moneta per i residenti locali), mi sento ancora una volta sotto accusa e poi assolta. Mi fermo di fronte alla statua dei soldati che si abbracciano, francese uno e senegalese l’altro, uniti nel trionfo della fine della Seconda Guerra Mondiale. Mi fermo pensando a quanti “grazie” abbiamo scordato di dire a questa terra, troppo poco citata nei libri di storia, ma finisco sempre con il sentirmi irrisa dalla stazione che sovrasta il piccolo memoriale, che a fine ‘800 mi avrebbe portata a Saint-Louis, dall’altra parte del paese, e invece ora crolla pigramente, mentre decine e decine di tassisti riempiono di pessimi gas di scarico il cielo sopra il Senegal. Qui come nel resto del mondo, la tecnologia avanza e la modernità soppianta le scoperte del passato, lasciandosi il vecchio alle spalle e valutando in ritardo le conseguenze.

Il porto è stipato di vecchi cimeli che a ogni onda piangono in cigolii gli anni trascorsi in acqua, mangiati da ruggine e salsedine, assemblati in continue nuove forme, inesorabilmente galleggianti. Tra loro si fa strada il traghetto carico di varietà umane e di merci nostrane: la mattina forme femminili avvolte in pagne colorati affollano di chiacchiere e pettegolezzi il ponte; negli orari di punta, le voci allegre e giovani degli studenti dell’istituto Mariama Bâ, titolato a una delle più importanti scrittrici e femministe senegalesi, riempiono la brezza che arriva dal mare di scherzi e lezioni; nei periodi turistici, aumenta il numero di africani non senegalesi sull’isola, discendenti degli schiavi deportati tra il XVI e il XIX secolo, che come in pellegrinaggio vanno a visitare l’Isola di Gorée, l’Isola degli Schiavi.

I residenti locali cercano in ogni modo di distrarre le menti dei turisti, attraverso i cas-cas agitati a produrre un piacevole ritmo e le perline intrecciate in collane uniche, tentando di eludere i sorveglianti che vorrebbero garantire un viaggio senza il petulante chiedere che è una delle caratteristiche del folklore di questo paese. Non meno accogliente è l’approdo, quando Gorée si avvicina in un progressivo definirsi dei contorni di quell’esplosione di colori vivaci che la pitturano: dalle facciate pastello decorate di balconate delle ville coloniali, alle piroghe spennellate artigianalmente di scritte augurali e forme geometriche; dai giardini verso cui incanalano viali straripanti buganvillee rigogliose, ai tessuti e i quadri esposti dagli artisti del mercato artigianale Le Castel; ogni forma colorata e l’accostarsi dei diversi toni formano un insieme genuinamente gioioso.

Quest’isola così piccola e oggi così vivacemente accogliente, è stata per secoli teatro di incredibili orrori, uno tra i più importanti luoghi della più grave diaspora della storia umana, che ha qui lasciato tracce attraverso cui gli africani preservano oggi memoria storica di ciò che hanno subito. Scoperta dai portoghesi nel ‘400, passata ai Paesi Bassi che nel XVI secolo le attribuirono il nome Good Reede (“buon viaggio”; poi traslitterato in Gorée), divenne sotto il dominio francese un importante porto da cui partivano le navi dirette in America. A pochi metri dalla spiaggia che è oggi il punto di attracco dell’isola, nascosta tra fiori e abitazioni affacciate su ampi sterrati interni, la porta della Casa degli Schiavi apre su un cortile non troppo largo in cui impera una scalinata doppia di forma ogivale, che monopolizza lo sguardo, distraendo dalle piccole porte grezze che intervallano i massicci muri rosso intenso dell’edificio. La pelle ebano delle guide che gestiscono il museo oggi nella casa, si illumina dei sorrisi che aprono chiedendo quale lingua sia la prediletta per ascoltare i racconti delle atroci realtà di quella casa. Al piano superiore, dove un tempo gli schiavisti si affacciavano per godere della vista tanto della distesa oceanica, quanto degli schiavi in partenza, illustrazioni di dame imbellettate, che passeggiano con africani al guinzaglio o al seguito agitando ventagli e reggendo ombrelli, fanno da sfondo alle catene, le armi, gli strumenti di tortura conservatisi nel tempo.

Non si conta il numero di africani costretti nel corso di ben quattro secoli di schiavismo a respirare entro le possibilità di collari minuti, a camminare nello spazio concesso da pesanti cavigliere ferrose, a mangiare all’ingrasso rinchiusi dentro casse di legno, pur di non perdere il guadagno di una merce, persa per digiuno volontario. Non si conta nemmeno il numero di africani passati per il piano inferiore della Casa degli Schiavi, costruita negli anni 80 del ‘700 e rimasta in uso fino al 1848, i cui spazi erano organizzati per una comoda suddivisione dei beni da trasportare: dietro le porte affacciate al cortile, in stanze dalle dimensioni inspiegabilmente ridotte venivano stipate quantità inverosimili di esseri umani, distinti tra donne, uomini e bambini. Un’unica porta si affaccia su una vista che toglie il respiro: è la porta per l’inferno, che non può essere attraversata perché si affaccia su un fossato a strapiombo; unico modo per valicarlo è il pontile della nave negriera che attracca direttamente alla porta, senza lasciare il tempo nemmeno per un ultimo pensiero, un ultimo sguardo, un ultimo destino.

«Dem amoul dik. Andata senza ritorno.» mi sussurrano all’orecchio la prima volta che mi affaccio, l’orizzonte aperto al mio sguardo a suggerire che proprio lì finisca il mondo. Invece il mondo non finisce, l’orizzonte non si conclude e dall’Africa c’è ancora chi parte senza che lo sguardo raggiunga la meta, senza che sia concesso un ultimo respiro, talvolta senza ritorno.

Gni dem Magicland! Andiamo a Magicland!

Le mie mattine senegalesi hanno quasi tutte la colonna sonora di una sveglia polifonica: «Tata Sara! Tonton Pisquo!», dal cortiletto appena fuori la stanza da letto, il ritmo di tanti piedini scuri saltellanti sulle piastrelle richiama gli zii arrivati dall’Europa ad abbandonare l’abbraccio del sonno e accogliere l’arrivo del giorno.

Le membra si stirano, levandosi di dosso gli ultimi strascichi di sogni, e gli arti si allungano fino alla porta, giusto lo sforzo di sfiorare la chiave e imprimerle la forza d’un giro su se stessa. I primi raggi di sole si riversano nella stanza con la stessa curiosità della fiumana di ricci e perline colorate che si portano appresso, mentre manine golose si allungano in gesti di richiesta: «Mayma tangal, s’il vous plaît! Dacci le caramelle, per favore!».

Il rito si è stabilito in pochi giorni: le mie nipotine si raccolgono con le amiche del quartiere fuori la porta della stanza, in attesa di stiracchiare gli occhietti nella concentrazione di un’equa distribuzione dei dolci portati da oltremare, con lo zucchero dolce che però fa male ai denti. Poi via di corsa verso scuola, fino alle caramelle della merenda!

La domenica però anche in Senegal è riposo; non c’è lezione e i bambini si riversano più tardi fuori casa.

Il mio primo risveglio domenicale africano è un impatto con un silenzio inaspettato; per un istante mi chiedo se nel quartiere abbiano perso la golosità e mi sento tradita dai piccoli voraci che mi aspettavo avrebbero segnalato l’arrivo del giorno! Scopro presto che è già una manciata di minuti che dondolano le loro gambette sulla panca fuori dalla porta, troppo educati per disturbare gli adulti nel giorno di ristoro. Da inguaribile e incontrollabile ingorda quale sono, decido che ci vuole un premio per tanto autocontrollo!

Rifletto sulla semplicità dei loro giochi, fatti per lo più di fantasia e piccoli gadget venduti per strada, e stabilisco che l’unico vero modo per rendere la nostra presenza un ricordo indelebile è regalare momenti speciali, così propongo una gita: «Fan ngeen bëgga dem? Dove vorreste andare?».

Un coro di bambini risponde: «Magicland!».

La più felice di partire sono forse io, non appena mi spiegano che si tratta della versione senegalese di Disneyland: la mia immaginazione si nutre dei ricordi dei parchi giochi della mia infanzia e disegna nella mente un turbinio di gioiose voci urlanti, un saltellare di vestitini in vox dai mille colori, un tintinnare di perle e conchiglie intrecciate a ricci d’ebano. Chiamiamo un taxi e infiliamo quante più bimbe ci stiano dall’unica portiera sgangherata lasciata aperta dall’autista, onde evitare fughe di clienti che non vogliono pagare; qualcuna armeggia con le cinture di sicurezza, con cui è impossibile impacchettare il fermento e l’agitazione del numero troppo alto di piccoli passeggeri.

Lungo il tragitto ci avviciniamo alla costa e sorgono i primi dubbi: quanto saranno sicure le giostre in Senegal? Come gestiranno la manutenzione, nonostante la sabbia e la salsedine? Abituata al ferro smaltato e ai giochi di fontane nei giardini di Gardaland, all’animazione dei personaggi Disney, avvolti in imbottiture improponibili sotto il sole d’Africa… Avvicinandomi all’entrata, avvolta da una nube di commercianti che propongono palloncini e molle colorate, realizzo che le mie attese saranno inevitabilmente tradite.

L’ingresso costa davvero poco: con meno di 5 euro si hanno accesso al parco e 10 ticket per le attrazioni, che vanno pagate singolarmente; mentre l’accoglienza è degna della fama del popolo senegalese, che non risparmia sorrisi smaglianti, chiacchiere e convenevoli. In coda aspettando d’esser timbrate, le bambine non riescono a trattenere l’emozione ed esplodono in gridolini di gioia non appena varcano l’arco di soglia del parco. Io chiudo le fila e la mia aspettativa è in continuo crescendo; entro, mi guardo attorno e chiedo: «Ma è aperto? Dove sono i bambini?».

Dapprima penso di esser stata imbrogliata, di aver pagato per un parco divertimenti ed esser stata portata in una città fantasma: tutto è immobile, nessuna giostra gira e nessuna luce si accende; nell’aria non risuonano musiche dalla melodia sciocca né risate di bambini; le attrazioni da lunapark sono ricoperte da una sottile patina opaca. Ci viene incontro un ragazzo dal viso gentile e, dopo interminabili saluti, chiede alle bambine da cosa vogliono iniziare: non essendoci al parco tanta affluenza come in quelli europei, ci spiega che l’elettricità (che a Dakar non è sempre garantita e in alcuni quartieri può talvolta venir sospesa per ore se non giorni) viene risparmiata attivando le giostre solo quando qualcuno ci sale; conviene molto più dare a lui uno stipendio per interrompere l’innaffiatura delle piante e dedicarsi ai clienti. Uno dopo l’altro, il ragazzo avvia i giochi che le dita delle mie nipoti indicano: dal trenino alle tazze, dalla ruota panoramica al bruco… Finché i loro occhi si posano sulle montagne russe, che a loro sono vietate per limite d’età.

«Ma per chi le fanno?» chiedo un po’ sorpresa. È vero che il prezzo è basso per un europeo, ma è tutt’altra questione in moneta locale! E le giostre per adulti sono davvero due di numero! La risposta arriva presto dalle rotaie che ci siamo appena lasciati alle spalle: quattro surfisti inglesi, evidentemente alterati dall’alcool, hanno fatto ingresso nel parco, riempiendolo di risate chiassose.

Noi ci consoliamo con una merenda dolce: ci sediamo ai tavolini del bar e ordiniamo Vimto e popcorn. Il primo è la bibita senegalese per eccellenza: spacciata per la coca-cola africana, è una bevanda dalla dolcezza tanto intensa e innaturale da portare alla mente l’idea di una caramella gommosa sciolta al sole e poi gassata. «Ottima abbinata ai popcorn salati» penseranno i più golosi tra voi. Siate ancora più ingordi!

A Dakar infatti i popcorn sono serviti cosparsi di dolcissimo zucchero a velo, che s’infila tra i denti e impiastriccia le dita. Di quello zucchero a velo è il sapore delle mie merende senegalesi: condite di un eccesso di saccarosio e di innocenti sorrisi sporchi di polvere dolciastra.

Muoversi tra i suoni di Dakar: un racconto di multilinguismo africano

In partenza per Dakar, ancora una volta ripongo nel bagaglio a mano, come ancora di salvezza, i miei libri per imparare lo wolof, pur sapendo che il mio è soltanto un piccolo gesto scaramantico di fronte allo straordinario plurilinguismo del Senegal, che non si esaurisce certo nell’incontro tra l’ormai lingua ufficiale di stato e quella coloniale, il francese.

Ancora una volta, riempiendo lo zaino, alleno la mia mente a passare attraverso idiomi diversi, fiduciosa della comprensione che riceverò dal popolo del Paese dell’Accoglienza, come i senegalesi chiamano la loro terra.

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Già in aeroporto, sono travolta dai suoni della folla che cerca di richiamare l’attenzione del mio viso pallido sulle merci in vendita e i taxi in attesa: «Madame! Madame!» «Señora! Señora!» «Miss! Miss!».

Oltre il rumore, riconosco la voce di mio nipote Ndiaw; mi chiama nel suo tono “francesemente” dolce, ”africanamente” basso.

Scopro che la modulazione delle frasi che caratterizza i senegalesi è tra le cose che più mi sono mancate. Lo scopro ascoltando mia cognata Ndeye che in inglese mi indica dove mettere le valigie; è laureata e conosce la lingua dagli anni del liceo; non la parla con scioltezza, ma le nostre conoscenze sono bastate a stabilire tra noi una complicità. Con lei ho attraversato il mercato del quartiere, conosciuto le abitudini delle donne africane, scoperto i segreti di sapori e tessuti; e l’ho fatta ridere ascoltandomi scherzare con i due negozianti della zona che parlano spagnolo, convinti che sia italiano, perché hanno lavorato alle dipendenze di un portoghese.

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Con mio marito abbiamo incontrato anche alcuni senegalesi che l’italiano lo parlano davvero, pur non avendo mai messo piede fuori dal loro paese; mi stupisco del fatto che tutti mi diano la stessa spiegazione: «L’italiano è facile da imparare: basta leggere un libro e cercare di capire il senso comparandolo al francese. Parlare è semplice: si dice così come si scrive.»

Ho toccato con mano la facilità con cui questo popolo apprende nuove lingue: dopo pochi giorni trascorsi in famiglia, mia nipote Sanou, di sette anni, indicando il piatto da cui mangio, chiede: «È buono? Dafa neeχna?», prima in italiano, poi in wolof; spiegando e comprendendo allo stesso tempo. Ha semplicemente ascoltato mio marito tradurre per me nei precedenti pranzi.

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Con mia suocera è stato meno semplice: non parla wolof ma serere, la lingua del villaggio in cui è nata e dell’etnia cui appartiene tutta la famiglia; abbiamo passato molto tempo assieme, io imparando a riconoscere il modularsi della sua voce, lei ripetendo ritualmente le stesse espressioni e riempiendo i silenzi di rosari di buoni auguri, cui io possa rispondere con un internazionale: «Amine». È una lezione che più volte mi è tornata utile di fronte ad anziani che si esprimevano in una delle sei lingue nazionali del Senegal, tra cui la wolof è maggioritaria.

Mia suocera mi accoglie sempre nella lingua madre, con un dolce: «Nam fio? Soob a khamo sama goro, kam khalato gong rek!». (Come stai? Sei mancata mia nuora, ti ho pensato tanto!) Non sapendo rispondere in serere, ripiego sull’arabo, che è la lingua della preghiera e in Senegal, come in molti paesi a maggioranza musulmana, entra a far parte di diversi momenti e riti quotidiani: «Alhamdulillah! Ringraziando Dio!».

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Teranga: i miei venti giorni in Senegal

In wolof esiste una parola che indica il senso di ospitalità, di accoglienza e di rispetto verso l’ospite, una delle virtù fondamentali della cultura senegalese. Ne ho sentito parlare solo pochi giorni prima del mio rientro in Italia, e così ho potuto dare un nome alla sensazione che per i venti giorni che ho passato in Senegal mi ha accompagnato in ogni luogo e in ogni situazione: teranga.

Sono partita senza aspettarmi nulla, cercando di avere la mente sgombra da ogni immaginario preconcetto sull’Africa e la sua gente per riempirla della mia esperienza.

Ora il Senegal per me è l’odore speziato dell’aria, i tetti bianchi, le corse in taxi e le piogge torrenziali; è i rumori del traffico, i richiami del minareto e i versi degli animali; è i baobab di Mbour, le spiagge immense di Yoff, le conchiglie di Joal Fadiouth e i colori di Gorée; è la musicalità del wolof, le strette di mano e i colori dei vestiti delle donne, elegantissime; è il riso mangiato insieme da un unico piatto, il sapore forte dell’ataya (tè alla menta) ogni sera e delle guerté bou toy (arachidi tostate nella sabbia) sulla spiaggia, guardando il sole, grandissimo, tuffarsi nell’oceano.

Ma più di tutto il Senegal per me è teranga, e di come mi abbia fatto sentire a casa fin dal primo giorno.

 

In viaggio verso casa, un mese di vita a Dakar

Ripensando Dakar, i primi ricordi che sempre riaffiorano alla mia mente sono le sensazioni provate nei primi minuti, appena atterrata sul continente Africa: la presenza umana e l’odore speziato dell’aria. Sono anche le sensazioni che mi hanno accompagnata per il resto del viaggio,delle mie cinque settimane dedicate a capire e imparare ad amare il popolo di questo Paese, il Paese dell’uomo che ho sposato e della sua famiglia d’origine.

È soprattutto all’interno dei vari quartieri di Dakar che si ha la possibilità di vedere quella vita comunitaria per cui l’Africa è tanto rinomata. La capitale del Senegal è infatti divisa in 19 quartieri, a loro volta divisi in rioni numerati, i cui abitanti sono tendenzialmente accomunati dall’appartenenza ad etnie che da generazioni si tramandano gli stessi mestieri.  La mia tanta, ossia mia suocera, abita ad HLM, non ci è nata: viene da un villaggio, dove ha incontrato il marito che l’ha portata qui; la stessa storia mi racconta la domestica di casa Yacine, di cui i primi giorni non capisco la presenza, visto l’esubero di donne in casa: «Così mi aiutano -mi spiega Yacine- se ogni famiglia fa lavorare in casa una ragazzina dal villaggio, in cambio lei non solo mangia con loro, ma ha anche la possibilità di studiare e fare qualcosa di meglio un giorno».

L’istruzione in Senegal è un diritto imprescindibile e un dovere cui è difficile sottrarsi: gran parte dei bambini frequenta due scuole,una francese e una coranica, dove studia un numero per noi inimmaginabile di lingue: wolof, francese, inglese, arabo.

E i bambini in strada? Loro sono un pensiero fisso della mia prima settimana a Dakar: sono tantissimi, chiedono l’elemosina o vendono piccoli prodotti: noccioline, acqua fresca, arance… Ma mi insegnano che in Africa comunità è anche questo: non avendo un sistema assistenziale statale, la comunità pensa ai più deboli. Così i bambini studiano con l’imam, dormono nelle moschee o sotto le bancarelle dei mercati dove fanno da guardie, si vestono e mangiano di quello che le famiglie lasciano per loro la sera aspettando che bussino alla porta.

Venditrici di angurie

E lungo la strada ci sono tante iai (mamma/donna) pronte a tenere un occhio su loro. Di giorno infatti tutta Dakar sembra trovarsi in strada; tutto si produce e si vende alla luce del giorno: dagli alimenti ai divani, dalle borse alle stoviglie… e per tutto si deve fare waχale, ossia trattare sul prezzo. E così che le strade si riempiono di voci urlanti cifre, prezzi e ciniche battute delle donne senegalesi, che vanno a mescolarsi al caos prodotto dai motori, che qui sono un numero esorbitante. In pochi possiedono un’auto,ma nessuno cammina:Dakar è intasata dai mezzi pubblici,nelle forme più svariate: taxi regolari, taxi abusivi,taxi a 9 per lunghe tratte, dem ak dikk (letteralmente “andata e ritorno”, una sorta di bus di linea) e i cars rapides, pulmini le cui fermate e la cui destinazione si disegnano durante il percorso, a misura di chi ci è seduto o deve salire.

Solo la Grande Moschea può riportare il silenzio, battendo l’ultima chiamata alla preghiera, l’ultimo bagno, l’ultimo momento di ritrovo all’interno delle decine di minareti dispersi per Dakar; poi ognuno torna in famiglia, per sedersi attorno a un unico grande piatto in cui ognuno immerge il proprio cucchiaio. Nelle vie di Dakar resta solo quell’odore speziato, che è il mischiarsi dei fumi della benzina di scarsa qualità all’odore di tostatura delle noccioline, ed il suono portato dal vento di qualche gruppo di uomini in chissà quale quartiere della città che stanotte starà sveglio a cantare il nome di Allah.

Venditori di arance

Bamba, an «African lion» struggling in Italy

Today on Pequod, we’ll tell you something about Bamba Dieye, a Senegalese arrived 17 years ago in Italy. He lives and works in Carrara, Tuscany, but his heart beats only for Senegal, the land of Teranga. However, he totally agrees to share his ideals and thoughts with all of us.

Hello Bamba, could you introduce yourself to Pequod’s readers?

Hi, my name is Bamba Dieye, I’m 38 years old and I come from Senegal. I was born in Dakar. Then, in 1998, I moved to Italy. Since then, I live and work in Carrara, where I own my business and I am a beekeeper.

Why did you decide to leave your country?

I decided to leave Senegal mainly for a childhood dream: I was attracted from Europe, from the idea of Europe. I wanted to grab the opportunity to change my life. At first I moved to France, for family ties. My sisters lived there. But I didn’t like France, so, almost by accident, I moved to Italy. Italy was not a choice, but a fortuity.

What’s your life like in Italy?

As I said earlier, in Carrara I work as a beekeeper and I have my own company of import of organic products. I also work at the computer, on our website, and I go to meetings with the customers. Moreover, I spend much of my free time at the association Culture Migranti, which is one of the few realities for immigrants run by immigrants in Italy. We try to be helpful for those people who are facing difficult situations in a new country – situations that each of us has experienced in the past. However, I have a lot friends outside the workplace and the association, but in Carrara there is not much to do. The historic center has suffered a sharp decline: cultural heritage is neglected, there’s a strong pollution, which creates environmental problems and damages to marble, which is famous all over the world.

I wish my city was better, it could be better! But there’s no cinema, no theatre… The city is simply careless.

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Bamba working as a beekeeper.

How is living in Italy different than living in your country?

Unfortunately, I have no terms of comparison. In Senegal my life was not bad, I left for a youthful dream, not for need. I came to Italy, I created my own job, my profession. I like my life as it is.

Which is , for you, the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far?

The biggest challenge was definitely the language barrier: at the beginning, it was difficult to deal with the others, the reception system isn’t efficient. For immigrants there is no effective aid, they don’t make your life easy, nobody tells what to do and how to success in being integrated. Those arriving in Italy uninformed are excluded, almost ghettoized. There are so many difficulties.

My regret is to be away from my family, away from my loved ones and my affections. Perhaps, I regret the fact that I’ve not created this work and this life in my country, too.

Often it seems to me that in Italy merit is not taken into account. They don’t take regards to the efforts of people. I feel a gap between immigrants and the others, I have to run after my rights!

Italy, your country and Europe. What do they mean for you?

Senegal is the land of Teranga, which means hospitality. In its own history Senegal didn’t have war! It is a secular State, and there are not religious issues.

On the contrary, Italy is like “Toyland”. Young people are anesthetized, while old men and ladies suffer from something that might be defined “politics of fear”.

At last, in my opinion Europe is supposed to be a response to the American and Asian imperialism, but it fails to be like that.

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Teranga means ‘hospitality’.

 

What would you say to someone to convince him to move abroad?

I would say to an African to leave his country to improve his life, to live well considering both the economic aspect and the social one. Also, to live to the fullest his family and his loved ones.

However, I do not recommend Italy. There’s no help for migrants. You can’t live well in a country if you don’t know the language and in Italy institutions are distant from the problems of migrants. They do not attempt in any way to facilitate your arrival in the country. Instead, I suggest Nordic countries. There the government and the institutions direct you to possibilities of a better life. They help you to try to achieve a comfortable life.

Instead, I say to young Italians to stay in their country, I tell them to fight for their country. Italians must give a strong response on the political level and on the social level. They must stick together for the love of their country!

Senegal VS Italy

Editing by Selena Magni.

Today Pequod had a long and deep conversation with Papis, a Senegalese man living in Italy. Sometimes living in a foreing country is not an exciting challenge, you simply have no other choice.

Your name, age, nationality, where are you from? Where do you live now? Which is your current occupation? 

I’m Papis, 33 years old; I live in Bergamo today and I’m from Dakar, Senegal. I’m unemployed.

Why did you decide to leave your country? 

I left Senegal for economic reasons: I have not finished my studies and in my country if you don’t have any  qualification it’s really difficult to find a job, make an asset or build a house. When I started my travel, I hoped to find something different in Europe, more possibilities to learn, a job and a better economic situation.

Why did you choose Italy? 
Actually, I didn’t choose Italy. At first I arrived in France and I liked it, but it was too difficult to stay there for me, so I left France and came to Italy. I have some brothers who have been living here for many years and they hosted me.

Describe your life in Italy (your occupation, your everyday life, social life, etc.). Tell us something about the city you live in (top 5 places to be, where to go, what to do – be our tourist information center!)

Actually, my life is a bit boring, because I have no job and no money. When I first came to Bergamo, I found a job as leafleter and I remembered that I had to get up very early and walk a lot, but I liked that work, because it allowed me to discover the country where I was living and it gave me money to live. Now I still get up early but I don’t have anything to do, so I have breakfast, watch international news and do something in my home; then I go out in search of some little business. I spend most of my time with Senegalese friends. We like staying at home cooking our traditional food all together. I try to spend as little time as possible at home, just to find something to do, but I regard my home as a peaceful place and when I go out I’m often worried, because I never know what I’ll find in the street.

I discovered the places that I consider as the most beautiful in Bergamo walking around in the city. Tourists who come to Bergamo always visit the same places: the center and Città Alta, a kind old Roman stronghold, and it’s great, yes! But I prefer the smaller cities, like Clusone or Stezzano: here you can see some historic villages with little historical centers that are really interesting and during the summer, there’s not much to do in Bergamo city, but out of it every village organizes events and sometimes you can hear a good concert or listen to an interesting conference.

How is living in Italy different than living in your country? 
The differences are many! Here everything is organized: public transport, business, health. The first thing that you learn when you arrive in Europe is that you have to regularize your position and your activity, and to keep your documents safe. In Senegal it is really different, especially for business: there isn’t any kind of regularization of economic activities, you just start it. For the documents it’s a little bit different, because in Senegal you always have to take your documents with you. If the police finds someone living illegally in Dakar, for example, they take him to jail or send him back to the border and if nobody searches him and he cannot prove his identity, he will stay there for a long long time. It happens rarely though, because the police controls take place during the night for the most part, during the day there are too many people in the streets to control! Here is different: policemen walk in the street day and night and control people identities. In Italy is easier than in other countries, there is more tolerance.

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Dakar, capitale del Senegal

 

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?

The biggest challenge is integration. It was not easy to stay with people from Bergamo, to have dinner with them, to have a conversation. Now there are some people here, with whom I like to stay and hang out; I have Italian friends and my wife is from Bergamo. My regret concerns my studies, in Senegal first and then in Italy: I suppose that if I had graduated in Senegal, I would not have come here and my life now could have been easier. I can say the same about my first years in Italy, when I was here with my Schengen visa. What  I miss the most is my mum, my home, my family, but I think that I just remember some better times. If I return now in Senegal, I won’t find what I miss, it’s just homesickness. I would like to stay in Senegal for a year or more to feel seasons changing, rediscover the wind of my country and be a real Senegalese again.

What does Europe mean for you? Do you perceive the existence of Europe as a community?

When I was a child, Europe for me was my promised land: I used to see on TV some fantastic images about your clean streets, your organized life and a lot of vegetables! I wanted to go there! Now I know that Europe is a bit different from what I imagined: I like it, yes, but it’s really self-concentrated. Europe has educated me: I know the importance of organization, how to manage money and be autonomous. I like observing old people who live in country or in the mountains: I like their lifestyle and their independence. But I don’t believe in the existence of a real European Community: Europeans are so different from each other, they have different values and habits. Africa is different: our cultures are similar. I could live in Congo or Ivory Coast without any problem, but in Europe it is difficult for most of the people to leave their country for another and there are countries that are regarded as non-European by a lot of people, while they are in fact European.

Italy, your country and Europe. Use three words to describe each of the previous. 

Bergamo – anxious

Italy  – pleasant

Europe – individualist

Dakar – cumbersome

Senegal – peace

Africa – promised land

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“Africa is my promised land”

 

What would you say to someone to convince him to move abroad? What’s the best thing you’ve got/you’ve learnt by your experience abroad?

I don’t think I could really convince someone to move abroad. I mean, what I’ve been learning in these long years of travelling and living abroad is that, despite all the difficulties, this is an experience that makes you grow and teaches you an important lesson, even if sometimes it’s even too hard than what you deserved. That’ why I think that travelling, living in a place which is different from your home is a fundamental experience, visiting new places, discovering new cultures and opening your mind. But still, your birthplace will be always your home, no matter what, that’s why the perfect thing would be to come back home, after living abroad, with a handful of experience that will complete your real life in your motherland.

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