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Il batik tra arte e vestiti di Sapsafart

Passeggiando tra i quartieri di Dakar, accade spesso, soprattutto la notte, di venire sopresi dal rullante rumore delle macchine da cucire. Basta seguire il suono e affacciarsi a uno degli usci dei laboratori per ritrovarsi immersi nel fruscio di stoffe e tessuti, che alla luce di lampade opache scorrono sotto gli aghi al ritmo dato dai movimenti sui pedali, per lo più avviati da giovani uomini.

Tra le decine e decine di laboratori, ce n’è uno, nascosto tra i vicoli sabbiosi del quartiere di HLM, che spicca invece per il suo silenzio, interrotto solo dal suono dello stereo che accompagna le lunghe ore di lavoro: è il Sapsafart Atelier, dove Daouda colora i tessuti che verranno trasformati in abiti, tovagliato, quadri e arazzi.

Daouda al lavoro nell’Atelier di Sapsafart.

Come molte delle botteghe senegalesi, anche Sapsafart è uno spazio ricavato all’interno di un’abitazione, in questo caso ne è il cortile, ma immerge fin dal primo ingresso in un’atmosfera artistica tutta sua: accanto alle immancabili icone religiose, quadri e bassorilievi si affacciano sulle pareti, su cui si addossano poltroncine un po’ bohémien raggiungibili solo dopo aver scavalcato vasche e stender. Qui non si cuce, si dipinge con una tecnica approdata in Africa nell’Ottocento, trasportata dai colonizzatori dalla lontana Indonesia, ma subito tradotta nei disegni e nei colori del continente nero.

Daouda Ndoye è il proprietario, l’artista del batik. Sulle stoffe traccia i disegni ispirati dalla sua immaginazione e all’estetica africana, quindi inizia la loro trasformazione in tessuti adatti a diventare vestiti: «A volte inizio a lavorare sulle pezze seguendo la mia fantasia – mi spiega – e solo dopo mi preoccupo di come tagliarle, in base all’uso che decido di farne; più spesso, chiedo alla sarta con cui collaboro di iniziare il confezionamento dell’abito con il tessuto grezzo e solo dopo mi occupo di dipingerlo, così che i disegni si adattino alle forme».

Daouda mentre dipinge; alle sue spalle, alcune camicie.

Come funziona la tintura attraverso la tecnica del batik?

«La prima fase riguarda il disegno; una volta tracciate le linee guida, queste vanno ricalcate coprendo con la cera calda le parti che non si vogliono tingere. Si tratta di un lavoro che richiede una certa precisione perché non può essere corretto: una volta che la cera è colata nel tessuto, lo impermeabilizza e quindi non può più essere tinto. Una volta che la cera si è asciugata si procede al bagno di tintura, che consiste nell’immergere la stoffa in una vasca piena di acqua e pigmenti colorati. La procedura si ripete poi tante volte quanti sono i colori scelti, andando di volta in volta a sovrapporre diversi strati di colore. Ogni passaggio richiede dei tempi di attesa, che servono per l’asciugatura della cera e poi del colore, quindi più complesso è il disegno e maggiore è il numero di colori impiegato, più sarà lungo il procedimento».

Da quanto tempo lavori con questa tecnica? Come l’hai imparata?

«Faccio lavori in batik dal 1989, ma solo dall’anno scorso ho fondato il Sapsafart Atelier. Ho frequentato una scuola in Casamance, nel sud del Senegal, dove mi hanno insegnato questa tecnica entrata a far parte della nostra tradizione e ho deciso di farla diventare la mia principale attività lavorativa. Ho sempre voluto avere un lavoro in cui poter esprimere le mie inclinazioni artistiche, infatti mi sono dedicato a lungo alla creazione di sculture e quadri e a questi ultimi ho deciso di provare ad applicare la tecnica del batik. I miei primi lavori erano pensati come arazzi, destinare a decorare le pareti, poi ho iniziato a lavorare la stoffe perché diventassero tovaglie o cuscini. Da qualche anno, ho iniziato a collaborare con alcune sarte e a usare il batik per creare abiti».

Tintura e asciugatura.

Perché hai scelto proprio il batik?

«Mi piace particolarmente creare abiti in batik perché sono pezzi unici e originali, imitabili ma non riproducibili in maniera identica. La tecnica del batik di per sé rimanda alla tradizione panafricana, anche se di epoca piuttosto recente, soprattutto se usata in modo artigianale come faccio io; le linee e i colori sono molto diversi rispetto al più moderno vax, che è la versione industriale del batik: le sfumature che si possono applicare ai pigmenti rimandano ai colori della terra e le forme dei disegni che scelgo si rifanno all’iconografia della cultura africana. Allo stesso tempo, sui tessuti posso esprimermi liberamente, pensare a disegni e composizioni sempre nuovi, spesso nati dall’incontro tra la mia immaginazione e quella della persona che mi ha commissionato l’abito e che poi lo indosserà. Questo fa sì che ogni vestito sia assimilabile a un’opera d’arte, pensata su misura del contesto in cui verrà esposta o, in questo caso, indossata».

Chi sono le persone che ti commissionano abiti batik?

«Ho una clientela molto varia, che include sia uomini sia donne. Confeziono spesso camicie da uomini, ma anche semplici t-shirt, mentre le donne scelgono soprattutto pagne e abiti con lunghe gonne. Anche i turisti sono attratti dal mio lavoro: possono portarsi a casa un pezzo unico di Africa, spesso pensato apposta per loro, e piace molto il fatto che possono assistere e partecipare alla tintura degli abiti che poi acquistano, cosicché l’abito non sia più solo un oggetto, ma un souvenir che porta con sé un ricordo delle loro vacanze. Questo entusiasmo da parte degli stranieri mi ha spinto a cercare uno sbocco per la mia attività anche nelle esportazioni: attraverso la pagina facebook di Sapsafart espongo le mie creazioni e grazie a una rete di amici che vivono in Europa riesco a confezionare abiti anche per chi non può raggiungermi fisicamente».

Due creazioni di Sapsafart: un abito da donna e una camicia da uomo.

Quali sono i soggetti che preferisci dipingere?

«Mi piace che le mie creazioni rimandino a sensazioni ed emozioni legate alla mia terra. Gran parte dei miei soggetti sono legati a oggetti di uso quotidiano di oggi o del passato, come i cauri, le conchiglie che un tempo fungevano da moneta, o le calebasse, le ciotole in legno di zucca; anche gli strumenti tradizionali, dai tamburi alla kora, sono un motivo che uso spesso, così come alcuni soggetti tipici del paesaggio africano, prima tra tutti la pianta del baobab. Molte volte mi ispiro a momenti della vita quotidiana, in cui il più delle volte le protagoniste sono le donne: una madre che porta il figlio nel mbotou (fascia portabebè, ndr) o una giovane che porta un otre in bilico sulla testa. A darmi maggior soddisfazione sono però le composizioni meno realistiche, ma in cui riesco a trasmettere un messaggio che va oltre l’immagine, che spesso nascono da un adattamento dei miei quadri».

Fotografie nel testo di Sapsafart / Tutti i diritti riservati.

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.